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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


giovedì 2 Agosto 2007, 22:01

Fine Veneto

Viaggiare, in questi giorni, è stressante; sono appena arrivato a casa, e già mi preparo per la sveglia alle tre di questa notte, per arrivare a Bergamo e prendere un volo Ryanair per Londra (che pur contando il viaggio si spende meno e ci sono orari molto migliori che da Caselle, ed è tutto dire) e andare a vedere la partita amichevole di sabato, Tottenham – Toro (saremo probabilmente circa un centinaio).

Nel frattempo, oltre a rinnovare le bestemmie perché mi è toccato il lavaggio del bagno – specie quando hai un compare che quando si pettina poi scrolla la spazzola sul pavimento: peli e capelli ovunque – vorrei cogliere l’occasione per mandare a cagare il tizio targato MInchione che, mentre io galleggiavo tra Bergamo e Milano in una fila di cinquanta chilometri di auto impilate sulla corsia di sinistra tra i cento e i centotrenta, mi ha sorpassato a destra per poi inchiodare e infilarsi davanti a me nello spazio destinato a distanza di sicurezza. C’è del marcio in Lombardia.

Bon, sarò offline fino a domenica notte, quindi vi lascio con le due foto della settimana: la prima da Marostica; vediamo chi ne capisce la (peraltro ovvia) origine. La seconda invece viene dai cessi del parcheggio pubblico di Bassano, sullo stile del perseveratore: ma come parlano in Veneto?

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martedì 31 Luglio 2007, 23:19

Castelloni di San Marco

Oggi a colazione abbiamo rifatto i pancake, solo di più, perchè secondo alcuni ieri erano pochi; e così, verso mezzogiorno, mi sono alzato da tavola piegato sotto qualche chilo di nutella e marmellata. Stante che nessuno aveva programmi per la giornata a parte leggere e giocare con i videogiochi, ho deciso di fare la mia seconda escursione; ho preso la macchina e mi sono nuovamente infilato su per le valli e attraverso lo sterrato dell’altra volta, per parcheggiare qualche chilometro prima, nella conca a quota 1560 detta Tiffgruba, e dirigermi verso i Castelloni di San Marco, di cui la guida ai sentieri parlava bene.

Il percorso è marcato abbastanza chiaramente con segni bianco-rossi numero 845, e sale secco in mezzo al bosco per i primi venti minuti, fino a sfociare nella conca di una malga (dove, ho scoperto, arrivava anche la strada; mi sarei potuto risparmiare un po’ di fatica). Da lì, scendendo e salendo, si arriva dopo tre quarti d’ora alla base della montagna; certo che mi chiedo perchè lo chiamino altipiano, visto che qualsiasi percorso che vada dal punto A al punto B di pari quota sul livello del mare prevede comunque un 50-100 metri di dislivello a chilometro…

Io ho deciso di prendere la montagna dal lato ovest, in verso contrario a quello normalmente consigliato, perché poi pianificavo una deviazione dall’altra parte una volta disceso. Ho capito tardi che consigliavano l’altro verso perché da quella parte la salita è quasi verticale, una mezz’ora scarsa di arrampicata da capre nella parte alta del bosco. Evitando in qualche modo le residue trincee, si sbuca poi proprio sulla cima, poco sopra i 1800 metri, dove una piccola lapide ricorda un altro gruppo di caduti del ’15-’18.

Di lì, si entra nel labirinto dei Castelloni, che si è rivelato un eccezionale insieme di formazioni geologiche naturali: sono dei canaloni alti una decina di metri e larghi mezzo a dir tanto, scavati dall’acqua e rifiniti dall’uomo come costruzione difensiva, aggiungendo anche gallerie, scalinate e collegamenti vari. Spesso, qualche gigantesco masso si è staccato dalle parti alte ed è finito incastrato sopra i passaggi, alle volte facendo da tetto, altre scendendo fin sul sentiero e costringendo il passante ad abbassare la testa.

Insomma, è una specie di dungeon a cielo aperto, in cui è facilissimo perdersi: per questo hanno segnalato il percorso di attraversamento con delle frecce numerate da 1 a 48. Sfortunatamente, l’hanno segnalato in un verso solo, quello opposto al mio: per cui ho dovuto ripercorrere il labirinto cercando ogni volta la freccia precedente, intuendo ai vari incroci la direzione da come era orientata la freccia, ma sbagliando strada lo stesso parecchie volte. Ogni tanto si sbuca su qualche balconata, normalmente attrezzata come postazione da mitragliere o da artiglieria pesante, che dà o sull’interno dell’altopiano, visibile per chilometri, o sullo strapiombo della Valsugana, circa 1500 metri in verticale a un passo dal sentiero. Il tutto, percorso in solitaria e nel silenzio più assoluto, è stato davvero molto divertente, spesso con il brivido di non capire come uscire dal punto in cui ero finito.

