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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


venerdì 31 Dicembre 2021, 14:03

La logica della follia

Ieri sera sono andato a fare la spesa – ad Aosta, non in una metropoli tentacolare – e ho avuto la netta percezione che il deterioramento della salute mentale media della popolazione abbia fatto un altro salto in avanti.

Non parlo tanto di no vax (ci arriveremo tra un attimo), ma proprio dell’italiano medio. Dentro il supermercato ho assistito a scene di gente che faceva a sportellate col carrello per arrivare prima a una scatoletta di tonno, con tanto di commentini passivo-aggressivi ad alta voce di chi era arrivato secondo, e addirittura a due signore che sono arrivate quasi a mettersi le mani addosso perché una sosteneva che l’altra, non si capisce perché, le avesse fregato il carrello già mezzo pieno per poi cominciare a metterci dentro anche la sua spesa. Fuori, in venti chilometri di statale ho visto altrettante sportellate e manovre assurde per guadagnare una posizione in una fila di auto tutte alla stessa velocità; uno ha anche inchiodato per poi cambiare corsia e mettersi dietro a un altro a fargli i fari per chissà quale torto, per poi rientrare di botto nella sua corsia e svoltare a destra.

Comunque, oggi su Repubblica c’è, per una volta, un articolo del genere letterario “era no vax ed è morto di covid”, attualmente molto in voga, che vale la pena di leggere. E’ l’intervista a un figlio di padre morto che racconta molto bene come funziona questo impazzimento collettivo, che per alcuni si conclude solo con le sportellate per strada, mentre per altri si conclude con la negazione della pandemia e/o della scienza.

La storia è sempre la stessa: il padre non si vaccina, quando si ammala dice che è solo un’influenza e non si cura, poi quando peggiora rifiuta di andare in ospedale perché vuole farsi da solo (“medico di se stesso”) le famose “cure domiciliari”, poi quando lo portano in ospedale a forza perché la famiglia chiama il 118 lui intima ai medici di non intubarlo e chiede il modulo da firmare per rifiutare le cure, e infine muore in poche ore. Questa è la spiegazione che dà il figlio che fino all’ultimo ha cercato di convincerlo a farsi curare: è la dimostrazione che spesso il rifiuto della pandemia è folle, ma non è privo di logica, ed è anzi la conseguenza diretta del modo in cui la persona ha subito l’impatto della pandemia.

Era davvero un No Vax così radicale?

“No, non lo è mai stato. La prova è che noi figli siamo tutti vaccinati. Mio padre era un agente di commercio, vendeva alimenti a bar, ristoranti, hotel. Lui ha patito pesantemente il periodo della pandemia. Prima gli hanno impedito di lavorare, poi hanno chiuso i locali, poi l’hanno risarcito tardi e male. Aveva perso la fiducia nelle istituzioni, si era convinto che stessero tutelando qualche interesse occulto”

“Mio padre non era un ignorante, o un egoista. È stato a lui ad insegnarci il valore del sacrificio sul lavoro, del rispetto per il prossimo, soprattutto per i più deboli. Ce l’hanno invidiato in tanti, il mio papà”.

Vi siete dati una spiegazione per questo suo atteggiamento nei confronti della pandemia?

“È difficile capire cosa passa per la testa di una persona. Lui è sempre stato così forte, non ha mai saltato il lavoro nemmeno un giorno, neanche quando stava male. Trovarsi fermo, senza guadagni, con le mani legate, credo l’abbia completamente destabilizzato”

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domenica 10 Ottobre 2021, 10:02

I no vax non esistono

Ieri, 9 ottobre 2021, ci sono stati 2748 nuovi casi di coronavirus. Un anno fa, 9 ottobre 2020, i casi furono 5372, praticamente il doppio. E’ un confronto che non ha alcun senso, ma dato che per tutta l’estate i no vax ce l’hanno menata che “l’anno scorso senza i vaccini c’erano molti meno casi”, sarebbe interessante sapere cosa direbbero oggi.

Sarebbe, perché di no vax, alla fine, non ce ne sono quasi più. Fanno molto rumore, vanno dietro ai fascisti e spaccano tutto, vogliono occupare il Parlamento come i seguaci di Trump, anche se poi non saprebbero cosa farsene; ma sono pochi. L’80% degli italiani sopra i 12 anni è vaccinato, e molti di quelli che mancano sono persone che non hanno voglia, che vivono fuori dal mondo, che non lavorano (o lavorano in nero) né vanno al ristorante (quindi il pass non gli serve) o che, furbescamente, preferiscono mandare avanti gli altri a vaccinarsi perché non si sa mai.

