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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


lunedì 29 Agosto 2011, 15:52

Guidare negli Stati Uniti (2) – La disciplina

Il secondo elemento fondamentale della guida americana è in realtà tipico della società americana nel suo complesso: la disciplina. Gli Stati Uniti funzionano per procedure: qualcuno ha già pianificato in anticipo tutto ciò che può succedere e definito esattamente come ci si deve comportare nei vari casi. Questo è vero sul lavoro, nella burocrazia, persino nei rapporti interpersonali (non dimenticate che al saluto si risponde “hello, how are you today?” a cui si risponde “fine, thank you”; il protocollo non prevede risposte diverse da “fine”). Ed è vero sulle strade.

Il traffico americano è dunque “microgestito”. Tutte le strade sono chiaramente divise in corsie, ognuna delle quali ha una chiara indicazione sulle direzioni permesse all’incrocio successivo. Se per caso l’incrocio ha delle caratteristiche strane che potrebbero creare pericolo, sui pali del semaforo saranno affissi cartelli con lunghe e dettagliate prescrizioni scritte di procedure aggiuntive, per esempio “DO NOT BLOCK INTERSECTION” (non occupare l’incrocio in caso di coda), “LEFT TURN YIELD ON GREEN” (se girate a sinistra col verde date la precedenza al traffico che arriva nel senso opposto) oppure “NO U TURN” (vietata inversione di marcia).

Qualsiasi situazione è prevista e pianificata: per esempio, da quando esiste Lance Armstrong, gli americani hanno cominciato ad andare in bicicletta anche fuori città. Tuttavia, un ciclista in uno dei (rari) tunnel su una statale extraurbana è un pericolo; e allora hanno cominciato a installare all’ingresso dei tunnel una luce accompagnata da un cartello giallo con scritto “WARNING – CYCLISTS IN TUNNEL WHILE FLASHING”. Quando un ciclista arriva all’ingresso della galleria, schiaccia un bottone (c’è anche un cartello più piccolo con scritto “CYCLISTS PRESS BUTTON”) e la luce comincia a lampeggiare, così gli automobilisti sanno che incontreranno il ciclista nel tunnel.

Analogamente in California, nei lunghi tratti di statale stretta e tortuosa dove non si può superare, vengono predisposte ogni tanto delle piazzole (“turnout”) dove i veicoli lenti devono fermarsi per farsi passare da quelli più veloci che sono bloccati dietro. Per ogni piazzola, di solito c’è un cartello di preavviso più lontano, un cartello che ricorda a cosa serve la piazzola, un cartello che ricorda che non fermarsi alle piazzole è reato, un cartello che ricorda che reimmettendosi dalla piazzola bisogna dare la precedenza a chi arriva, un cartello di preavviso più vicino e infine, accanto al turnout, un cartello con scritto “TURNOUT”. Più chiaro di così…

L’americano medio è abituato a seguire le procedure, perché tutto questo – oltre a rendere effettivamente più tranquilla la navigazione – gli dà un caldo senso di certezza. Lo svantaggio di tutto questo, sulle strade come nella vita, è che se per caso si verifica una situazione non prevista dalla procedura l’americano sbarella completamente. Le possibili reazioni sono due: la negazione – non è possibile che questa situazione si sia verificata, dato che non è prevista dalla procedura, dunque non è possibile risolverla in alcun modo – e il panico.

Per esempio, supponete che a un incrocio cittadino scatti per voi il verde, ma che dal lato dell’incrocio sporga di un metro il retro di un’auto che è rimasta lì in mezzo, ferma dietro a una coda nell’altra direzione. Da noi questa è una situazione normale e si risolve partendo e aggirando l’auto ferma con un piccolo spostamento di lato nella direzione opposta. Per il guidatore americano, tuttavia, questo è un caso impossibile, perché nell’incrocio c’era sicuramente un cartello “DO NOT BLOCK INTERSECTION”: e dunque, non sa cosa fare.

Non potendo negare la situazione, il che lo porterebbe a partire e a centrare la macchina che non può essere dov’è, va in panico. L’idea di spostarsi leggermente a sinistra per aggirare l’auto ferma non viene nemmeno considerata, perché non c’è nessuna procedura che la preveda; per poterlo fare, servirebbe una procedura per invadere leggermente la corsia a fianco quando è libera, o peggio, se la strada ha una sola corsia per senso di marcia, invadere leggermente la corsia in direzione opposta quando non passa nessuno – una procedura che non può esistere perchè nessun americano potrebbe mai concepire di andare contromano, nemmeno in una città deserta dopo una esplosione nucleare. Non sapendo che fare, dunque, il guidatore americano medio sta fermo.

Ora, inserite in questo sistema un guidatore italiano, abituato ad arrangiarsi nel traffico e a considerare le indicazioni stradali come “interpretabili” (quanti di noi vanno veramente a 60 orari in mezzo ai cantieri in autostrada?) o come semplici consigli di massima, quando non delle pure e semplici rotture di scatole. E’ chiaro che questa scheggia impazzita, magari pure spaesata, un po’ persa e non perfettamente in grado di comprendere le indicazioni in inglese, può creare problemi di ogni genere. Nel caso precedente, ad esempio, un italiano che si trovasse dietro all’automobilista che nonostante il verde non parte penserebbe che egli abbia appena avuto un colpo di sonno, per cui si aggrapperà al volante ruotandolo per partire di storto e riuscire ad aggirare l’americano spostandosi di corsia… scatenando ulteriore panico in tutti gli americani presenti, per via della manovra assolutamente fuori da qualsiasi procedura.

Io ho cercato di comportarmi nel modo più americano possibile, ma qualcosa mi è sfuggito: per esempio, ho imboccato una strada in mezzo alla foresta e ho fatto inversione a metà bloccando il traffico, oppure, a Seattle, sono uscito allo svincolo sbagliato e ho dovuto capire dove girare per riprendere l’autostrada nel senso opposto. In quest’ultimo caso, avendo visto all’ultimo le indicazioni per l’autostrada mentre arrivavo al semaforo, mi sono spostato lateralmente di una corsia in un punto in cui le strisce per terra tra le corsie erano già continue… e un’auto dietro mi ha suonato, non perché abbiamo rischiato l’incidente – era parecchi metri indietro ed eravamo sostanzialmente fermi – ma perché il guidatore è andato in panico vedendo un’auto immettersi nella sua corsia in un modo non previsto dalle regole, infrangendo le sue certezze.

