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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


lunedì 20 Settembre 2010, 22:27

Spinoffiamo la città

Ha fatto rumore in tutto il mondo, nei giorni scorsi, la decisione degli azionisti della Fiat di separare le attività automobilistiche da tutto il resto. I giornali, obbedienti, hanno presentato l’operazione come un grande successo manageriale; tempistiche perfette, esecuzione precisa, evviva Marchionne. “Più libertà”, parola magica, da cui dovrebbe derivare uno sviluppo migliore di entrambe le attività. Ma sarà vero?

Uno spinoff, come l’hanno chiamato i media, avviene di solito quando una azienda prende un pezzo delle proprie attività e le trasforma in una nuova azienda, che però resta controllata almeno in parte dalla prima. Quel che è avvenuto in Fiat invece è più insolito, e, più precisamente, si chiamerebbe spinout: l’azienda è stata spezzata in due, e (semplificando per farvi capire) chi prima aveva in mano due azioni Fiat ora si ritroverà in mano una azione di Fiat Auto e una azione di Fiat Industrial, che saranno dunque due aziende completamente separate e indipendenti; solo per caso e solo all’inizio avranno gli stessi padroni, che poi via via si diversificheranno.

Esistono dei precedenti? Ma certo che sì: uno dei più famosi è quello del gigante del tabacco e dell’alimentare Philip Morris, che all’inizio del nuovo millennio era un conglomerato con dentro non solo il business del tabacco (Marlboro, Benson & Hedges e così via) ma anche quello del cibo (Kraft, Nabisco). Tramite una serie di spinout, gli azionisti si sono alla fine trovati a possedere azioni di tre aziende diverse: Kraft per la parte alimentare, Philip Morris International per il tabacco fuori dagli Stati Uniti e Altria Group (classico nome da conglomerato anonimo) per il tabacco negli Stati Uniti e poco altro.

Qual è il senso di una mossa di questo genere? Lo trovate descritto in questo articolo finanziario; in pratica, è una mossa che si fa quando una grossa parte del tuo business è considerata “tossica”, ovvero pericolosa e potenzialmente disastrosa, dagli investitori. In questo caso, l’elemento tossico è il tabacco, anche in senso finanziario: i continui maxi-risarcimenti decisi dai tribunali e le crescenti restrizioni al consumo fanno pensare che, nel lungo termine, quello del tabacco sia un business morente. Il valore di Borsa del conglomerato era basso perché tutti avevano paura di comprare le azioni del tabacco, anche se in realtà dentro c’era una gigantesca e preziosa industria alimentare come la Kraft.

A questo punto, spezzando completamente le aziende, si è permesso a ogni azionista e investitore di fare le proprie scelte; chi non voleva più investire nel tabacco ha potuto vendere le azioni di Philip Morris / Altria e tenersi quelle di Kraft, azioni che non avendo più nulla a che fare con i rischi del tabacco hanno potuto salire di valore. Anche l’ulteriore suddivisione tra tabacco americano e tabacco “internazionale” ha lo scopo di isolare i rischi: se negli Stati Uniti i tribunali tengono sotto scacco la Philip Morris, in molte nazioni più piccole è la Philip Morris a tenere sotto scacco i tribunali e le istituzioni.

Capite quindi subito cosa voglia dire, sotto questa luce, lo spinout di Fiat Auto dal gruppo. Vuol dire che per l’auto è il bacio della morte; adesso, avendola separata da tutto il resto, può andare verso il proprio destino senza che ciò vada più a toccare il ben più lucrativo business dei veicoli industriali e del movimento terra e di quant’altro Marchionne vorrà mettere in piedi. E’ segno che Marchionne pensa che l’auto farà la fine del tabacco: un business progressivamente eroso in quanto sempre più maturo, sempre meno redditizio e sempre più soggetto a restrizioni legali (in questo caso, contro i danni da traffico privato). Il messaggio insomma è chiaro: nonostante tutte le rassicurazioni, Fiat si è messa nelle condizioni tecniche e operative di potersi liberare definitivamente del settore auto in qualsiasi momento.

In quest’ottica, le prospettive sono particolarmente nere per gli operai di Torino e degli altri stabilimenti italiani. Infatti, fin che la testa delle nostre fabbriche di auto stava in città, si poteva sperare in un po’ di buon cuore, un po’ di voglia di puntare su Mirafiori, un po’ di orgoglio italiano. Una Fiat Auto separata dal resto, invece, se la crisi perdura non potrà che fare la fine di tutte le altre piccole industrie automobilistiche sparite in questi anni; gli investitori poco fiduciosi scapperanno appena possibile, erodendo il valore dei titoli, fino a che l’azienda, non più in condizioni di tirare avanti da sola, sarà venduta a qualche grande gruppo straniero (oggi c’era già chi parlava di Volkswagen). In quest’ottica, nessuno avrà più alcun riguardo per le fabbriche torinesi (ammesso che qualcuno l’abbia mai veramente avuto, s’intende).

D’altra parte, è interessante scoprire che anche Philip Morris International si è trovata davanti a un problema del genere; e, per mantenere la redditività della propria produzione europea al riparo da alti costi e troppi impicci legali, ha passato gli ultimi anni a investire per sviluppare impianti in un posto a caso: in Serbia. Un paese perfetto: fuori dall’Unione Europea ma circondato da essa, con costi pari a un terzo di quelli italiani, sufficientemente piccolo da far sì che uno straniero che investe centinaia di milioni di euro possa fare più o meno ciò che vuole, e casualmente fiaccato dieci anni fa da tante belle bombe NATO, in quella logica di distruzione e ricostruzione di cui parlava Grillo l’altro giorno.

A questo punto l’idea che la Fiat si sia ispirata direttamente alle strategie di Philip Morris è piuttosto plausibile; ma se ancora non ci credete, basta prendere l’elenco dei consiglieri di amministrazione della Philip Morris, scorrere fino alla lettera M e… scoprire che c’è anche un certo Sergio Marchionne.

Dal suo punto di vista, Marchionne fa bene ad essere euforico; ha preso un bollito italiano come era la Fiat nel 2004, l’ha riportato a livelli di decenza, l’ha impacchettato insieme a un bollito americano come è la Chrysler oggi, e ora è pronto a vendere il pacchetto bello infiocchettato. I suoi azionisti internazionali, i suoi banchieri di New York e di Londra, saranno contenti; faranno probabilmente ancora dei soldi con un business che rischiava di esplodergli in mano. Chiaramente, Marchionne lavora per loro, non per noi.

Ma se Marchionne lavora per loro, chi lavora per noi? La città dipende tuttora da Fiat Auto per la sua sopravvivenza economica: chi si è preoccupato di che fine farà?

[tags]economia, fiat, marchionne, auto, philip morris, strategie, spinoff, serbia[/tags]

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giovedì 16 Settembre 2010, 16:48

La storia del genocidio lituano

Questa mattina all’IGF non c’era niente di interessante, dunque mi sono preso la mezza giornata per andare a visitare il Museo del Genocidio di Vilnius. Qui come già in Estonia, per “genocidio” si intende l’occupazione sovietica, estesa a tutto il periodo in cui la Lituania ha fatto parte dell’Unione Sovietica, cioè fino al 1990.

Per farvi capire il contesto, è necessaria qualche breve nota storica: la Lituania è una piccola nazione che ha vissuto il suo unico momento di gloria alla fine del quattordicesimo secolo, periodo in cui dominava la Bielorussia e gran parte dell’Ucraina e in cui Vilnius fu fondata e divenne la capitale; dopodiché è stata schiacciata e devastata dalle guerre tra i suoi ben più grandi vicini (Polonia, Russia, Prussia e Svezia), finendo infine in Russia con cui c’entra poco (i lituani sono cattolici e usano l’alfabeto latino).