Invece, quelli che insistono a vaneggiare parlando a sproposito di dittatura sanitaria sono veramente pochi, e sono ogni giorno di meno. Vivono in una realtà parallela che esiste solo grazie ai social e ai loro cinici modelli di business, una realtà inesistente in cui ci sono popoli in rivolta contro Draghi e Bill Gates, autostrade bloccate da file di camionisti no vax, polizie assassine al soldo di Big Pharma, costituzioni scritte dal Corrado Guzzanti della “casa delle libertà di fare un po’ come cazzo ci pare”. E’, essenzialmente, una psicosi collettiva legata al rifiuto di una realtà frustrante, su cui si scriveranno a lungo nuovi trattati di psichiatria.

Nel frattempo, il resto degli italiani si è vaccinato mesi fa e ora pensa a ricominciare a vivere, mentre i cinema, gli stadi e le discoteche riaprono e i ristoranti sono sempre più pieni. Tutto questo grazie ai vaccini, che hanno permesso che l’ondata puntualmente ripartita in estate, a differenza dell’anno scorso, si esaurisse in poche settimane; altrimenti, adesso saremmo qui come nel 2020 a parlare di scuole chiuse, regioni rosse e prossimi lockdown.

Non è comunque ancora tempo di festeggiare e di abbassare la guardia, perché nuove ondate sono sempre possibili, man mano che arriva l’inverno e l’efficacia delle vaccinazioni cala. C’è sempre il rischio di nuove varianti, ci sarà una terza dose per molti o magari per tutti. Soprattutto, ci sarà probabilmente una crisi economica, nessuno sa quanto intensa, collegata alla ripresa della domanda e ai problemi del clima. Ci saranno ancora proteste di piazza, anche significative. Non si può abbassare la guardia.

Ma essere almeno un po’ contenti e un po’ ottimisti, in una bella domenica d’autunno, mi pare del tutto giustificato.

(P.S. Prima che lo dica qualcuno a sproposito: rispetto a un anno fa abbiamo meno casi, ma abbiamo ancora più morti; è normale, perché i morti seguono l’andamento dei casi con diverse settimane di ritardo, e noi adesso veniamo da una ondata che scende, mentre un anno fa l’ondata era in piena ascesa. Tra poco tempo anche i numeri dei morti del 2020 saranno ben superiori a quelli di quest’anno.)

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domenica 8 Agosto 2021, 14:18

Arrivederci all’anno prossimo

Oggi in montagna è una domenica di mezzo agosto: è quel giorno dell’anno in cui c’è l’invasione. Senza arrivare, come nella foto qui sotto, a chi rischia la vita spingendo una bicicletta sul ghiacciaio senza sapere cosa sta facendo, a quote più normali è il delirio.

E’ il giorno in cui dalla pianura arrivano SUV pieni di gente che ignorando qualsiasi cartello e qualsiasi divieto si inerpicano sulle piste forestali fino a parcheggiare spuzzettando proprio in mezzo al prato, lasciandoci in mezzo due bei solchi. E’ il giorno in cui i sentieri si intasano di famiglie in ciabatte con due cani rigorosamente senza guinzaglio, tre bambini urlanti e scatenati che fanno scappare qualsiasi forma di vita per chilometri, e il papà bestemmiante che spinge un passeggino sul sentiero in salita tra i sassi o in mezzo al fango. E’ il giorno in cui le rive dei torrenti e dei laghetti diventano discoteche a cielo aperto, con gente seminuda che piazza la musica a volume altissimo e non ci sono abbastanza assessori in giunta per bastonarli tutti. E’ il giorno in cui a salire per il bosco rischi di essere arrotato da un commendatore di Monza che ha appena comprato la mountain bike da Decathlon (però la più costosa) e si è fatto portar su dal taxi fuoristrada per fare solo la discesa a rotta di collo, però senza saper frenare.

Ma per carità, vi perdoniamo, sperando che almeno uno su cento di voi si accorga della meraviglia della montagna, del silenzio e della fatica, della vita nascosta e sfuggente agli umani, e provi il desiderio di tornarci in modo e in momento diverso. Quanto agli altri novantanove, arrivederci: per fortuna ci vedremo solo l’anno prossimo.

