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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


domenica 8 Maggio 2011, 11:09

Distanze culturali

Ieri mattina sono stato invitato al Teatro Colosseo, insieme agli altri candidati sindaco, a inaugurare la nuova edizione del progetto Bookrunning: un’attività collaterale al Salone del Libro (= finanziata da noi) che prevede la libera circolazione e scambio di libri tra chiunque voglia partecipare.

A me sembra una buona iniziativa, in una società che ha disperatamente bisogno di cultura; senza cultura non si può capire il mondo e senza capire si diventa schiavi. Ho dunque aderito di buon grado e ho pensato a che libro lasciare; di idee me ne sono venute molte, da In viaggio con Alex di Fabio Levi (la vita di Alexander Langer, uno dei pochi politici di cui varrebbe la pena di seguire le orme) a London: The Biography di Peter Ackroyd (ok, un saggio sull’urbanesimo di 800 pagine in inglese non era molto adatto, ma è veramente interessante). Però sin dal principio sapevo che il libro non poteva che essere questo:

guidagalattica.jpg

Alla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams tengo talmente che non ho certo lasciato la mia copia ingiallita e consumata sin da ragazzino; ne ho comprata una nuova. Come ho scritto nella dedica, l’ho scelto “perché sotto un’apparenza leggera affronta con ironia i problemi esistenziali e sociali dell’umanità, e ci mostra prospettive inusuali con cui affrontare la diversità culturale e con cui accettare la casualità della vita.” E’ un riassunto molto crudo, e pensavo di raccontare di persona almeno l’inizio del libro, che incidentalmente parla proprio di cementificazione, burocrazia e arroganza del potere, solo… a modo suo. Pensavo di raccontare anche che la probabilità di essere raccolti entro trenta secondi da un’astronave dopo essere stati abbandonati nello spazio profondo è superiore persino a quella che ha una persona normale di diventare sindaco di Torino.

Sono arrivato lì e ho trovato già una distesa di libri pronti allo scambio: Pennac, Gramellini, Erri De Luca, Camilleri, Baricco, persino Stephen King. Come diversità culturale butta un po’ male, ho pensato; avrei proprio dovuto fare la gag che mi era venuta in mente e presentarmi con Cotto e mangiato di Benedetta Parodi. Fassino ha portato i libri di Aung San Suu Kyi per rimarcare che lui è stato in Birmania (anche se son sicuro che non avesse l’asciugamano) e Coppola non è proprio venuto, sostituito dall’altro Coppola che ha portato Cent’anni di solitudine. Bossuto ha portato un libro sul forte di Fenestrelle dove aveva scritto anche lui, Marra ha portato Rigoni Stern perché suo zio era alpino.

Il mio libro è stato accolto con un misto tra imbarazzo e derisione. Il giornalista Rai ha pensato che fosse un libro sulla mobilità sostenibile, per incentivare a usare di meno l’auto. Uno dei presenti ha supposto che fosse una guida turistica e che “galattica” fosse un modo di noi giovani per dire che era molto bella. Gli altri hanno pensato che fosse un romanzetto di fantascienza da leggere sotto l’ombrellone, non come loro che si dedicano a intellettuali come Camilleri e Baricco.

Raramente, insomma, ho potuto toccare con mano così bene la distanza culturale che separa la nostra generazione da quella che attualmente è al potere; e avere la conferma di come questa gente sia generalmente fuori dal mondo, provinciale e convinta di sapere già tutto – proprio l’atteggiamento che rende l’Italia così arretrata rispetto al resto del pianeta.

Comunque, il libro è stato debitamente registrato: e così, da qualche parte in giro per Torino potrete anche voi leggere la Guida galattica per gli autosoppisti di tal Douglas Adam

[tags]cultura, libri, salone del libro, bookrunning, douglas adams, guida galattica, torino[/tags]

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lunedì 2 Maggio 2011, 11:10

L’unica ricetta per il lavoro

Imaggio2011.jpg

Ieri mattina siamo andati al tradizionale corteo del Primo Maggio: in un momento in cui i diritti dei lavoratori sono sotto attacco e in cui la stessa festa dei lavoratori rischiava di essere travolta dalla contemporanea overdose mediatica di Papa polacco, ci sembrava ancora più doveroso esserci.