Scendendo dall’altro lato, ho deciso di fare la deviazione verso i cippi: difatti, proprio ad est della montagna comincia una parte di altipiano che, incredibilmente, fa parte del Trentino, ed appartiene a Grigno, paese della Valsugana, da cui i locali usavano arrampicarsi sulla parete grazie a un sentiero impossibile, per usufruire dei boschi e dei pascoli. Dopo una serie secolare di scontri con gli abitanti dell’altipiano, nel 1752 la disputa territoriale su quale fosse la parte di bosco che spettava alla Valsugana fu risolta da un convegno a Rovereto; furono quindi installati dei cippi di pietra per marcare la linea di confine tuttora vigente tra Veneto e Trentino, anche se allora era ovviamente il confine tra Repubblica di Venezia e Impero Austro-Ungarico.

Il cippo numero 2 sta praticamente sulla strada forestale che scende dai Castelloni verso Enego; è indicato chiaramente dalle tabelle commemorative, ma anche dal cartello che tuttora segnala il cambiamento di Regione, principalmente per ricordare che chi è abilitato a raccogliere funghi di là potrebbe non esserlo di qua. Lungo il confine si snoda un breve sentiero nel bosco che porta al cippo numero 1, quello commemorativo; difatti, duecentocinquanta anni fa presero un roccione che sporgeva sullo strapiombo della Valsugana, in un posto da brivido, e ci incisero sopra a scalpello la linea di confine, i simboli dei due stati (ora perduti) e l’anno. Ho dovuto controllare le vertigini per fare le foto…

Esaltato dalla scoperta topo-storica, ho deciso di allungare ancora il giro e di arrivare ancora al cippo numero 3; in teoria un percorso facile, scendendo in Trentino sulla strada forestale e poi prendendo un sentiero che diparte dal tornante. Peccato che del sentiero non vi fosse traccia; così ho cominciato a percorrere il bosco a mezza via, ritrovando poi il confine, e scendendo lungo di esso fino al terzo cippo.

Fin qui, tutto bene; però poi dovevo risalire lungo il sentiero che, stando alla cartina, passava dal cippo e intersecava poi il successivo percorso marcato numero 869. Sfortunatamente anche questo sentiero si è rivelato essere un insieme di tracce devastate da alberi caduti o abbattuti, e in generale poco riconoscibili. A un certo punto, in sostanza, mi sono messo a vagare nel bosco cercando di mantenere la quota e sperando di incrociare prima o poi un sentiero marcato, dovendo nel contempo aprirmi un varco tra ostacoli di vario genere. Da una parte stavo disperando, visto che ero ormai in marcia da quattro ore; dall’altra è stato davvero affascinante, vista la totale assenza di tracce umane.

Alla fine, spinto in salita dal terreno, sono sbucato in una radura assolutamente magica; mi sono rilassato un attimo, godendomi il sole che sbucava in mezzo al buio degli alberi. Probabilmente proprio per questo, dopo cinque minuti che ero fermo lì, sono apparsi i marcatori del sentiero di attraversamento, che a prima vista non sembravano esserci. Tutto contento per aver ritrovato la via, mi son messo a scendere, pur se con qualche esitazione perché quest’altro sentiero era poco battuto e marcato al risparmio, con segni di via veramente radi.

Comunque, sono sbucato duecento metri più in basso, all’inizio di una strada forestale digradante nel bosco. In teoria avrei dovuto tagliare verso ovest dopo un po’, ma erano ormai le cinque e mezza, stava venendo buio, e l’idea di ritrovarmi di nuovo in mezzo a chilometri di bosco non pulito, senza punti di riferimento e col tramonto incombente, non mi sembrava particolarmente furba. Così, ho deciso di fare il percorso più lungo seguendo la strada, un oggetto che ha l’interessante proprietà – specialmente se preso dal suo capo a monte – di portare sicuramente da qualche parte.

