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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


giovedì 14 Settembre 2017, 13:29

La vera vita del ciclista torinese

Stamattina, prima di andare in ufficio, dovevo andare a un appuntamento in centro, vicino a piazza San Carlo. Ho così deciso di seguire le indicazioni dell’amministrazione e di tutti gli ecologisti-moralisti della città, e di andarci in bici. Volete sapere com’è l’esperienza nel mondo reale? Seguitemi.

Piazza Rivoli: Non esiste un attraversamento ciclabile, bisogna buttarsi nella rotonda facendo a gomitate col traffico e sperando di non essere investiti.

Piazza Rivoli angolo corso Vittorio: La pista ciclabile inizia solo dopo i primi cinquanta metri, che vanno percorsi nella carreggiata centrale evitando le auto che si fermano alle strisce e quelle che ti tagliano la strada per immettersi a destra sul controviale. Per imboccare la pista ciclabile, l’unico modo è infilarsi sull’attraversamento passando sui piedi dei pedoni, che giustamente ti mandano a cagare.

Corso Vittorio, tra piazza Rivoli e corso Racconigi: La pista ciclabile sta tra la carreggiata centrale, gli alberi e il muso delle auto parcheggiate, che regolarmente sporgono costringendoti a slalom sulla terra. L’asfalto è bombardato e pieno di buche enormi, già a 10 km/h ti fai male; in più è coperto di foglie e di rami. Sono dietro a un’altra bici, un anziano che va molto piano, e l’unico modo per superarlo è passare sulla terra e sulle foglie, perché la corsia è troppo stretta. A metà percorso, un tizio che attraversa a piedi la carreggiata centrale parlando al cellulare sbuca sulla pista ciclabile, io suono, lui si accorge solo allora di essere su una pista ciclabile, fa un salto e si spaventa. Nel frattempo due ciclisti mi superano percorrendo la carreggiata del controviale: teoricamente è vietato, essendoci la pista, ma non so dargli torto.

Corso Vittorio, incrocio corso Racconigi: La pista ciclabile finisce contro un’auto ferma, col rosso, in coda per immettersi in corso Racconigi, che in quel punto presenta un geniale imbuto che provoca il costante blocco dell’incrocio da parte delle auto in fila. Devo fermarmi e fare lo slalom tra auto che improvvisamente si spostano per reagire ai clacson delle altre auto che cercano di proseguire su corso Vittorio. Dall’altro lato, devo poi aggirare un’edicola (per fortuna è chiusa) per proseguire.

Corso Vittorio, tra corso Racconigi e piazza Adriano: Qui hanno rifatto l’asfalto ma gli altri problemi restano. Rischio anche di essere travolto da un cane di cinquanta chili che sta trascinando una signora di mezza età che, cercando di portarlo a pisciare sulla pista ciclabile, gli urla contro senza riuscire a controllarlo.

Piazza Adriano: Seguo le indicazioni ciclabili e finisco in mezzo ai giardinetti, seguendo un ameno percorso pieno di curve e svolte avanti e indietro che riesce a raddoppiare il tempo necessario per attraversare la piazza, facendomi arrivare all’incrocio con corso Ferrucci esattamente al momento giusto perché il semaforo mi venga rosso in faccia, facendomi perdere due minuti.

Piazza Adriano angolo corso Ferrucci: L’unico modo per riprendere la pista ciclabile, che è sul marciapiede, è infilarsi su uno scivolo pedonale con un gradino di tre o quattro centimetri che mi scuote tutto.

Corso Vittorio, tra corso Ferrucci e via Borsellino: Provo la pista ciclabile sul marciapiede, ma essa è in realtà la zona di attesa dei passeggeri dei bus a lunga percorrenza, ed è occupata da abbondanti masserizie, passeggini, bauli in attesa di caricamento, bambini che corrono e si inseguono giocando per ingannare l’attesa. Nessuno dei passeggeri ha la minima idea di essere su una pista ciclabile, anzi uno mi manda anche a cagare dicendo che non si va in bici sul marciapiede. Appena possibile abbandono la pista e torno sul controviale, evitando i bus in manovra.

Corso Vittorio, tra via Borsellino e corso Castelfidardo: La pista ciclabile è ancora sul marciapiede, ma è ancora più stretta e piena di pedoni di prima; però la percorro lo stesso, perché il controviale è pieno zeppo di auto ferme in coda.

Corso Vittorio, tra corso Castelfidardo e Porta Nuova: In questo tratto non ci sono piste ciclabili ed è quello in cui si va meglio: il controviale è largo e abbastanza poco trafficato. All’incrocio di corso Re Umberto vengo superato da un altro ciclista che mi saluta come “il sindaco che avremmo voluto”. Io ringrazio, ma immagino di essere diventato viola.

Porta Nuova: Qui è un mistero: dove devo passare? Non c’è altro che la carreggiata centrale, a meno di non volersi infilare sotto i portici pedonali della stazione. Ma possibile che in una strada rifatta pochi anni fa abbiano fatto otto corsie per le auto e non uno straccio di passaggio ciclabile? Alla fine opto per la corsia degli autobus, sperando che non ne arrivi dietro uno che comincia a suonarmi (in passato mi è successo). Per girare a sinistra devo accostare a destra sul fondo di via Nizza, non vedo altri modi sicuri.

Via Lagrange: Imboccando la via sotto gli archi di corso Vittorio, rischio il frontale con una signora in bici che imbocca l’arco contromano. Per il resto, la via diventa subito pedonale e facendo un po’ di attenzione ai pedoni si pedala bene; la cosa più difficile è infilarsi tra le gigantesche fioriere messe per bloccare l’accesso alle auto (ma per fortuna che ci sono).

Morale: arrivo al mio appuntamento, dico che sono venuto in bici e mi ricordano che la ditta offre ai clienti due ore di parcheggio pagato sotto via Roma: cosa avranno voluto dire? Io sono comunque contento di essere venuto in bici, ma ci vuole determinazione; davvero non si capisce con che faccia si possa criticare chi preferisce l’auto. Comunque ho una proposta concreta che andrebbe realizzata subito: chiudete tutte le piste ciclabili di corso Vittorio e lasciateci pedalare sul controviale, che è molto meglio; fare piste ciclabili del genere è solo buttar via i soldi.

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mercoledì 15 Febbraio 2017, 18:45

Dati alla mano, perché bloccare i diesel è sbagliato

A me, e alle migliaia di torinesi a cui i blocchi del traffico di Appendino non piacciono, non va di passare per inquinatore pigro col sedere sempre sull’auto. Per questo, permettetemi di contestare questo provvedimento coi dati; sono tutti presi dal sito del Comune di Torino, sezione Informambiente, ossia sono gli stessi che hanno sul tavolo sindaca e consiglieri comunali.