A metà corteo, abbiamo incrociato la troupe della Rai che ne ha approfittato per chiedermi una dichiarazione. Ho esposto circa quindici secondi di pensiero su lavoro e diritti, e mi hanno detto “è troppo lungo, puoi farne una più breve?”. Così ne ho rifatta una versione da dieci secondi (ormai espongo a macchinetta in base alle richieste). Se vi siete chiesti perché nelle interviste parlo così veloce, ora sapete perché; certo che poi la sera, guardando il TGR, abbiamo visto che Fassino e Coppola hanno avuto un minuto abbondante a testa, Musy (che non era nemmeno al corteo, l’hanno intervistato apposta la sera prima) e Bossuto trenta secondi, e a noi ci han fatto penare quei dieci. D’altra parte in passato non ci menzionavano proprio, e dunque già abbiamo fatto un passo avanti.

Sul blog, comunque, non ho limiti di spazio, e allora volevo ribadire brevemente una cosa che ho detto anche sabato in piazza. Il lavoro, nei paesi sviluppati, non si crea certo tagliando i diritti, a meno che non vogliamo diventare il retrobottega povero della Cina; si crea invece tramite l’innovazione, puntando su settori ad alto valore aggiunto, che possono essere Internet e l’ICT, le nuove forme di mobilità (con la tradizione che abbiamo…), le energie rinnovabili, e tutto ciò che serve a una società che deve riorganizzarsi profondamente per essere sostenibile.

Questo discorso ve lo fanno tutti, pure Fassino; quello che però non vi dicono è che c’è una seconda parte che viene regolarmente omessa.

Infatti, se voi andate a vedere come sono nate le grandi aziende innovative degli ultimi anni, scoprite che Google è stata creata da due persone di 25 anni, Facebook da un ragazzo di 20, Napster e il peer-to-peer musicale da uno di 18. Perché, con tutto il rispetto per le altre età della vita, che offrono altre qualità, per innovare bisogna essere giovani (anche se quel che conta è la mentalità, che non necessariamente coincide con l’età anagrafica: uno come Coppola è vecchio dentro).

In una società come la nostra, in cui si è considerati “giovani” fino a cinquant’anni e fino a tale età è quasi impossibile avere posizioni di responsabilità, ottenere fiducia e fondi per creare qualcosa, avere ascolto e credito dagli altri, per non parlare di un minimo di stabilità e fiducia nel futuro senza le quali la propensione al rischio crolla per forza, è chiaro che non c’è innovazione: e dunque è chiaro che non c’è lavoro.

Questo perché le energie, che pure a Torino ci sono in abbondanza, sono bloccate da una classe dirigente anziana e fuori dal tempo, che teme di perdere i propri privilegi, e che al massimo si limita a piazzare i propri figli per raccomandazione; perché quel poco di spazio che è dato ai giovani non è assegnato per merito, ma per conoscenza. E qui entra in gioco la meritocrazia, un altro elemento fondamentale, che non deve servire a discriminare o a negare a tutti la possibilità di vivere dignitosamente, ma che è necessario perché le energie e le risorse spese in nuovi progetti siano affidate a persone capaci e dunque diano dei risultati.

Per questo noi diciamo che siamo gli unici che possono dare a questa città una speranza anche nel campo del lavoro: perché abbiamo le capacità, le energie e il profilo per rovesciare questo meccanismo.

