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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


domenica 24 Dicembre 2006, 12:20

Vigilia

Il Natale, sotto sotto, lo odiano tutti, o perlomeno in tanti; non solo per gli ingorghi, il consumismo, le mail animate da tre megabyte, l’ipocrisia degli auguri a tappeto, anche a gente che nemmeno conosci o che magari per il resto dell’anno maltratti senza pietà.

Festeggiare il Natale – il momento in cui le giornate riprendono ad allungarsi e la vita incomincia a rifiorire – è un’esigenza archetipica dell’essere umano, che precede la nascita di Cristo; eppure, proprio per questo, coincidendo con la ripartenza del ciclo delle stagioni e del calendario, è il momento in cui ci si trova più soli con se stessi. Nè aiutano le cene collettive, l’accavallarsi di eventi che ti forzano a scegliere se unirti a questo o a quell’altro – scontentando per forza qualcuno – e in più, grazie al gigantismo della festa, ti costringono all’anonimato delle lunghe tavolate.

In più, quest’anno, io mi sento in mezzo al guado. Gli ultimi sono stati Natali tristi, parte di un brutto periodo della mia vita; un periodo di quelli che finiscono nascosti sotto il tappeto delle immancabili soddisfazioni professionali, ma che segnano comunque in profondità la tua esistenza. Il 2006 è stato un anno di ripresa timida, un po’ come l’economia, arrivando comunque, durante l’autunno, ad avere dei giorni finalmente felici, io e la mia bicicletta sotto il sole freddo. Ma per quanto ora sia piuttosto contento della mia vita, siamo animali sociali; e nessun essere umano, se non completamente perso nella propria naturale follia, può essere completamente felice se isolato dagli altri.

E quindi, in un momento di giallo cambiare, alzo di nuovo gli occhi e scopro che nel frattempo il panorama è diverso. Praticamente tutti i miei compagni di viaggio degli scorsi decenni hanno messo su famiglia e bambini, sono usciti dal guado e hanno preso una direzione chiara; mi fa sempre piacere vederli, ma onestamente pappine, ecografie e mutui casa non sono il mio argomento di conversazione preferito, anzi non sono nemmeno tra i primi cento, e insomma, come con l’aborigeno australiano di Guzzanti, ma io e te che cosa ci dobbiamo dire? Io, l’unico altro single del gruppo, e un paio di amici che per motivi vari hanno di quei rapporti laschi per questioni di tempo o di spazio, finiamo regolarmente a fare la riserva indiana in fondo al tavolo.

D’altra parte, la vita da ventenne non mi piaceva a vent’anni, non è che mi interessi adesso; non sono mai stato un frequentatore di discoteche, sono troppo stanco per andare a dormire alle quattro su una panchina, e alcool, canne e sesso con la prima che passa, senza sentimento, non sono un obiettivo che mi attiri.

E’ probabile che finisca anch’io a fare il monaco da convegno e da attivismo politico; non è una brutta cosa, e appaga comunque le mie parti intellettuali; mi permetterà insomma di tessere tappeti sempre più grandi e pesanti. Avrei preferito lasciar stare, e dedicarmi a vivere con un’altra persona; ma, come spesso accade per i casi della vita, l’unica con cui abbia mai trovato un legame profondo non ha più avuto il coraggio di provare a ricambiarlo, nè la si può biasimare per questo.

Come vigilia di Natale, qui dal mio solito divano, non posso che augurarvi una buona giornata e una buona serata, sperando che troviate dei regali sotto l’albero; io, di mio, mi unisco di cuore al collega che da settimane ha attivato il conto alla rovescia per il ventisei dicembre, e mi auguro per l’anno prossimo un Natale fuori dal guado.

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giovedì 21 Dicembre 2006, 11:51

Auguri a Torino

Si possono fare gli auguri ad una azienda che non si conosce e di cui non si è mai stati clienti? Si può, in qualche caso.

Il festeggiamento in questione in realtà è condiviso tra due nomi diversi, non so se parti della stessa azienda o meno. Il primo nome è Leone, ma non quello delle storiche caramelle; si tratta di una grande azienda di tubi e ferramenta sita all’angolo più remoto della Pellerina, su via Pietro Cossa. E’ un punto di grande passaggio, e sulla sede aziendale campeggia da sempre una enorme insegna al neon, talmente grande che, di notte, la si legge distintamente anche dall’aereo quando si sta scendendo verso Caselle; un vero landmark cittadino.