Ho comunque rischiato di nuovo, perchè ho lasciato la strada per andare a fotografare il cippo numero 5, che sta a poche decine di metri da essa, nella accogliente conca della Busa Scura (nomen omen – sembrava il bosco maledetto dei videogiochi). Esso è interessante per i ruderi della casermetta della Guardia di Finanza che fungeva da posto di confine, finché, dopo il 1918, il confine non ci fu più e l’edificio fu abbandonato e crollò. Da qui si doveva tornare sulla strada mediante un breve tratto a mezza costa; se non che, la strada che ho incrociato pareva stranamente peggio messa di quella che avevo lasciato pochi minuti prima, e soprattutto faceva un vertiginoso curvone in discesa che mi lasciava col sole alle spalle. Per fortuna, sapendo di dover andare a ovest, mi son detto che il sole era nel posto sbagliato e sono tornato su, per scoprire che nel tratto di massimo duecento metri che avevo saltato c’era un bivio non segnalato, e che la mia strada era rimasta più su…

A questo punto, ho deciso che ero stanco e che non avrei abbandonato la strada per alcun motivo; sono disceso fino a quota 1400, e poi ho preso una strada laterale che, per una serie di tornanti, doveva riportarmi all’auto. Sono venuto meno alla mia promessa tagliando un paio di tornanti, rischiando di venire avviluppato nel buio tra abeti e arbusti: ben mi sta. Comunque, la salita su una strada forestale è sempre graduale e quindi ampiamente tollerabile anche dopo sei ore di cammino, e i 160 metri da risalire non mi sono pesati. Alla fine, però, cominciava a far freddo, erano le sei e mezza, non mangiavo nè bevevo da quando ero partito, e sono stato contento di arrivare all’auto.

Quando ho avviato la macchina, l’autoradio ripartita automaticamente a bassissimo volume mi è sembrata un rimbombo intollerabile. Ma la sorpresa maggiore è stata incrociare un fuoristrada mentre ripercorrevo in macchina lo sterrato per tornare giù: il primo essere umano da quando, cinque ore e mezza prima, avevo lasciato la malga. Di sicuro un’esperienza.

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venerdì 27 Luglio 2007, 23:51

Dolomiti

Oggi scrivo poco, perché abbiamo fatto un lungo giro di quattrocento chilometri su per i monti, e sono parecchio stanco. Partendo da Asiago verso le dieci e mezza, siamo scesi sul Lago di Levico per una strada impossibile, poi siamo entrati in autostrada a Trento, ci siamo fermati all’autogrill per il pasto di metà mattinata, poi siamo usciti a Chiusa Gardena, e risalendo per tutta la val Gardena siamo arrivati al passo Sella all’una e mezza. Ci siamo poi fermati sulla discesa per mangiare le nostre cibarie, siamo risaliti al Pordoi e abbiamo preso la funivia fino alla cima, a quasi tremila metri, dove abbiamo fatto il pasto di metà pomeriggio. Ripartendo alle cinque meno un quarto siamo scesi dall’altro lato e poi siamo venuti giù per tutta la valle del Cordevole, fermandoci ad Alleghe per comprare il pane. Superate alcune decine di stabilimenti Luxottica, siamo arrivati in pianura a Belluno e abbiamo percorso l’ampia vallata del Piave per poi risalire sull’altipiano a Enego e riattraversarlo tutto.

La prima nota è che la statale 50 da Belluno a Feltre è la tipica strada pedemontana veneta, un vialetto di campagna sommerso di capannoni, camion e un traffico insostenibile, che si fa tutta a quaranta all’ora in attesa che si sveglino a fare un’autostrada. Tutto il resto del percorso, però, è stato molto divertente da guidare.

E poi, il sopra del gruppo del Sella è un posto lunare, una specie di altipiano sassoso a tremila metri dove non c’è altro che roccia. C’ero stato quindici anni fa, era inizio settembre ed era coperto di neve; oggi è soltanto una distesa di sassi, e ho trovato una lingua di ghiaccio solo cercandola bene, dopo mezz’ora di camminata. Però così è ancora più straniante, un posto nascosto dove varrebbe la pena di perdersi per qualche giorno a pensare.

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domenica 1 Luglio 2007, 09:13

Sicurezze

Dev’esserci qualcosa che non va, visto che il blog sembra morto da un po’. In compenso, Iberia offre parecchi terminali Internet gratuiti nelle lussuose lounge del nuovo terminale 4 di Barajas, per cui posso postare da qui, in attesa di riprendere un aereo per Torino. Il nuovo terminale di Barajas è molto spagnolo: nuovissimo, bellissimo, sinuoso, e progettato dagli imitatori di Picasso e Dalì, nel senso che i percorsi interni sono quanto di meno razionale e più labirintico si potesse pensare, metafisicamente imperscrutabili. Non a caso ci vanno venticinque minuti (compreso un treno sotterraneo e parecchie scale mobili sia in su che in giù) per arrivare da un gate a un’altro…

Il volo è stato tranquillo, anche se, tornando dai Caraibi, ci sono a malapena tre ore per dormire. Ho scoperto di essere sullo stesso volo della mia nuova collega di ALAC, moldava; così abbiamo condiviso l’attesa e l’uscita (il volo no, visto che io ero in business, e mi sono ritrovato accanto al rappresentante in ICANN del governo olandese, la cui sorella lavora… a Torino in Fiat Veicoli Commerciali). Ecco, non ho mai apprezzato tanto il fatto di essere maschio, e dell’Unione Europea. Maschio, perchè posso attraversare un aeroporto senza dovermi fermare per almeno dieci minuti a ciascuno dei negozi sul percorso; dell’Unione Europea, perchè non mi trattano come hanno trattato lei.