L’altra conseguenza di tutto questo si verifica quando, dopotutto, gli americani fanno qualche violazione. Alla fine sono esseri umani anche loro! Il problema è che, non avendo mai violato le procedure in vita loro, non hanno la minima capacità di valutare autonomamente la pericolosità o le conseguenze di ciò che stanno facendo. E’ per questo che così tanti americani vincono il Darwin Award: hanno il buon senso e la capacità di giudizio di un bambino di cinque anni, perché, a forza di seguire procedure già pronte, non li hanno mai esercitati. (E’ anche per questo che devono scrivere sui vestiti di toglierseli prima di stirarli e sulle tazze di caffé di fare attenzione perché potrebbe essere caldo.)

E così, succederà anche a voi, come è successo a me sulla discesa dal Grand Canyon verso Cameron, di imboccare a buona velocità un lungo curvone cieco in discesa, su una statale a una corsia per senso di marcia, e di trovarvi improvvisamente fermo in mezzo alla carreggiata un grosso SUV con il tettuccio aperto e un americano che spunta da sopra per fare la foto al meraviglioso panorama. Per fortuna nell’altro senso non arrivava nessuno, e dunque io ho potuto varcare la doppia striscia continua e superare il tizio nella corsia contromano – una manovra che un americano farebbe molta fatica a concepire in pochi secondi, dato che implica una violazione di regole. Se al mio posto ci fosse stato un locale, sono piuttosto sicuro che avrebbero fatto un incidente.

Oppure, succederà anche a voi, come è successo a me sulla costa della California settentrionale, di vedere un tizio davanti a voi che si ferma a bordo strada, a filo della carreggiata, e apre la porta per scendere e andare in spiaggia senza minimamente guardare se arriva qualcuno, costringendovi a scartare di botto per non investirlo; ok, fermarsi a bordo strada è una violazione, ma una volta che ci si è parcheggiati lì, perché guardare prima di aprire la porta? In una vita spesa a parcheggiare a lisca di pesce in mezzo ai piazzali, non è mai stato necessario farlo.

[tags]guida, auto, stati uniti, regole[/tags]

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domenica 28 Agosto 2011, 20:43

Guidare negli Stati Uniti (1) – Le auto

Come avrete notato, alla fine non ho scritto quasi nulla del mio viaggio di quest’anno, essenzialmente perché è stato talmente intenso che non ne ho avuto il tempo. Visto che alcuni dei miei lettori storici si sono lamentati, ho buttato giù velocemente un testo di alcune pagine, che pubblicherò a puntate. In superficie è un manuale per mettersi alla guida negli Stati Uniti, utile a chi prima o poi, per lavoro o per diporto, si trovasse a doverlo fare. In realtà, l’obiettivo è anche quello di descrivere in modo divertente le caratteristiche della società americana, e farvi viaggiare un po’ con il pensiero.

Introduzione

Guidare negli Stati Uniti, per un italiano, è un’esperienza molto particolare. Nonostante gli americani guidino dal lato giusto della strada e nonostante anche lì i semafori usino rosso, giallo e verde, questi sono più o meno i soli due punti in comune tra noi e loro. Il resto richiede al guidatore italiano uno sforzo di adattamento, che sarà peraltro centrato su un problema fondamentale: non addormentarsi al volante.

Avete presente il nostro stereotipo del vecchietto con cappello in testa alla guida di una fiammante Fiat 131, estratta dalla rimessa solo per il viaggetto della domenica, che viene in città a piazzarsi nella corsia centrale dei viali a 35 chilometri orari? Ecco, quello è il prototipo del guidatore americano medio, solo che sotto il sedere non ha una Fiat 131, ma un SUV da tre tonnellate. Gli americani al volante, visti da un italiano, giustificano una abbondante quantità di bestemmie e, se l’italiano ha confidenza con il lessico americano, l’uso frequente del termine “retarded”. Molti sono i fattori che spiegano un simile comportamento, ma i principali sono due: le auto e la disciplina.

Le auto americane

Le auto americane sono una dimostrazione pratica di cosa accada secondo l’evoluzionismo darwiniano quando individui di una stessa specie vengono improvvisamente divisi da un oceano di distanza e si sviluppano separatamente per molte generazioni: le auto americane infatti sono riconoscibilmente simili alle auto europee, ma presentano differenze profonde. Esse racchiudono in sè elementi presi con cura da tutti i veicoli del mondo: l’accelerazione di un camion, la manovrabilità di un camper, la parcheggiabilità di una limousine, la spaziosità di una utilitaria, i consumi di una Ferrari. Peggio ancora se, come successo a me, il vostro autonoleggio vi rifila un clone giapponese di un’auto americana (nello specifico, una Mitsubishi Galant).

Sicuramente, essendo europei, voi avrete chiesto al noleggio un’auto piccola. E loro vi daranno un’auto “piccola”, ovvero lunga sui cinque metri, di cui un metro orizzontale di cofano e un metro orizzontale di baule, dato che il concetto di portellone posteriore verticale là non è ancora arrivato; due tonnellate di lamiera di cui buona parte con funzioni essenzialmente estetiche, visto che l’abitabilità non è poi tanto migliore delle nostre berline (vi verrà il dubbio che gli americani valutino le auto in funzione della quantità di lamiera che contengono). Provate a fare manovra con un’auto così: è impossibile, perché non si vede dove finisce, né davanti né, soprattutto, indietro. Immaginatevi di dover mettere la retromarcia per entrare o uscire da un parcheggio: è un incubo, anche perché un’altra cosa che là non è arrivata sono i sensori di ostacolo in manovra.

Se vi state chiedendo allora come facciano gli americani ad andare in retromarcia, la risposta è semplice: non lo fanno. Tutto il sistema stradale è concepito in modo da evitare il più possibile l’uso della retromarcia, che avviene solo in situazioni dove il retro è tendenzialmente libero da ostacoli – ovvero, per uscire da parcheggi a lisca di pesce o dall’immancabile vialetto del garage della loro villetta suburbana. Le strade senza uscita, se appena è possibile, finiscono con un grande slargo o meglio ancora con una rotonda che vi permette di girare senza problemi.

Di conseguenza il parcheggio parallelo accanto al marciapiede, che da noi è la norma, negli Stati Uniti è meno frequente. Infatti, gli americani hanno risolto il problema del parcheggio urbano in modo molto semplice: abbattendo interi isolati dei centri cittadini e trasformandoli in sei piani di parcheggio a lisca di pesce. Immaginate di camminare per il centro di Torino dove però un isolato su quattro è stato sostituito da un autosilo: ecco, i centri americani sono generalmente così.