Vent’anni fa, il business dei tubi doveva essere in calo, e quindi nel palazzo è comparsa una seconda attività: quella degli antifurti Security Cà. Visto che il tetto se lo era già preso l’altro nome, quelli degli antifurti per farsi notare occuparono l’angolo sopra la porta, proprio di fronte agli automobilisti che svoltano; e ci misero un pannello luminoso con l’indicazione, sempre aggiornata, del numero complessivo di clienti della loro azienda.

Quando ho cominciato a guidare, una decina abbondante di anni fa, il numero era di qualche decina di migliaia di unità; l’ho visto crescere negli anni, notando giorno dopo giorno i diversi numeri. Avrò pure l’anima del matematto, ma che emozione quando, per combinazione, il pannello segnava proprio il mio vecchio numero di matricola del Politecnico!

Bene, qualche giorno fa è successo l’impensabile (ma pianificato, visto che sin dal principio il pannello aveva spazio per sei cifre): proprio in vista del Natale, è stato raggiunto il numero centomila. Sarà sicuramente una festa per il titolare e per il suo portafoglio, ma lo è stata un po’ anche per tutti gli abitanti della parte occidentale di Torino; perchè a forza di passarci davanti non possiamo non aver cominciato a fare un po’ il tifo per chi, con una tenacia tutta torinese, porta avanti giorno dopo giorno il proprio lavoro per vent’anni, passo dopo passo, fino a raggiungere il risultato.

E quindi, buone feste anche agli antifurti, e a tutti quei pezzettini di vita grandi e piccoli – persone aziende alberi e case – che compongono l’anima della mia città!

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martedì 28 Novembre 2006, 17:17

Meteopatia

Nella mia costante e gioiosa riscoperta delle nostre radici animali, osservo sempre più spesso come il nostro umore sia drammaticamente legato al tempo che fa, e ovviamente alle stagioni.

Oggi, in particolare, a Torino è una giornata grigissima, con una cappa pesante di nuvole e una pioggerellina che invade l’aria in modo fastidioso. Ero giù di morale, ma pensavo di essere l’unico, e che questo fosse dovuto soprattutto ad altre questioni, come alcune mancate risposte e persone lontane. E invece, ho pescato un paio di amici in chat, e ho scoperto che stavamo tutti pensando la stessa cosa, ognuno attribuendola a fatti diversi e che non c’entravano nulla con l’atmosfera, ma ognuno concludendo invariabilmente: che giornata grigia e deprimente!

Ma il massimo s’è toccato quando mi ha telefonato mio zio – col quale, dopo mesi che non ci vediamo, avevo combinato un kebab al volo in piedi sotto casa sua per questa sera – e mi ha detto: “Senti, visto che la giornata è veramente grigia, perchè non andiamo a farci una cena decente?”.

Eppure, questo ritrovarmi in balia dei cicli millenari delle stagioni, esattamente come i nostri antenati di un milione di anni fa, invece di preoccuparmi mi rassicura: in fondo, anche giornate uggiose come questa fanno parte della normalità della vita. Basta accendere un fuoco, procurarsi un bel cinghiale arrosto, e stare in compagnia.

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venerdì 17 Novembre 2006, 20:44

Quarant’anni e non sentirli

Poco fa, rientrando a casa sulla mia bicicletta, ho imboccato deciso la discesa dei garage e sono arrivato fino al mio. Per combinazione, era aperto anche quello quasi di fronte, da cui è uscito un signore circa quarantenne, pelato e con gli occhiali, un po’ come un nerd pelato e con gli occhiali quando arriva a quarant’anni; e con figlioletto al seguito. Mentre io aprivo, posavo la bici e richiudevo il garage, il signore è uscito dal suo box e si è avviato verso la casa, seguito dal figlio, camminando pochi passi davanti a me. Io l’ho salutato con un “Salve” e sorridendo, ma non ho avuto risposta: mi sono chiesto se, dopo sette chilometri in bici al buio e sotto una vaga pioggerella, fossi particolarmente impresentabile, ma poi ho controllato e non era così.

Conosco, anche se di vista, buona parte dei miei vicini, ma questo non l’avevo mai visto; quando ha superato senza entrare la porta della scala B ho capito che abitava nella mia stessa scala, e mi sono preparato quindi alla salita collettiva in ascensore.