Alla partenza da San Juan, infatti, hanno subito notato il colore strano del suo passaporto; al controllo di sicurezza – che ora prevede, oltre al metal detector senza scarpe, una macchina che spara soffietti d’aria su tutto il corpo, e non chiedetemi a cosa serva – le hanno fatto posare i “liquidi”, tra cui un profumo e un rossetto. Lei non ha gradito, anche perchè il profumo costava un mese di stipendio medio moldavo (circa 70 euro). Le hanno detto, nel modo più sgarbato possibile, che avrebbe potuto tenerlo se fosse uscita dalla zona airside e se avesse trovato un negozio che potesse venderle una busta trasparente, rifacendo poi tutti i controlli di sicurezza. Perdipiù, c’era un bel cartello evidente che mostrava “Security level Orange – High risk of terrorist attacks”, così erano tutti preoccupati… Alla fine, dopo un mezzo litigio, lei ha ceduto; per tirarla su, io, latinamente, sono riuscito a farla entrare con me nella business lounge anche se lei era in economy.

All’arrivo a Madrid, invece, io sono passato dalla coda veloce (esseri umani con passaporto rosso) e lei è finita nella massa aggrovigliata di americani in punizione (facciamo a loro quel che loro fanno a noi) ed esseri umani che ricadono nella nazionalità “altro”. La coda lunga era comunque piuttosto veloce, e io mi sono messo ad aspettare dietro i botteghini del controllo, cercando persino di occhieggiare il software sui PC. Nel giro di trenta secondi, è arrivato un ragazzo in borghese, mi ha mostrato il distintivo e mi ha pregato (in spagnolo, ma molto gentilmente) di andare ad aspettare più avanti. Ormai smascherato, cinque metri più avanti l’ufficiale in divisa mi ha fermato e mi ha chiesto da dove venivo; naturalmente l’indicazione “Puerto Rico” non ha risollevato gli animi. Così mi ha fatto una serie di domande, poi mi ha lasciato andare, poi mi ha inseguito perché gli sembrava di vedere qualcosa nei miei pantaloni; mi ha non-perquisito (cioè, mi ha comunicato con lo sguardo di sapere di non potermi perquisire ma di avere gran desiderio che io volontariamente mettessi le sue mani sui miei pantaloni, cosa che ho fatto nel modo meno equivoco possibile) e poi mi ha lasciato andare.

Nel frattempo, la mia collega era già quasi al controllo; peccato che quando è arrivata lei il sistema è andato in tilt. Difatti, dalla Moldova c’è bisogno del visto per qualsiasi destinazione, e lei, che da Madrid transitava soltanto, non aveva quello per la Spagna; e il razionale aeroporto di Barajas pare non avere un percorso separato per il puro transito. L’ho vista discutere per una decina di minuti, con una massa urlante dietro, poi mi sono girato e sono spariti sia lei che il poliziotto; dopo cinque minuti è tornato solo il poliziotto. Per scrupolo ho aspettato ancora un quarto d’ora, poi mi sono rassegnato e sono andato verso la mia sala VIP; purtroppo, mi sono ricordato troppo tardi di avvertirla che in Spagna i moldavi senza visto vengono cremati all’ingresso. Peccato, era simpatica.

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domenica 24 Giugno 2007, 03:01

Sì, viaggiare

Lo sapevo, che questo viaggio doveva andare un po’ storto. Avevo un presentimento mentre mettevo le cose in valigia e ad ogni maglietta mi fermavo e pensavo: no, questa no, che se poi perdo la valigia? E difatti, io a Portorico sono arrivato, ma la valigia no: anche se, dopo una simpatica telefonata a dieci minuti di musichina registrata, sono riuscito a sapere che esiste e dovrebbe arrivare domani.

Iberia, però, mi è piuttosto scaduta in questo viaggio: il volo da Torino è partito oltre mezz’ora in ritardo senza un motivo plausibile. Il volo da Madrid è stato imbarcato alla latina – la signorina leggeva il messaggio standard in cui si invitavano ad imbarcare le famiglie con bambini piccoli, poi la business class, poi le file posteriori, e nel frattempo la gente si faceva largo a gomitate in ordine qualsiasi – e l’aereo dimostrava una trentina d’anni, oltre a presentare un child rate (rapporto bambini / adulti tra i passeggeri) tendente a uno; c’erano persino due o tre cani. Mi sono ritrovato a fianco di Desiree Milosevic e quindi ci siamo scambiati opinioni varie su ICANN, sul mondo e sulla ex Jugoslavia; i miei pasti però sono stati scarsini, e i suoi vegetariani una tristezza bollita. E infine, siamo arrivati in un aeroporto piuttosto fatiscente in cui nessuno, a parte la guardia di confine, parla inglese.