All’inizio del ventesimo secolo, Vilnius e gran parte della Lituania facevano parte dell’Impero Russo; nel 1915, con la prima guerra mondiale, la Lituania passò ai vicini tedeschi (come sicuramente ricorderete, fino al 1915 l’attuale exclave russa di Kaliningrad era l’exclave tedesca di Königsberg, dunque la Germania confinava con la Lituania). Nel 1918, con la ritirata dei tedeschi, la città divenne la capitale della neonata Lituania indipendente, ma solo per pochi mesi, dato che nel 1919 fu occupata dai sovietici che li inseguivano. I trattati di pace assegnarono la città alla Lituania, ma all’epoca la maggior parte della popolazione era di etnia polacca (i rimanenti erano quasi tutti ebrei); dunque nel 1920 Vilnius passò ancora di mano, venendo invasa ed annessa dalla Polonia (la Lituania rimase un piccolo stato con capitale Kaunas).

Nel 1939 la Polonia crollò sotto l’invasione nazista; per effetto del patto Molotov-Ribbentrop, la Lituania ricadde sotto la sfera di influenza sovietica. Si trattava tuttavia di uno stato indipendente; dunque i sovietici offrirono di restituire Vilnius alla Lituania, ma in cambio pretesero di poter installare ventimila soldati in Lituania per difendersi da ulteriori avanzate tedesche. Dopo questa prima concessione forzata, nel 1940 i sovietici ne ottennero una seconda tramite un ultimatum, inviando ulteriori truppe e ottenendo un cambio di governo a loro favorevole, che poi convocò elezioni fantoccio in cui il 99,2% votò per l’unico partito ammesso, quello comunista, creando così un Parlamento che “chiese” l’annessione; la Lituania venne così “accettata” nell’Unione Sovietica. Nel 1941 tuttavia i nazisti avanzarono, e il fronte passò attraverso Vilnius, che divenne dunque tedesca fino al 1944, quando ritornarono i sovietici, che rimasero fino alla perestroika e all’indipendenza del 1990.

In sostanza, nel ventesimo secolo Vilnius ha cambiato nazionalità dieci volte, e ora mi è dunque più chiara la struttura misteriosa di questa città, con palazzi ottocenteschi che improvvisamente finiscono dentro un prato e vie che finiscono nel nulla; credo che sia stata bombardata parecchio. Il museo, tuttavia, si concentra soltanto su una cosa: le malefatte dei sovietici. Sui nazisti c’è soltanto un video in un angolino di una stanza e un cartello che segnala lo sterminio di 200.000 ebrei, ma tutto il resto è dedicato al comunismo sovietico (a Tallinn, più onestamente, avevano scritto chiaro nei commenti che “molto meglio i nazisti dei sovietici”).

Si comincia con la parte sui partigiani lituani; fino ai pieni anni ’50 migliaia di lituani si diedero alla macchia, vivendo in bunker nei boschi, per combattere i sovietici, credendo ingenuamente alla promessa fatta da Churchill e Roosevelt all’inizio della seconda guerra mondiale – “nessun Paese perderà l’indipendenza alla fine di questa guerra” – e attendendo un attacco occidentale all’Unione Sovietica che ovviamente non sarebbe mai avvenuto. Si prosegue con le deportazioni; circa 20.000 abitanti di Vilnius – tutta la borghesia e tutti gli oppositori alla sovietizzazione – vennero deportati durante l’occupazione del 1940, mentre altri 120.000 furono deportati tra la fine della guerra e la morte di Stalin.

Le persone politicamente impegnate venivano spedite direttamente ai lavori forzati nei gulag, mentre gli altri venivano “rilocati” in Siberia o in Kazakistan, e utilizzati come manodopera a basso costo; non erano formalmente prigionieri, ma non potevano lasciare il luogo di lavoro né comunicare con amici e parenti in Lituania, ed erano tenuti nella totale povertà. Tra i deportati c’erano anche circa 15.000 bambini, di cui un terzo morì di stenti nei campi. Solo a metà degli anni ’50 fu permesso ai deportati di ritornare in Lituania, dove peraltro non avevano più nulla, e solo dopo il 1989 fu permesso ai parenti di esumare le salme dalle fosse comuni in Siberia e riportarle a casa.

La parte veramente interessante del museo però si trova nel sotterraneo, dove è possibile visitare la prigione politica usata dal KGB durante tutti gli anni del comunismo. Nonostante non ci si aspetti certo una passeggiata di piacere, ci sono alcuni punti veramente impressionanti. Per esempio, ci sono due celle in cui il pavimento è stato scavato in una vasca, al centro della quale è stata messa una piccola piattaforma rotonda di ferro appoggiata su un sostegno centrale instabile; i prigionieri dovevano riuscire a stare in equilibrio sulla piattaforma, muovendo continuamente le gambe, per non cadere nella vasca piena di acqua gelida, e venivano lasciati lì anche per giorni. Vi è poi la stanza delle esecuzioni, con la parete sforacchiata dietro il punto dove venivano messi i condannati.

La stanza più impressionante però è quella delle torture: è una cella buia e vuota, senza finestre, di tre metri per due, in cui tutte le pareti sono state imbottite, compreso il pavimento, che è fatto da uno strato di pelle come di un divano. Lo scopo era quello di poter torturare i prigionieri senza che all’esterno si sentissero i colpi o le grida; ed ha in sé qualcosa di così intrinsecamente malvagio che è impossibile guardarla senza stare male.

[tags]lituania, vilnius, storia, unione sovietica, polonia, germania, guerra, comunismo, occupazione, genocidio, tortura, resistenza[/tags]

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martedì 14 Settembre 2010, 16:18

Della democrazia liquida e di altri pensieri

Oggi è il primo giorno dell’Internet Governance Forum 2010, a Vilnius. Io sono arrivato ieri pomeriggio, e ieri ho avuto appena il tempo di andare al cocktail di benvenuto organizzato dalla Internet Society (la sede centrale americana) all’ultimo piano del Crowne Plaza. Vista magnifica, vini e cibi raffinati, e io e altri “vecchi” commentavamo che dieci anni fa ISOC non avrebbe mai avuto i soldi nemmeno per prenotare la sala, e non sappiamo se questo sia poi un bene.

Stamattina, come faccio spesso in questi casi, sono venuto alla conferenza con i mezzi pubblici, e precisamente con il filobus. Mi son studiato online i percorsi e ho trovato quello giusto; ho comprato i biglietti dalla giornalaia senza problemi, sono salito su un mezzo d’anteguerra e… ecco, l’unico problema è stato che io avevo in mano il biglietto da obliterare, ma all’ingresso c’era solo un blocchetto di ferro arrugginito delle dimensioni di un pacchetto di sigarette. Io ho provato a metterci dentro il biglietto in varie posizioni, ma non succedeva niente; non timbrava. L’autista cominciava a essere un po’ scocciato, ma alla fine ho avuto il lampo di genio: l’obliteratrice non era elettrica, ma funzionava ad energia muscolare umana. In pratica, bisogna prendere il lato di dietro e spingerlo con forza contro il biglietto, che peraltro non viene timbrato, ma sforacchiato in sei punti come se trafitto da una scarica di pallini; metodo un po’ brutale ma assolutamente economico, in perfetto stile sovietico.

Superata la lunga coda della registrazione, mi sono infilato nel primo meeting, dove si discuteva dell’uso di Internet per promuovere l’attivismo giovanile – dove per “giovani”, so che sembra incredibile, si intendono le persone da 15 a 24 anni, non i quarantenni. Dopo un po’ ho preso la parola e, a parte raccontare un pochino della nostra esperienza del Movimento 5 Stelle, ho chiesto se negli altri paesi non trovassero difficoltà a mobilitare i “giovani”, e se anche da loro ci fosse il problema di larghe fasce giovanili dedite soltanto a guardare la televisione o a uscire la sera a strafarsi. Mi hanno guardato perplessi, poi da varie parti del mondo un paio di 15-20enni mi han risposto: “No, i giovani hanno molto tempo e la voglia naturale di cambiare il mondo, non conosciamo nessuno dei nostri amici che non sia impegnato in qualcosa.”