Proprio allora il signore si è fermato, e ha esclamato rivolgendosi al figlioletto, ma con voce stentorea, in modo che sentissi bene: “Ma avrò spento la luce?”. Poi, prima che il figlio potesse dire qualcosa, ha aggiunto “Eh, credo di no”. Si è girato, stando attento ad effettuare la manovra dal lato opposto a quello su cui stavo per sopraggiungere io, in modo da non dovere incrociare il mio sguardo; e si è diretto indietro verso il suo box, avendo così evitato di dover condividere l’ascensore con un vicino.

Io, tra me e me, ho sorriso, e per tutta risposta gli ho lasciato accostata la porta della scala, in modo che non dovesse aprirla con la chiave. Ma sono stato contento, perchè so che fino a qualche mese fa, pur di evitare il contatto con altri esseri umani poco conosciuti, avrei potuto comportarmi anche io in un modo simile.

Certo però che, ad età ampiamente adulta, le persone dovrebbero aver imparato a non aver paura degli sconosciuti!

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mercoledì 15 Novembre 2006, 17:36

Fuori

Ieri ho deciso di utilizzare la mia pausa centrosettimanale – mercoledì e giovedì, privi di qualsiasi appuntamento – per andare in montagna. Ho casa in val d’Aosta, in un piccolo villaggio di palazzine moderne, isolato e conficcato su un dolce declivio davanti al vuoto mozzafiato della grande curva della valle principale. Nel villaggio stanno ancora costruendo, e questi blitz infrasettimanali – in cui sono ovviamente l’unico abitante del villaggio, oltre al custode e agli operai – creano sempre scompiglio al piano dei lavori: a ottobre sono rimasto senza gas (e quindi senza riscaldamento, con dodici gradi in casa) fino alle sei dei sera, cavandomela con un termoventilatore elettrico da dieci euro; stavolta stavano dipingendo di rosa la facciata, e mi sono trovato le finestre incerottate e coperte, anche se per fortuna avevano finito e ho potuto regolarmente spalancare

Comunque, questo ritiro spirituale in mezzo alla natura, preso nelle giuste dosi, è eccezionale per calmare lo spirito, ma anche per permettermi di portare avanti alcuni progetti di lungo termine (ancora non di pubblico dominio) di cui vi parlerò presto. Finisce però che passo buona parte del giorno a percolare, ossia a riflettere sui problemi miei e del mondo nei thread a bassa priorità del cervello, tra una partita alla playstation, un po’ di cucina e qualche passeggiata.

Oggi c’era il sole e la giornata era eccezionale; sono uscito tardi, a metà pomeriggio, e già nel bosco subito sopra le case c’era soltanto il silenzio, mentre la luce di taglio faceva brillare tutti i colori delle foglie, dal verde all’arancione, al giallo, al marrone e al rosso. Dieci chilometri più sotto, in fondo alla valle, si vedeva un balugine lattiginoso e globulare che pulsava bianchiccio, avvolgendo in una nebbia di plastica i paesi dell’autostrada. Qui, però, l’aria era pulita, ferma, come in una fotografia avvolgente che, non avendo preso la macchina, non potevo fare; ma era anzi più bello che il momento fosse un pieno a perdere, unico come un battito di ciglia.

Ho risalito il crinale, scollinato nella valle di Ayas e seguito la costa della montagna; non pensavo di andare lontano, mentre il cielo si ingrigiva e la luce cominciava a svanire. Eppure, in un attimo mi sono ritrovato al bivio, e ho preso la strada che non avevo mai fatto, quella che punta verso il mistero dell’alta montagna, del Monte Zerbion a picco sulla testa e del Monte Rosa lontano in fondo, e sconsiglia di farsi prendere con un perentorio segnale di divieto di transito: “ANCHE AI PEDONI – PERICOLO DI CROLLI”.