Si dice che il blocco dei diesel è necessario perché siamo in una emergenza ambientale che fa “centinaia di morti l’anno”, dovuta a livelli intollerabili di PM10. A parte che il concetto di “morte da inquinamento” è valido ma difficilissimo da quantificare oggettivamente, dato che diventa una concausa di una presunta anticipazione della morte naturale, se prendiamo i dati storici nelle tabelle qui sotto vediamo che da otto anni ormai Torino è entro i limiti di legge (50 microgrammi al metro cubo) in termini di media.


Siamo ancora fuori legge in termini di numero di giorni di sforamento; ma è evidente, pur nella forte oscillazione di questi dati dovuta alla variabilità del tempo nei vari anni, un trend in discesa legato al cambiamento strutturale di veicoli e abitudini. E’ giusto incentivarlo, anche accelerarlo, ma allora quello che si deve fare è promuovere il passaggio dall’auto privata a forme di mobilità più sostenibile, invece che l’acquisto di un’auto privata più nuova; e comunque, non c’è nessuna emergenza, altrimenti dieci o vent’anni fa, quando l’inquinamento era doppio o triplo, Torino sarebbe stata sterminata.

Bene, voi direte: ma anche un provvedimento come questo, che invece di incentivare a lasciare l’auto privata spinge a comprarne una nuova passando da diesel a benzina, è utile a questo trend, perché il PM10 è responsabilità dei diesel. Peccato che la realtà sia ben diversa: la prossima tabella mostra le emissioni medie di PM10 dei veicoli diesel e benzina, secondo la categoria “Euro X”. Notate qualcosa?

Certo, i vecchi diesel Euro 0 o precedenti producevano quantità abnormi di PM10, ma a partire dall’Euro 5, le emissioni di PM10 dei diesel sono uguali a quelle dei benzina. Uguali! E allora che senso ha bloccare anche i diesel Euro 5-6 ma non i benzina, come prevede la delibera dell’amministrazione torinese in caso di sforamenti elevati?

Anche per gli Euro 3-4, le emissioni medie sono circa doppie dei corrispondenti benzina; più alte, certo, ma non così tanto da attribuire solo a queste macchine la responsabilità del PM10, che invece è ormai distribuita su tutto il parco circolante, benzina o diesel che sia, e dipende molto di più dalle abitudini di spostamento, ossia da quanto ognuno usa la propria macchina. Per esempio, un veicolo a benzina Euro 6 che percorre 30 km al giorno emette il 50% in più di PM10 di un diesel Euro 3 che ne percorre 10.

L’ultima figura, qui sopra, è quella che usa il Comune per giustificare l’accanimento contro il traffico, invece che contro le caldaie o i roghi della plastica. Ci sta, probabilmente è vero che il traffico è tuttora il principale responsabile del PM10, però guardate la data in fondo: sono cifre del 2010. Vista la continua discesa del numero e delle emissioni dei veicoli circolanti, viene naturale pensare che sette anni dopo le proporzioni potrebbero essere cambiate significativamente; per esempio, questo studio, dati alla mano, sostiene che il grosso del particolato nell’aria della pianura padana derivi dall’uso di legna e pellet come combustibile.

Morale? Secondo me questo blocco non ha nulla a che fare con la salute e con motivazioni scientifiche; se così fosse, guardando queste tabelle, la scelta sarebbe stata di concentrarsi sull’incentivazione della mobilità alternativa, proseguendo il trend degli anni scorsi senza tanti allarmismi; ma anche volendo invece fare qualcosa, si sarebbe allora provveduto a bloccare uniformemente tutte le auto, a rotazione, vecchie e nuove, benzina e diesel, colpendo allo stesso modo tutti, per mandare il messaggio che bisogna usare di meno l’auto privata e di più gli altri sistemi di mobilità, invece che quello di cambiare l’auto (chi ha i soldi per farlo) da diesel a benzina, per poi poter sgasare liberamente persino con un SUV da sei chilometri al litro.

E allora perché questo provvedimento? Secondo me la risposta è una sola: propaganda. Ben studiata, perché fermare tutti fa arrabbiare tutti, mentre fermare solo i diesel fa arrabbiare solo chi possiede un diesel, che però viene additato come sporco inquinatore, mentre tutti gli altri possono dire: vedi, questa sindaca ci tiene alla salute, non come quello prima! Peccato che l’effetto sulla salute di questo provvedimento, per come è studiato, sarà circa nullo, e comunque indimostrabile. Ma per far finta di fare qualcosa, va bene.

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martedì 7 Febbraio 2017, 10:50

Cari consiglieri, una proposta da Malpensa

Cara giunta e consiglieri comunali che vi occupate di trasporti, invece di inventarvi solo nuovi modi di complicare la vita alla gente come i blocchi del traffico e il bip a gomitate sui pullman strapieni del mattino, volete fare qualcosa che la semplifichi? Leggete qui.

Stamattina sono tornato dalla Germania con un volo su Malpensa, perché il mio giro prevedeva un biglietto sola andata a prezzi ragionevoli e questo su Caselle è impossibile. Ora, se viaggiate, saprete che l’unico collegamento diretto tra Malpensa e Torino è un pullman della Sadem, la ditta che gestisce in monopolio tutti i collegamenti via bus tra Torino e gli aeroporti. Saprete anche che costa 22 euro, che vuol dire un migliaio di euro di incasso a viaggio, non certo poco; che c’è circa ogni due ore, per cui perderlo vuol dire perdere un sacco di tempo; e soprattutto, che da qualche anno la Sadem ha istituito la prenotazione obbligatoria, per cui è necessario comprare il biglietto in anticipo, stamparlo su carta, e sapere esattamente quale corsa si prenderà.

Ora, anche un bambino capisce che questo approccio a una navetta aeroportuale è una follia, perché è facile che i voli siano in ritardo, che la valigia non si trovi, che insomma ci sia un contrattempo che rende impossibile sapere in anticipo, prima del volo di andata, a che ora si riuscirà a prendere il bus al ritorno. Certo, la prenotazione obbligatoria permette di dire prima alla gente che non c’è posto, ed evita il problema del gruppone che arriva senza preavviso; ma questo problema sarebbe affrontabile semplicemente aumentando un po’ il numero delle corse e quindi la disponibilità di posti. Certo, però, questo vorrebbe dire aumentare un po’ i costi per il gestore, e ridurre i suoi utili, che però, a 22 euro a corsa, presumo siano davvero molto elevati; evidentemente il servizio è gestito nell’ottica di fare più soldi possibile, a costo di peggiorare la qualità del servizio per i torinesi.