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mercoledì 21 Luglio 2021, 20:06

L’obbligo di green pass spiegato razionalmente

Spuntano dalle fottute pareti: non solo i no vax, ma quelli che “io non sono no vax ma” (di solito gli stessi che non sono razzisti perché hanno anche un amico marocchino). Alla fine conviene non perdere tempo a discutere con loro, tanto non vogliono ascoltare. Per gli altri, però, vorrei che fosse chiaro qual è il motivo razionale per cui è corretto riservare ristoranti o trasporti pubblici ai titolari del green pass, almeno in determinate condizioni.

Il pass, infatti, non garantisce affatto che la persona non sia infetta o non possa infettare; i vaccinati possono comunque infettarsi e persino ammalarsi. Nemmeno il pass ottenuto col test negativo lo garantisce, perché anche il test, specie quello rapido, ha una percentuale di errore non piccola.

Statisticamente, se in un ristorante ci sono cento persone tutte col green pass, ce ne sono probabilmente una decina che in realtà potrebbero essere infette, anche se ciò non significa che lo siano davvero. Se una di esse però lo è, possono avvenire dei contagi. Quanti, dipende anche dagli altri: se tutti gli altri sono vaccinati, quando l’infetto “prova” a contagiarli, la probabilità che possano infettarsi è dell’80-90% inferiore al caso in cui le altre persone nella stanza sono non vaccinati entrati con un test negativo, e quindi sono tutte soggette al contagio senza protezioni.

In altre parole, supponendo per farvi capire il meccanismo che sia il vaccino che il test negativo abbiano una efficacia del 90%, succede questo:

  • in una stanza in cui nessuno è vaccinato e nessuno ha il green pass, la probabilità che avvenga un contagio dipende dal tipo di interazione e da quanti infetti ci sono in giro, cioé da quanto sta circolando il virus nella società; supponiamo per esempio che valga 0,1;
  • nella stessa stanza in cui nessuno è vaccinato ma tutti hanno il green pass da test negativo, la probabilità che avvenga un contagio si riduce del 90%, diventando 0,01, ossia dieci volte inferiore;
  • nella stessa stanza ma in cui tutti sono vaccinati e hanno il green pass da vaccinazione, la probabilità che avvenga un contagio si riduce due volte del 90%, diventando 0,001, ossia cento volte inferiore.

Come vedete, né il green pass, né il test negativo, né il vaccino azzerano i contagi e sono una garanzia di “sicurezza totale”: chi lo dice non ha capito. Tuttavia, questi strumenti, statisticamente, riducono di molto il numero dei contagi; la riduzione non dipende solo dal pass ma anche da come lo si è ottenuto (quindi il test negativo, dal punto di vista epidemiologico, non è equivalente alla vaccinazione).

A questo punto, ecco perché è corretto, in un momento in cui il virus ha una circolazione media, limitare a chi è vaccinato l’accesso a situazioni pericolose, quelle in cui i contagi sono più probabili; ossia, a situazioni in cui si sta per un certo tempo insieme in un ambiente chiuso, peggio ancora se con distanze molto ridotte (come sui mezzi di trasporto) o senza mascherine (come nei ristoranti).

In assenza dei vaccini, raggiunto un certo livello di circolazione dei virus queste attività vanno chiuse, perché provocano statisticamente un certo numero di contagi. Il green pass, però, garantisce un “bonus”; a parità di condizioni, può ridurre di dieci volte (caso del test negativo) o di cento volte (caso della vaccinazione) il numero di contagi che si verificano, e quindi permettere di tenere aperte, solo per chi ha il pass, queste attività che altrimenti andrebbero chiuse per contenere l’epidemia. Il fatto che le si tenga aperte anche a chi ha un test negativo, e non solo a chi è vaccinato, dal punto di vista epidemiologico è già una grossa concessione ai non vaccinati.

Certo, se nonostante questo la circolazione del virus dovesse salire ancora – grazie ad esempio al fatto che la variante delta è almeno il triplo più contagiosa del virus originario, quindi a parità di condizioni genera il triplo di contagi – il bonus viene consumato, e diventa inevitabile chiudere di nuovo quelle attività a tutti, anche ai vaccinati.

Del resto, se il bonus da vaccinazione si compensa con la maggior contagiosità della variante di quest’anno, logica vorrebbe che ci ritrovassimo con gli stessi lockdown dell’anno scorso pur essendo tutti vaccinati; ma se non fossimo vaccinati, ci toccherebbe probabilmente un altro lockdown completo stile marzo 2020 o persino peggio. (Per questo, confrontare le restrizioni di oggi con quelle di un anno fa non ha senso; la contagiosità di base del virus, il famoso R0, è molto cambiata, purtroppo in peggio.)