Certo c’è pericolo di crolli, davanti alla nuda natura delle montagne, dove un cammino da soli diviene un viaggio, e dove il bosco e la roccia si snodano sempre uguali e sempre diversi nello spazio e nel tempo. Forse il motivo per cui ci chiudiamo in case fisiche e mentali è proprio la paura di non capire l’infinito, di non riuscire ad abbracciarlo per intero, e di finire dentro la pazzia del desiderio di scoperta che alimenta se stesso, quello che spinge da millenni gli esploratori a spingersi troppo lontano, a morire al Polo Sud o nel gelo dei meandri della propria mente. Ci vuole coraggio per apprezzare le proprie proporzioni, per realizzare la propria infinitesima dimensione e profonda irrilevanza rispetto all’universo, e nonostante questo viverci insieme in pace, senza sentirsi impotenti e senza delirare di controllo e potere, arroganti desideri che ci sono possibili solo in un mondo recintato e artificiale (castrato all’ennesima potenza) costruito dall’uomo per l’uomo, ma non nel mondo reale.

Bastano poche curve per arrivare alla prospettiva del crollo, sotto forma di una galleria completamente buia che trapassa una roccia di cinquanta per cinquanta per cinquanta metri, sdrucciolata chissà quando dall’alto del monte sulla strada medievale che sto percorrendo. E’ una trachea buia e inospitale di cui non si vede il fondo, costellata di rocce cadute qua e là, e tende a suggerire che, dopotutto, il pericolo potrebbe esserci davvero. E’ l’astuzia del genere umano a suggerirmi la via, sotto forma di uno stretto cornicione rimasto agibile tra la roccia e la vecchia strada, e già percorso da altri esseri animati prima di me. Seguo la traccia come prima di me i lupi e i cerbiatti, e sbuco da un groviglio che non diresti, proprio dall’altro lato della galleria.

Ma dopo qualche altra curva arriva la seconda galleria, e nel frattempo è freddo e quasi buio, e sono a quasi un’ora di cammino da casa. Decido che è giunto il momento di tornare indietro, e che la mia esplorazione, per oggi, si è spinta a sufficienza. Al ritorno, però, voglio far valere il coraggio di un Prometeo senza torcia, in onore di quegli esseri umani che, nei millenni precedenti a noi, hanno fatto ben altro per permettere alla storia di giungere fino a qui.

Imbocco la galleria a passo sicuro, sfruttando la luce che arriva alle mie spalle, e confidando nella lunghezza ridotta, e nel fatto che l’altro lato apparirà a breve. Eppure, la luce si affievolisce, e nulla succede. Il passo si fa incerto, poi cauto, perchè non vedo nè sento nulla, privato dei miei sensi e quindi in balia del destino. Potrebbe esserci un gradino, una voragine, un troll o la porta dell’inferno, ma io posso solo contare sull’udito e sul tatto dei piedi, perso nel buio dietro il buio davanti.

A un certo punto, però, ho l’illusione di una lievissima stella cometa, come una sottile traccia color nero chiaro sullo sfondo color nero scuro, che piega di colpo a sinistra; sembra una di quelle impressioni che restano sull’occhio dopo una vista abbagliante, e potrebbe essere anche una tentazione di una strega cattiva. Dopo dieci passi nel buio, però, la traccia salvifica si fa più credibile; mi avvisa della parete di roccia che segna una inspiegabile curva ad angolo retto, segno di quando l’ingegneria mineraria si faceva a picconate e speranza nel Signore. Ironicamente, la traccia curva è il riflesso della fioca luce esterna sul grosso tubo di gomma che segue la strada per chilometri, portando l’acqua dai monti alle alte borgate: l’unico elemento moderno in un viaggio alle radici del tempo.

E’ quasi buio, anzi dopo poco è buio proprio, e anche all’esterno i passi si fanno incerti. Dopo mezz’ora sono sopra casa, e soltanto allora realizzo che, residuo di quando ero nella galleria, ho ancora il pugno sinistro stretto e serrato attorno al mio pollice. Non c’è niente da fare: alla fine siamo sempre un novantanove per cento di animale, regno di istinto e di archetipi nascosti, che finge di essere quell’un per cento di spirito e ragione, e se ne vanta pure. Se qualcuno che è puro spirito ci guarda, starà senz’altro ridendo gentilmente di noi.

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venerdì 10 Novembre 2006, 18:54

Post scriptum

Non voglio esimermi dall’aggiungere che questa sera c’è stato un tramonto eccezionale; si sono viste nel cielo tutte le sfumature dell’arcobaleno, partendo dal giallo per virare poi all’arancione, quindi al rosa, e poi a un viola sempre più intenso e luminoso, che è sfumato nel blu sopra il nero dei tetti. Ed è stato magnifico anche il ritorno a casa, con la bici nel buio del parco della Pellerina, e la fioca luce della mia dinamo che illuminava una fitta ed incredibile pioggia di foglie gialle e lievi ad annunciare l’inverno nei capannelli di alberi, in una muta sospensione del reale che avrebbe potuto essere la scena di un film.