[tags]lavoro, primo maggio, innovazione, meritocrazia, disoccupazione, sviluppo, economia[/tags]

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sabato 23 Aprile 2011, 11:10

Addio Fukushima

Alla fine, il governo giapponese ha ceduto e ha deciso di proclamare una zona proibita permanente, nel raggio di venti chilometri dalla centrale nucleare di Fukushima. Quell’area sarà persa per sempre, almeno rispetto ai tempi delle generazioni umane; e cominciano i drammi di chi ha perso tutto e dovrà ricominciare altrove; agli ex abitanti della zona sarà concesso un massimo di cinque ore per rientrare in casa, salvare il salvabile (da capire quanto radioattivo) e dire addio definitivamente ai propri luoghi.

Per gli anziani di quella zona rurale perdere la terra dove hanno vissuto è un dramma insuperabile; anche per i giovani, ricominciare da zero da un’altra parte non è certo facile. Ho visto le riprese di scene del genere in Cina, durante l’evacuazione definitiva dei villaggi e delle città sullo Yangtze (una di un milione di abitanti) che sono stati sommersi per sempre dall’attivazione della diga delle Tre Gole; e sono scene strazianti. Ma quando questo avviene a sorpresa, senza preparazione, per la superbia degli uomini nel pensarsi superiori alla natura, è ancora più devastante.

I giapponesi sono abituati a subire; vivono in gran parte in città alienanti, con una densità di persone e di cemento superiore anche alla nostra. D’altra parte, per mantenere una popolazione così grande in un territorio così piccolo – sono il doppio di noi in un territorio di poco più grande, e di cui tre quarti sono montagne – è necessario pigiarla in condizioni disumane, totalmente artificiali; e per mantenere tali condizioni serve una quantità smodata di energia, perché senza trasporti il cibo non arriverebbe, senza ascensori non sarebbe possibile avere edifici alti, senza condizionatori sarebbe impossibile reggere le estati afose in mezzo a tanto cemento, e tutto questo parlando solo delle necessità basilari per la vita – cibo, casa, clima – senza cominciare nemmeno ad affrontare il tema delle attività umane e dell’economia.

L’approvvigionamento energetico, insieme a quello alimentare, è una delle due questioni strategiche più importanti sull’agenda dell’umanità. Il nucleare poteva apparire una scorciatoia; non lo è, non solo per i rischi, ma perché dipende dalla disponibilità di minerali che, se usati a questo scopo, sono stimati in esaurimento entro qualche decina d’anni. E’ chiaro che, a fronte di una popolazione mondiale che continua a crescere esponenzialmente, l’energia o è rinnovabile o non è sostenibile.

Certo, c’è da chiedersi quale sia il massimo di popolazione che, pure in condizioni artificiali, il nostro pianeta potrà sostenere; perché è assolutamente certo che ci sia un massimo, e che quando ci arriveremo vicini la natura, da sola, si organizzerà per ammazzarci come mosche, e riportarci ad una quantità accettabile.

[tags]natura, nucleare, giappone, fukushima, energia, demografia, sovrappopolazione[/tags]

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mercoledì 30 Marzo 2011, 10:46

A Copenaghen

A Copenaghen, è normale salire sul treno dall’aeroporto – che passa ogni dieci minuti e collega direttamente non solo il centro città, ma tutta la costa a nord e persino la Svezia – e trovare mezzo vagone senza i sedili, con seggiolini reclinabili e un ampio spazio pensato per ospitare le bici; in ogni vagone ce n’è almeno una.

A Copenaghen, i treni locali oltre allo spazio per le bici hanno anche Internet gratuito e liberamente accessibile a tutti.

A Copenaghen, tutti i corsi hanno una corsia ciclabile rialzata, delimitata e separata sia dal marciapiede che dalla carreggiata.

A Copenaghen, quando bloccano una piazza o una strada per un cantiere, prevedono due percorsi alternativi separati e paralleli: uno per i pedoni e uno separato per le biciclette.

A Copenaghen, a ogni angolo ci sono distese di biciclette parcheggiate sui marciapiedi e sulle piazze – in qualche punto ci sono anche appositi stalli a due piani; e le bici non sono nemmeno legate, sono solo appoggiate lì.