Nel mio caso, l’atterraggio era previsto alle 8:20, e il bus era alle 8:35; era veramente difficile capire in anticipo se ce l’avrei fatta o no, per cui è normale che io abbia deciso di comprare il biglietto sul posto, solo nel caso in cui fosse andato tutto liscio. Peccato che, uscito alle 8:25 davanti alla porta 4 (quella da cui partono i bus), io sia andato al banco vendita e l’abbia trovato vuoto; al che ho percorso mezzo aeroporto, fino alla porta 6, per cercare un punto vendita aperto; non ce n’erano, al che ho pensato di comprare il biglietto dall’autista, come ho fatto già più volte arrivando la sera tardi.

Mi reco quindi alla palina sulla strada, dove una folla di varia umanità (prevalentemente cinesi) aspetta il bus; bisogna sapere che ferma lì, perché sulla palina c’è scritto solo “navetta Holiday Inn” (evidentemente un collegamento più importante di quello per Torino). Arriva il bus, l’autista scende e dice: avete tutti i biglietti? Io mi svelo e lui mi risponde che vendermi il biglietto non è un suo problema, e devo andarlo a comprare “nell’ufficio là in fondo”; gli spiego che l’ho già cercato, mi fa “in fondo in fondo, vicino alla porta 7”. Faccio qualche centinaio di metri di corsa con la valigia e trovo finalmente l’ufficio Sadem; spiego la situazione, e l’impiegata mi risponde “io non faccio biglietti per Torino, deve farli per forza dalla collega alla porta 4”. Segnalo che non c’era nessuno, mi dice “no vada vada, adesso c’è sicuramente qualcuno”; non si capisce perché non possa vendermi lei il biglietto, ma evidentemente anche per lei non è un suo problema.

Rifaccio di corsa mezzo aeroporto, arrivo lì, effettivamente c’è una signorina, le passo i 22 euro, lei non mi dà un biglietto, no: comincia a prendere un computer e a collegarsi a un applicativo Windows, o forse un sito Web, cliccando e ricliccando come se dovesse comprare un biglietto aereo per Tokyo. Infine, dopo due minuti di clic, fa partire una stampante che produce un foglio di carta. Lo prendo, corro fuori… e ovviamente vedo l’autista che mi parte in faccia senza aspettarmi.

Torno dentro, stanco e furioso, gridando mi faccio ridare i soldi (dovevo essere talmente incazzato che me li ha ridati senza battere ciglio) e vado a prendere il treno; il primo treno per Milano Centrale viene soppresso, una massa di stranieri perplessi (o sghignazzanti il solito “ah, Italien”) si sposta all’altro binario, dove per soli 13 euro posso prendere un regionale per Milano, e da lì un treno per Torino, mettendoci tre ore.

Ora, voi probabilmente potreste anche anche pensare che sia un problema da poco, ma io adesso ho dovuto spiegare al mio capo come mai ci sto mettendo più tempo da Malpensa a Torino che da Colonia a Malpensa, e dopo due o tre volte l’azienda potrebbe anche dirmi: senti, ma perché non ti trasferisci in Germania o perlomeno a Milano, così risparmiamo un sacco di soldi in trasporti e in tempo lavorativo buttato? E’ anche così che i posti di lavoro vanno via da Torino.

Per cui, amministrazione comunale: non fatevi infinocchiare quando vi promettono un treno alta velocità per Malpensa che costerebbe miliardi; sarebbe comunque pronto tra vent’anni, e nel frattempo a Torino saranno rimasti solo studenti e pensionati. Quindi datevi da fare; basterebbe un secondo operatore che non faccia cartello per far magicamente scendere i prezzi e migliorare le condizioni; o basterebbe andare a battere i pugni sul tavolo e imporre l’eliminazione della prenotazione obbligatoria, o almeno la vendita a bordo dei biglietti per i posti liberi, o una macchinetta automatica con la carta di credito, o tutte quelle cose che sono ormai scontate, nei Paesi sviluppati.

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lunedì 23 Gennaio 2017, 14:36

Meno torte, più ascolto

Sabato, in una affollata assemblea, tantissime facce a me note – persone che si impegnano per Torino da anni come cittadini attivi, persone con cui ho lavorato a stretto contatto nel mio mandato da consigliere, persone che hanno attivamente sostenuto il M5S nella campagna elettorale – si sono riunite per condividere la delusione per i molti impegni pre-elettorali non mantenuti dalla giunta Appendino o addirittura completamente rovesciati, facendo l’opposto di quanto promesso. Io non c’ero e non ho voluto esserci, ma ciò nonostante da due giorni ricevo resoconti e richieste di commento, sia da cittadini che da attivisti M5S.

Sul programma in sé, io trovo la delusione giustificata, anche perché non tutte le mancate promesse sono giustificabili con problemi economici imprevedibili, peraltro ancora da dimostrare nel concreto; ma trovo anche giusto vedere cosa la nuova amministrazione riuscirà a fare quest’anno, sperando di trovare quel cambiamento che finora non c’è stato.

C’è, però, una cosa che mi ha fatto veramente incazzare, nel modo in cui il M5S Torino ha reagito a quella che è stata una civile e ben motivata richiesta di confronto: cercando di metterci il cappello. A sentire le dichiarazioni prima e all’inizio della riunione, sembrava quasi che l’assemblea fosse stata organizzata dalla giunta, ansiosa di confrontarsi coi cittadini, quando in realtà era frutto di esasperazione auto-organizzata dal basso, di tante richieste di confronto finite in promesse mai mantenute o addirittura in ripetuti rinvii e dinieghi all’incontro. E poi, dopo una riunione in cui gli amministratori presenti se ne son sentite gridare dietro di ogni, il comunicato ufficiale del M5S Torino conclude dicendo che “la cittadinanza ha fiducia nella nuova politica di ascolto e confronto del Movimento”: ma con che faccia?

In più, in parallelo, magari per nascondere un po’ il problema, la sindaca invece di venire alla riunione si è data a un improvviso attivismo alimentare, passando dall’arrotolare grissini al fare la torta per la figlia, sempre ben in vista davanti alle macchine fotografiche. Ora, se avessimo voluto un sindaco che faceva le torte avremmo candidato un pasticciere; il sindaco, invece, dovrebbe innanzi tutto essere a disposizione dei cittadini, specie di quelli che si sono sbattuti per anni per la città e/o per farlo eleggere.

Permettetemi, questa non è nuova politica; questa è politica-fuffa all’americana, in cui l’importante non è risolvere i problemi, ma manipolare la comunicazione in modo da negarne l’esistenza. Funzionerà con le persone più semplici, ma chi ha un po’ di conoscenza delle cose percepisce una presa in giro insincera, calcolata freddamente con un solo obiettivo in testa, conservare il consenso. Nel frattempo già partono, verso chi non è contento, le accuse di ingenerosità, di essere pakato chissà da ki, di rosicare, di non essere costruttivo.

E allora, se posso dare un consiglio, cambiate marcia, ma non solo nei fatti: cambiate atteggiamento, ritrovate l’umiltà, chiedete scusa.