Temo comunque di non essere riuscito a comunicare perfettamente il perché io sia felice ed i relativi viluppi filosofici; ne parleremo con calma di persona, o anche qui, se avrete delle domande da fare; tipo chi sono, che cosa ci faccio qui, che cosa potrei fare, o anche, è nato prima l’uovo o la gallina.

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venerdì 10 Novembre 2006, 14:25

Giorni di gloria

Sono giorni di gloria, questi, perché è da molto tempo, forse da sempre, che le mie giornate non erano così luminose.

Oggi a pranzo, per esempio, ero in giro con la mia bicicletta per le vie del centro di Torino, allagate di una luce fredda e abbagliante, riflessa giù dalle montagne lontane. In teoria dovevo soltanto mangiare e poi andare in ufficio, ma è stato bello scegliere di perdersi per qualche minuto nel giallo divino che colorava le strade e i palazzi, e nella folla che, come formiche uscite al sole per un prematuro disgelo, si spandeva disordinatamente per le piazze.

E’ una di quelle giornate in cui più che mai il centro di Torino è enigmatico e metafisico, con le sue prospettive infinite come un gioco di Escher, e la sua uniformità barocca che agisce da specchio. Arricchito da provocazioni postmoderne, che vanno dalle installazioni fintamente commerciali in via Buozzi fino alle linee d’acqua fumante di piazza Carlo Alberto, passando per le finestre fotografiche sull’umanità esposte in piazza San Carlo, il centro di Torino abbracciato dalle Alpi diventa una sfera sezionata da un reticolo, il simbolo stesso dell’umanità distesa al sole e in rapporto con il divino che illumina dall’alto.

E’ per questo che io e la mia bicicletta oggi eravamo come un punto che si sposta su un piano cartesiano, l’essenza nuda del moto della vita; proiezione strettamente purificata del significato dell’esistere, in un rapporto concettuale ma concreto con tutte le altre esistenze contemporanee, e con tutte le esistenze possibili. E’ uno di quei casi in cui si prova tristezza (tristezza, non pietà, perchè non vi è superiorità in questa sensazione) per quei troppi esseri umani persi nel freddo scientismo delle cose, nell’assenza di valori, progetti e significati superiori, e nel conseguente pessimismo cosmico che deriva dalla perdita collettiva del concetto di Dio.

Non è cambiato nulla, nella mia vita, per rendermi improvvisamente felice; nulla se non la constatazione che se gli oggetti e gli eventi sono sempre gli stessi, ciò che fa la differenza sono gli occhi con cui li guardiamo. Nella continua lotta tra il bene ed il male che tutti noi portiamo dentro, sono lieto della scoperta e della rivelazione di questa luce, che d’improvviso significa tutti i Corani e le Bibbie e le filosofie e le religioni del mondo, tutte in fondo equivalenti, tutte infine comprensibili persino quando non condivisibili. C’è ancora molto da scoprire in noi stessi, ma è più facile farlo dopo aver trovato la forza, quella che fa cadere ogni arma e ogni paura, quella di sorridere sempre e riconoscere in ogni altro un simile a sè, quindi degno di dare e ricevere amore, se soltanto liberato dalle catene del dolore e dell’insicurezza.

Spero che la forza non mi abbandoni più, anche se so che, talvolta, potrà succedere; ma ho fiducia nel fatto che saranno cedimenti occasionali. In fondo, credo che questi giorni di gloria derivino dalla Scelta infine raggiunta, quella di avere il coraggio di agire per essere nè meglio nè peggio, ma semplicemente e finalmente se stessi.

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martedì 24 Ottobre 2006, 10:57

Amicizia

Via blog di Fabbrone, un po’ di ironica esperienza di vita dalla rete:

A woman has a close male friend. This means that he is probably interested in her, which is why he hangs around so much. She sees him strictly as a friend. This always starts out with, you’re a great guy, but I don’t like you in that way. This is roughly the equivalent for the guy of going to a job interview and the company saying, You have a great resume, you have all the qualifications we are looking for, but we’re not going to hire you. We will, however, use your resume as the basis for comparison for all other applicants. But, we’re going to hire somebody who is far less qualified and is probably an alcoholic. And if he doesn’t work out, we’ll hire somebody else, but still not you. In fact, we will never hire you. But we will call you from time to time to complain about the person that we hired.