In alternativa, nelle zone appena un po’ meno centrali, semplicemente hanno abbattuto l’isolato per trasformarlo in un piazzale dove parcheggiare a pettine in file ordinate, come i nostri piazzali dei centri commerciali, ma in più protetti da filo spinato e con un messicano, nero o asiatico che riscuote la tariffa (di solito fissa, indipendentemente dalla durata della sosta) ed evita che vi vandalizzino la macchina (la notte però la guardia spesso se ne va e lì son cavoli vostri). In questo caso, l’americano medio non di rado si concede, pur con un po’ di paura, una manovra da brivido: se trova due posti contigui su due file affiancate, entra dal primo ma prosegue e si ferma nel secondo, perché poi così potrà uscire in avanti, evitando di mettere la temuta retromarcia.

Ad ogni modo, in molti centri urbani è previsto anche il parcheggio parallelo a bordo strada, ma solitamente è pieno di limitazioni, riportate in cartelli rettangolari piccoli piccoli che dovrete leggere con attenzione. Tipicamente, non solo si paga al più vicino parchimetro (ma si pagano anche i parcheggi-edificio, in generale per l’americano urbano è scontato che ogni movimento costi anche 10 o 15 dollari di sosta) ma vi sono limiti temporali (es. massimo due ore) e ore vietate (es. una notte a settimana per la pulizia strade); non di rado, la strada è riservata ai residenti. E soprattutto vengono disegnati sull’asfalto gli angoli dei singoli posti, riservando sette-otto metri per auto – quello che vi serve per uscire, e spesso anche entrare, senza dover fare retromarcia.

La seconda caratteristica delle auto americane che giustifica il comportamento alla guida è il cambio automatico. Se pensate di andare laggiù a guidare per qualche motivo, è bene che siate preparati – altrimenti vi troverete in un parcheggio a lisca di pesce con un addetto dell’autonoleggio che vi dice “ok, vada pure” e voi nell’imbarazzo di non sapere bene come far avanzare la macchina (successe a me nel 2000).

Il cambio automatico ha solo due posizioni utili, P (parcheggio) e D (guida, ovvero marcia avanti); per cambiare bisogna premere il pulsante sulla manopola del cambio e spostare la leva avanti o indietro (il nostro sistema a due file di posizioni è troppo complesso, la leva americana va solo avanti o indietro). La posizione di parcheggio equivale a lasciare la marcia inserita da fermi, e di solito la macchina non vi permetterà nemmeno di estrarre le chiavi se non l’avete messa. Esistono poi anche N (folle) e R (retromarcia), ma come detto non le usa nessuno. Non appena inserite la D, la macchina comincia a muoversi in avanti a passo d’uomo, al che voi potete reagire premendo il freno, per tenere la macchina ferma con la marcia inserita, o accelerando per partire veramente. Ovviamente non c’è il pedale della frizione, sostituito da un padellone per quello del freno che occupa quasi tutto lo spazio dei piedi.

Fin che siete in autostrada o in città e non dovete fare manovre particolari, il cambio automatico è una meraviglia: a patto di restare col freno premuto ai semafori, non dovrete mai cambiare. Anche le partenze in salita funzionano bene, permettendovi di girare per le strade di San Francisco senza problemi e senza dover usare il freno a mano. Le cose sono però diverse se vi trovate in situazioni dove avete bisogno di gestire voi il cambio – ad esempio una strada in salita, o un sorpasso fuori città. Lì, ovviamente, scattano le bestemmie, perché il vostro cambio automatico insisterà a farvi arrancare con una marcia troppo alta o si rifiuterà di scalare per darvi un po’ di ripresa fino a quando lo spazio per il sorpasso non sarà finito.

E poi, c’è il vero punto debole del cambio automatico: la discesa. Un cambio automatico si basa sulla velocità: quando la velocità aumenta, mette una marcia più alta per permettere di continuare l’accelerazione. Il problema è che il cambio automatico non è in grado di distinguere se la velocità sta aumentando perché voi volete accelerare, oppure se la velocità sta aumentando perché voi siete nel mezzo di una discesa verticale in mezzo alle montagne e vorreste solo riuscire a rallentare ma non potete. In pratica, il cambio automatico non permette di usare il freno motore, e le vostre chance di non ammazzarvi in discesa si riducono all’uso del freno normale, per rallentare un barcone da svariate tonnellate di lamiera su strade spesso molto ripide (gli americani non si fanno problemi, se c’è una montagna tirano dritto appena possibile).

Un buon modo di gestire la situazione è quello di frenare solo per lo stretto necessario, lasciando correre allegramente l’auto dove possibile (in fondo la strada è ripida ma dritta). Il problema è se, come successo a me giù dal passo Towne all’uscita della Valle della Morte, vi trovate davanti un americano medio, che terrorizzato dall’idea di sfrecciare su una statale a più di 70 chilometri all’ora percorre la discesa aggrappato ai freni, fermandosi ogni tanto nelle numerose “brake check area” (come potete immaginare, tutte le discese americane sono precedute da accorati appelli a controllare se funzionano i freni, e spesso sono dotate di corsie di emergenza in salita e altri dispositivi). A quel punto, in assenza di possibilità di sorpasso, sarete costretti anche voi a passare la discesa aggrappati al freno fin che l’ostacolo non si toglie di mezzo. Dopo due minuti, il freno comincia a saltellare, e dopo cinque minuti l’abitacolo viene invaso da un distinto odore di bruciato. A quel punto il pedale del freno comincia a saltellare vistosamente, l’effetto frenante è quasi nullo e voi potete solo sperare che la discesa finisca presto, per fermarvi a bordo strada e assistere a un denso fumo bianco che esce dalle vostre ruote.

A quel punto ho scartabellato il manuale dell’auto per capire: possibile che non ci fosse alternativa? Alcune auto hanno una posizione aggiuntiva sul cambio automatico, ad esempio “2” o “3”, che vuol dire che al cambio automatico non viene permesso di andare oltre tale marcia; ma la mia non aveva nulla. Alla fine ho scoperto che si poteva attivare lo “sports mode”, che era… il cambio manuale, o meglio la possibilità di ordinare al cambio di scalare; infatti, secondo gli americani, per voler cambiare manualmente bisogna necessariamente essere un pilota di Formula 1!

[tags]stati uniti, auto, guida[/tags]

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lunedì 22 Agosto 2011, 15:48

Tornare in Italia

Lo shock del rientro in Italia comincia già a Charles de Gaulle, terminal 2F, pieno zeppo di italiani. Questi sono i fortunati, quelli che si sono potuti permettere la vacanza all’estero, o che si sono indebitati per farlo (se la prenderanno poi con le banche multinazionali cattive se gli chiederanno i soldi indietro).