A Copenaghen, tutte le vie del centro storico sono a senso unico “eccetto bici”, e le bici possono percorrerle contromano per fare prima, usufruendo di appositi spazi di fermata agli incroci.

A Copenaghen, la sosta a pagamento per le auto nel centro è in vigore 24 ore su 24; costa circa 40 centesimi di euro l’ora di notte, e circa 4 euro l’ora di giorno, e nessuno vede questo come una limitazione di un presunto diritto costituzionale a muoversi inquinando o a tenere una scatola di latta davanti al portone di casa. Se uno proprio ha bisogno dell’auto paga, se no prende il treno, il bus o la bici.

Chissà perché a Torino è tutto diverso; perché non potrebbe essere così anche da noi?

[tags]copenaghen, torino, mobilità, biciclette, parcheggi, treni, internet[/tags]

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giovedì 17 Marzo 2011, 14:26

Italia sì, Italia no

Fa sinceramente e seriamente piacere che gli italiani, una volta ogni cinquant’anni (anzi no: aggiungiamoci i mondiali di calcio), si ricordino di esserlo e abbiano voglia di celebrare la propria bandiera; in fondo siamo il Paese al mondo che meno rispetta se stesso, e questo, pur con le buone ragioni che uno può avere per criticare l’Italia, non è positivo.

I festeggiamenti hanno persino quasi smentito la mia previsione di baracconata incombente, anche se continuo a pensare che si sarebbero potuti spendere meno soldi in addobbi e cerimonie e più soldi per essere italiani insieme, cioè, almeno per un giorno, per aiutare davvero le tante persone che hanno bisogno e che dallo Stato ormai ricevono poco o nulla; invece di onorare i Savoia, Napolitano e Berlusconi avrebbero fatto meglio ad andare a servire il pranzo a una mensa dei poveri.

Credo che sia giusto, almeno una volta ogni cinquant’anni, ricordare e onorare i milioni di persone che hanno sacrificato la propria vita per la nostra bandiera, per un ideale nazionale di unità, libertà, prosperità e fratellanza; e poco importa chi le abbia mandate a morire e per cosa. Possa il loro sacrificio ricordarci che quell’ideale è tutt’altro che realizzato, anzi che è stato spesso tradito, e che i veri patrioti non sono coloro che abusano delle cariche istituzionali o le insozzano mancando ai propri doveri, ma coloro che dal basso cercano di abbatterli.

Credo anche che al giorno d’oggi, in una società multietnica dominata da fenomeni globali, il concetto di “stato nazionale” abbia sempre meno senso; che si potrebbero gestire le istituzioni in modo più economico ed efficiente con tre soli livelli, il Comune, la Regione e l’Europa, mantenendo l’Italia come una entità culturale a cui si sente di appartenere nell’animo, ma svuotata di poteri amministrativi; probabilmente, senza le pastette della politica, sarebbe anche più facile amarla.

Per il resto, ribadisco quel che scrissi in estate: che la retorica sugli italiani un tempo oppressi e ora finalmente uniti in libertà diviene facilmente eccessiva, se si ricorda che la realtà storica, purtroppo, non dice esattamente questo.

[tags]italia, unità, celebrazioni, storia, federalismo[/tags]

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mercoledì 9 Marzo 2011, 19:00

Animali e libertà (2)

L’epilogo di ieri in Consiglio Comunale è triste ma purtroppo scontato: di fronte alla richiesta delle associazioni animaliste di vietare anche a Torino i circhi con animali, come già fatto da altre città, il più grosso partito della maggioranza – il PD – ha deciso di votare contro e di affossare la proposta, che pure era sostenuta trasversalmente da esponenti di entrambi gli schieramenti.