Già, perchè Portorico è Stati Uniti solo di nome; per il resto, tutti parlano spagnolo, punto. Persino sulla caserma della National Guard c’è scritto “Bienvenido!”. Per esempio, la suddetta telefonata al numero verde del servizio bagagli dell’aeroporto si è svolta così: un minuto di voce registrata in spagnolo, che ti dice che se hai perso un bagaglio devi premere uno, e se telefoni per qualsiasi altro motivo devi premere due (è una domanda trabocchetto, se premi due presumo ti riattacchi in faccia). Poi, alla fine, una frasetta in inglese che dice: se vuoi parlare in inglese premi tre. Io premo tre, aspetto dieci minuti, e alla fine risponde un umano con lo standard “how can I help you?”, però con un accento spagnolissimo. Io spiego che ho perso un bagaglio, e l’altro dice: “el nombre?”. Eccetera.

Insomma, per ora si conferma il presagio secondo cui San Juan sarebbe degradata come una città sudamericana, ma antipatica come una città nordamericana. L’albergo, peraltro, è una specie di Club Med di lusso, con ragazzini texani gonfi di estrogeni che vomitano ubriachi sul tappeto del corridoio, e la musica techno sparata altissima nel cortile; avrei dovuto capire che buttava male quando ho notato che la scritta “Caribe Hilton” non è nel font aziendale dell’Hilton, ma in quello del Corte Inglés!

Bon; non facciamola tanto grave, visto che Iberia almeno mi ha dato una simpatica borsetta con pettine, deodorante, rasoio monolama di quelli da disboscamento per gambe femminili, e una maglietta per la notte. Anzi, vi attacco la foto della vista dalla mia camera d’albergo, e poi vado a dormire (tecnicamente, sono in piedi da 22 ore); e chi se ne frega se stasera è la notte di San Giovanni, e verso mezzanotte tutti si butteranno in mare tre volte all’indietro per invocar fortuna. Prometto che domani, per il mio primo meeting (colazione di lavoro alle 7:00 a.m.), sarò radioso anche con la maglietta sudata.

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martedì 15 Maggio 2007, 22:40

Cose molto stupide

Ogni tanto capita, di fare delle cose stupide quando si è in viaggio. A me è successo ierioggi (lunedì e martedì per me sono stati una giornata sola, intervallata da cinque o sei ore di sonno a spezzoni sulla poltrona raddrizzata della business Lufthansa).

Già dovevo capire che non era giornata quando ho ordinato due birre per me e il mio compare Roberto, e la cameriera mi ha chiesto dieci dollari: io le ho dato venti, e lei mi ha riportato il resto sotto forma di una banconota da cinque e cinque da uno. Io la guardo un po’ strana, penso che debba disfarsi degli spiccioli, intasco e vado a sedermi. Lei mi guarda malissimo. A quel punto Roberto tira fuori un dollaro e glielo dà… ecco, non pensavo che negli Stati Uniti la mancia facoltativa obbligatoria vigesse anche al bancone dei pub irlandesi.

Comunque, subito dopo siamo andati al mio albergo a riprendere i bagagli per andare in aeroporto: in previsione della giornata in giro, avevo chiuso anche la borsa del computer dentro la valigia, a sua volta chiusa a chiave e lasciata all’hotel. L’avrò fatto sì e no due volte in sette anni di viaggi continui, perché non mi piace molto lasciare il computer in albergo, persino se l’albergo è di livello e ha tanto di talloncini e deposito chiuso a chiave.

E proprio questa volta, la chiave della valigia ha deciso di uscire in qualche modo dalla taschina del portafoglio dove la tengo, e perdersi nel nulla.

Dico proprio questa volta, perchè naturalmente io viaggio con una seconda chiave della valigia, che, per ridondanza, sta in un luogo separato rispetto al portafoglio e/o alle mie tasche… ovvero, nella borsa del computer. E no, non ci ho proprio pensato, quando ho chiuso il portatile in valigia al mattino, pure un po’ di corsa dovendo prendere il tram F per andare a imbarcarmi per Alcatraz, che sarebbe stato meglio prendere la seconda chiave anziché lasciarla dentro.