All’imbarco chiamano prima quelli seduti in fondo, ma anche gli altri si infilano lo stesso, per cercare di piazzare la pletora di borsoni e borsette che si portano a mano in barba a ogni regola. A bordo è un fiorire di pretese su tutto, com’è possibile che siamo in otto e non abbiamo i posti vicini, il mio bambino vuole un posto finestrino, e poi gli dà fastidio la cintura dunque non gliela metto (ma se poi succede un incidente denuncio l’Air France, ah i francesi arroganti).

Atterriamo a Linate – avrei preferito tornare via Caselle ma l’aeroporto cittadino è da anni ostaggio di Benetton, voli pochi e carissimi. Il ritiro bagagli di Linate è una bolgia semifatiscente in cui tutti sgomitano. All’uscita prendiamo l’autobus per Milano Centrale, il bus urbano più caro del mondo (cinque euro per venti minuti di città) perché c’è la concorrenza all’italiana: Starfly e ATM, il privato e il pubblico, dopo essersi messi d’accordo sul prezzo esoso, ti accolgono sul piazzale con due autisti-piazzisti che gridano come in un suq e quasi a forza ti trascinano sul loro mezzo.

A Milano Centrale ci scaricano coi bagagli in mezzo alla strada, perché la fermata è occupata da un bus privato parcheggiato abusivamente. Ci trasciniamo le valigie per centinaia di metri, nella stazione-autogrill in cui tutto è stato organizzato per farti perdere tempo davanti ai negozi.

Il biglietto del regionale Milano-Torino è di nuovo aumentato, ora costa 10 euro tondi (+25% in un anno e mezzo, grazie Regione Piemonte). Il servizio in compenso è peggiorato ancora: il treno è pieno come al solito (quasi nessuno può permettersi l’alta velocità), il vagone ha grossi mucchi di sporco su tutto il pavimento, l’aria condizionata è rotta e solo alcuni finestrini sono stati aperti; facciamo due ore di treno con 40 gradi.

A Torino prendiamo la metro, ci cerchiamo da soli (non ci sono indicazioni) il vagone senza i sedili, perché altrimenti con due valigie la intasiamo, tanto è piccola. Mentre cerchiamo di salire, un tizio quarantenne spinge e tira un calcio alla valigia per arrivare primo a sedersi nel posto libero. Alla fine sale un anziano, resta in piedi (negli Stati Uniti si sarebbero subito alzati tutti a cedere il posto).

Basta descrivere le prime ore in patria per capire perché, con buona pace di Bossi, è l’Italia (Nord compreso) a essere ormai la “terronia” del mondo sviluppato. Sarebbe bello se ci fosse un’Italia buona soggiogata da una casta di politici cattivi, ma la verità è che il problema dell’Italia è la gran parte degli italiani.

[tags]viaggi, italia, organizzazione, educazione[/tags]

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sabato 30 Luglio 2011, 18:11

Da vedere a Phoenix

Alla fine abbiamo scoperto che anche a Phoenix ci sono delle cose interessanti da vedere – e non solo i centri commerciali, dove pure, in questo momento, si compra con poco e vale la pena fare un giro.

Ieri mattina alle sette e un quarto ci siamo presentati all’ingresso dei Desert Botanical Gardens: se l’ora vi sembra inusuale, sappiate che è l’unico momento in cui vale la pena andare, dato che di giorno, con oltre 40 gradi sulla testa, la visita sarebbe devastante. Invece così è stato magnifico; nella pace e nel relativo fresco del mattino (solo 33 gradi), abbiamo scoperto ogni genere di cactus e le altre piante del deserto.

Quando pensiamo al deserto, noi abbiamo in testa il Sahara; ma il deserto americano è ben diverso. E’ una distesa di sabbia grigia e rocciosa, frastagliata e piena di colline e catene montuose, coperta dai saguaro, i grossi cactus a tridente che arrivano a diversi metri di altezza e rappresentano una delle basi dell’ecosistema, accumulando acqua per tutti; e poi c’è una varietà infinita di piccoli cactus e di altri cespugli duri. Un giro nei giardini mostra come il deserto sia pieno di vita, al punto che a un certo momento due coyote ci hanno attraversato il sentiero, e uno dei due è poi riapparso con un coniglio in bocca.

I giardini sono in mezzo alla città, a dieci minuti dal centro, ma, data la bassissima densità di Phoenix, “in mezzo” è una parola grossa; in molte zone le case sono sparsissime e vi sono intere colline rocciose tra un quartiere e l’altro, e anche i giardini erano assolutamente credibili nella loro naturalità. Le altre attrazioni della giornata, sulla mappa, erano “solo un po’ più in là”, eppure se non si imbocca l’autostrada diventano un miraggio: si va avanti a cinquanta all’ora per i grossi stradoni, un semaforo per volta. Solo alla fine abbiamo realizzato che tra noi e l’ultima destinazione c’erano trenta chilometri di città senza interruzione.

La prima visita del pomeriggio è stata a Taliesin West, la casa-studio-scuola di Frank Lloyd Wright; nonostante il biglietto esoso (32 dollari… ma qui i musei generalmente non sono sovvenzionati e sono dunque carissimi) vale davvero la pena. Quando fu costruita, alla fine degli anni ’30, era in mezzo al nulla, sulle prime pendici di una collina a venti chilometri dal centro di Phoenix; sotto c’era solo il deserto e qualche ranch. Ora, le distese di ville e villette arrivano fino alla fine della pianura, e l’esperienza si salva solo perché la casa comprende anche parecchi ettari di terreno tutt’attorno. Ci hanno detto che quando nel 1948 nella pianura sotto la casa misero la prima linea telefonica con i relativi pali, Lloyd Wright ne fu talmente turbato che voleva abbandonare tutto; non sopportava che l’uomo avesse devastato con una fila di pali la bellezza della natura. Alla fine restò, ma ristrutturò l’intera casa in modo da girare le stanze e guardare verso le montagne invece che verso la pianura. Chissà cosa direbbe oggi…

Effettivamente, lasciate le ultime nuovissime strade con le ultime nuovissime villette, l’ambiente cambia di botto e ci si trova comunque nel niente… per i nostri standard odierni. La casa è ovviamente bellissima e fa venir voglia di fare l’architetto; è costruita da una serie di locali concepiti a metà tra interno e esterno, in cui aria e luce escono ed entrano continuamente. Durante la visita ti lasciano sedere sui mobili realizzati dall’architetto e ti raccontano una serie di aneddoti… e poi ti regalano delle bottiglie d’acqua per resistere, dato che ovviamente non c’era condizionamento. In sostanza, è una visita molto istruttiva sulla vera qualità di un grande architetto, quella di creare insieme bellezza e comfort in modo che ciò sembri talmente naturale da non notare nemmeno il lavoro intellettuale e tecnico che c’è dietro.