Comunque, dopo la riunione ho cominciato a chiacchierare con Eddan Katz di EFF, che mi ha chiesto lumi sul caso Vividown (qualcuno ha una traduzione o commento alla sentenza in inglese?), e con Amelia Andersdotter. Amelia, 23 anni, svedese, diventerà a pieno titolo europarlamentare entro pochi mesi, quando i decreti attuativi del trattato di Lisbona entreranno completamente in vigore e con essi la Svezia riceverà un seggio aggiuntivo a Strasburgo, che andrà al Partito Pirata.

Siamo andati a prenderci un caffé e siamo rimasti lì per oltre due ore a raccontarci di un po’ di tutto, a scambiare opinioni sulla situazione politica europea, sulle conferenze internazionali e sui temi della proprietà intellettuale, che ovviamente sono al centro della loro azione (ma hanno cominciato a capire anche loro che il problema vero è più in là, è nella struttura dell’economia… e lì io ho attaccato con la decrescita). Io le ho passato il puntatore al paper di Van Schewick che prova che le violazioni della neutralità della rete diminuiscono l’innovazione su Internet, e lei mi ha raccontato dell’esperimento di democrazia liquida del Partito Pirata tedesco.

E così mi ha presentato Leon Bayer, 15 anni, il più giovane partecipante alla conferenza, che mi ha spiegato i dettagli del loro modello partecipativo. In pratica, il Partito Pirata tedesco si è messo a scrivere il proprio statuto; come ben sappiamo anche noi, queste sono le situazioni in cui di solito i movimenti politici si avvitano in faide procedurali e finiscono in pezzi. Loro invece hanno scelto il modello chiamato appunto “liquid democracy”; in pratica, grazie a una piattaforma informatica di supporto, qualsiasi simpatizzante può iscriversi al partito e scegliere se votare direttamente sulle questioni in discussione oppure se delegare qualcuno. La delega può essere data per argomento; per esempio, uno può delegare Tizio sulle questioni relative alla sanità, Caio su quelle relative al lavoro, e tenersi per sé la possibilità di voto su altre questioni. La delega inoltre può essere revocata o cambiata in tempo reale in qualsiasi momento.

E’ un sistema interessante, perché rappresenta un giusto mezzo tra la democrazia diretta e quella rappresentativa, permettendo a ogni partecipante di scegliere il livello di coinvolgimento desiderato e allo stesso tempo evitando deleghe incontrollate, dato che anche chi accumula moltissime deleghe può perderle in un attimo se le usa male. A me piacerebbe moltissimo sperimentarlo nel Movimento 5 Stelle; a Berlino ha funzionato benissimo (tra l’altro anche loro, alle politiche di qualche mese fa, hanno preso tra il 3 e il 4 per cento a Berlino) e ha evitato tutte quelle antipatiche discussioni sulle regole interne… e le lotte per scegliere chi fa il capo l’anno prossimo.

Ora sono in mezzo alla cerimonia di apertura, che si è aperta in modo un po’ kitsch quando l’onorevole presidente della Commissione parlamentare lituana sulle comunicazioni ha imbracciato tromba e microfono e ha cantato e suonato What a Wonderful World, su una base di tastiera preregistrata. Era bravo, ma l’ho trovato fuori luogo… Poi ho scoperto che Janis Karklins, ex presidente del comitato governativo di ICANN e mio collega nel Board, è diventato vicedirettore generale dell’UNESCO. Poco fa ha parlato Andrew McLaughlin, la persona che dieci anni fa organizzò le elezioni At Large di ICANN in cui ero uno dei candidati; adesso è vice-CTO della Casa Bianca e parla di democrazia digitale “on behalf of President Obama”. Ve lo vedete il governo italiano fare una scelta così?

[tags]igf, igf 2010, nazioni unite, internet governance, lituania, partito pirata, democrazia digitale, amelia andersdotter, internet society, vilnius[/tags]

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venerdì 10 Settembre 2010, 15:26

Dove va la libertà

La EXGAE è una associazione spagnola senza scopo di lucro con sede a Barcellona, creata da amanti della cultura libera, che promuove l’uso e la diffusione delle licenze libere per il rilascio di software e di contenuti musicali, multimediali e artistici in genere. Esiste da parecchi anni, tanto è vero che sono loro ad avere organizzato il Free Culture Forum a cui ho partecipato lo scorso anno, coordinando una interessante discussione. Si chiama così per fare il verso alla SGAE – la SIAE spagnola – ribadendo come “ex SGAE” che dalla prigione del copyright si può anche uscire.

Qualche settimana fa, nel bel mezzo del mese di agosto, EXGAE ha ricevuto un fax dagli avvocati della SGAE, che le contestano… una violazione del marchio a scopo di concorrenza illegale. Secondo la SGAE, siccome EXGAE si rivolge agli artisti e fornisce servizi di consulenza per la distribuzione della loro produzione, fa concorrenza alla SGAE, che è il leader del mercato suddetto; e in tale attività non può dunque usare un nome che assomigli al suo. “E’ come se qualcuno aprisse dei negozi di abbigliamento col nome EXZARA”, sostengono gli avvocati.

Quanto EXGAE sia un business lo spiegano loro stessi, da ben prima di questa vicenda, sul loro sito: “Gli avvocati prendono 100 euro l’ora. Noi chiediamo 20 euro alla gente e mettiamo gli altri 80 euro. L’abbiamo fatto per un anno e mezzo e abbiamo accumulato un debito di più di 10000 euro… A fronte di una situazione economicamente insostenibile, a partire da adesso funzioneremo in questo modo. Persone di esperienza ma non avvocati risponderanno gratuitamente alle domande… Se si arriva al punto che richiede un avvocato vi metteremo in contatto con avvocati specializzati con cui concorderete voi stessi le tariffe.”

L’attacco della SGAE è chiaramente pretestuoso; utilizza la legge sui marchi come grimaldello per fermare la diffusione della pericolosa idea secondo cui, per chi vuol distribuire le proprie creazioni anche a scopo di lucro, pagare un intermediario che lucra per legge e redistribuisce gli utili ai soliti noti non è affatto necessario.

Io partecipo da oltre dieci anni alle discussioni sui nuovi principi di condivisione della cultura introdotti da Internet (che poi, non dimentichiamolo, sono in realtà quelli vecchi, quelli che l’umanità ha adottato fino a un paio di secoli fa) e ho avuto modo di conoscere molti avvocati delle lobby della proprietà intellettuale e delle multinazionali del settore, anche a livello internazionale. Non ho paura di dire che, con poche eccezioni, non ho mai visto delle persone più avide, corrotte e false di loro. Uno di questi era un tizio settantenne, americano, curatissimo, perfettamente rasato, con le rughe spianate e incremate, che vestiva abiti elegantissimi e teneva al dito un anello d’oro dall’inquietante aura tolkieniana. Ecco, se dovessi immaginare il diavolo, credo che avrebbe le forme di un avvocato delle lobby della proprietà intellettuale.

Di queste cose i media parlano ancora meno che dei processi di Berlusconi, dato che Berlusconi può anche prima o poi cadere, ma le lobby economiche restano. La proprietà intellettuale fu originariamente introdotta con uno scopo condivisibile, quello di permettere agli artisti e agli inventori di farlo come professione; uno scopo che ormai è stato ampiamente travalicato. Oggi, è la base legale con cui si vogliono vincolare e censurare le idee scomode, ridurre le opportunità di organizzazione dal basso, stringere le catene con cui, in una società basata sull’immateriale, le persone possono essere tenute al guinzaglio.