Insomma, la vaccinazione non è perfetta, non è un lasciapassare, non rende invulnerabili, non permette da sola di tornare alla normalità, ma dà un aiuto che permette di ridurre un po’ le restrizioni a parità di condizioni generali. Per questo motivo, l’obbligo di green pass nelle attività che generano contatti al chiuso è non solo ragionevole ma doveroso; non è una punizione nei confronti di nessuno, ma un semplice calcolo scientifico.

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martedì 5 Gennaio 2021, 19:12

Sulle prossime elezioni comunali

Oggi mi hanno girato questo appello per la nascita di una lista civica di centrosinistra per le prossime elezioni comunali (l’appello, se ben capisco, è perché ne nasca una sola invece di tante in concorrenza tra di loro). Lo riporto qui, per chi può essere interessato, e colgo l’occasione per qualche commento o confessione personale.

Naturalmente mi fa piacere che alcuni dei firmatari dell’appello abbiano pensato a me come una persona potenzialmente da coinvolgere. Un po’ mi sorprende anche, perché diversi degli attuali esponenti del PD cittadino, pur nell’ambito di ampia e reciproca stima, mi hanno sempre considerato un po’ troppo liberale e liberista per il centrosinistra, nonostante io in tutta la mia “carriera” di elettore abbia sempre, tranne che nel periodo M5S, votato da quella parte (un paio di volte persino comunista… ah, la gioventù 😃 ). Ma va detto che al giorno d’oggi le differenze ideologiche sono minime e c’è una grande area grigia al centro in cui probabilmente ricado anch’io, a maggior ragione in una elezione amministrativa.

Come ben sa chi mi segue da sempre, considero le cariche elettive come una forma alta di servizio pubblico, nella quale bisogna darsi da fare e mettere le proprie energie e competenze al servizio della “clientela” che ti paga lo stipendio, cioè dei cittadini. Quando l’ho fatto credo di averlo fatto bene, sia quantitativamente che qualitativamente; almeno, questo è il responso che ho avuto più o meno da chiunque, tranne che dalla base e dalla dirigenza del M5S.

Allo stesso tempo, se la mia esperienza in politica è finita come è finita, e al di là delle evidenti dinamiche degenerative interne al Movimento 5 Stelle una volta annusato il potere, vuol dire che probabilmente non sono così adatto a questo tipo di attività.

Ammetto – non so se l’ho mai detto prima – che sedere in Sala Rossa era un sogno che avevo fin da ragazzo. Quando si è realizzato, per un breve lasso di tempo ho pensato che forse avevo trovato la mia strada, un modo di esprimere un certo talento con soddisfazione reciproca, mia e della collettività; ma quello che è successo dopo mi ha fatto abbandonare questa idea. E poi, dopo il modo in cui è finita l’altra volta, non so con che faccia potrei di nuovo chiedere il voto a chicchessia, né come potrei ottenerlo.

Per quanto dunque sia sempre ben disposto a partecipare a uno scambio di idee sul futuro di questa città, non credo che abbia molto senso una mia partecipazione attiva alla prossima elezione comunale. Ma se qualcuno di voi vuole provarci, perché no: per me, è stata comunque una esperienza che valeva assolutamente la pena di essere vissuta.

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giovedì 31 Dicembre 2020, 18:52

Il mio 2020: la storia di come non ho fatto il covid

La mia foto dell’anno per il 2020 è sicuramente quella qui sotto. Era il 6 marzo e io stavo rientrando in ufficio dopo una misteriosa febbriciattola. L’Italia era in subbuglio, ma ufficialmente poco era successo; la parola “lockdown” era ancora sconosciuta, ed esisteva soltanto la “zona rossa di Codogno”.

Non so dove avessi preso quella febbre; forse – proprio mentre l’Italia scopriva per la prima volta la presenza del virus – sabato 22 febbraio, di ritorno da San Francisco su uno dei miei tanti voli da Monaco a Torino, su uno di quegli aerei che da anni facevano ogni giorno su e giù senza sosta tra l’hub bavarese e gli aeroporti di Piemonte, Lombardia e Veneto. O forse lunedì 24, quando ero andato – in auto, vista l’improvvisa paura per i treni lombardi – fino a Milano, al consolato russo, per chiedere un visto per una conferenza a Mosca in aprile che poi non si svolse mai.