L’ultima visita è stata al museo degli strumenti musicali, perso in un posto dimenticato dal mondo vicino a una uscita dall’autostrada: non ci sono nemmeno ancora le strade, ma solo dei cartelli che dicono “qui ci sarà l’incrocio con la sessantaquattresima strada quando la allungheremo”, e svincoli autostradali già pronti per strade che non esistono ancora. Anche il museo è tuttora in allestimento, pieno di bacheche vuote e semivuote, e nonostante questo è impressionante; ci sono migliaia di strumenti di ogni provenienza.

Magari si poteva organizzare diversamente – in pratica è una esposizione per nazioni, anche se per loro il Kurdistan è già indipendente – e magari la selezione di cosa mostrare è un po’ arbitraria; il sistema elettronico di visita – ti danno delle cuffie e quando ti avvicini a uno schermo parte la musica corrispondente – ha ancora dei bachi. Eppure la visita è molto interessante, con gli strumenti tradizionali di tutto il mondo, e dimostra bene come la musica sia un linguaggio universale e insieme una esigenza primaria dell’uomo. Per il visitatore medio, il pezzo forte della visita è il piano su cui Lennon scrisse Imagine. Per me, il momento migliore è stato trovarmi in una sola bacheca un minimoog e un theremin; non solo, ma alla fine c’è una sezione “hands on” in cui puoi anche provare a suonare il theremin… e, per chi ha studiato il piano, c’è anche un grande Steinway a disposizione. Ma non mi sono osato!

[tags]phoenix, musei, lloyd wright, deserto, musica, turismo[/tags]

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venerdì 29 Luglio 2011, 08:08

Città senza un perché

La cosa che ci si chiede arrivando a Phoenix in aereo è una sola, ovvero perché diavolo abbiano costruito una città in questo posto – e non una piccola città: è la sesta degli Stati Uniti, e l’area metropolitana conta quasi cinque milioni di abitanti.

In pratica, si attraversa il nulla per ore, e poi d’improvviso appare una distesa infinita di casette, particolarmente impressionante di notte. Ma perché proprio qui? Non c’è niente attorno per centinaia di chilometri, se non deserto e montagne. Il clima è tremendo: a mezzanotte ci sono 33 gradi e di giorno si arriva oltre i 40, per tutta l’estate. La terra è arida e sabbiosa, e rende difficile credere alla scusa ufficiale, ovvero che (nella seconda metà dell’Ottocento) gli immigranti hanno cominciato a stabilirsi qui perché era un buon posto per l’agricoltura; si direbbe invece che qui la terra produca veramente un cactus.

Una esplorazione della città non fornisce grandi spiegazioni. Il centro consta di quattro isolati per quattro; ok, sono pieni di grattacieli, a parte un paio di edifici “storici” di inizio Novecento, ma se fai un isolato in più ti ritrovi in mezzo al nulla, a interi isolati sabbiosi e vacanti occupati da depositi di rottami, discariche e casette private. Los Angeles, concettualmente simile, ha comunque dei centri; da Downtown a Hollywood, da Santa Monica a Beverly Hills, ci sono comunque delle zone definite con un minimo di identità. Qui, in qualunque direzione si vada, c’è solo una infinita ripetizione di stradoni che incrociano stradoni formando grossi isolati quadrati di villette con piscina, con mini-centro commerciale sull’angolo e ogni tanto un maxi-centro commerciale. I negozi sono solo di grandi catene (però ce ne sono decine e decine) e dunque dopo un po’ si ripetono, creando un inquietante senso di non stare andando mai veramente in nessun posto.

Come ci si aspetta in una città di cinque milioni di abitanti, c’è una metropolitana. Che però, a ben vedere, si rivela un tram, con i binari a centro strada e gli incroci a raso, e i semafori nemmeno sincronizzati (vuoi mica che le auto diano priorità). Ce n’è una linea sola, che ovviamente collega solo pochissime destinazioni; il resto sono bus, ma tanto non li usa nessuno. Cinque milioni di abitanti e una sola linea di tram: penso che ci siamo capiti.

D’altra parte, un sistema di trasporto pubblico si basa per definizione sull’aggregazione dei flussi di traffico, sul fatto che ci sono dei centri che attraggono le persone e delle direttrici principali lungo cui le persone si spostano, su cui appunto si tracciano le linee di forza (treni, metro, tram). Ma in una città senza centri e in cui sostanzialmente tutti i punti hanno la stessa importanza, costruire un sistema di trasporto pubblico efficiente è impossibile; e infatti tra qualsiasi coppia di posti ci sono venti minuti di auto oppure due ore di bus.

L’unica parziale eccezione è proprio qui dove siamo ospitati: l’Università Statale dell’Arizona, il più grande Ateneo d’America per numero di studenti. Al nostro orecchio di torinesi una università colloquialmente chiamata “asu” non promette bene sul livello medio dell’istruzione, eppure davvero mezza città è l’Università; siamo in un campus immenso (ed è solo uno dei vari) quasi tutto costruito negli ultimi vent’anni.

Da buona università americana, gran parte dello spazio è occupato da impianti sportivi; uno stadio da football che non ha nulla da invidiare a San Siro e un palazzetto altrettanto grande, ma soprattutto decine di campi per la pratica di ogni sport, e un edificio di tre piani grande come un campo da calcio pieno zeppo di attrezzi per il fitness (più la piscina). Poi ovviamente ci sono anche le aule, i dormitori, e l’edificio comunitario, il cui piano terreno ospita una dozzina di diversi fast food. Il campus è talmente grande che la gente ci si sposta in bici (non di rado si vedono anche scheletri di bici derubate della ruota e lasciate lì agganciate) o in mezzi alternativi come lo skateboard (in questo caso non posso esimermi da un obbligatorio “kick buttowski buttowski”).

Stamattina ho fatto una passeggiata per il campus per fare un po’ di foto; dopo un’oretta mi sono accorto che il calore stava diventando opprimente, e ne avevo visto solo metà. Per fortuna qui le macchinette venditrici di bibite accettano anche la carta di credito (l’anima del commercio)… ma è del tutto chiaro che questa città senza aria condizionata e senza petrolio non potrebbe esistere. Non a caso stasera al ristorante messicano (ottimo, nulla a che vedere con i nostri) il cameriere ci ha chiesto da dove venissimo e quando abbiamo detto “Italy” ha risposto “you lucky”. Cioé, magari non per tutto, ma per il clima senz’altro.