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sabato 26 Novembre 2016, 15:37

Chi ha affondato Valentina

Ho cercato di evitare, ma, visto che continuo a leggere affermazioni a sproposito, vorrei darvi un parere tecnico sulle responsabilità del Comune nelle emergenze di protezione civile (aka “di chi è la colpa dei battelli andati alla deriva nel Po).

La legge, infatti, è molto chiara (D.L. 95/2012, art. 19): il responsabile massimo della protezione civile in un territorio è il sindaco, che deve occuparsi di approntare i piani di emergenza, di avvertire la popolazione in caso di pericolo, e di coordinare la gestione dell’emergenza e dove necessario i primi soccorsi.

In particolare, in caso di allerta meteo, la protezione civile nazionale invia l’allerta a tutti i sindaci; di lì in poi, è l’ufficio del sindaco che deve attivare tutto il resto della macchina comunale. Questo però avviene in maniera molto diversa a seconda delle dimensioni del Comune: se nel piccolo Comune il sindaco fa tutto lui, insieme giusto all’assessore e al vigile del paese, nel grande Comune il sindaco deve attuare una propria procedura di comunicazione, interna all’amministrazione comunale, affinché tutti si attivino per quanto di propria competenza.

Quindi, è impensabile che il sindaco di Torino si possa preoccupare personalmente di verificare se le finestre sono state chiuse in tutti gli edifici comunali o se, appunto, tutti i mezzi comunali sono stati ricoverati come opportuno in vista della tempesta in arrivo. Tuttavia, il sindaco e il suo staff non possono nemmeno starsene lì seduti e dire “ogni organo comunale penserà per sé”, ma devono attivarsi per sollecitare il resto dell’amministrazione a prepararsi e verificare che lo faccia.

Pertanto, per capire se le responsabilità sono del sindaco o della dirigenza GTT o dell’ultimo povero tapino di GTT che doveva materialmente assicurare le barche, bisogna capire dove si è interrotta la catena. La protezione civile ha avvisato il sindaco e/o l’assessore competente dell’allerta meteo? Il messaggio è stato ricevuto, e cosa ha fatto la giunta? Il sindaco o l’assessore hanno fatto un giro di telefonate a tutti i dirigenti comunali e a tutti i manager delle partecipate per dire “c’è una piena in arrivo, fate scattare i preparativi”? E i dirigenti a loro volta hanno attivato le strutture sotto di loro? Senza capire questo, è impossibile sapere se la responsabilità sia di Appendino, di Ceresa o di chissà chi altro.

La polemica politica in questi casi è normale: pensate a quante volte una pesante nevicata mal gestita dal Comune, con le strade non spazzate, ha provocato richieste di dimissioni di sindaco e/o assessore competente. L’importante è evitare di trovare scuse e di scaricare il barile, contando tra l’altro che il presidente di GTT Ceresa, fino a giugno fassiniano, ora è pienamente in sintonia con la nuova amministrazione e ne ha ricevuto la fiducia. Invece dunque di scontrarsi a colpi di slogan, bisogna capire cosa non ha funzionato nell’organizzazione, per evitare che succeda di nuovo.

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sabato 5 Novembre 2016, 15:39

Capire la politica con la logica

Partiamo dai seguenti fatti avvenuti stamattina:

1. Il giornale cittadino pubblica una entusiastica guida alla “notte dell’arte contemporanea” che si svolge stasera a Torino.

2. L’account ufficiale del M5S, partito che amministra Torino, la rilancia dicendo che è un grande evento, che “Torino è viva” e che chiunque abbia una opinione diversa è “roso dall’invidia”.

3. Il capogruppo del PD, ex assessore ora capo dell’opposizione, la rilancia dicendo che è un grande evento, che è tutto merito della vecchia giunta PD e che il M5S si vanta di ciò che ha trovato “senza fare nulla”.

4. A un commento di un elettore avverso che accusa il M5S di prendersi meriti non propri, la risposta del M5S, con tono stizzito, è negare di aver mai detto che la manifestazione sia merito proprio, confermando quindi le parole del capogruppo del PD.

Ora, mettendo insieme le quattro affermazioni con logica aristotelica, si conclude per forza che:

A. Circa il 70% di Torino è roso dall’invidia.

B. Il M5S pensa che la politica culturale della precedente giunta PD sia ottima.

C. Chi ha votato M5S desiderando una discontinuità nella politica culturale rispetto al PD è un rosicone.

D. A causa della grande vita culturale di Torino, i torinesi che non votano né PD né M5S invidiano se stessi.

E. L’account ufficiale del M5S è impegnato a decantare i grandi risultati della precedente amministrazione PD, rispondendo pure male ai commentatori che li negano.

F. Il PD e il M5S sono d’accordo sull’importanza della cultura, però passano il tempo ad accusarsi l’un l’altro di non capirla.

G. Il PD cambia giudizio su Torino a giorni alterni: un giorno va tutto bene perché ci sono stati loro, e il giorno dopo va tutto male perché non ci sono più loro.

H. Nonostante i dubbi dei più, sia il PD che il M5S pensano che Torino sia tuttora una capitale culturale di altissimo livello, e insomma torinesi basta lamentarsi, gli stipendi di tutti i politici cittadini sono più che meritati.

I. Stasera ricchi premi e cotillon per tutti. Che fortunati che siamo!

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sabato 29 Ottobre 2016, 10:37

Sull’acqua bisogna cambiare rotta

Vorrei dare ancora un consiglio al M5S torinese, che sembra infilarsi sempre di più in un vicolo cieco senza nemmeno rendersene conto.

Dal punto di vista politico, l’operazione su Smat è stata un disastro totale: il M5S ha rotto con i comitati e con i sostenitori dell’acqua pubblica, scegliendo di usare le bollette dell’acqua come riserva di soldi (“come bancomat”, dicono i comitati) per coprire le spese generali del Comune, cosa che nemmeno il PD aveva fatto; e poi la cosa non è nemmeno andata a buon fine.

In termini di tecnica politica, è un caso di dilettantismo evidente, perché non porti in votazione una decisione divisiva se non ti sei assicurato di avere i voti per farla approvare. Inoltre, il massiccio voto contrario dei piccoli Comuni è motivato anche dalla mancanza di rispetto mostrata dalla sindaca nei loro confronti: forse non sapendo che oltre alle quote serviva anche una percentuale sul numero di Comuni, si è limitata ad accordarsi con quelli più grossi, senza nemmeno consultare quelli piccoli; ed è solo normale che questi rispondano votando contro.

Ma la cosa peggiore è la reazione, che trovate nel comunicato ufficiale: un vaneggiamento che cerca di salvare la faccia scaricando le colpe su chi ha votato contro, accusato di essere un crudele quadro di partito che vuole affamare i poveri e ride alle loro spalle, dipingendo una scena da Oliver Twist che può essere credibile solo a chi non conosce l’argomento.