I media non parlano per esempio di ACTA, il trattato internazionale segreto con cui, con la scusa della contraffazione, i governi e le lobby che li ispirano vogliono introdurre un livello di controllo senza precedenti su Internet e sulle nostre comunicazioni. E’ al centro di accesi dibattiti da anni, ma avete mai sentito un telegiornale parlarne?

Questi sono argomenti su cui la sovranità da tempo non è più del popolo, su cui i Parlamenti hanno poco da discutere (il nostro poi, anche potendo, non capirebbe di cosa si parla); sono questioni che vengono discusse e decise come minimo al Parlamento Europeo, più facilmente dietro le porte dei club privati dei potenti del pianeta.

Eppure, sono questioni su cui davvero, più di tantissime altre, si decide il tipo e il grado di libertà della società in cui vivremo nei prossimi secoli.

[tags]proprietà intellettuale, copyright, software libero, sgae, exgae, avvocati, acta, parlamento europeo, cultura, libertà[/tags]

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giovedì 26 Agosto 2010, 13:14

Come rispondere a chi licenzia un Paese

Mi hanno raccontato la situazione di una persona assunta da sette anni a tempo indeterminato in una multinazionale dell’ICT, una delle poche che hanno ancora una sede qui a Torino. A lei e ai suoi colleghi, l’azienda sta offrendo una buonuscita pari a 44 mensilità del loro stipendio, purché si licenzino. Avete capito bene: sono quasi quattro anni di stipendio. Ma cosa significa il fatto che una azienda sia disposta a pagare quattro anni di lavoro di una persona – dopo averla assunta, formata e specializzata per anni – senza nemmeno usufruirne?

Vuol dire che quell’azienda pensa che non solo non c’è lavoro ora, ma non ci sarà nemmeno tra quattro anni; altrimenti converrebbe comunque mantenere il dipendente in organico a guardare il soffitto, per poi ricominciare a farlo lavorare alla ripresa tra due o tre anni. Vuol dire che quell’azienda pensa che da Torino, dall’Italia è meglio scappare a gambe levate, che la nostra economia continuerà a peggiorare anche nel medio termine, che qualsiasi costo da pagare per poter licenziare i lavoratori e chiudere non è troppo grande rispetto al passivo che accumulerebbe rimanendo qui; che la scelta strategica è licenziare l’Italia.

Non è certo l’unico caso: la Fiat, dopo averci ammannito per anni spot strappalacrime sulla “azienda di tutti gli italiani”, aver incassato lustri di cassa integrazione e di incentivi alla rottamazione, ed essersi vantata di essere l’unica azienda a credere nell’Italia, ha annunciato di voler spostare le future produzioni di Mirafiori in Serbia, dove un operaio guadagna 400 euro al mese. Di fatto, è l’annuncio della futura chiusura di Mirafiori, la fabbrica simbolo dell’Italia. Quale è stata la reazione della politica? Nessuna. Qualcuno, al massimo, ha detto “no, dai, cattivelli, così non si fa, parliamone”. Per tutta risposta la Fiat ha cominciato a licenziare i sindacalisti di Melfi e a rifiutarsi di obbedire alla legge. Stiamo ancora aspettando una qualche reazione dello Stato italiano.

Governanti con un minimo di orgoglio, all’annuncio della Fiat, avrebbero risposto così: “Ah sì, vai in Serbia? Bene, sappi che sulle auto prodotte là ti metterò dei dazi di importazione talmente alti che alla fine in Italia, il tuo principale mercato, non ne venderai più una”. Ma l’argomento “dazi” è tabù: per trent’anni ci hanno inculcato il concetto che la concorrenza globale è sempre e comunque un bene e ci hanno fatto entrare in istituzioni internazionali controllate dalla finanza internazionale, dall’Unione Europea al WTO, dove ci siamo legati le mani e tagliati le palle da soli.

Io ho girato il mondo per conferenze e mi sento europeo e cittadino globale almeno quanto mi sento italiano e piemontese; penso che la globalizzazione non abbia solo aspetti negativi ma anche molti vantaggi, primo tra tutti la speranza di un mondo finalmente unito e pacifico. Non voglio certo tornare all’epoca in cui eravamo divisi in tanti staterelli che si facevano la guerra ogni trent’anni, e nemmeno mi attira la miseria pianificata dallo Stato in stile Nord Corea. Ma non possiamo neanche accettare di rimanere tutti in mezzo a una strada, o di vedere l’Italia divisa tra una cricca di arricchiti (spesso disonestamente) e una ex classe media ridotta in povertà, che si contende briciole di benessere in una continua lotta al ribasso. Non ce l’ha ordinato il medico di far parte del WTO o di accettare passivamente la competizione al ribasso e la delocalizzazione delle nostre produzioni, una operazione in cui la quasi totalità del guadagno viene intascata non dagli operai dei paesi in via di sviluppo, ma da un singolo imprenditore di casa nostra, praticamente senza ricadute sociali né qui né là.

L’obiettivo sociale primario di un’azienda, il motivo per cui scegliamo di organizzare le attività umane in questa forma, è creare lavoro e benessere per tutti, promuovendo il progresso e la sopravvivenza dignitosa dell’intera società. L’arricchimento di chi la possiede e di chi la gestisce è un effetto collaterale, anche giusto quando premia l’innovazione e l’intraprendenza, ma che non può venire prima dell’obiettivo primario; e non esiste, non è un diritto di nessuno, la libertà di arricchire se stessi impoverendo i propri concittadini.

Dunque ci sono nuovi modelli economici da trovare, nuove regole, nuovi principi che vedano l’azienda privata e il mercato come uno strumento da usare quando funziona e da rigettare quando non funziona, e non come un fine in se stesso. Discutiamone, studiamo le cose, facciamo esperimenti, magari anche errori: sarà sempre meglio che star qui ad aspettare passivamente il momento in cui milioni di italiani, per sopravvivere, dovranno assaltare i supermercati – o le ville dei Marchionne.

[tags]lavoro, economia, fiat, mirafiori, marchionne, melfi, torino, sindacato, licenziamenti[/tags]

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giovedì 5 Agosto 2010, 16:00

L’America oggi

Questa era una delle ultime sere che avevamo da passare a Shanghai: qui tira già aria di smobilitazione, oggi all’università c’è stata l’ultima lezione e domani c’è l’esame, anche se questo non sembra preoccupare granché i virgulti italici, che in buona parte insistono nel tornare a casa alle quattro dalla vita notturna e poi presentarsi in classe al mattino con un’ora di ritardo dicendo “prof, non è suonata la sveglia!†(oggi non ne sono suonate quattro o cinque).

E così, io e Elena ne abbiamo approfittato per andare di nuovo a mangiare a Xintiandi, nel ristorante dei ravioli taiwanesi; oltre ai già classici ravioli di granchio e maiale e alla variante aperta in cima con un gamberetto infilato nel collo, oltre alla zuppa di noodles con dentro una splendida bistecca di maiale (sì, funziona), io ho ordinato wanton di gamberi in salsa piccante e ho fatto tredici: finalmente, dopo tre settimane, sono riuscito a trovare qualcosa di una piccantezza comparabile al pesce sichuanese cotto in teglia sotto una montagna di piccoli peperoncini rossi che avevo mangiato a Pechino tre anni fa, e che da allora è il mio parametro per il fondo scala del piccante. La salsa era originariamente nera di soia, ma in realtà nel piatto acquistava riflessi nettamente rosso rubino, da tanto era piccante. Alla fine ho bevuto la zuppa bollente e mi sembrava comunque fredda da quanto mi bruciavano le labbra; ma ne è valsa la pena.

Così siamo usciti, con un vago piano di andare a fare una passeggiata notturna sul Bund, abortito subito per via dell’ennesimo sbalzo freddo-caldo (qui l’Imodium va via come le caramelle). Allora abbiamo fermato un taxi, comunque felici, perché è stata una bella giornata: prima al Museo di Shanghai a vedere dei vasi Ming meravigliosi, poi al mercato delle stoffe a ritirare dei vestiti e ordinarne degli altri, e infine a cena nel posto elegante (ben 18 euro a testa, per qui uno sproposito, anche se nei posti eleganti e/o per occidentali si vede ben di peggio).