Martedì 25 e mercoledì 26 ero andato in ufficio, e così, per caso, il mio collega alla scrivania di fronte mi aveva fatto notare che mi era venuta una tosse secca e insistente, sempre più frequente; e fece anche qualche battuta sul fatto che a metà gennaio ero stato in Cina, “non porterai mica il covid?”. Ma no, era impossibile: il covid, si diceva allora, emerge in 14 giorni e ormai erano passati da un pezzo; anche a San Francisco, per farmi imbarcare sul volo di ritorno, mi avevano chiesto se fossi stato in Cina negli ultimi 14 giorni, e io gli avevo detto di no, che era passato almeno un mese.

Comunque, dato che ero stato in giro per il mondo senza sosta sin dalla fine delle vacanze di Natale, decisi di cambiare ambiente, e mercoledì sera partimmo per la montagna, con l’idea di lavorare da lì e magari prendere un giorno di riposo extra, per compensare il fatto che domenica alle 13:15 avrei avuto un altro volo, da Caselle per Londra, e poi il martedì da lì in Germania.

Eppure giovedì 27, man mano che lavoravo, mi vennero degli strani brividini; ma niente di che, e il massimo di temperatura fu di 37 gradi precisi a fine pomeriggio. Ero preoccupato per un solo motivo: se avessi avuto più di 37,5 di febbre, domenica non mi avrebbero lasciato salire sul volo e sarebbe stato un disastro. Venerdì 28 la storia fu circa uguale; al mattino avevo 36,5, ma verso fine giornata arrivai addirittura a 37,3.

Non ero quindi preparato a una serata particolare. Dopo cena, ci mettemmo nel letto a guardare la televisione. Erano già le dieci passate quando mi accorsi che facevo sempre più fatica a respirare, e che non riuscivo affatto a rilassarmi. Cominciai ad andare in bagno ripetutamente, con la sensazione di affanno e di dover vomitare, ma senza che venisse fuori niente. All’ennesimo giro, ed era quasi mezzanotte, dopo diversi minuti a guardare la tazza del WC stando malissimo senza riuscire a vomitare decisi di tornare in camera, e… non ci arrivai: i quattro metri dal bagno alla camera divennero infiniti, ero in apnea, mi girava la testa, non vedevo niente, e ansimavo cercando di respirare, senza molto successo; alla fine, mi appoggiai ai mobili per non cadere, cercando di gridare per attirare l’attenzione di Elena. Lei venne di corsa, mi trascinò nel letto, mi mise orizzontale, e per qualche motivo, di botto, la crisi finì; ricominciai a respirare un po’ meglio, ma ci volle fino alle due di notte perché riuscissi a rilassarmi e poi a dormire. Naturalmente ci chiedemmo se chiamare il 118, ma eravamo in mezzo ai monti, a un’ora di curve dall’ospedale di Aosta, e se fosse stata una vera emergenza nessuno sarebbe mai giunto in tempo. Sperammo in bene, e così andò.

Il mattino dopo, sabato 29 febbraio, chiamai subito la mia dottoressa, che mi chiese: negli ultimi 14 giorni sei stato in Cina? No. Sei stato a Codogno? No. Allora, mi disse, non è covid, e anche se avessimo il dubbio, non mi è comunque permesso di farti fare un tampone; così erano le linee guida di quel momento. Mi disse comunque di comprarmi un saturimetro e di chiamare subito il 118 se avessi avuto una nuova crisi. Non essendo covid, e continuando io a non avere febbre, non ero nemmeno soggetto a quarantena; e così, per sicurezza, decisi di mettermi in macchina e tornare fino a Torino, più vicino a un qualunque ospedale.

Nel frattempo, sia gli inglesi che i tedeschi che dovevo incontrare mi avevano scritto chiedendomi di stare a casa, perché quella era la settimana in cui gli italiani erano pericolosi untori e il resto d’Europa pensava di potersi salvare. Quindi tornai a casa senza uscire mai dalla macchina, e per sicurezza mandai Elena da sola a fare la spesa, aspettandola fuori dal supermercato; il medico mi aveva detto che certamente non era covid, e comunque all’epoca non si sapeva ancora che ci fossero così tanti asintomatici e nemmeno che gli asintomatici fossero potenzialmente infettivi.

Domenica fu un giorno altrettanto straordinario; cominciò a colarmi il naso. Ma non normalmente; continuamente, a fiotti. Non la pubblicherò, ma fui così impressionato da fare la foto alla grossa scatola di cartone del Lidl che tenevo vicino al letto, completamente piena di pezzi di carta igienica usati per soffiarmi il naso. Dopo di quello, bon: non ebbi più febbre né brividi, e anche la tosse andò rapidamente scemando; ricominciai a stare bene.