E’ indubbio che il PD abbia colto al volo l’occasione per mettere in difficoltà la giunta: si chiama “fare opposizione”, lo facevamo noi gli anni scorsi. Ma il M5S deve riflettere sul fatto che a votare contro non sono stati solo “i piddini”, ma anche Comuni amici e simpatizzanti, retti da liste civiche che hanno a cuore il bene comune.

Questi hanno votato contro non per affamare i poveri, ma perché oggettivamente l’operazione tentata da Appendino è contro tutti i principi dell’acqua pubblica. Trattarli da criminali nei comunicati è arrogante, è maleducato, è intellettualmente disonesto e soprattutto peggiora le cose, perché certo non aiuterà la giunta torinese la prossima volta che avrà di nuovo bisogno del loro consenso, e non faciliterà la gestione pentastellata della Città Metropolitana.

Del resto, vedere i maggiori esponenti dell’acqua pubblica cittadina – tra cui addirittura un fondatore del meetup torinese – rallegrarsi per il successo dell’opposizione PD nel difendere l’acqua pubblica, dopo aver passato anni ad attaccarlo e a sostenere il M5S, è un capolavoro di autogol politico; dovrebbe far riflettere, far prendere una pausa, chiedere scusa e cambiare registro, invece che reagire pubblicamente a male parole, negando le proprie responsabilità e limitandosi a gestire la comunicazione di massa, come se un post su Facebook potesse sempre risolvere ogni problema.

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venerdì 21 Ottobre 2016, 16:18

La macchina ha un buco nella gomma

La notizia del giorno a Torino è l’arrivo della Guardia di Finanza in Municipio per una indagine su possibili irregolarità nel bilancio del Comune. Ne parlano tutti, ma più che altro in toni propagandistici, tra un trionfo dell’onestà (i pro M5S) e una minimizzazione a prescindere (i pro PD); tra accuse di “ladri” e controaccuse di “populisti”.

Eppure, cercando di capire le cose dai giornali, emerge un quadro un po’ diverso; e per questo ho pensato di mettere per iscritto quello che ho capito, con l’esperienza di consigliere comunale alle spalle, e che non è stato spiegato molto bene. Cercherò di fare ancora una volta quel lavoro di informazione ai cittadini che però, ecco, adesso dovrebbe magari fare qualcuno dei quaranta consiglieri comunali in carica, che hanno modo di avere le informazioni precise ed aggiornate che io non ho più.

Per prima cosa, che cosa è questo “buco di 50 milioni di euro”? E’ scappato qualcuno con i soldi nella valigia? No, leggendo i giornali si capisce quale sia la questione: è un disallineamento delle aspettative tra creditori e debitori, e in particolare tra il Comune di Torino da una parte, e due sue società dall’altra.

Le due società sono GTT, che notoriamente gestisce i trasporti pubblici, e Infra.To, che, meno nota, è la “proprietaria dei muri” della metropolitana e di altre infrastrutture cittadine, in ossequio al principio neoliberista per cui bisogna separare la rete dal servizio, per poi mettere a gara d’appalto il servizio stesso; sono società interamente di proprietà comunale, anche se più volte Fassino ha tentato di vendere GTT ai privati, senza mai trovare qualcuno che se la pigliasse a condizioni accettabili.

Allora, qual è la questione? Ve la spiego così: supponete di aver chiesto a vostro cugino di tagliarvi l’erba del prato in cambio di 20 euro. Il lavoro è avvenuto, poi però voi non avevate i 20 euro in tasca, e gli avete detto che glieli davate poi; e quindi vostro cugino è rimasto in credito con voi di 20 euro. Poi magari, nel tempo, gli avete detto: ma dai, ormai sono passati anni, vuoi davvero questi 20 euro? Ti ho già offerto una cena l’altro giorno, facciamo che siamo pari. E lui niente: no, grazie per la cena ma voglio anche i miei 20 euro, anzi, siccome in realtà ho tagliato anche l’aiuola davanti al garage, me ne devi 25. E voi: no guarda, non rompere le scatole, sai che non c’ho una lira, secondo me non ti devo più niente.

Risultato? Un contenzioso tra parenti, in cui ognuno pretende di avere ragione; per cui voi scrivete nei vostri conti che non dovete più niente a vostro cugino, mentre lui scrive che ha un credito di 25 euro verso di voi. Poi, visto che siete parenti, probabilmente non finirete in tribunale tra di voi; ognuno si tiene la sua posizione e se la porta avanti all’infinito nei propri conti. Certo, se a un certo punto si arrivasse davanti al giudice è possibile che voi veniate obbligati a pagare 25 euro, e quindi vi troviate con 25 euro di “buco”; è anche possibile che invece voi abbiate ragione, e che il buco resti al cugino; o, più facilmente, che ci si metta d’accordo amichevolmente per dividersi il buco a metà o per compensarlo con un altro lavoretto pagato, senza ingrassare gli avvocati.

Un caso simile, per esempio, è successo negli scorsi anni tra Comune/GTT e Regione Piemonte; la Regione riceve dal governo i fondi per il trasporto pubblico, senza i quali il trasporto non può circolare visto che i biglietti coprono giusto un terzo dei costi, e li ripartisce ai Comuni; però a un certo punto, essendo senza soldi, ha deciso di tagliare i fondi già stanziati, non solo per gli anni successivi ma retroattivamente per quello in corso. A quel punto il Comune ha detto: ma come, io quei soldi li ho già anche spesi! Fassino ha fatto causa a Chiamparino e alla fine ha vinto, però poi ci si è messi comunque a negoziare su quanti soldi effettivamente la Regione potesse ridare al Comune.

Allora, avrete capito che con questi meccanismi nessuno fugge alle Bahamas con dei soldi in tasca lasciando il “buco”. Il problema, però, è verso i terzi: perché a questo punto sia voi che vostro cugino vantate di avere 25 euro a disposizione, o al massimo da incassare, ma in realtà solo uno dei due può averli; e se si calcola il patrimonio familiare complessivo, sembra che di euro ce ne siano 50 anche se sono solo 25. Se andate a chiedere un prestito in banca, la banca ve lo dà pensando che abbiate un patrimonio che in realtà non avete per intero: e così si migliorano i bilanci.

Perché questo sia un reato, tuttavia, bisogna provare che il meccanismo sia stato concepito apposta per truffare i terzi; ovvero che non sia successo semplicemente che, in buona fede, ciascuno dei due parenti ritenesse di avere ragione nella disputa, ma che invece loro si siano messi d’accordo per dire “senti, tu dì che aspetti 25 euro da me, io dico che non ti devo niente, e così, ognuno con i propri creditori, tutti e due sembriamo più solidi”, e riusciamo a chiudere il bilancio in pareggio e non in perdita. Questo sarà l’oggetto delle indagini.