Il viaggio in taxi è durato un quarto d’ora ed è stato altrettanto bello: siamo partiti da Xintiandi e abbiamo subito attraversato Huaihai Lu, che è una delle vie eleganti di Shanghai; di notte (erano le otto, l’ora a cui i ristoranti cominciano a chiudere) ci fanno le vasche le Porsche e le Ferrari, in mezzo a una miriade di taxi e a una folla di pedoni con le borse dello shopping, sfilando davanti ai meganegozi di lusso di tutti i marchi della moda; è un viale alberato in cui ogni albero, come fosse Natale, è circondato da palline luminose e illuminato da un faro, mentre i grattacieli dai marmi nuovi di zecca e le vetrine dalle insegne animate e colorate completano un quadro mozzafiato – una immagine che fa sembrare Madison Avenue roba da poveri.

Subito dopo si sbuca sul fondo di un parco e poi, girando a sinistra, ci si trova davanti al gigantesco raccordo tra la sopraelevata nord-sud e la sopraelevata che porta fuori dal centro verso le tangenziali. Quando si parla di sopraelevate qui non si scherza: non sono semplicemente dei sovrappassi, ma vere e proprie autostrade collocate ad altezza folle, di solito tra il quinto e il decimo piano dei palazzi, di modo da poter poi realizzare i raccordi senza una sola curva a cavatappi, incrociando le varie rampe sopra e sotto e ancora più sopra e più sotto. Fanno impressione, e quando ci siete sopra, magari su un bus il cui autista insiste nel sorpassare a destra un’auto che va troppo piano mentre percorre una corsia di immissione in curva, fanno anche un po’ paura.

Qui però il raccordo è sì a grande altezza, ma in pieno centro; non è certo una bellezza, e allora cosa hanno fatto? Hanno illuminato di blu il sotto e il lato di ogni singola rampa e blocco di cemento, e il raccordo è diventato un’opera d’arte contemporanea, un flusso di luce attorcigliato e annodato in mezzo al cielo e sopra le teste di chi sta ancora coi piedi per terra.

Di lì siamo saliti sulla sopraelevata nord-sud, e siamo andati avanti per parecchi chilometri; e per parecchi chilometri ci siamo trovati a venti metri d’altezza, su di un immenso viale diritto a otto corsie, circondati da grattacieli e complessi immobiliari da ogni lato, tutti illuminati in qualche maniera. Era come scorrere su un grande tappeto rosso – ai lati le torri di vetro cemento e luce a farci da guardia, e dietro di loro altre torri e altri palazzi e una città immensa a perdita d’occhio, tutta costruita negli ultimi dieci anni. Ogni tanto si incrociano un’altra autostrada, una delle decine di sopraelevate, una stazione della metro che da sola occupa un isolato, in uno scenario così apertamente e arrogantemente artificiale da proporsi come il nuovo ambiente naturale dell’uomo.

Se volete vedere cos’è la Cina di oggi e domani, dimenticate Pechino; Shanghai è il posto da vedere. Se volete vedere il mondo di domani, il futuro iperurbano e postmoderno, lo trovate qui. Se cercate l’America, l’America oggi è qui; e anche se dopo le prime meraviglie si vedono tutti i limiti, i rischi, i problemi, l’alienazione, il sovraffollamento, le ingiustizie, gli sprechi, è facile capire perché le persone che hanno lasciato l’Italia o altri paesi vecchi e maturi, sviluppati o in via di sottosviluppo che siano, e che si sono trasferite qui per cercare fortune migliori, siano grate ai cinesi ed entusiaste di questa città.

Se invece non volete vedere, credete pure al pensiero comodo dei cinesi che vivono nelle capanne di fango e rubano il lavoro al mondo lavorando da schiavi in fabbriche dalla tecnologia medievale, ammazzando le figlie femmine perché il solo concesso deve essere maschio. Ci sono anche quelli, ma non più qui, qui c’è una delle capitali economiche del mondo, qui le fabbriche stanno già delocalizzando da Shanghai alla Cina interna, all’Indonesia, al Vietnam, e i figli dei contadini che dieci anni fa sono diventati operai e impiegati oggi vivono con un portatile in braccio e guardano le quotazioni di Borsa; e il governo qui ha introdotto incentivi per fare più di un figlio, perché da oltre quindici anni la Cina è in decrescita demografica e i giovani vogliono lavorare, guadagnare e comprarsi la macchina invece di fare figli.

Che poi tutto questo possa prima o poi schiantarsi contro la fine del mondo occidentale – la fine delle risorse e dello spazio fisico – è senz’altro vero, ma è un problema che riguarda tutti, non solo i cinesi. Nel frattempo, qui è sbocciato un rinascimento che aspettavano da almeno tre secoli. Ci sono già stati nella storia dei periodi – ad esempio tra il VII e il X secolo – in cui la Cina era la nazione più ricca e moderna del pianeta; l’idea che ciò possa accadere di nuovo nel XXI secolo, per quanto ancora lontana dall’avverarsi pienamente, è tutt’altro che priva di fondamento.

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domenica 1 Agosto 2010, 16:49

Storie di comunismo cinese

Rieccomi qui, dopo tre giorni di giro a Pechino. Forse pensavate che la polizia cinese mi avesse portato via (qualcuno ci sperava anche) e invece no, è che portarmi dietro il PC sembrava esagerato, anche perché all’andata abbiamo preso il treno notturno (e già quella è un’esperienza che meriterà un post).

Per questo racconto serale però non parlerò di Pechino, anche perchè la visita di stamattina alla Città Proibita è stata una delle esperienze più miserabili della mia vita: immaginate la calca del Festival delle Sagre, addensatela di tre o quattro volte, moltiplicatene l’estensione per venti e avrete una vaga idea di cosa abbiamo trovato. Mentre ero lì pensavo che vale davvero la pena di sconsigliare di venire a Pechino in agosto, perlomeno nei fine settimana… E ovviamente va sottolineato che gli stranieri erano non più del venti per cento: considerate che c’è circa un miliardo di cinesi che non ha mai potuto spostarsi dal suo paesello e che ora si trova la possibilità di visitare il centro della Cina in torpedone e pentole, e immaginate cosa succederà ai luoghi turistici di questo Paese nei prossimi anni.

Volevo dunque raccontare invece della cena di ieri sera – no, non dell’anatra alla pechinese, che è buona ma comunque secondo me non vale i soldi che te la fanno pagare e il mito che la circonda (alla fine, stringi stringi, è un burrito con salsa di soia). Ma della signora che abbiamo invitato, dopo averla reperita per conoscenze varie.

E’ una signora italiana che è venuta per la prima volta a Pechino nel 1988, mentre studiava cinese all’università; e dal 1992 vi è venuta a vivere, sposando un cinese e rimanendo qui per quasi vent’anni. Ha dunque vissuto direttamente tutta l’evoluzione della società cinese, e la sua conclusione è stata che per lei che ci vive è infinitamente meglio adesso, ma che chi la visita ora non potrà più vedere ciò che la Cina è stata per secoli e che sopravviveva ancora fino a quindici anni fa.

Ha cominciato descrivendoci della sua esperienza di studente straniero, che allora doveva vivere in una foresteria separata dentro l’Università; a ogni studente lo Stato, che allora era comunista sul serio, forniva un corredo fatto di un letto di ferro, un materasso spesso pochi centimetri, una sedia e un tavolino di legno per studiare, e un armadio di cartone ad un’anta. Fine: non si poteva avere altro, perchè come in tutti i sistemi comunisti non bastava avere i soldi per procurarsi oggetti, a meno di non ricorrere ai prezzi folli e ai pericoli del mercato nero. Per poter comprare qualsiasi cosa, dal riso ai vestiti, serviva un coupon; lo Stato decideva quanti coupon potevi avere ogni anno per ogni bene, in base alla tua professione e al tuo livello di anzianità, e tu al massimo quello potevi avere e nulla più.