A quel punto, naturalmente ho cercato per ogni dove per dieci minuti, poi ho chiesto al concierge se avessero trovato la chiave nella mia stanza, ma nulla. Mi hanno chiamato un fabbro, che mi ha spiegato che poteva provare ad aprire la valigia per forza bruta, ma poi non si sarebbe richiusa; o a tagliare la cerniera, nel qual caso c’erano speranze di poterla poi risistemare. Tuttavia, il rischio di rimanere lì coi bagagli spatasciati e l’aereo in partenza era elevato; e ho deciso che valeva invece la pena di correre l’altro rischio, quello di imbarcare il tutto as is, col computer chiuso dentro: in fondo, la valigia è rigida e il portatile era dentro la borsa.

Ho incrociato le dita per tutto il viaggio, temendo di non veder spuntare la valigia, o di vederla spuntare spaccata e senza computer, o di vederla arrivare e scoprire poi che il computer non aveva retto alle bottazze dei gentili scaricatori d’aeroporto. In subordine, ero preparato a fare una scena alla Fantozzi alla dogana di Caselle, quando mi avrebbero chiesto di aprire la valigia per controllare il contenuto. E poi, anche giunti a casa con la valigia, restava comunque il problema di aprirla.

Eppure, non si è verificato nulla di tutto questo. La valigia, con tutti i suoi bei talloncini “priority” e “frequent traveller” (che da quando li ho messi compaiono segni di effrazione a ogni viaggio), è apparsa sul nastro addirittura per seconda, intatta. Nel corridoio in uscita di Caselle, mi sono astutamente infilato in mezzo a un gruppo che arrivava da Roma, e con passo deciso ho ignorato i finanzieri convincendoli ad ignorare anche me. A casa, c’erano effettivamente una terza e addirittura una quarta chiave, frutto di varie duplicazioni preventive. E il computer è partito al primo colpo, senza sembrare più malridotto di prima. Alleluja.

P.S. Colgo l’occasione per segnalare l’hotel dove ho dormito nella mia notte a San Francisco, il Chancellor Hotel: è centralissimo su Union Square, è di inizio ventesimo secolo ma rifatto a nuovo, sono stati gentilissimi – vedi sopra, ma anche per aver accettato di tenere il bagaglio di Roberto anche se non stava lì – e il tutto per 140 dollari a stanza a notte tasse comprese, che per un albergo di livello business in centro a San Francisco sono un affare, specie se siete in due. C’è persino il Wi-Fi compreso nel prezzo, almeno se riuscite a scrivere giusta la password in hex che vi detterà il concierge (lo ammetto, al primo colpo ho capito “8” al posto di “A”).

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lunedì 14 Maggio 2007, 07:32

Fatti notori

Lo sanno tutti, che la prima regola di San Francisco è che fa sempre molto più freddo di quel che sembra. C’è scritto sulle guide, e lo si nota dalla quantità di negozi e bancarelle che vendono giacche e maglioni: il vento che spira dall’oceano è continuo e fortissimo, e il sole che splende in realtà non scalda per nulla. Eppure ho detto: ma che bella giornata, non c’è mica bisogno che mi metta della giacca!

Certo, poi è successo che la passeggiata di un paio d’ore che ho intrapreso all’ora di pranzo si è estesa fino a dopo cena, visto che mentre camminavo ho incontrato per caso Roberto con il suo amico (loro dovevano essere a Palo Alto, e noi avevamo appuntamento per domani). Dev’essere lui a generare questi incontri casuali, visto che ci eravamo incontrati per caso anche a Dublino, in un ristorante di Temple Bar, tanti anni fa. Comunque, questa vicenda ha esasperato la situazione, e così, dopo cena, mi hanno dovuto riportare fino a Union Square in macchina… perchè altrimenti sarei finito assiderato!

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domenica 13 Maggio 2007, 05:58

Gli americani sì che sanno

Il mio albergo, nonostante abbia una vista che dà nientepopodimenoché sull’autostrada 101, è un hotel a cinque stelle di quelli americani: solo per bianchi e per saltuari neri arricchiti. E’ un hotel talmente lussuoso che la camera è grande come un appartamento, con un bagno di marmo che ha sia la doccia che la vasca, separate. E’ un hotel talmente fine che a colazione non c’è un volgare buffet, ma ti siedi al tavolo come al ristorante, e viene un cameriere a chiederti come vuoi le tue uova oggi (due uova e due fettine di bacon, quattordici dollari).

Un hotel così fine non può non avere i suoi house organ. C’è una rivista che sembra For Men, piena zeppa di pubblicità di auto di lusso (per lui) e vestiti di lusso (per lei), con modelle anoressiche che sfoggiano Prada e servizi sulle Bugatti Veyron; e la pubblicità di Loro Piana che vanta maglioni di cashmere fatti con la lana degli agnellini. E poi, c’è una rivista di cucina, che intervista i migliori chef del mondo.