Certo, la situazione in questo caso è complicata dal fatto che, proprio per evitare queste situazioni ampiamente diffuse, la legge da qualche tempo (poco) impone che il bilancio di rendiconto del Comune, cioè il documento fatto dopo la fine dell’anno in cui si tirano le somme di spese ed entrate, contenga una dichiarazione dei debiti e crediti con ciascuna delle società partecipate, concordata con esse; e in questo caso è ovviamente impossibile sostenere due versioni diverse.

Leggendo i giornali, pare che nel caso di GTT e Infra.To questa dichiarazione non sia mai stata presentata, il che, in teoria, avrebbe dovuto impedire l’approvazione del bilancio; in pratica, si è deciso di approvarlo lo stesso. Tuttavia, a scanso di querele per calunnia, io non posso sapere se questi documenti mancavano per errore perché ce li si è dimenticati o perché non si è fatto in tempo a produrli, oppure mancavano perché non ci si accordava su quali crediti considerare buoni, o addirittura perché ci si è messi d’accordo in cattiva fede in modo da poter far figurare la stessa cifra in positivo in entrambi i bilanci: questo lo accerterà l’indagine.

Ora, veniamo alle responsabilità: e qui la cosa si fa più spinosa. Già, perché – secondo quanto riportato dai giornali – mentre il bilancio di rendiconto 2015 del Comune è stato approvato dal consiglio comunale passato, e quello di GTT dalla giunta Fassino, il bilancio 2015 di Infra.To è stato approvato in estate dalla giunta Appendino, e la stessa sindaca se ne è assunta la responsabilità durante una discussione di commissione qualche settimana fa.

Del resto, sempre da quanto ho capito dai giornali, non è stato il M5S ad accorgersi del problema. Non ce ne siamo accorti prima, quando Chiara era, da consigliera di opposizione, vicepresidente della commissione bilancio; e non se ne sono evidentemente accorti quando, già amministrando il Comune, hanno approvato l’ultimo dei tre bilanci (ovviamente in buona fede). Chi se ne è accorto, invece, è l’ex candidato sindaco della Lega, il notaio Morano, eletto a giugno, che ha presentato l’esposto da cui pare siano partite le indagini.

Attualmente, quindi, non si sa nemmeno chi sia indagato e per quali eventuali reati; e bisognerebbe essere legali esperti della materia per capire se sono accusabili di reati solo quelli che consapevolmente (ammesso che sia avvenuto) abbiano inserito cifre irregolari nei bilanci, o anche quelli che abbiano inconsapevolmente approvato questi bilanci. Se è il primo caso, probabilmente l’indagine potrebbe riguardare solo dirigenti delle società partecipate, funzionari comunali e magari qualche assessore; se è il secondo, potrebbero venire indagati sia Fassino che Appendino e anche i consiglieri comunali che hanno votato il primo bilancio.

Diversa è poi la questione in sede civile e di Corte dei Conti, dove sicuramente tutti gli amministratori pubblici che hanno votato queste delibere, anche in buona fede, potrebbero venire chiamati a rifondere personalmente alle casse pubbliche gli eventuali danni; è già successo ad Alessandria.

Quanto alle conseguenze economiche concrete, per il Comune non dovrebbero essere significative: è difficile che tutti questi 50 milioni di euro risultino a carico suo. Magari si tratterà di recuperare un ammanco di qualche milione di euro, tipo i cinque di cui si parlava inizialmente; per fare una proporzione, è come se a una persona che guadagna 1000 euro netti al mese mancassero a fine anno 50 euro; dovrà rinunciare a qualcosa, ma comunque non andrà in rovina per quelli. Di sicuro, insomma, non è una “voragine”.

Diversa è la situazione per le due partecipate, in particolare per Infra.To, che da tempo soffre di una situazione economica complicata dal fatto che i suoi unici clienti sono sostanzialmente GTT (per l’uso delle infrastrutture) e il Comune (per la progettazione dei nuovi tratti di metropolitana); e sono clienti che pagano poco e male. Addirittura, un paio di anni fa, per far fronte alla situazione, il Comune ha “ricapitalizzato in natura” la società, conferendole un preziosissimo nuovo patrimonio: i binari di alcune linee del tram. Solo quelli del 16 furono valutati 35 milioni di euro, con tanto di perizia: e chi non pagherebbe una cifra del genere per comprarseli?

In questo modo, la società aumentò il proprio patrimonio e risultò in miglior salute finanziaria; ma se ora si scoprisse che i 165 milioni di euro di crediti che Infra.To sostiene di avere con il Comune sin dal 2006 sono anche solo in parte non più esigibili, la società potrebbe avere dei problemi, mettendo a rischio in particolare il tormentatissimo completamento della linea 1 fino a piazza Bengasi.

Io non so, dunque, cosa verrà fuori dalle indagini, chi sarà indagato e come. So solo che il dibattito politico cittadino di queste ultime ventiquattr’ore è stato secondo me piuttosto inutile, a base di nessuna informazione ai cittadini e di molta propaganda, come se fossimo ancora in piena campagna elettorale.

Già, perché il vero messaggio che ci manda tutta questa vicenda è che il trasporto pubblico locale, a Torino e in tutta Italia, è agonizzante per mancanza di fondi; e che le relative aziende stanno in piedi con lo scotch, legale o illegale che sia. E allora, invece di discutere se questa sia una voragine o una buchetta e se sia stato più distratto Fassino o Appendino, dovremmo chiedere alla politica (tutta) come pensi concretamente di difendere i nostri servizi pubblici, e cosa stia facendo per salvarli.

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mercoledì 3 Agosto 2016, 09:54

Sul MOI facciamo chiarezza

Oggi torna sui giornali l’argomento dell’ex MOI, occupato da più di tre anni da centinaia di immigrati, e di come liberarlo dall’occupazione, che – al di là degli alti e bassi, dei reati più o meno gravi che lì si sono compiuti e delle esperienze di comunità che vi si sono costruite – non può certo durare in eterno, anche perché la proprietà ha ottenuto da tempo dalla magistratura un ordine di sgombero la cui esecuzione, finora sospesa per motivi di ordine pubblico, non può essere rinviata all’infinito.

L’argomento è delicato e divide trasversalmente le idee e le coscienze; divide anche il Movimento 5 Stelle, tanto che in consiglio comunale io e Chiara ci esprimemmo diversamente, e che nel programma elettorale si è stati ben attenti a non essere troppo chiari su ciò che si vuole fare, usando gli stessi giri di parole che ritrovo negli articoli di oggi.

Difatti, sul fatto che l’occupazione vada superata siamo tutti d’accordo, ma ci si divide sul come: dando una casa o una sistemazione agli occupanti, al di là del fatto che ne abbiano o meno diritto, pur di scongiurarne le proteste; oppure agendo se necessario con la forza per allontanarli, ma senza concedere loro un trattamento diverso da quello di chiunque altro?