Quello era il momento delle prime libertà: tra gli studenti circolavano giornali e notizie sul resto del mondo. Il contatto con gli occidentali non era comunque gradito, tanto che lei conobbe il suo futuro marito il quale, semplicemente per essere stato visto parlare con lei un po’ di volte, fu punito dopo la sua partenza. L’anno dopo ci furono le manifestazioni studentesche, che subito furono represse, ma che fecero capire al regime che il livello di chiusura e la povertà che esso generava non erano più sostenibili.

La signora ci ha dunque raccontato di quando il partito annunciò con grande enfasi che da quel momento in poi veniva introdotta, ovviamente tra molti vincoli, la libertà di commercio a titolo privato. Nel giro di una settimana i custodi dello studentato misero su un bazar e cominciarono a farsi i soldi…

Nella prima metà degli anni ’90 cominciarono timidamente a nascere le aziende private, sia cinesi che straniere (gli stranieri non potevano possedere più del 50%, limite che poi è stato tolto alcuni anni fa). Ovviamente quasi tutti i cinesi – tranne pochi pionieri, che ora sono in buona parte tra i mille uomini più ricchi del pianeta – le schifavano e preferivano continuare a lavorare per le “unità di lavoro†(in un sistema comunista classico non solo tutte le attività economiche sono dello Stato, ma non esiste nemmeno il concetto di “aziendaâ€: tutto è semplicemente un pezzetto infinitesimo dei vari ministeri). L’unità di lavoro era la mamma, come noi le fabbriche fino alla prima metà del Novecento: ti dava la casa, la mensa, l’assistenza. Le case non avevano i bagni, ma vi erano (vi sono tuttora) toilette pubbliche ogni isolato e docce in comune in fabbrica: la gente si lavava al lavoro prima di tornare a casa.

La signora venne a lavorare qui come interprete per le prime sparute aziende italiane, entrate negli anni precedenti per accordo diretto tra il governo cinese e il PCI, e si sposò con il suo cinese. Allora la norma era che l’unità di lavoro dello sposo assegnasse alla nuova coppia una casa, condivisa con un’altra coppia per i primi cinque o sei anni, trascorsi i quali il lavoratore avrebbe avuto una promozione – che avveniva principalmente per anzianità e poco per merito – e con essa un appartamento di livello superiore e così via (per questo motivo le case cinesi cadevano a pezzi, dato che nessuno ne era proprietario, nessuno ci restava per più di qualche anno e dunque nessuno aveva interesse a investirci).

Come coppia mista, allora assolutamente rara, loro ebbero il privilegio di avere da subito una casa da soli: una costruzione semi-fatiscente con una espansione abusiva in mattoni che crollò appoggiandoci la mano, perché non ci avevano nemmeno messo la malta non essendo riusciti a procurarsela. Tuttavia la casa aveva un problema: non solo non aveva il bagno, ma non aveva nemmeno il gas; e il livello del lavoratore non era sufficiente ad avere diritto ai coupon per le bombole di gas. Dunque non si poteva cucinare; la cosa fu risolta solo quando il capo della signora, ottenuto un appartamento in un palazzo nuovo e dotato dei tubi del gas, donò sottobanco alla signora la sua vecchia bombola e la tesserina che autorizzava alla ricarica (ovviamente trasportandosi la bombola a spalle fino al negozio).

In Italia, racconti di questo genere risalgono come minimo agli anni ’40, se non prima; eppure qui stiamo parlando della prima metà degli anni ’90, meno di venti anni fa. Capite allora perché ora i cinesi siano così orgogliosi della loro ricchezza e del loro splendore, e allo stesso tempo siano determinati ad emergere, per certi versi calpestando tutto e tutti senza pietà, per altri impegnandosi al massimo.

A parte la generazione dei ventenni, che vivono di McDonald’s e magliette firmate, tutti gli altri hanno vissuto sulla loro pelle questo sistema (per esempio uno dei docenti universitari ci ha parlato di Mao con odio evidente spiegandoci che lui, bambino a inizio anni ’70, non aveva potuto studiare – una attività pericolosamente borghese – ma era stato subito spedito a lavorare nei campi e aveva dovuto aspettare la morte di Mao per poter avere un’istruzione). Ora che molti di loro – anche se sempre una minoranza rispetto agli 800 milioni di contadini straccioni dell’interno – possono comprarsi un’auto, un cellulare, i vestiti che vogliono, possono scegliere che cosa studiare e che lavoro fare (nel sistema comunista entrambe le cose erano decise dallo Stato per te, in base alla pianificazione economica generale), possono prendersi addirittura due giorni di riposo a settimana pur lavorando dodici ore al giorno negli altri, hanno tutte le intenzioni di godersi la situazione.

Ancora quindici anni fa era tutto all’età della pietra: la signora nel 1995 era andata a lavorare come traduttrice in un cantiere di una diga nel Sichuan, e loro erano i primi occidentali ad aver messo piede in quella zona (allora ancora vietata agli stranieri) dal 1950. Avevano reclutato come operai le minoranze etniche del posto, gruppi semi-nomadi che giravano scalzi, vivevano cacciando e raccogliendo quel che trovavano e non avevano mai avuto in mano del denaro in vita loro. Al pagamento dello stipendio del primo mese, dopo poche ore i soldi erano già spariti: così dovettero insegnargli loro il concetto di risparmio. Con i primi soldi la tribù comprò un bene preziosissimo: ciabatte di plastica rosa per tutti. Nel giro di breve tempo però scoprirono i modi classici di spendere i soldi: fumo, alcool e prostituzione (il giorno di paga richiamava prostitute da decine di chilometri di distanza). Alla fine, comunque, molti di questi divennero operai qualificati: e così ne convertì al proletariato di più l’arrivo del capitalismo che quarant’anni di comunismo.

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martedì 20 Luglio 2010, 17:39

Più complesso di così

Quando si parla di Cina, l’occidentale pensa già di sapere tutto. Tipicamente non ci è mai stato né ci andrà mai, ma affronta la Cina con la spavalderia dell’ex colonialista – quello che interpreta il mondo sempre per similitudine con l’Europa – associata a un insieme di luoghi comuni derivanti un po’ dall’osservazione delle nostre Chinatown (che è come dire che l’Italia è tutta come Little Italy a New York, con i palazzi dipinti di bianco rosso e verde e con una economia interamente basata su ristoranti con gigantografie del Vesuvio sullo sfondo) e un po’ dai reportage dei nostri media, notoriamente affidabili e privi di sensazionalismi e secondi fini.

Eppure le questioni sono più complesse di così. Quando si parla di società, di politica, di diplomazia e di storia, la verità è raramente bianca o nera; più facilmente è vero tutto e il suo contrario. E’ vero, per esempio, che in Cina c’è la censura; che i diritti umani non esistono o quasi, che le persone possono essere incarcerate per una opinione espressa in pubblico o sfrattate dalla loro casa per permettere la costruzione di una nuova strada o di un nuovo centro commerciale.

Ma è vero anche che la natura politica di una società si forma per evoluzione lenta e per influenze successive; che in un Paese che viene dal comunismo e dove il concetto di proprietà privata è stato introdotto meno di quindici anni fa, non è così strano che la proprietà dei terreni sia ancora collettiva e che lo Stato si ritenga autorizzato ad usarla per uno sviluppo ritenuto più benefico per la collettività rispetto al preesistente appartamento del singolo; che, in generale, la filosofia del confucianesimo spinga da centinaia di anni, ben prima dell’avvento dello stesso comunismo, a considerare la collettività più importante del singolo e dunque a trovare più che giusto che la libertà individuale sia minimizzata e subordinata alle esigenze di tutti.

