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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


venerdì 13 Dicembre 2013, 10:59

Basta botti a Capodanno

Sappiamo che sono molti gli italiani che amano festeggiare il Capodanno facendo rumore, e in particolare lanciando botti e petardi. Tuttavia, si tratta di una tradizione che va abbandonata; intanto perché è pericolosa per le persone, specialmente per i bambini e per i ragazzi, che non sanno come maneggiare i botti e che spesso li raccolgono per strada rimanendo feriti, anche qui a Torino; ancora l’anno scorso un ragazzino è stato gravemente ferito alle mani.

Inoltre, i botti di Capodanno sono terribili, alle volte mortali, per gli animali, sia quelli domestici che quelli che vivono liberi in città; gli animali ne sono terrorizzati e possono morire di spavento.

A Torino, già dal marzo 2011, è vietato utilizzare qualsiasi tipo di fuoco d’artificio sempre e per tutto l’anno, fatta salva una specifica deroga che deve venire concessa dal Comune e che viene data solo per la festa di San Giovanni (anche se, pure lì, ormai esistono fuochi d’artificio silenziosi che si sposerebbero persino meglio con l’accompagnamento musicale). Tuttavia, il Comune non ha mai mostrato grande attivismo nel far rispettare questa regola; l’impressione è che la si sia messa in periodo pre-elettorale, per far contenti gli animalisti, ma poi nei fatti si lasci perdere.

Noi portiamo avanti la battaglia per il rispetto di questa regola sin da quando siamo entrati in consiglio comunale; abbiamo presentato una interpellanza per il Capodanno 2012, una per il 2013 (di cui vedete la discussione nel video) e adesso una per il 2014, preventiva, per chiedere di organizzarsi per tempo. La risposta dell’amministrazione comunale in aula è prevista per mercoledì prossimo; e noi speriamo che quest’anno per davvero ci sarà un impegno a fermare il più possibile questo fenomeno.

Nel frattempo, però, bisogna che siano anche i cittadini a capire che è ora di smetterla coi botti; i vigili non possono essere ovunque. Speriamo dunque che il nostro appello, che vi invitiamo a diffondere, convinca le persone a passare un Capodanno di festa ma senza rischi, lasciando in pace gli umani e gli altri animali.

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martedì 10 Dicembre 2013, 08:12

Le liste dei giornalisti

Le liste di proscrizione dei giornalisti sono sbagliate e pericolose, e io già in passato – ad esempio nei miei famosi quindici punti – ho avuto modo di dire che non sempre quando un giornalista ti critica è un venduto, e che bisogna saper dialogare con tutti, anche con chi ti disprezza.

Tuttavia, ho trovato piuttosto insostenibile l’apparente indignazione con cui il “giornalismo” italiano ha puntato il dito contro Grillo per avere segnalato gli articoli faziosi di tal Maria Novella Oppo e invitato a segnalarne altri con nome e cognome dell’autore. Perché se l’Italia, stando alle statistiche internazionali, compete per libertà di informazione con l’Africa ci sarà un motivo; e difatti, i giornalisti possono prenderti di mira per mesi e mesi, distorcendo e manipolando la realtà, ma basta parlar male di un giornalista per suscitare una reazione collettiva e corporativa quasi da lesa maestà.

Anche a me è successo, mesi fa, di venire preso di mira dal “giornalismo” italiano, aizzato da alcuni politici dei partiti di governo, stravolgendo completamente la lettera e il senso di alcune parole che avevo scritto su Facebook. Anche a me all’epoca arrivarono insulti minacciosi in abbondanza (ecco un piccolo estratto):

Notoriamente la rete è piena anche di frustrati, che non aspettano altro che qualcuno da insultare per un motivo qualsiasi; dopo un po’ non ci si fa più caso. Eppure, nel mio caso non si è scatenata nessuna solidarietà, nessun allarme, nessun grido allo squadrismo e al fascismo incombente. E addirittura, qualche giorno fa, un nostro attivista senza alcun ruolo pubblico è stato preso di mira per una sua (orrenda) battuta calcistica, venendo attaccato con nome e cognome dai blog calcistici e non di mezza Italia, solo per mettere in cattiva luce il Movimento 5 Stelle.

La verità è che, se per i giornalisti innovativi si aprono nuove possibilità, i “giornalisti” all’italiana sono sempre più nervosi; la loro presa diminuisce e sempre più persone usano la televisione come soprammobile e i giornali solo per incartare il pesce, tanto che le entrate crollano, le perdite aumentano e persino la Busiarda si appresta a diventare nient’altro che il supplemento torinese del Corriere della Sera, che peraltro per sopravvivere sta vendendo la sua storica sede di via Solferino a Milano.