Lunedì 2 marzo decisi da solo di mettermi in smart working; non era un obbligo (se ricordate, la maggior parte delle aziende italiane continuò a tenere anche gli impiegati in ufficio fino a fine marzo) ma mi chiesi perché, pur non avendo il covid, avrei dovuto rischiare di contagiare qualche collega. Lunedì pomeriggio, tre giorni dopo la crisi, mi arrivò anche il saturimetro da Amazon: alla prima prova segnava 93.

C’era però un problema: a febbraio avevo viaggiato e accumulato spese per quasi mille euro, che avrei dovuto rendicontare appena possibile, con tanto di allegati cartacei. E così, arriviamo alla foto: venerdì 6 marzo verso le sei del pomeriggio, contando di non incontrare nessuno, mi presentai in ufficio per fare la mia pratica. In realtà incontrai un collega, ma ci tenemmo ben alla larga (all’epoca non esistevano mascherine, ma si diceva che bastassero due metri di distanza per evitare il contagio anche al chiuso) e lui andò via praticamente subito. In più, io mi portai da casa il disinfettante, e disinfettai attentamente tutto quello che avevo toccato: la stampante, le buste, le scrivanie, le maniglie. Anche se non avevo il covid, anche se il venerdì pomeriggio era stato scelto apposta per far passare più tempo possibile fino al nuovo riempimento dell’ufficio, anche se mi sembrava talmente assurdo da farmi fare la foto da Elena, sono contento di averlo fatto lo stesso.

Alla fine, nessuno nel nostro ufficio ha mai avuto il covid. Più tardi, verso l’estate, diventò possibile fare i test sierologici per capire se lo si aveva avuto, ma il governo dispose che i positivi dovessero mettersi in quarantena in attesa di un tampone, e a quel punto mi sembrò stupido rischiare settimane di quarantena solo per capire che cosa avessi davvero avuto. Non lo saprò mai: resterà uno dei misteri della mia vita.

So solo che spero di non provare mai più quella sensazione di non riuscire a respirare, mentre gli occhi si spengono, e ti sembra proprio di stare per morire; e spero che il 2021, almeno da un certo punto in poi, non la regali più a nessuno.

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mercoledì 25 Novembre 2020, 23:24

Pensavo fosse ovvio (una esegesi di Maradona)

Pensavo fosse ovvio, ma visto che c’è gente che si lamenta degli omaggi a Maradona dicendo che era un cocainomane evasore fiscale che picchiava la fidanzata, mi tocca precisare quanto segue.

Maradona è una leggenda, è al di sopra del bene e del male e delle leggi del mondo e della fisica, e lo è proprio perché è stato insieme esagerato nel bene e esagerato nel male. Ma lo è anche perché non era malvagio lui, ma piuttosto il male ce l’aveva dentro come ostacolo, era geneticamente stampato nel suo essere piccolo, brutto e figlio delle favelas, con una montagna da scalare solo per avere le stesse opportunità dei nati meglio. Era il male di tutte le periferie del mondo, di tutti gli sconfitti in partenza che una volta su un milione per miracolo, con talento e con furbizia, arrivano in cima; e per questo tutti gli sconfitti del mondo si riconoscevano in lui, e lui in loro.

Inoltre, Maradona – a differenza di altri che sono grandi calciatori e niente di più, da Pelé a Platini, alla cui morte non piangeranno i popoli – è riuscito ad arrivare in cima senza leccare culi, senza accomodarsi col e al potere, senza comportarsi da bravo bambino e sorridere alle telecamere, ma piuttosto abbracciando Fidel e Hugo Chavez e mandando affanculo i giornalisti, ben sapendo che questo lo avrebbe tagliato fuori da tante cose e fregandosene lo stesso.

Io sulla tomba di Maradona metterei una foto come quella qui sotto, quella in cui al mondiale del 2018 fa un doppio dito medio alle telecamere, dopo che l’Argentina a quattro minuti dalla fine ha segnato il gol qualificazione a una di quelle classiche nazionali africane che a ogni mondiale vengono strapompate dai media in nome del politicamente corretto, salvo poi fare regolarmente cagare a spruzzo. Maradona col politicamente corretto ci si puliva il culo, e se questo non vi piace, potete andarvene affanculo anche voi.

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sabato 30 Maggio 2020, 14:30

Storie di gioventù e antichi maestri

Nel 1995, da studente ventenne, ebbi la fortuna di succedere a Carlo Chiama nel consiglio d’amministrazione del Politecnico. Spesi così due anni a osservare Rodolfo Zich molto da vicino, in un rapporto di stima e, diciamo così, di affettuosa dialettica.