Il concetto di “diritti umani†è un concetto di natura profondamente occidentale, che da noi si è sviluppato in almeno trecento anni, dalla Rivoluzione Francese in poi, parallelamente allo svilupparsi di una borghesia, di un’economia industriale e post-industriale, di istituzioni democratiche moderne. La Cina sta compiendo lo stesso percorso – politico, culturale, economico – in trent’anni; è soltanto normale che sia indietro.

Noi, però, sembriamo non vedere l’ora di coglierli in fallo; probabilmente, sotto sotto, rosichiamo. Addossiamo a loro la responsabilità della nostra crisi, senza considerare che potrebbero essere loro ad addossare a noi la responsabilità della loro arretratezza. Non pensiamo che il primo attore dello sfruttamento è l’imprenditore italiano che trasferisce la produzione di scarpe in Cina, le paga un euro a paio pretendendo dai suoi fornitori la minima qualità e i minimi costi, le porta in Italia, ci appiccica l’etichetta “Made in Italy†e ce le vende a cento euro – e poi magari va al telegiornale a lamentarsi dell’importazione parallela delle stesse scarpe, prodotte dai suoi stessi fornitori, vendute a dieci euro, permettendo un trattamento migliore degli operai cinesi e un prezzo migliore per gli acquirenti italiani; dato che sempre più spesso non riusciamo ad esprimere un’idea di impresa diversa dal faccendismo.

Non pensiamo che dietro il successo della Cina c’è anche lo schiavismo, ma che ciò che a noi pare schiavismo non è poi troppo diverso dalle condizioni di lavoro e di vita che i nostri nonni hanno sperimentato negli anni ’50 e ’60, che sono state alla base del successo italiano di quegli anni, e che noi oggi non siamo più disposti ad accettare – e che però vorremmo che non accettassero nemmeno gli altri.

E non capiamo che ormai la Cina, almeno nella sua parte costiera, non è più un paese del Terzo Mondo dove si produce a prezzi stracciati, ma è un paese più o meno al nostro livello, dove l’economia è e sarà sempre più alimentata dalla domanda interna anziché dalle esportazioni, e che anzi sta cominciando a delocalizzare le fabbriche in Indonesia o in Vietnam; che sta smettendo di competere con noi sui costi della manodopera non qualificata, e sta competendo con noi sulla tecnologia, sull’innovazione, sulla finanza, sul marketing globale, sull’educazione e sulla preparazione delle persone – e sta cominciando pure a vincere.

Stamattina, un docente della locale università è venuto a farci lezione sul sistema politico cinese; e siamo rimasti sorpresi dal livello di introspezione politica, e anche di critica, che ci ha mostrato. La presentazione parlava senza peli sulla lingua delle dinamiche interne al Partito Comunista, con tanto di menzione degli eventi dell’89; parlava tranquillamente delle diverse ipotesi di rapporto tra partito e istituzioni, spingendosi persino a ipotizzare che la corruzione sia endemica in un sistema monopartitico e parlando di tutti i problemi derivanti da una “iperpoliticizzazione†dell’amministrazione pubblica. E poi ha dedicato mezz’ora a spiegare le questioni di Taiwan e del Tibet viste dal punto di vista cinese.

Certo, in ossequio al centralismo democratico, la posizione presentata era quella ufficiale; il nostro docente non avrebbe mai ammesso che un’altra posizione fosse possibile, anche se, dopo averci presentato le linee programmatiche di Hu Jintao, a una domanda interpretativa ha risposto “dovreste chiederlo al primo ministroâ€. Ma il fatto stesso che se ne parli, pur in un contesto particolare come un corso universitario per stranieri, è già sorprendente per i nostri preconcetti; eppure noi, come ha fatto stamattina uno studente, non sembriamo in grado di rapportarci in altro modo che ripeterli all’infinito, dando per scontato di avere ragione e di avere diritto di dare lezioni a chiunque.

Chi pensa di venire qui e trovare la Romania di Ceausescu, con i poliziotti a ogni angolo di strada e le persone rapite dai servizi segreti, sarà molto deluso; questo però non vuol dire che la Cina sia un Paese libero e felice. Tutto è molto più complesso; penso che ci vorrebbero molti anni a chiunque di noi per capire veramente cosa succede in Cina, ammesso che sia veramente possibile.

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domenica 18 Luglio 2010, 15:16

Il comunismo nel cesso d’oro

In teoria ero preparato, essendo già stato due anni fa per quattro giorni a Tokyo d’agosto; dunque avevo già presente la mostruosità del clima asiatico di questo periodo, con un caldo nominalmente nemmeno esagerato ma accumulato da un’umidità mostruosa, che ti si appiccica addosso e ti stringe e ti soffoca lentamente. Farsi la doccia è inutile, perché ridiventi appiccicoso prima ancora di ridiventare asciutto; lavare i vestiti è impossibile, perché non asciugano; l’unico rimedio è quello adottato dai locali, cioè dotare qualsiasi luogo chiuso di un condizionatore – qui ce l’hanno anche le topaie nei bassifondi, lo si compra prima ancora del televisore e dell’automobile – e spararlo a sedici gradi.

Il risultato è ovviamente uno sbalzo termico che fiaccherebbe un viadotto dell’autostrada, in cui ti devi portare dietro sciarpa e golfino per metterli quando entri dentro gli edifici, e ciò nonostante, quando sei fuori, vorresti soltanto ritornare dentro. Oggi, in particolare, abbiamo avuto un momento topico quando siamo arrivati al fondo di Piazza del Popolo, che sarebbe la piazza-parco che segna il centro politico della città; ha in mezzo il municipio, il teatro dell’opera e il museo cittadino, circondati sulla superficie della piazza da un parco “civilizzato†– così lo definisce il sottotitolo cinglese del cartello – di giardini e giostre e laghetti e magnifiche ninfee; affacciati sulla piazza vi sono poi una infilata di dieci o venti grattacieli che ospitano alberghi a cinque stelle, uffici di multinazionali, un concessionario Porsche e un concessionario Ferrari; la piazza occupa un’area circa pari all’intero centro di Torino.

Ecco, dicevamo, siamo arrivati in fondo alla piazza, e per andare verso la città vecchia e il quartiere della concessione francese bisogna attraversare una tangenziale a sette corsie più sette nell’altra direzione, e ovviamente c’è un sovrappasso pedonale appeso sopra l’incrocio e sotto la sopraelevata autostradale, ed ecco proprio lì, salite col fiatone le scale, in mezzo al caldo che pioveva dalle nuvole e rimbalzava dall’asfalto, abbiamo praticamente avuto un collasso, ognuno di noi indipendentemente, rischiando di accasciarci lì.

Per fortuna dall’altra parte c’era l’ingresso di una stazione della metro, con il suo tornado a sedici gradi che usciva dalle viscere della terra, e mi ci sono messo per scaricare un po’ di caldo, e anche se il freddo fosse venuto solo da un tombino mi ci sarei messo sopra come una Marilyn in pantaloncini, a costo di gelarmi le parti intime.

Questo è tuttavia l’unico problema di Shanghai, che per il resto è un posto davvero impressionante. Noi siamo ospitati nel campus della Fudan University, che sta in zona semicentrale, ossia a una decina di chilometri dal centro. Un mese fa, guardando con Google la mappa della zona per vedere com’era la logistica, mi ero preoccupato: le più vicine stazioni della metro, una da una parte e una dall’altra, distavano quasi mezz’ora a piedi, e si prospettava dunque una serie di lunghe camminate o la necessità di prendere il bus o anche il taxi, che qui costa poco ma presenta sempre il rischio che l’autista non capisca e ti porti a qualche decina di chilometri di distanza dalla tua meta.