Il problema di fondo, infatti, è che gli occupanti appartengono sostanzialmente a queste quattro categorie:
1) profughi che hanno completato il ciclo di accoglienza, sono già stati mantenuti dallo Stato per un paio d’anni e poi sono rimasti in Italia regolarmente ma senza lavoro e sostegno, lasciati in mezzo a una strada (parecchi dei primi occupanti del MOI erano ex occupanti di via Asti e prima della Clinica San Paolo);
2) finti profughi, ovvero richiedenti asilo la cui domanda è stata bocciata e ora sono in Italia come clandestini;
3) clandestini “semplici”, ossia persone entrate in Italia irregolarmente o il cui permesso di soggiorno è scaduto, e che non sono mai state richiedenti asilo;
4) immigrati regolari rimasti senza lavoro e senza mezzi di sussistenza (che, presumibilmente, diventeranno clandestini alla prossima scadenza del permesso di soggiorno).

Nessuna di queste quattro categorie avrebbe diritto ad alcun sostegno da parte dello Stato o del Comune, a parte forse qualcuno delle ultime due se si scoprisse che ha i requisiti per essere un profugo senza aver mai richiesto tale status (ma è un caso raro, perché chi può fa subito la domanda).

C’è, però, un primo “ma”. La maggioranza uscente decise, nel dicembre 2013, di concedere anche agli occupanti abusivi la residenza a Torino, istituendo l’indirizzo fittizio di “via della Casa Comunale 3”. Quella fu una delle occasioni in cui io e Chiara ci dividemmo; lei era favorevole, io astenuto (potete leggere qui i riassunti dei nostri interventi in aula e anche il mio post dell’epoca).

La conseguenza più importante di questa decisione è che nel prossimo inverno centinaia di occupanti del MOI (un anno fa risultavano essere per l’anagrafe oltre 700) matureranno tre anni di residenza a Torino, e come tali avranno il diritto di ottenere una casa popolare, probabilmente passando in cima a tutte le graduatorie visto il loro stato di nullatenenti assoluti (tra l’altro, la legge regionale esclude dalle case popolari chi occupa abusivamente una casa popolare, ma non chi occupa abusivamente altri tipi di alloggi). E dato che a Torino sono disponibili 400-500 alloggi ATC l’anno, se le cose rimarranno così, è probabile che per un anno non ci siano case per nessuno se non per gli ex occupanti del MOI.

All’epoca si disse anche che le regole regionali sarebbero state riviste per “diluire” questo flusso, evitando una paralisi del sistema che avrebbe facilmente portato tensioni sociali; non so se sia stato fatto o se intendano farlo ora, viste anche le recenti dichiarazioni di Fassino sulla doppia graduatoria. Questo, però, rende ancora più urgente mettere mano alla situazione del MOI.

Soluzioni facili non ce ne sono; gli articoli parlano di un modello simile a quello usato per Lungo Stura Lazio. Lì, però, la situazione era diversa; non si parlava di occupanti abusivi organizzati di edifici altrui, ma di persone che si erano accampate dove e come potevano; i clandestini erano pochissimi, e molti invece erano cittadini italiani o europei, anche con un lavoro per quanto misero e precario, con diritti già maturati e con pieno diritto a rimanere in Italia; inoltre, c’erano cinque milioni di euro messi a disposizione dallo Stato centrale. Qui, se non arriva uno stanziamento specifico da parte del governo, soldi non ce ne saranno, a meno che il Comune non li reperisca di suo, dal proprio bilancio, togliendoli a qualcos’altro.

Si capisce che il pericolo di uno sgombero senza paracadute sia grave: cosa farebbero centinaia di persone senza nulla da perdere, una volta allontanate da lì, perdipiù assistite da centri sociali e organizzazioni pro migranti? Occuperebbero qualcos’altro, manifesterebbero in blocco per il centro? Da qualche parte dovranno pur andare.

D’altra parte, anche stabilire il principio che chi occupa in blocco prima o poi sarà sistemato, al di là dei propri diritti, è molto pericoloso. A quel punto cosa impedirebbe a una parte delle centinaia di migliaia di clandestini o di profughi che vivono in Italia di occupare in blocco edifici fatiscenti per farsi sistemare dal Comune di Torino? Chi convincerebbe i profughi che hanno terminato il ciclo di accoglienza, di solito senza conquistarsi alcuna sistemazione o autonomia economica, ad uscire pacificamente e arrangiarsi? E a cosa servirebbe sgomberare il MOI con tanta fatica, col rischio che un mese dopo ci siano altre 800 persone accampate lì in attesa di farsi sistemare?

Qualunque scelta si faccia i problemi sono grandi, e questo è innegabile. D’altra parte, è anche bene che le scelte siano chiare; e per ora non lo sono. Non si è capito, infatti, quale delle due strade voglia percorrere l’amministrazione; se vuole fare un censimento per aiutare solo quelli che ne hanno diritto in quanto profughi non ancora accolti, già sappiamo che saranno una sparuta minoranza e che resterà il problema di tutti gli altri; se invece vuole sistemare tutti gli occupanti, o anche solo inserire nelle case popolari quella grande maggioranza degli occupanti che ha avuto la residenza, perché “siamo tutti esseri umani, la casa è un diritto di tutti e sogniamo un mondo senza frontiere”, come sentivo ripetermi dagli esponenti del M5S che ora si occupano della materia, allora vorrei capire come potrà spiegare la cosa alle migliaia di famiglie italiane e straniere che vengono sfrattate ogni anno e che finiscono in mezzo a una strada o si arrangiano come possono, aspettando per anni una casa senza occupare alcunché.

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martedì 21 Giugno 2016, 15:04

Don’t cry for me, Cit Turin

Domenica mattina, su un pullman, nella periferia nordovest di Torino, l’autista e un passeggero parlano delle elezioni. Concludono entrambi che voteranno Appendino: l’autista perché “Fassino ci vuole vendere ai privati, Appendino difende il servizio pubblico”; il passeggero perché “Fassino ha riempito Torino di zingari, gli dà pure da mangiare, mentre a noi italiani non danno niente”.

Questa scenetta, a cui ho assistito personalmente, dimostra davvero che destra e sinistra come categorie e fasce sociali contrapposte non esistono più; sia che tu abbia a cuore una battaglia molto di sinistra per il mantenimento in mani pubbliche delle società partecipate, sia che tu abbia a cuore una battaglia molto di destra contro la presenza crescente degli stranieri e dei rom, comunque voterai Movimento 5 Stelle.

Ha votato Appendino il vecchietto ultra-80enne che ha salito con estrema fatica le scale del seggio di corso Svizzera in cui ero rappresentante, si è riposato dieci minuti buoni per riprendere fiato, ha votato e poi ha detto ad alta voce “e speriamo che adesso muoia, sto sindaco comunista!”; e ha votato Appendino la coppia di giovani che ho visto a festeggiare in piazza sotto il Municipio e che, rivolti verso i bei palazzi del centro, gridavano “andate a lavorare, radical chic di merda!”.