Nella pratica, le cose sono sempre più complicate di così: se ci si frequenta in modo non casuale l’interesse non può essere di uno solo, ed è psicologicamente impossibile che il rapporto tra un uomo e una donna entrambi eterosessuali e in età fertile non abbia per entrambi una componente fisica, anche se può essere minoritaria, sublimata o controllata quanto si vuole. Il “possiamo essere solo amici” – detto solitamente dalla donna, visto che gli uomini sono istintivamente poligami per costruzione – è sempre una scelta, mai un dato di fatto.

Allo stesso tempo, quella sopra, pur se con diverse varianti, è la storia di quasi tutti i miei rapporti con il gentil sesso; e quel senso di rifiuto immotivato che senti quando il tuo approccio finisce contro un “sei una persona eccezionale, ma…”, mai seguito da una spiegazione, è forse la cosa più frustrante per la voglia di vivere di un essere umano di sesso maschile. E’ un po’ come se le donne che incontri ce l’avessero con te; ma per principio, senza alcun motivo.

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sabato 14 Ottobre 2006, 12:49

Ruspe

Questo post è in memoria di una entità che non c’è più. E non si tratta dell’immensa e ben visibile trasformazione dello storico Stievani di largo Giachino, il primo supermercato di elettronica di consumo della storia del Piemonte nonchè promotore di alcuni leggendari spot della nostra infanzia, nel nuovo gigantesco punto vendita di un altro e recentemente rinato marchio storico degli anni ’80, il mobilificio Aiazzone (c’è certamente una morale in tutto questo, ma al momento mi sfugge).

Si tratta invece della più modesta e marginale sparizione di un luogo davanti al quale, se abitate a Torino, sarete probabilmente passati molte volte, magari senza nemmeno notarlo: il giardinetto della curva di via Stradella.

Chiuso tra la curva in salita più intasata di Torino, la ferrovia per Milano, e la stazione Dora, si trattava di un quarto di cerchio semiabbandonato, dotato di qualche albero, qualche aiuola, qualche panchina, e tanta immondizia abbandonata qui e là. Non serviva a molto, non era nemmeno attraversabile per andare da qualche parte, era proprio un angolino di verde in una zona che non ne ha molto, ma che sta per ricevere in dono il nuovo parco sulla Dora, o meglio quello che ne resterà dopo la realizzazione di bonifiche, palazzi, ferrovie e strade di scorrimento.

Per me, comunque, era anche il luogo di alcuni ricordi specifici, legati alle mie pause pranzo nel periodo in cui lavoravo a Vitaminic in via Cervino. Non è l’unico luogo in cui ho ricordi specifici a sparire, anche se ultimamente stanno diventando parecchi. Ma arrivare lì in bicicletta e scoprire che un intero giardinetto, certo piccolo, ma comunque dotato di tutte le caratteristiche di un giardinetto, è stato sostituito da una spianata di terra gialla…

L’hanno raso al suolo, letteralmente, e ora non è nemmeno più un luogo, è uno spazio non significativo perchè trasparente allo sguardo, una intercapedine urbana al bordo della via. Visto così è microscopico, e non diresti mai che prima lì potesse starci qualche cosa; proprio come quando prendi la vecchia e grigia casa della nonna e la ristrutturi in modo moderno, unendo l’ingresso, il tinello e il salone, e poi ti chiedi come facessero a starci tre camere in quell’area lì.

L’hanno raso al suolo per allargare la strada, perchè dopo aver abbattuto la sopraelevata di corso Mortara le macchine strabordano ovunque, e la città è tagliata in due da un serpentone di auto in coda e bestemmianti. E così, allargheranno il ponte di via Stradella, taglieranno i binari della Torino-Ceres per tornare in giù, e passando davanti alla vecchia fabbrica si ricongiungeranno a corso Mortara davanti alle nuove “torri del parco”, un mostro urbanistico dei palazzinari che ha sfigurato un quartiere di vecchie casette.