In questo numero, c’è l’intervista a una presunta cuoca friulana, ritratta insieme alla figlia, che dovrebbe darle consigli storiografici. Oddio, a vedere la foto, sembrano due tipe dell’Arkansas, un po’ strappone; e allora viene qualche sospetto. Infatti, vado avanti a leggere, e mi trovo davanti a una sconcertante dichiarazione: il piatto presentato ha tre componenti, che secondo la cuoca sarebbero stati scelti in onore delle tre contee della sua regione.

Ora, che si possa parlare di contee in Italia è quanto meno strano, ma quali sono le tre contee del Friuli-Venezia Giulia? Beh, è chiaramente spiegato nel resto dell’articolo: sono Friuli, Venezia e Giulia. Ah, beh: scemi noi che non ci eravamo arrivati da soli.

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venerdì 11 Maggio 2007, 07:41

Ancora!

Metto a verbale che il momento in cui sono finalmente entrato in albergo risale a non più di dieci minuti fa: non so che ore siano in realtà, qui l’orologio dice le dieci e un quarto di sera. Essendo uscito di casa stamattina alle nove e mezza, se non sono ventiquattro ore di viaggio sono almeno ventidue.

Mi stupisco sempre di come faccia il corpo a resistere a questa innaturale giornata di trentatre ore; dopo un po’, il tempo semplicemente collassa, e si entra in un tunnel spaziotemporale dilatato indefinitamente. Ho anche lavorato, ho guardato The Pursuit of Happyness (decisamente meglio di come mi aspettavo, anzi complimenti a Will Smith che prende un polpettone dal messaggio dubbio – lui è infelice perchè non ha soldi, poi diventa ricco quindi è felice – e riesce a renderlo credibile e persino emotivamente coinvolgente; tuttavia, Smith è talmente mattatore che immagino abbiano preso Muccino solo perchè scrivere “regia del mio gatto Fuffi” pareva brutto).

La business class Lufthansa è una mezza delusione, anche se è sempre molto meglio che pigiarsi in economy. Ti mettono su una sedia motorizzata in ogni direzione, che quando ci sei sopra ti senti il protagonista della pubblicità delle auto che diventano robot; schiacci un bottone ed essa contemporaneamente si allunga, si allarga, si appiattisce e si gira per mettersi in posizione “relax”. Però, la presa di corrente non accetta prese tedesche (!); la presa Ethernet è finta; c’è il video on demand invece dei film a ciclo continuo, ma fa poca differenza, e poi l’action thriller di Bollywood con una figona senza senso era disponibile solo in hindi. Inoltre, il servizio del pranzo, che è circa lo stesso dell’economy ma servito con tovaglioli e cerimonie, dura come un matrimonio: a un certo punto volevo chiedere se almeno mi davano insieme lo ius primae noctis su una delle hostess.

Soprattutto, già a Caselle, causa due ore di ritardo del Torino-Francoforte, mi hanno dumpato in automatico sul Monaco – San Francisco di due ore dopo; io ho cercato di avvertire l’organizzazione di ICANN in vari modi, e pietendo la hostess lei è andata dal capitano col numero di cellulare austriaco di Roberto Gaetano, che è stato faxato alla torre di controllo, che gli ha telefonato e gli ha lasciato un messaggio in segreteria. Tutto inutile: a SFO, passata l’immigrazione e la dogana, non c’era nessuno ad attendermi.

Ora, cosa fareste voi se vi trovaste a SFO alle sette e mezza di sera, con in mano solo l’indicazione Four Seasons Hotel di Palo Alto? Beh, saltereste sul taxi; ma a me di far spendere a ICANN tra gli ottanta e i cento dollari di taxi non andava, e in più mi piacciono i treni. Così, mi sono fidato dei pannelli (lo scortesissimo bigliettaio mi ha persino diretto alla macchinetta automatica per fare i biglietti, che non aveva voglia di farlo lui) secondo cui con una fermata di Bart potevo poi, con cinque minuti di attesa, prendere il Caltrain fino a Palo Alto Centrale.

Mi sono così avvicinato incuriosito al Bart – che in The Pursuit of Happyness, che è ambientato nel 1981, si vede in quasi ogni scena – e pota, ho capito come hanno risparmiato sul film: ci sono ancora le stesse carrozze del 1981! E non le puliscono dal 1981! Noi ci lamentiamo dei nostri trasporti pubblici, ma dovreste vedere quelli americani. In più, ovviamente il mio treno aveva cinque minuti di ritardo: per cui mi son visto sfilare la coincidenza sotto il naso – mentre facevo il secondo biglietto alla macchinetta, che sono due società separate e ben si guardano dall’accordarsi, che poi sarebbe un cartello oligopolistico! – e ovviamente il treno della seconda compagnia mica aspetta la coincidenza con quello della prima, anzi se può parte più di corsa ancora, perchè la gente s’incazzi con gli altri per il ritardo. Quello successivo, ovviamente, era dopo soli 68 minuti.