I commentatori si sono concentrati sulle contraddizioni insite in tutto questo; ed è vero, è vero che chiunque avesse qualcosa da ridire non solo sull’amministrazione Fassino o sul governo Renzi ma sull’economia, sulla geopolitica, sull’ordine sociale, persino sul tempo e sul risultato degli Europei di calcio, ha concretizzato la propria rabbia votando Appendino; è vero che le aspettative sulla nuova giunta sono non solo impossibilmente elevate, ma anche troppo contraddittorie per poter essere esaudite tutte.

Ma i commentatori che si concentrano sulle contraddizioni sbagliano, perché vivono ancora nel mondo della destra e della sinistra; sbagliano perché non capiscono che c’è un filo conduttore tra tutti quelli che hanno votato Appendino, un filo conduttore molto più forte delle contraddizioni interne. Un filo conduttore che esisteva già prima, ma che Chiara ha abilmente solleticato e rafforzato, con la sua campagna in stile primarie americane, innovativa per l’Italia e giustamente premiata, basata innanzi tutto sull’immagine, sull’emozione e sull’identificazione del “noi” con il popolo e del popolo con Chiara, più che sui temi di sostanza; una campagna inconsapevolmente peronista che io non avrei mai fatto e comunque non sarei mai stato in grado di fare, ma che era l’unica che potesse vincere e conquistare i cuori del popolo torinese (e quindi tanti complimenti a Xavier Bellanca, l’attivista-stratega oggi meritatamente intervistato dalla Stampa).

Il filo conduttore è evidente nella fotografia della distribuzione territoriale dei risultati:

mappa-ballottaggio-2016

E’ evidente che ciò che unisce i sostenitori di Appendino non è né la destra né la sinistra, e nemmeno l’apprezzamento per Grillo (volutamente tenuto fuori dalla campagna) o per le istanze storiche del M5S. Semplicemente, ciò che unisce i sostenitori di Appendino è di essere o sentirsi poveri; e sottolineo “sentirsi”, che per vedere i poveri veri bisogna andare nelle baraccopoli della Stura o direttamente nel Terzo Mondo, ma Torino è piena di ex classe media che pur vivendo ancora meglio di tre quarti del pianeta si sente a buon motivo pezzente.

Perché? Perché dall’altra parte c’è un sistema di persone che hanno esibito per vent’anni il loro bel centro lucido, i loro grandi eventi pieni di VIP, le loro connessioni familiari e sociali che li fan cadere sempre in piedi, la loro arroganza nel pretendere sempre ragione e nel liquidare qualsiasi opinione diversa come “fascismo” o “ignoranza”, la loro cultura rivendicata come uno status symbol, fino a stare immensamente sulle scatole alla maggioranza della città.

Davanti a un sistema organizzato che marca fisicamente e moralmente la distanza tra chi è dentro e chi è fuori, è ovvio che anche chi fuori vive piuttosto bene, anche chi gode di una amministrazione non certo inetta, si senta comunque un pezzente con voglia di rivalsa; e persino chi è dentro, ma riceve soltanto le briciole, si ribellerà nel segreto dell’urna o anche apertamente, come i ragazzi pagati per dare i volantini di Fassino che ci dicevano “comunque io voto per voi”. Non è solo una povertà materiale; lo è in molti casi, ma in molti altri è soprattutto una povertà di opportunità, di chance di crescita personale e di riconoscimento sociale, di libertà di essere e di realizzarsi, che rimanda al vuoto di senso della società moderna prima ancora che al vuoto nella pancia.

Fassino – una persona che purtroppo per lui ha il talento naturale per fare dichiarazioni autolesioniste: oggi si vantava di aver comprato le caprette ai rom di lungo Stura Lazio per rimandarli in Romania, provocando una serie infinita di “Piero, le caprette ti fanno ciao” – l’ha chiamata “invidia sociale”, sempre per farsi amare ancora un po’. Ma quando la differenza sociale non è legata al merito ma alle condizioni di partenza, non si tratta di invidia quanto di sacrosanta rabbia.

Sbaglia, però, chi pensa che l’identificazione dei “poveri” con il Movimento 5 Stelle sia soltanto occasionale, legata alla circostanza di essere ora all’opposizione e ancora sostanzialmente vergini dalle responsabilità di governo. Certamente la verginità politica massimizza il risultato, ma il M5S, nato come forza post-ideologica, sta costruendo da tempo con i propri elettori una identificazione ideologica di lungo periodo; e i commentatori più acuti, come Angelo D’Orsi, l’hanno colto benissimo. L’identificazione non avviene però sulla destra o sulla sinistra, ma sull’opposizione all’economia globalizzata di mercato, all’austerità tedesca, al dominio degli azionisti sui cittadini, degli utili di Borsa sugli stipendi delle famiglie, delle tasse e della ragion di Stato (indebitato) sulla libera iniziativa. Per questo, essa mette assieme gli operai con i padroncini, i piccoli imprenditori con gli impiegati, tutti uniti (ex sinistri ed ex destri) non contro il capitalismo, ma contro l’avidità dei capitalisti di oggi.

C’è, però, una questione più profonda. L’invidia e la rabbia sono sentimenti inevitabili, in una società basata sul consumismo, quindi sulla generazione continua di bisogni indotti per spingere all’acquisto. Più la società è in crisi economica, più aumentano le disuguaglianze, e meno le persone comuni sono in grado di soddisfare il bombardamento di bisogni indotti, materiali e psicologici; e ogni desiderio frustrato genera rabbia. Nel breve periodo, la rabbia genera insoddisfazione per chi governa e vantaggi elettorali per chiunque si presenti come il nuovo; ma cosa succederà se, esaurita la fiducia in Renzi, si dovesse esaurire anche quella nel Movimento 5 Stelle, senza che la crisi economica si risolva?

Una società con forti disuguaglianze sociali può reggere solo in due modi: o riducendo concretamente le disuguaglianze, o con un regime che reprima con le buone o con le cattive la rabbia popolare… fin che ci riesce. La rivolta dei forconi, due anni e mezzo fa, a Torino assunse forme e dimensioni non viste altrove, e doveva essere un segnale di allarme per tutti. Eppure, io ero l’unico in piazza a cercare di capire e di ascoltare, e tuttora quella presenza mi viene spesso rinfacciata come una macchia invece che come una medaglia. Se le disuguaglianze in questa città e in questo Paese, vere o percepite, non diminuiranno rapidamente, il rischio è che la rivolta ritorni ancora più forte: ed è questo rischio che tutti i politici, nuovi e vecchi, devono tenere ben presente.

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