Io ero già allora un rompiscatole a cui piaceva provocare e che criticava tutto, anche se di certe critiche vado fiero; per esempio, se nell’area del raddoppio del Politecnico non è stato tirato giù tutto ma si è tenuta e ripristinata tutta la parte originale davanti alle OGR, dopo quella della mai abbastanza compianta Vera Comoli c’è anche la mia firma, anche se comportò subire una sfuriata assurda durante una memorabile riunione di consiglio. E come dimenticare quando imbucai una serie di amici studenti in maglietta a un importantissimo incontro riservato con l’allora presidente del consiglio Romano Prodi?

Ma da Zich ho imparato grandi lezioni su come si sta al mondo, e ne cito una: quando il consigliere di Comunione e Liberazione gli chiese di intercedere con Romiti per farsi togliere un rimborso spese di sei milioni di lire che la Ferrari aveva chiesto per esibire una macchina a una manifestazione studentesca, Zich gli rispose “io Romiti lo chiamo per chiedergli sei miliardi, non sei milioni”.

Certo, la cosa evidentemente non valeva nel senso opposto, altrimenti non avrebbe dato il mio numero di telefono di casa a Lapo Elkann perché mi telefonasse intercedendo per far avere fondi studenteschi al giornalino dei suoi amici. Ma questa è ancora un’altra storia.

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domenica 18 Marzo 2018, 21:11

A qualcuno piace Londra

Ai turisti italiani piace Londra, nonostante non la conoscano, non la capiscano, non sappiano una mazza di niente della sua storia e della sua anima. Vivono in un territorio a scopettone che comprende la ferrovia da Stansted a Liverpool Street, la City e metà di Westminster. E pure di quello non sanno niente; per esempio, parlano del referendum sulla Brexit e si stupiscono del disastro senza sapere che la caduta di Londra era inevitabile sin da quando, un mese prima, la Pietra di Londra è stata tolta dal suo posto millenario in Cannon Street.

Per esempio, dalle finestre del ricevimento nell’albergone della conferenza, si vede la Westway intasata di macchine; un pezzo di Londra che è normale per chi ci abita, ma che nessun turista conosce. La Westway racconta di sogni anni ’60 della città dell’automobile, ma anche dei sogni anni ’90 dei Blur, e dall’anno scorso anche dei sogni di due ragazzi italiani emigrati a Londra come tanti. Quattro anni fa, stesso albergo e altra conferenza, la Westway non faceva tanta tristezza, ma era giugno e fuori la vita non sputava pezzi di ghiaccio in faccia.

Comunque, fatte le chiacchiere con le persone che dovevo trovare, alla fine esco; c’è troppa gente e troppa fame, perchè per qualche motivo sembra che, quando si tratta di buffet, la maggior parte dei nerd sia un pozzo senza fondo. Voglio comprarmi qualcosa per la colazione di domani, e così, nonostante la neve, allungo il giro prendendo la strada di Edgware verso il centro; se fossimo in due sarebbe un tentativo di marbolarci, ma anche se l’arco c’è non ci sei tu, e quindi si limita a essere un tentativo di raggiungere il Tesco Metro che sta a due terzi della strada.

Edgware Road, dal punto di vista architettonico, è una specie di Lorenteggio ai bordi del centro di Londra; specie sul lato di Bayswater, ci sono palazzoni anni ’70 che non sfigurerebbero in una prima cintura milanese. Dal punto di vista sociale, invece, è un territorio ufficialmente bilingue, inglese/ISIS; ma solo per qualche isolato, perché poi il Londonistan cede il passo al centro vero e proprio, in un rettangolo di confini invisibili che lo contengono nella via trafficata. Che poi, almeno stavolta non è così trafficata: quattro anni fa ero dovuto tornare in albergo a piedi, a causa della strada bloccata dai cortei di algerini che festeggiavano la qualificazione al Mondiale.

Peccato solo che il Tesco Metro sia chiuso: uno scandalo, pare che chiudano addirittura mezza giornata la settimana, la domenica dopo le cinque (gli Express, invece, sono in buona parte aperti 24 ore su 24). Sarebbe bello addentrarsi in Hyde Park nella tormenta di neve, ma è buio e potrei anche rimanerci congelato dentro, e così taglio dentro il labirinto georgiano dei palazzi ultrasignorili per tornare al mio albergo, che sta altrettanto signorilmente oltre Paddington. Attraverso uno scenario spettrale fatto di BMW X4 coperte di neve, aggiro la chiesa di Hyde Park Crescent dove bambini benissimo fanno non so cosa; non sono le mie zone, io di solito bazzico East London (anche se pure lì ormai bisogna sparare a vista alla gentrificazione), lì al massimo c’è la chiesa di San Botulfo fuori Aldgate, che tanto è sempre chiusa perchè vanno tutti alla non lontana moschea.