Ora mi diranno che noi grillini ce l’abbiamo sempre col PD, però mi pare davvero che la pratica di utilizzare gli animali nei circhi sia al giorno d’oggi indifendibile. E’ innanzi tutto una questione di rispetto basilare di altri esseri viventi e senzienti; non è obbligatorio essere vegetariani – io non lo sono – ma non è nemmeno accettabile infliggere sofferenze solo per divertimento.

Inoltre, io sono convinto che chi non è capace di provare pietà per la sofferenza di un animale non è capace di provarla nemmeno verso gli esseri umani; in un momento in cui tanti soffrono e dove la solidarietà dovrebbe essere alla base dell’azione politica, mi chiedo quale coscienza possa avere un amministratore che prende certe decisioni.

E tanto per essere chiari, come già avevo fatto mesi fa, vi lascio con un video. Pur con tutta la mia passione per il calcio, sono sinceramente un po’ deluso, anche se non stupito, dal fatto che se riprendo dei tifosi che si insultano da una curva all’altra di uno stadio (in modo volgare ma anche goliardico e divertente, per carità) il video susciti immediatamente migliaia di click, e se invece parlo per tre minuti della sofferenza degli animali lo vedano in poco più di duecento persone in tre mesi. Ma io non demordo e ve lo rimetto qui sotto.

[tags]animali, circhi, libertà, rispetto, torino, consiglio comunale, pd[/tags]

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martedì 1 Marzo 2011, 20:01

Dell’onestà dei disonesti

A voi forse sembrerà che l’onestà sia un concetto semplice e lineare: onesto è chi non mente e chi rispetta le regole date dalla società. Eppure poche cose dimostrano come l’onestà sia in realtà un concetto complesso quanto ciò che è successo in questi giorni in Germania.

Per i pochi che non lo conoscono, il caso è questo: si è scoperto che il ministro tedesco Guttenberg, brillante 39enne, ottenendo quattro anni fa il dottorato di ricerca, ha copiato da altri lavori più o meno metà della sua tesi. Nessuno mette in discussione la sua intelligenza o la sua preparazione, né la sua adeguatezza agli incarichi politici che ricopre, per i quali è invece molto apprezzato e amato dagli elettori; può anche darsi che l’espediente sia stato solo un modo per far prima, tra un impegno e l’altro. Eppure, non ci sono stati sconti: in Germania una persona che copia e mente sulla paternità di un proprio lavoro non è moralmente adatto a fare il ministro, e Guttenberg si è dimesso.

Ora, noi potremmo comparare questo caso con la ministra italiana Gelmini, 37enne dalle dubbie qualità, la cui preparazione e i cui meriti per il ruolo che ricopre non sono granché evidenti. La ministra, dopo un diploma di maturità ottenuto in una scuola privata cattolica dopo aver frequentato senza grande successo due diversi licei pubblici, e dopo una laurea in giurisprudenza nella sua natìa Brescia su cui anche le sue compagne di studi si mettono a ridere, ha ottenuto l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato trasferendosi a sostenere l’esame a Reggio Calabria, ed offrendo lei stessa in una intervista questa motivazione: “sono andata a farlo a Reggio Calabria perché a Brescia non si passava”.

Ecco, anche questa ammissione è un’altra forma di onestà, l’onestà dei disonesti, anche se suona più che altro come una presa in giro per chi in Italia ancora studia seriamente. Ma non è questo il punto; il punto è che da noi nessuno ritiene che questo, da solo, sia un motivo sufficiente perché questa persona non possa fare il ministro. Per chi ne chiede le dimissioni, questi fatti sono solo un rafforzativo per le critiche alle sue proposte, o al massimo una dimensione di distinzione umana, “noi siamo quelli che studiano e loro sono quelli che si arrangiano”. Ma se da noi qualcuno chiedesse le dimissioni di un ministro sulla sola base del fatto che ha scelto per dare l’esame il luogo “in cui si passava”, sarebbe preso per pazzo.