Così, ho festeggiato il tramonto in un venticello tiepido che è poi divenuto una bora gelida, alla stazione d’interscambio di Millbrae. Ho preso il Caltrain, sono sceso a Palo Alto, e… oddio, di taxi neanche l’ombra! Non ho una mappa, non ho un indirizzo, sono in un parcheggio di periferia… qui butta maluccio. Vado alla fermata degli autobus per chiedere informazioni, ma della decina di presenti solo due parlavano anche inglese, tutti gli altri solo spagnolo, al massimo potevo chiedergli del coche fantastico.

Così mi sono diretto a piedi verso [Stanford] University Avenue, sperando di incocciare in un taxi. Ma ero talmente fuso che ho fermato due ragazzi per la strada per chiedere dove era una fermata dei taxi, e loro mi hanno fatto notare che ne avevo due a cinque metri da me… E però, questa è stata la nota positiva della giornata: perchè il tassista era nero e somalo, quindi amante degli italiani, e abbiamo passato il viaggio a sparlare degli Stati Uniti. Breaking news, i neri vivono di merda pure in California. Alla fine gli ho dato una mancia del cinquanta per cento, e sono entrato nel mio lussuosissimo alberghissimo dalla puzza sotto il naso, col ristorante finto italiano e gli stuoli di cameriere in divisa che negli occhi hanno l’inconsapevole palpito represso della rivoluzione che prima o poi verrà, quando sarà divenuto consapevole.

Nel frattempo, io vado a farmi la doccia e poi a letto senza cena: anche perchè, ad essere precisi, oggi ho comunque fatto una colazione, tre pranzi, una merenda e una cena, anche se sulla nomenclatura ci sarebbe da discutere. Buona… boh, quello che è lì da voi.

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giovedì 3 Maggio 2007, 17:39

Monaco

Non ero mai stato a Monaco, se non all’aeroporto; questa volta invece ho avuto la possibilità di visitare la città.

L’esito è senz’altro positivo, ma per motivi forse diversi da ciò che ci si aspetterebbe. Come la maggior parte delle città tedesche, Monaco è priva di monumenti di vero rilievo e quei pochi che ci sono sono in gran parte ricostruiti. Non c’è, insomma, una torre Eiffel o una Sagrada Familia, ma nemmeno un British Museum. C’è, però, una atmosfera piacevole, da città medievale nella parte più centrale, ma comunque molto verde.

Il trucco, quindi, è non andare a Monaco per vedere qualcosa, ma per godersi la situazione, camminare per le strade, e apprezzare la vita. Che, certo, non è economica, come nulla a Monaco; credo di non aver visto tanta diffusa (relativamente alle zone centrali e semicentrali) e visibile ricchezza in alcuna altra città d’Europa; nelle vie clou, è un susseguirsi di negozi di lusso con davanti parcheggiate una sequenza di AudiPorscheBMW – Porsche – Porsche – BMW – Porsche. Ma alla fine, per qualche giorno, si può fare.

E poi, l’attrattiva principale è quella culinaria: per me che apprezzo la carne in vari modi, è stato un susseguirsi di wurstel di ogni genere – nulla a che vedere con quelli confezionati nostrani – inframmezzati da arrosti e stinchi e contornati da patate; e mi sono piaciuti persino i crauti! Su di tutto, ampie dosi di birra, che non è particolarmente economica – il litrozzo costa tra i sei e i sette euro, e in certi locali non servono misure inferiori – ma è varia e buona.

Soprattutto, ho scoperto una cosa eccezionale: il panino con dentro una fetta di cipolla fresca – magari anche un cetriolo – e un trancio di aringa marinata. Non l’avrei mai detto, e invece è subito diventata una passione: cercherò aringhe alla Bismarck per ogni dove.

L’unica nota negativa è invece relativa alla voglia di lavorare dei tedeschi: voglio dire, era il primo maggio, ponte in tutta Europa, la città era piena di turisti… e loro hanno chiuso tutto. Menzione speciale per la pinacoteca, il museo più rinomato della città, che ha chiuso lunedì perchè era lunedì, e martedì perchè era il primo maggio: customer orientation, saltami addosso. Non ci si stupisce che le aziende tedesche spostino le fabbriche in Ungheria.

Nel frattempo, io mi segno sul calendario le date dell’Oktoberfest.

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