Arrivati in albergo abbiamo dunque chiesto quale fosse la stazione più vicina, e ci hanno risposto: uscite, girate di lì, a fine isolato c’è la stazione, saranno dieci minuti a piedi. Noi scettici li abbiamo guardati male, e abbiamo confrontato con la mappa delle nostre guide e con quella trovata in camera, nessuna delle quali mostrava una stazione della metro in quel punto. Loro hanno insistito, così siamo andati a vedere e… c’è veramente una stazione della metro della linea 10. Ma sulle nostre carte non c’era nessuna linea 10!

Alla fine abbiamo scoperto: e certo, erano mappe del 2009! Nel 2009 c’erano nove linee di metro, ma nel 2010 ce ne sono dodici (del resto nel 2006 ce n’erano solo cinque). In effetti anche su Google, un mese dopo, sono apparsi sti 30 km di metro nuovi nuovi che l’anno prima non erano nemmeno tracciati come “in progetto†sulle cartine. Non solo: la stazione della metro ha aperto da soli tre mesi, ma intorno è già spuntato un gigantesco triplo centro commerciale, con multisala, fast food, negozi eleganti e altre attrazioni. Intorno ci sono ancora i vecchi isolati, alcuni con palazzoni anni ’80, altri con caseggiati anni ’50, ma è facile pensare che prima o poi anche quelli saranno rasi al suolo e sostituiti da un nuovo quartiere residenziale… che non sarà poi troppo diverso dai nostri, l’unica differenza è che da noi il nuovo progetto residenziale medio è fatto di cinque palazzine uguali da dieci piani l’una mentre qui è fatto di cinquanta palazzine uguali da trenta piani l’una.

Qui lo stravolgimento continuo è palpabile: quel che vedi oggi, domani potrebbe non esistere più. Ovunque ci sono isolati transennati, abbattuti, pronti a diventare nuovi grattacieli. Ovunque ci sono moltitudini di cinesi che corrono, lietamente presi nell’ingranaggio del capitalismo comunista, protagonisti dell’epoca d’oro della Shanghai da bere.

Abbiamo visto il museo del primo congresso del Partito Comunista Cinese, sul luogo dove esso si tenne clandestinamente nel 1921: è inglobato dentro un centro commerciale di lusso. Tra un ristorante messicano e un negozio di Gucci, puoi entrare e vedere la statua di cera di Mao di fronte al tavolo su cui scrisse il manifesto del Partito. Puoi sentire il racconto dell’eroismo dei partigiani comunisti contro i giapponesi nell’ambito della “guerra antifascista mondialeâ€. Puoi leggere di quando il Partito “su basi giuste, con moderazione e per il bene di tutti†dichiarò la guerra civile e liberò Shanghai dal Kuomintang. E poi puoi seguire Dente di Elvis, la mascotte dell’Expo 2010, che ti sciorina le foto di tutti gli impressionanti edifici costruiti per questa occasione, oltre alle sette nuove linee di metro; e imparare l’orgoglio della via cinese verso la supremazia mondiale; e con quell’orgoglio, insieme ai tuoi yuan di cafone ripulito, uscire subito a comprarti al negozio accanto un cesso d’oro, una maglietta firmata, o perlomeno un cappellino di paglia con scritto “Ronaldiño†(va di moda anche qui sognare il Brasile).

In fondo fu detto che ognuno avrà secondo i propri bisogni: nell’epoca della tamarraggine globalizzata, è tanto giusto quanto geniale che ciò conduca il comunismo a svilupparsi in modo che anche i cinesi possano soddisfare bisogni di questo tipo.

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martedì 6 Luglio 2010, 18:21

La Padania che verrà

La Padania è sempre più spesso nei nostri discorsi; e questa è già una vittoria di Bossi. Su Lega sì, Lega no si è incentrata buona parte della passata campagna elettorale per le regionali piemontesi, e ancora di più la pletora di commenti usciti dopo il voto, per non parlare di un crescente “dialogo culturale” tra polentoni e neoborbonici, a colpi di insulti e di revisionismi su storie di 150 anni fa.

A me tutto questo fa arrabbiare; non tanto il fatto di dover discutere se abbiano rubato più soldi i piemontesi dalle casse napoletane o i napoletani dalle casse piemontesi (siamo in Italia, hanno rubato tutti), ma il fatto che in questo Paese non si riesca ad avere una civile e razionale discussione sul tema del federalismo.

Già, perché alzando un attimo il naso dal paiolo della polenta ci si potrebbe accorgere che l’Italia non è certo l’unico posto dove si discute di autonomie e di secessioni, e che il celodurismo da campanile non è affatto l’unico modo di discuterne.

Il Belgio, per esempio, è già di fatto un paese diviso in due nazioni e mezza, rotto da secoli di rivalità e da uno spettacolare ribaltone nella suddivisione della ricchezza economica tra Nord e Sud (purtroppo per i suoi abitanti, la Vallonia negli ultimi cento anni ha prodotto due cose soltanto: Magritte e la disoccupazione). Nessuno crede che il Belgio possa esistere ancora per molto, a meno che non si verifichi qualche miracolo economico.

La possibile frantumazione dell’Italia, dunque, non è affatto un tema di folklore, ma un problema oggettivo: del resto lo stesso Economist – pur di sinistra per quanto possa esserlo un giornale economico inglese – per gioco ma fino a un certo punto divide l’Italia in due, prevedendo una nazione separata al Sud, fuori dall’Unione Europea, cortesemente denominata Bordello.

Sono chiari a chiunque li voglia vedere i giochi di potere geopolitico e le tensioni economiche interne all’Unione Europea, e si parla apertamente di doppio euro e di possibile uscita dall’Unione di un blocco forte, dominato dai tedeschi – a cui interesserebbe ovviamente tenersi attaccato il Nord Italia e scaricare il Sud. Se scattasse una crisi globale di fiducia nei debiti pubblici, l’Italia rischierebbe davvero la bancarotta e il conseguente caos nelle strutture pubbliche; e a quel punto quanti di voi sono disposti a scommettere che le parti del Paese coi conti più in ordine sarebbero favorevoli a portarsi dietro i debiti delle altre?

Non sono certo le buffonate celtiche che spezzano i Paesi; le buffonate celtiche sono al massimo un metodo ben studiato per trasformare un concetto inizialmente innaturale in uno assolutamente familiare; provvisoriamente ancora respinto, ma familiare e dunque plausibile. Dopo, arriva il fattore scatenante per trasformarlo da plausibile a reale, che può essere un esercito o, più elegantemente, un disastro economico più o meno artificiale.

D’altra parte, siamo da decenni nel mezzo di un processo storico di “glocalizzazione”; da una parte i governi nazionali diventano impotenti di fronte a fenomeni socioeconomici globali, e dall’altra diventano troppo grossi e rigidi per gestire in maniera efficace una società che si evolve alla velocità della luce. Non è un caso che i migliori successi europei degli ultimi lustri vengano da Paesi di medie dimensioni (Irlanda, Danimarca) o da Paesi con una struttura fortemente federale (Spagna, Germania).

In fondo, nel momento in cui la mia economia e la mia vita sono governate da decisioni prese a Bruxelles e a Francoforte, che differenza fa che la scritta sul mio passaporto dica Italia, Padania, Piemonte, o Repubblica Popolare del Quartiere Parella? Non cambia praticamente niente, a parte il colore della maglia della nazionale e il rapporto costi/benefici legato alle prestazioni offerte da ciascun governo e alle tasse richieste in cambio. A questo punto, laicamente, tanto vale concepire lo Stato come un puro “centro servizi” e scegliere la dimensione di governo più efficiente.

Basta solo che se ne parli con serietà e con obiettività; e che nel farlo non si insulti chi, in tempi completamente diversi, per la nostra bandiera ha dato la vita. Altrimenti il rischio è che la secessione avvenga comunque, e che da una nazione da operetta si finisca in uno staterello di buffoni.

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