Il concetto di “onestà” è pesantemente culturale; ciascuno di noi valuta l’onestà in base al comportamento di chi gli sta attorno – della propria famiglia, nella prima fase della vita, e poi di tutta la società, e specialmente delle persone più conosciute e visibili. Ci vuole un grande sforzo per imporsi un criterio di onestà diverso da quello socialmente definito; è ciò che si chiama “coscienza”, e una persona la sviluppa solo quando diviene veramente adulta – il che, nell’Italia di oggi, spesso non avviene mai. In Italia, poi, la stessa idea di “regola” è un concetto complicato, poco chiaro, soggetto a continui doppi standard per cui la norma scritta non è quasi mai quella applicata, anzi è talvolta del tutto inapplicabile, tutti lo sanno e va bene così; una disonestà disonesta non è accettabile, ma una onesta disonestà è considerata normale, fa parte della vita.

Il danno devastante dunque è proprio questo: le ultime generazioni di italiani sono cresciute con un concetto di onestà completamente diverso da quello utilizzato nel resto d’Europa, e totalmente malato. Forse sarebbe ora di cominciare a pensare a come affrontare questo problema.

[tags]onestà, dimissioni, ministro, germania, guttenberg, gelmini, società, cultura[/tags]

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venerdì 25 Febbraio 2011, 18:11

I furbetti alla guerra di Libia

Dunque, mettiamola così: siete perfettamente coscienti di vivere in un Paese governato da una finta democrazia, ma in realtà in mano a un dittatore che controlla anche buona parte dell’economia della nazione e che ogni giorno si esibisce pubblicamente in comportamenti squallidi – esibizione di donne-oggetto, minacce ai giornalisti e vanterie ridicole – che in tutto il mondo gettano discredito su di voi. Non pensate che sia abbondantemente giunta l’ora di ribellarsi, non necessariamente in maniera violenta, ma di scendere in piazza fin che non sarà costretto ad andarsene?

Se avete risposto di sì, allora come mai nessuno in Italia si aspettava ciò che sta succedendo in Libia?

La risposta è facile quanto scomoda: perché l’italiano medio, vedendo Gheddafi, ha sempre pensato che in fondo era il capo di quel Paese perché quel Paese era come il suo capo, perché i libici erano beduini ignoranti a cui probabilmente tutta quell’esibizione di baracconate luccicanti e di harem di giovani vergini piaceva un mucchio.

Di qui la sicumera con cui tutte le istituzioni e le grandi aziende del Paese – dall’Eni alla Fiat passando per Unicredit – si sono concesse al leader libico, dandosi di gomito e autocomplimentandosi per la furbizia e la spregiudicatezza nel fare affari con Gheddafi, contando sul fatto che tanto lui e i suoi figli sarebbero rimasti al potere per sempre, e accettando di umiliarsi nelle sue buffonate pur di guadagnarci.

Ora gli italiani furbetti sono stati puniti: se la rivoluzione libica si compierà, probabilmente le nostre aziende saranno cacciate dalla Libia a calci nel sedere, se non peggio; se non si compierà, probabilmente scatterà un embargo internazionale verso la Libia che distruggerà i loro affari.

E in più, a noi italiani resta in mano un’ultima domanda: ma se abbiamo fatto affari con Gheddafi considerando i libici un mucchio di fessi inermi che non l’avrebbero mai cacciato, come possiamo lamentarci di quando all’estero ci considerano tutti un mucchio di fessi inermi che continuano a tenersi Berlusconi?

[tags]libia, italia, gheddafi, berlusconi, dittatura, democrazia, rivolte, affari, fessi[/tags]

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giovedì 3 Febbraio 2011, 17:02

Ricordando il Cairo

Chi segue questo blog da lungo tempo ricorderà che sono stato due volte al Cairo, nel 2008; la seconda per uno dei ciclici meeting di ICANN, mentre la prima, più avventurosa, come unico italiano del gruppo e poi da solo, invitato dalla signora Mubarak a parlare di Internet e bambini. Ho girato mezzo mondo, ma di nessun altro posto ho portato via con me una così grande sensazione di inconoscibilità; una sensazione contemporanea di attrazione e di respingimento, di grande ricchezza e di totale barbarie, di civiltà raffinata e di caos cattivo.