Le auto, finalmente, potranno sciamare un po’ meglio. Basteranno pochi anni perchè del giardino si perda la memoria, nella storia anonima della periferia di una grande città, che respira, cresce e cambia proprio come le sue persone. Ma mi piaceva, nel mio piccolo, lasciarne una traccia.

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venerdì 13 Ottobre 2006, 11:35

Perché

Anche se le posterò probabilmente domani mattina, mentre scrivo queste righe sono seduto sulla poltrona di un Eurostar da Roma a Milano, appoggiato sul tavolino con la matita in mano, mentre vedo scorrere fuori dal finestrino le luci della periferia di Firenze. Ho appena finito di mangiare il panino gnecco che ho arraffato al volo al supermercato della stazione Termini, e prima di passare ai wafer ho sentito il bisogno di rispondere per iscritto, come in una interrogazione tra me e me, a una domanda semplice ma ricorrente: perché lo fai?

Voglio dire, cosa spinge una persona che in questo momento, anziché aver davanti altre cinque ore di treno nel cuore dell’Italia addormentata, seguite da una lunga passeggiata fino all’automobile e da un letto raggiunto ad ore proibitive, potrebbe essere tranquillamente in poltrona davanti al televisore, o al cinema, o in birreria con gli amici? Invece di dedicare del tempo ad inseguire obiettivi nemmeno ben definiti e utopie di vario genere, non potrei dedicarmi anch’io a quello a cui mirano la gran parte delle persone della mia età, cioè farsi una famiglia e costruirsi una carriera remunerativa e sicura?

C’è certamente del piacere in questo mio girovagare da un incontro all’altro, sui treni e sugli aerei di mezza Europa e di un buon quarto di mondo. Ci sono la gratificazione del riconoscimento tra pari, il piacere della visibilità personale, l’ambizione di raggiungere prima o poi posizioni sociali riconosciute, la sensazione appagante di avere voce in capitolo, insomma di provare a cambiare qualcosa in questo mondo di cui tutti, ma proprio tutti, si lamentano, ma per cui ben pochi hanno la fiducia e la voglia di fare qualcosa.

Eppure, c’è anche la stanchezza, la delusione le volte in cui tutto il tuo sforzo sembra non portare a nulla, la solitudine imposta dai non-luoghi qualsiasi in cui passi le giornate di mezzo, un punto imprecisato in cielo tra un biscotto e un salatino, una stazione di campagna dove Trenitalia ti dimentica per mezz’ora prima di rilanciare il tuo treno, un albergo uguale ad ogni altro albergo come una catena di supermercati.

E’ probabilmente un circolo autoalimentato, se la fortuna di un discorso ben venuto – che, peraltro, è molto più preparazione e fatica che caso – ti porta in giro a fare altri discorsi, e ti toglie invece il tempo per sperimentare altre strade, i percorsi di vita più battuti, quelli generalmente più noti e prevedibili, e quindi un po’ noiosi ma tanto rassicuranti. Bisogna essere un po’ pazzi per rinunciare a uno stipendio, chiudersi con se stessi, e scommettere che tutto questo su e giù in nome di una tua personale interpretazione del bene collettivo ti porterà prima o poi non dico a mantenerti, ma almeno a qualche risultato di cui poi parlare ai nipotini altrui (che i tuoi, di questo passo, non esisteranno mai).

So però che non sono il solo: l’Italia è piena di persone che, a costo di rinunce, dedicano tempo ed energie a qualcosa che non ha come obiettivo principale un compenso monetario personale, ma qualcosa di più grande e meno chiaro; forse un ideale astratto e nemmeno detto forte, nell’era in cui l’ideologia è peccato; forse il fantasma di un sogno già stinto; forse solo quella pacca sulla spalla e quel sorriso che non c’erano quando era necessario, e che alla fine ripagano più di un intero deposito di Zio Paperone.

Siamo i monaci di Santa Maria Novella, su e giù per i binari come api o formiche, nel volontariato come in politica, come in tanti mestieri di valore sociale dove il futuro è dubbio e lo stipendio è secondario. Nel mio caso, però, c’è un po’ di sconcerto in più, perché se lo facessi per un’azienda o per un partito saprei che, prima o poi, ne sarei ricompensato.

Così, invece, non si sa. Ma d’altra parte cosa, oggi come oggi, si può sapere in anticipo della propria vita?

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