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lunedì 4 Aprile 2011, 23:32

Una nazione, tante vasche

Questa è l’ultima sera in Islanda, prima del ritorno a casa; sono da solo a Reykjavik, in attesa del volo di domani mattina presto.

Ho approfittato delle ultime ore in città per vedere qualche posto che ancora mi mancava; sono andato a visitare la chiesa di cemento in cima alla collina, il simbolo della città, davvero bella; e il giardino di sculture di Einar Jonsson, che sta proprio di fronte, belle pure quelle. Gli islandesi amano molto la scultura da esterno; se ne trovano ovunque, anche nei posti remoti, in mezzo ai giardini, sui ponti, lungo le strade. Ci sono anche molte grandi librerie, che fungono anche da caffè, da Internet point, da negozio di souvenir e di materiale vario: come ci si aspetterebbe da un popolo nordico, colto e progredito.

La situazione però mi pare un po’ diversa… la via principale di Reykjavik, per esempio, è un’infilata di negozi con pretese eleganti ma del tipo un tanto al chilo, come fosse la passeggiata delle Gru. Ovviamente l’eleganza è commisurata all’ambiente; per esempio c’è un negozio tutto fighetto e di marca, dedicato a ferramenta e utensili da giardino… ma solo quelli di moda!

Ho cominciato a sospettare qualcosa in questi giorni di viaggio; nonostante gli autovelox, ho notato che quasi nessuno rispettava alla lettera i limiti di velocità, e ciò a queste latitudini non è per niente normale. Ieri, infine, sono rimasto scioccato: davanti all’albergo c’era un enorme fuoristrada parcheggiato di storto nel posto degli invalidi. Non avevo mai, mai, mai visto da nessuna parte qualcuno parcheggiato abusivamente su un posto per invalidi in tutto il centro e nord Europa… Oggi in città ho persino notato un paio di macchine bruciare il semaforo e girare a sinistra col rosso: assurdo.

Ma è la radio che mi ha detto molto; ci sono solo sei stazioni, di cui soltanto due musicali. Una manda essenzialmente rock’n’roll anni ’60, ma per la maggior parte del tempo chiacchierano in islandese; l’altra manda, a qualsiasi ora e in qualsiasi sperduta landa desolata, On The Floor di Jennifer Lopez. La manda anche due o tre volte di fila, a tutto volume! Quando decide di dare una pausa a J.Lo, la stazione avvia un programma culturale che mi ha fatto conoscere a ripetizione altri grandi capolavori: innanzi tutto la scopiazzatura della canzone di J.Lo fatta da Britney Spears (qui la versione live ballata da un prosciutto travestito da Britney Spears), poi questo tizio che canta Hit The Lights, il singolo tamarro di Nelly Furtado e infine quella piccola gemma di stile ed eleganza che è Tonight I’m F***ing You di Enrique Iglesias. Tutte me le sono subite, tutte: era l’unica musica che c’era alla radio!

Sono così arrivato a una teoria, che peraltro già avevo concepito in Nuova Zelanda: vivere fuori dal mondo, in un posto dove non c’è niente se non meravigliosi paesaggi solitari, rende necessariamente tamarri. Ti viene solo voglia di prendere un quad e rombare in mezzo alle acque cristalline di torrenti primordiali, di comprarti un grosso fuoristrada per il gusto di fare più rumore possibile e di mangiare balena a colazione, pranzo e cena anche solo per spregio; ti viene voglia di lasciare la natura incontaminata a noi nevrotici urbani e di rivendicare in ogni modo la posizione dominante dell’essere umano nell’ecosistema planetario.

Secondo me, se prendi sti pezzi di islandesi alti due metri e li porti a Ibiza o a Rimini vanno completamente fuori di melone, passano trentasei ore di fila in discoteca, si fanno di qualsiasi cosa, guidano a fari spenti nella notte per vedere, si lanciano in un bunga bunga sfrenato e poi li ripeschi a vomitare in spiaggia alle sette del mattino.

Nel frattempo, io ho fatto un esperimento e stasera, fermo al semaforo sulla via principale, ho messo su Radio J.Lo e ho alzato il volume a palla. Ok, l’auto era una Hyundai grigia e non una Golf nera, ma ho fatto lo stesso la mia porca figura: due biondone si sono subito girate a guardarmi. Chissà cosa avranno pensato.

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domenica 3 Aprile 2011, 23:39

Viaggio al centro della Terra

Non so quanto spesso capiti da queste parti una giornata piena di sole, quasi senza una nuvola nel cielo azzurro da ogni parte; visto che è stata l’unica in una settimana, non credo molto spesso. E’ capitata proprio l’ultimo giorno, quello in cui il programma prevedeva di partire dalla città e completare il lungo giro delle terre occidentali dello Snaefellsnes, cinque ore di macchina in tutto.

Naturalmente, in Islanda non esistono autostrade; il massimo del lusso è qualche tratto di statale a doppia carreggiata verso l’aeroporto o uscendo dalla città. Il limite di velocità è di novanta all’ora in tutto il Paese, e le zone popolate sono costellate di autovelox – anche se, per un tacito patto, quando si arriva nelle parti più remote gli autovelox spariscono e tutti corrono un po’ di più, qualcuno sfiora anche i centodieci. Fuori città, l’ottanta per cento del traffico è costituito da fuoristrada, superfuoristrada, megajeep, pick-up americani stile Hammer con sopra caricati due quad, e cose così; e devo dire che questa è una delle poche parti del mondo dove ciò può essere giustificato. Infatti, solo le strade principali sono asfaltate; le altre sono in ghiaia, terra, fango, erba, roccia o quel che capita; e non vi sono gallerie nè viadotti, semplicemente quando si trova un rilievo la strada lo prende dritto di punta o quasi, con pendenze da rampa di garage.