Nel giro di due giorni ero passato da un modernissimo villaggio tecnologico pieno di palazzi di vetro, aiuole, palme e connessioni in fibra (c’è ancora ma è ora presidiato dai carri armati) a una passeggiata a piedi per il centro città (comprese le parti non turistiche) che resta una delle esperienze più memorabili della mia vita, insieme spaventosa e meravigliosa. La volta dopo, mi ero goduto un tour notturno (traffico compreso), una festa con espatriati e il giro tra Museo Egizio e centro commerciale; e altre cose che non avevo raccontato, per esempio un party davanti alle piramidi in cui ci ammannirono lo “spettacolo di luci e suoni” (dei laser verdi che disegnano forme sulle pietre, accompagnati da un pessimo impianto audio sparato al massimo) e l’applauso maggiore venne quando saltò di botto la corrente e dovettero spegnerlo.

Le contraddizioni di un posto del genere sono un paio di ordini di grandezza superiori alle nostre, e per questo non mi stupisce quel che sta succedendo. Ora pare che sia in corso una controrivoluzione, che bande di soldati in borghese abbiano circondato i manifestanti in piazza Tahrir (tra l’altro “piazza” è un concetto che mal si adatta a quel posto, direi piuttosto “una spianata occupata da numerosi incroci e svincoli autostradali”) e che li stiano massacrando. Detto che le dinamiche internazionali della situazione ancora mi sfuggono, e che mi pare strano che una cosa del genere possa succedere senza un ok degli americani e degli israeliani (di cui Mubarak è un garante), il Cairo mi è sempre sembrato un posto sull’orlo dell’abisso, con una densità di persone di livello cinese ma con tutt’altra capacità di garantire l’ordine. In questi casi, Internet – che già allora tentavano invano di bloccare – non può che trasmettere la scintilla.

Spero che la situazione migliori, per loro e per gli italiani che stanno là e che avevamo conosciuto (ultimo contatto, per mail, ieri pomeriggio). Spero di poter tornare in un paese pacifico e meno inquietante e frustrante di come era prima, perché alcune delle cose che ci sono là – la moschea di Ibn-Tulun, per esempio – sono davvero speciali.

[tags]cairo, egitto, rivolta, mubarak, viaggi[/tags]

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sabato 29 Gennaio 2011, 19:44

Una riflessione sulle domeniche a piedi

In questi giorni se n’è parlato parecchio un po’ ovunque, e allora vorrei esporre il mio pensiero sulle domeniche ecologiche come quella che si svolgerà domani (perdonate se è un po’ lungo, ma la materia non si può trattare per slogan).

Premetto che a me l’idea di girare tranquillamente per la città a piedi o in bicicletta piace molto, ma che non è questo il punto che deve determinare le decisioni di una amministrazione comunale, dato che ognuno può scegliersi le attività ricreative che preferisce. Quello che però richiede un intervento è il livello di inquinamento: la libertà di muoversi in auto finisce là dove genera danni intollerabili alla collettività, in termini di salute, di ambiente e di costi.

(Infatti, il sussidio economico collettivo all’uso dell’auto privata, in termini di spese per strade, parcheggi, sottopassi, semafori, vigili, incidenti e di spese mediche per le malattie che ne derivano, è incalcolabile; nel momento in cui una parte consistente della cittadinanza rifiuta l’auto privata, le spese che ne derivano dovrebbero essere strettamente accollate a chi invece la usa.)