Alla fine, camminando, arrivo da Micky’s: che è il fish & chips del quartiere, naturalmente venti metri dopo aver superato un nuovo confine invisibile che porta verso Praed Street e la confusione umana della stazione di Paddington. Micky’s rocks, anche perché sta fisicamente sopra alla Circle Line, sul trincerone costruito centocinquant’anni fa, e quindi ogni due minuti trema tutto. Micky’s non è fighetto come Poppies, che non a caso sta nella parte gentrificata di East London o in alternativa a Camden (Camden! finti alternativi sin dagli anni ’80). Micky’s è un fish & chips grezzo, vero, operaio, originale e veracemente britannico, a partire dal fatto che è gestito da una famiglia di turchi.

E però entro, e per dieci sterline mi faccio dare un merluzzo fritto benissimo, competitivo con quello di Poppies: la pastella è più unta, ma il pesce è perfetto, ancora morbido dentro. Certo, il posto è scrauso, del resto siamo in Inghilterra e pure la regina ha la moquette nel cesso; son sottigliezze. Poi dietro di me entrano tre francesi che riescono a ordinare “chickén burgère” e Fanta. In un fish & chips. Volevo pisciargli io nel piatto, ma son sicuro che l’abbiano fatto i turchi giù in cucina.

Ma chi se ne importa! Adesso ho in corpo tutto l’olio del mare del Nord, a tenermi caldo nell’ultimo tratto a piedi fino all’albergo. Non so se avrò ancora tempo di fare un giretto, nei prossimi giorni; nel caso, potrei anche non raccontarvelo.

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giovedì 22 Febbraio 2018, 06:24

La regola del buffè

C’è una regola che dice che più fa schifo il cibo del buffè e più ne mangerai, preso da un istinto accaparratorio atavico acceso dalla scarsità. In questo caso, la serata sociale della conferenza ha lasciato a desiderare: non solo la sala era palesemente troppo piccola per tutti, non solo le due code erano troppo poche, ma delle sei opzioni in serie quattro erano impresentabili: un teorico panino di porco che dentro aveva solo insalata, un asparago bollito che mio dio non sono mica malato, riso bianco scondito che va giusto bene come padding per allineare gli spazi, e una roba di tofu e peperoni, mio Dio! tofu e peperoni, che solo in California possono essere così fighetti da mangiare sta roba, mentre nel resto degli Stati Uniti, e un po’ ovunque nel mondo civile, il tofu è cibo solo per mucche, comunisti e mucche comuniste (ma è un’ottima materia prima per la produzione degli pneumatici). Restavano i ravioli cinesi e il pollo, che infatti non facevano in tempo ad atterrare che venivano saccheggiati dalla folla. E non parliamo del bar! per avere una birra ho dovuto sgomitare che neanche un fantino al palio di Siena.

E comunque, l’albergo storico a cinque stelle proprio sulla cima di Snob Hill – è il posto dove hanno firmato lo statuto delle Nazioni Unite, per dire quanto è snob – offre solo la sala a tema isola polinesiana in cui ci troviamo. Per gli americani è una figata, ma boh: è talmente pigiata di gente che non si riesce a parlare, ti mettono al collo una ghirlanda di finti petali da cinque lire, e al centro c’è una piscina con una zattera su cui suona una band di cinesi – e penso che il batterista cinese che canta successi anni ’80, tipo Tutto Nylon di Laionel Ricci, o 666 di Mac & Jack, si stia comunque divertendo di più.

Ma non è un problema, che fuori c’è la città: l’unica vera città della California (San Francisco è una città, Los Angeles è una distesa di case). Ogni angolo è un panorama, ogni momento è un respiro di vento, ogni casa è una storia epica di frontiera e conquista e disastro e ricostruzione, e oggi anche di cinesi con QI > 150 che lavorano per Google. Basta mettere fuori il naso ed è subito meraviglia, specie su California Street, col tram a cavo che passa e anche quando non passa fa un casino tale che tiene sveglio il vicinato, ma è comunque un pezzo di Ottocento pionieristico proiettato verso il mare del Duemila.

Chissà se san Ginepro Serra, fondando la missione di San Francesco d’Assisi, avrebbe mai pensato che sarebbe finita così.

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