Nonostante questo, lontano dalla zona sudoccidentale si può viaggiare per un’ora incrociando una decina di macchine in tutto, e il viaggio dunque scorre fin troppo bene; il problema maggiore diventa stare attenti alla benzina. Questo è il primo Paese che visito dove l’atlante riporta, in tavola separata, una mappa contenente tutti i distributori di benzina del Paese; e, fuori dalla città, saranno una trentina in tutto. Il distributore di benzina, con annesso grill che vende hamburger e fish & chips, è l’unica forma di vita che abbiamo trovato, in questo viaggio fuori stagione; senza i benzinai ci saremmo persi nella landa desolata e non avremmo avuto niente da mangiare. Considerate dunque che chi vive nelle sparse fattorie deve, salvo proprie scorte, fare anche cinquanta chilometri solo per fare benzina o per trovare un locale pubblico aperto…

C’è poi da aggiungere un piccolo particolare: tutti i distributori di benzina che abbiamo visto sono self-service; non sono presidiati, e alle volte sono costituiti semplicemente da una pompa piazzata in mezzo a uno spiazzo a bordo strada, tra un prato e l’altro; e soprattutto funzionano soltanto a carta di credito (chiedendo il PIN); niente banconote. Non pensate di venire in Islanda e di affittare una macchina senza avere una carta di credito o senza saperne il PIN: non andreste da nessuna parte.

Non so se sono riuscito a trasmettere il concetto: qui, nemmeno muoversi è una cosa scontata. I benzinai hanno sostituito le stazioni di posta, le strade hanno dei ponticelli a senso unico alternato al posto dei guadi di un tempo, ed entro pochi anni avranno finito di asfaltare tutta la statale 1, quella che fa tutto il giro dell’Islanda ad anello, fatto salvo il fatto che ogni dieci anni un’eruzione, una piena, un ghiacciaio se ne porta via qualche chilometro; ma ogni viaggio è un’avventura contro il vuoto e la perdizione.

Quando stasera, dopo una giornata meravigliosa, in mezzo a un tramonto incredibile, siamo arrivati a Borgarnes – nel piazzale dove si concentrano tre benzinai, due grill, la fermata delle corriere, un supermercato e una banca, ovvero un concentrato di servizi che poi per centinaia di chilometri non si vede più – abbiamo parcheggiato la macchina, siamo entrati a mangiarci zuppa e pollo fritto in mezzo ai villici (quello c’è, ovunque andiate a mangiare fuori Reykjavik, per tutto l’inverno: zuppa, hamburger, pollo fritto, pizza e porcate confezionate), e ci è sembrato di essere arrivati al centro della Terra.

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venerdì 1 Aprile 2011, 21:34

Decisamente altrove

Non è facile spiegare l’esigenza di essere ogni tanto altrove; nasce per caso e non riguarda tutti. C’è chi vivrebbe volentieri nello stesso posto tutta la vita e chi vivrebbe volentieri ovunque, pur di sperimentare ogni volta un’esperienza diversa. Credo che sia una forma mentale che si sviluppa e che se si sviluppa non può essere ritirata; e se una volta la conseguenza più tipica era una vita da marinaio, al giorno d’oggi viaggiare è molto più semplice ed economico e lo si può fare con comodo. Certo, resta il problema di scegliere dove andare; perché si può andare a cercare una piccola replica di casa propria, piena di italiani pizzerie e partite di pallone, oppure, appunto, si può andare altrove.

Se c’è un posto che rappresenta bene l’altrove, questo è appunto l’Islanda, un posto dove non si capita per caso – a meno che, come è successo a me, non ci si finisca in quanto attaché a una missione di lavoro. Io ci sono dunque finito per caso e ne sono molto lieto, perché il caso è la vera guida della vita e ad esso tanto vale arrendersi subito.

Ho conosciuto l’Islanda per gradi crescenti, così come si deve a una signora. Il primo impatto è stato con la zona attorno all’aeroporto, che è una specie di Irlanda piatta e coperta d’erba gialla. Il secondo impatto è stato con il cerchio d’oro, l’itinerario turistico più famoso, che partendo da Reykjavik porta alla piana dove fu fondato il primo Parlamento della storia, e poi a Geysir (l’originale) e alla grande cascata di Gullfoss; e quella è Scozia, la città pare una Inverness con una periferia e la statale 36 potrebbe benissimo essere una qualsiasi strada in mezzo alle Highlands.

Poi abbiamo preso per la costa meridionale e le cose si sono fatte serie; quando si esce dalla popolosa pianura e ci si avvicina alla zona dei ghiacciai e dei vulcani, l’unico paragone possibile è con la Nuova Zelanda (ed è un grosso complimento). Grazie a un timido sole (ma non temete, il tempo cambia ogni trenta secondi circa) abbiamo scoperto alcuni luoghi assolutamente magici; per esempio Seljalandsfoss, una cascata vertiginosa che finisce in un laghetto tra le rocce, da cui esce un ruscello chiarissimo che attraversa la pianura d’erba che si estende fino all’orizzonte (se non è abbastanza, cento metri più in là c’è la versione che cade in uno stagno nascosto e visibile solo attraverso una fessura nella roccia). Oppure Dyrholaey, una penisola di roccia vulcanica collegata alla terraferma solo da una pista di ghiaia, in cima alla quale si può vedere un’idillica baia di sabbia nera circondata di prati e fattorie, ma anche una spiaggia tormentata su cui si schiantano onde d’oceano alte diversi metri, con spruzzi di schiuma bianca ovunque, mentre una serie di faraglioni lottano per la sopravvivenza in mezzo al mare.

Ma non è sufficiente; proseguendo, il paragone cambia ancora, e questa volta è direttamente con la Luna. A un certo punto, per una ventina di chilometri, si attraversa una pianura completamente nera, fatta soltanto di sabbia e ghiaia prodotte dalla frammentazione della roccia vulcanica da parte dei ghiacciai. In molte parti non c’è alcuna forma di vita, nemmeno il muschio; è una zona chiamata Öræfi (devastazione) ed è il risultato di eruzioni medievali e di piene glaciali (il vulcano erutta sotto il ghiacciaio, il ghiacciaio si scioglie, dopo qualche settimana una quantità d’acqua grande come un Lago di Garda arriva a bucare la punta del ghiacciaio e si scarica nel giro di un paio di giorni sulla pianura, scagliando blocchi di ghiaccio di cento tonnellate contro tutto quello che trova).

E poi… in certi punti il paragone è solo con un punto interrogativo. Come descrivere per esempio una pianura gialla e grigia, fatta di terreno vulcanico e di erba consumata dal vento? Oppure una distesa di chilometri di grosse pietre tonde e lisciate dall’acqua, accatastate l’una sull’altra e ricoperte da uno spesso e morbido tappeto di muschio verde, come se fosse il fondo del mare tirato fuori stamattina e nemmeno ancora asciugato?