Quello che però lascia perplessi, tuttavia, è proprio lo scarso collegamento tra domeniche ecologiche e calo dei livelli di inquinamento, spesso del tutto smentito dai dati. E’ vero, si può tirare in ballo un fattore educativo, ma l’idea che chi è rimasto (controvoglia) bloccato in casa la domenica poi impari a non usare l’auto il lunedì mi pare abbastanza dubbia; anzi, scommetto che gli automobilisti incalliti la useranno ancora di più per rifarsi contro i “maledetti ecologisti”.

D’altra parte, non è nemmeno accettabile l’estensione per induzione di questo ragionamento. Il fatto che una domenica di blocco del traffico non faccia particolarmente calare l’inquinamento non vuole affatto dire che il traffico non sia una sorgente importantissima di inquinamento. Se mai, vuol dire che le domeniche ecologiche sono “too little, too late”: un rimedio improvvisato e abborracciato di fronte a una situazione devastante (16 sforamenti dei limiti di legge, già piuttosto generosi, nei primi 18 giorni dell’anno) di cui però nessuno vuole farsi carico, perché all’italiano medio piace essere “benaltrista” e dire che non è la propria auto che inquina, ma il bus pubblico vecchio di vent’anni o la caldaia del palazzo di fronte (mai la propria, beninteso).

Scommetto peraltro che la logica risposta a quest’ultima argomentazione – togliere il blocco del traffico e imporre invece un “blocco delle caldaie” in pieno gennaio – non soddisferebbe comunque chi la espone; e vorrei anche far notare che un bus Euro 0 con anche solo dieci persone a bordo (ma spesso sono venti o cinquanta) inquina comunque molto meno che dieci auto Euro 5 con una persona a bordo ciascuna; peraltro buona parte del parco bus torinese è già stata rinnovata abbastanza di recente.

Dunque, investiamo pure nel rinnovo dei mezzi pubblici (magari elettrici) e in controlli accurati sulle caldaie (e su questo vi rimando alla bella analisi dell’esperto in materia della lista a cinque stelle), ma il traffico è e resta un problema; piantiamola di cercare scuse per non voler fare il sacrificio di usare un po’ meno l’auto privata. (Qualcuno mi ha pure detto che la colpa è delle Alpi che impediscono il ricambio d’aria; vero, ma allora la soluzione qual è, spostare Torino in Liguria? o morire di cancro allargando le braccia e gridando “maledette Alpi”?)

Bisogna però finirla con le improvvisazioni, che moltiplicano il disturbo e il danno ai cittadini. Per questa domenica erano programmate innumerevoli attività private, incontri sportivi, aperture straordinarie di ipermercati e persino l’inaugurazione di un mobilificio, che avrà speso una fortuna in pubblicità: un danno pesante che si poteva evitare se le “domeniche ecologiche” fossero state programmate non con tre giorni d’anticipo, ma con tre mesi.

E poi, piuttosto che bloccare il traffico di domenica bisogna farlo diminuire 365 giorni l’anno. Da una parte bisogna investire per migliorare frequenza e comodità dei mezzi pubblici, puntando su altre linee di metro (magari coi soldi risparmiati non facendo l’inutile TAV Torino-Lione) e su linee di tram e bus ad alta frequenza, aumentando le corsie preferenziali e le vie riservate al trasporto pubblico, diffondendo il bike sharing e piste ciclabili decenti e non raffazzonate come le attuali; dall’altra bisogna disincentivare economicamente le auto private, possibilmente con tariffe proporzionali al valore e al consumo dell’auto per non creare differenze sociali (i ricchi in auto e i poveri in bus).

Se tutti i torinesi che spendono tranquillamente 2000 o 3000 euro l’anno per la propria auto privata ne dessero 300 al Comune, si potrebbero avere mezzi pubblici molto migliori e si potrebbe vivere a Torino senza possedere un’auto, prendendola al car sharing solo quando strettamente necessario; e i torinesi risparmierebbero anche un mucchio di soldi.

[tags]traffico, inquinamento, auto, mezzi pubblici, divieti, domeniche ecologiche[/tags]

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