Ogni dieci chilometri il paesaggio cambia completamente e molto spesso ciò che appare è privo di senso, richiede uno sforzo di fiducia nei propri occhi. Eppure quel che colpisce di più, sopra il paesaggio, è insieme l’assenza e la presenza umana; l’assenza perché la densità di popolazione è minima, e ogni zona è individuata dal nome dell’unica fattoria che vi (r)esiste, nonostante qui non cresca nulla (tantomeno gli alberi) e nonostante vulcani, ghiacciai, tempeste, e un vento incredibile che spesso costringe a guidare di bolina, col volante che punta alla scarpata per riuscire ad andare diritti. E la presenza perchè nonostante tutto un po’ di persone ci sono, aggrappate col cuore a questa terra inospitale, e con meritato orgoglio.

E questo dimostra molte cose; dimostra che l’uomo può quasi tutto, se la determinazione e il coraggio lo accompagnano; dimostra come noi abbiamo pateticamente limitato le possibilità della natura, uniformando il 90% della Terra a una sciatta periferia urbana; e dimostra che questo pianeta sarebbe davvero meraviglioso, se solo i suoi abitanti fossero un decimo di quello che sono.

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mercoledì 30 Marzo 2011, 10:46

A Copenaghen

A Copenaghen, è normale salire sul treno dall’aeroporto – che passa ogni dieci minuti e collega direttamente non solo il centro città, ma tutta la costa a nord e persino la Svezia – e trovare mezzo vagone senza i sedili, con seggiolini reclinabili e un ampio spazio pensato per ospitare le bici; in ogni vagone ce n’è almeno una.

A Copenaghen, i treni locali oltre allo spazio per le bici hanno anche Internet gratuito e liberamente accessibile a tutti.

A Copenaghen, tutti i corsi hanno una corsia ciclabile rialzata, delimitata e separata sia dal marciapiede che dalla carreggiata.

A Copenaghen, quando bloccano una piazza o una strada per un cantiere, prevedono due percorsi alternativi separati e paralleli: uno per i pedoni e uno separato per le biciclette.

A Copenaghen, a ogni angolo ci sono distese di biciclette parcheggiate sui marciapiedi e sulle piazze – in qualche punto ci sono anche appositi stalli a due piani; e le bici non sono nemmeno legate, sono solo appoggiate lì.

A Copenaghen, tutte le vie del centro storico sono a senso unico “eccetto bici”, e le bici possono percorrerle contromano per fare prima, usufruendo di appositi spazi di fermata agli incroci.

A Copenaghen, la sosta a pagamento per le auto nel centro è in vigore 24 ore su 24; costa circa 40 centesimi di euro l’ora di notte, e circa 4 euro l’ora di giorno, e nessuno vede questo come una limitazione di un presunto diritto costituzionale a muoversi inquinando o a tenere una scatola di latta davanti al portone di casa. Se uno proprio ha bisogno dell’auto paga, se no prende il treno, il bus o la bici.

Chissà perché a Torino è tutto diverso; perché non potrebbe essere così anche da noi?

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mercoledì 9 Febbraio 2011, 17:23

L’antica città di Ciqikou

È stato davvero triste leggere che una parte dell’antica città di Ciqikou è andata a fuoco l’altro giorno. Ciqikou (pronunciato più o meno zicicou) è un quartiere di Chongqing, la capitale della Cina centrale – una media città cinese di cinque milioni di abitanti, anche se spesso viene definita la più grande area urbana del mondo perché dentro i confini amministrativi della municipalità ne vivono trentadue.

Chongqing è nota soprattutto per essere stata la capitale della Repubblica di Cina (quella di Chang Kai-Shek) durante la seconda guerra mondiale e fino alla sua fuga a Taiwan; per questo è stata un po’ trascurata dai comunisti, fino a quando ultimamente il governo ha deciso di investire sulla città come porta dell’interno cinese. Oggi, la città vera e propria sta venendo rasa al suolo e ricostruita sotto forma di grattacieli modernissimi; tuttavia, a differenza di Shanghai, il processo è un po’ più indietro e dunque ci si può ancora trovare in mezzo a tutte le contraddizioni di questa trasformazione (nonché in mezzo a una temperatura di 43 gradi all’ombra, come successo a noi: è la prima volta che sento il mio corpo emettere calore dall’interno in piena notte, dopo averlo accumulato di giorno).

Ma il vero tesoro di Chongqing è appunto Ciqikou, un vecchio quartiere di pescatori sul fiume Jialing rimasto ancora fermo ai tempi della Cina rurale. Ci si arriva con una dozzina di chilometri di viaggio (pochi euro di taxi) su una tangenziale a sei corsie costruita a mollo davanti alla riva del grande fiume, che però, intelligentemente, finisce nel vuoto subito prima del villaggio, senza distruggerlo. Il villaggio è fatto di vecchie case appena ristrutturate e trasformate in negozi per turisti, che nonostante tutto sono lo stesso interessanti; seguendo i vicoli e la via principale si arriva poi ai piedi del grande tempio Baolun.

Per entrare nel tempio si paga, ma si ricevono in cambio i ceri votivi da accendere; la salita al tempio è devastante, una gradinata non lunghissima ma molto ripida. In cima, però, l’atmosfera è magnifica, e persino in piena stagione turistica vi capiterà di essere soli con i monaci, con le galline e con un paio di gentili signorine che, a gesti, ci hanno dimostrato l’uso dei ceri; in quello stranissimo e affascinante concetto di “nuovo vecchio” – l’architettura antica appena rifatta, col legno lucido e nuovissimo e il cantiere ancora aperto – che caratterizza tantissimi monumenti cinesi.

La parte migliore, però, per me è stato andare oltre il tempio: la zona ristrutturata termina, e si finisce in un agglomerato di case di contadini, aggrappato sulla riva ripida di un torrentello, seguito subito da poveri fazzoletti di terra coltivata a mano. Sulla parte più bassa c’è una piazzetta (dove stanno lavorando al selciato) da cui si vede la piccola valle, e poi si finisce nel terrazzo di un locale che sembra un nostro ristorante di campagna degli anni cinquanta. E’ bello perché è tipicamente cinese, ma soprattutto è tipicamente umano: non è molto diverso da come poteva essere un nostro villaggio di contadini prima che ai vicoli e ai sentieri fossero sostituite le strade.

Non so quanto sia effettivamente andato distrutto nell’incendio, spero non molto – magari solo qualche negozio di souvenir per turisti, o una di quelle rivendite di intestini di pollo annodati e fritti (sì, li ho provati, anche se non lì). Le immagini che vi lascio nel video descrivono a malapena quelli che sono tra i miei ricordi più belli del viaggio in Cina, e che fanno venire voglia di tornare.

[tags]cina, viaggi, chongqing, ciqikou[/tags]

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