Per discutere di questi temi, abbiamo organizzato un dibattito pubblico stasera (martedì 10 dicembre) alle 21, presso il centro civico di via De Sanctis 12, invitando diversi giornalisti del web, dei giornali e delle televisioni torinesi. Avremmo voluto sentire anche il parere dell’ordine dei giornalisti, nella persona di Giorgio Levi (tesoriere dell’ordine piemontese), che però ha rifiutato pubblicamente l’invito. Non importa: noi vi aspettiamo lo stesso, per darvi l’opportunità di ascoltare un nutrito elenco di professionisti – Vittorio Pasteris, Cosimo Caridi, Maurizio Pagliassotti, Cristiano Tassinari, Alessandro Valabrega – e di discutere tranquillamente con loro sullo stato dell’informazione torinese. Ci vediamo!

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venerdì 6 Dicembre 2013, 09:51

Contro la privatizzazione di GTT

Se vi arrivasse a casa senza preavviso una multa da cinquecento euro, probabilmente sareste arrabbiati e preoccupati. Ma se vi arrivasse una multa da ottocento euro, e poi dopo le vostre obiezioni e le vostre lamentele venisse ridotta a cinquecento, probabilmente non sareste così arrabbiati, anzi alla fine sareste persino un po’ sollevati: ve la cavate con “solo” cinquecento euro.

Questa è la tattica che l’amministrazione torinese ha usato per riuscire a privatizzare, dopo i rifiuti e l’aeroporto, anche il trasporto pubblico: nei prossimi giorni, la Sala Rossa approverà la vendita del 49% di GTT a un socio privato, che avrà anche il diritto di nominare l’amministratore delegato, acquistando di fatto il controllo della società. Eppure, per mesi Fassino ha agitato la prospettiva di vendere l’80%, e questo permetterà ai consiglieri della maggioranza che tanto parlano di beni comuni di cantare vittoria: “grazie a noi abbiamo venduto ‘solo’ il 49%”!

Certamente, per chi come noi crede che il trasporto locale dovrebbe essere interamente pubblico e possibilmente anche gratuito (del resto la fiscalità generale già paga due terzi dei costi, alla fine mancano cento euro a testa o giù di lì), per alcuni versi è meglio che vendano solo il 49%: sarà più facile ricomprarlo in futuro. Tuttavia, per altri versi è fin peggio, perché di fatto il privato acquisterà il controllo della società pagando soltanto 49 invece di 80, lasciando in mano al Comune una partecipazione di fatto invendibile a terzi; e le possibilità di controllo lasciate alla politica dal 51% saranno probabilmente usate non per difendere il servizio, ma per difendere i dirigenti politicizzati e i meccanismi clientelari.

GTT, difatti, è uno dei maggiori serbatoi di voti del PD, gestito a forza di collusioni coi sindacati confederali (ricordiamo la nostra interpellanza sulle migliaia di giornate di permesso in più rispetto alla legge unilateralmente regalate da GTT ai sindacalisti di CGIL-CISL-UIL, mentre poi i lavoratori in sciopero vengono ripresi disciplinarmente) e di prese per i fondelli. Basta che ci siano un paio di esponenti della maggioranza che sollevano con durissime parole i problemi dei lavoratori GTT e denunciano le pastette interne; poi, finito lo show, gli esponenti della maggioranza votano lo stesso le delibere, le vendite avanzano e le pastette continuano, mentre ai lavoratori si dice “sì però c’è uno del centrosinistra che è dalla vostra parte, dunque continuate a votarli”.

Va sottolineato inoltre che, almeno secondo quanto affermato dall’assessore Tedesco ieri in commissione, non si tratta di una vendita obbligata per fare cassa, dato che il Comune ha già appianato il buco di quest’anno e in parte quello dell’anno prossimo con l’ennesima ondata di speculazioni immobiliari, da quella sull’area Westinghouse a quella sull’area ThyssenKrupp (ve ne parleremo presto in dettaglio).

Ci sono effettivamente città che sono costrette a vendere dai perversi effetti del patto di stabilità, per cui i lavoratori del trasporto pubblico gestito in casa contano come dipendenti comunali e fanno sforare le soglie di “dimagrimento” della pubblica amministrazione: succede così persino a Parma, dove Pizzarotti per aggirare questo vincolo assurdo sta cercando una azienda esterna (meglio se pubblica) che compri il 49% del trasporto pubblico, mettendo la clausola di poterselo ricomprare tra qualche anno. Ma Torino no, vende perché ci crede: vende definitivamente e per “scelta industriale”, perché a Torino privato è bello (meglio però se controllato dai partiti e/o finanziato con soldi pubblici, come Iren o la Cassa Depositi e Prestiti).

Eppure le “scelte industriali” sono chiare a tutti: mercoledì scorso è terminato definitivamente il servizio tramviario sulla storica linea di via Cibrario (attiva da oltre cent’anni) e via Nicola Fabrizi. Forse a gennaio comparirà un “13 barrato” tram per rinforzare il tratto centrale, una richiesta che peraltro avevamo fatto anche noi in una interpellanza, ma intanto il 13 è stato sostituito con autobus, ufficialmente per l’accessibilità… ma – a parte che voglio vedere quale carrozzina si può infilare sul mezzo metro di marciapiede in mezzo alla strada dove ferma il 13 – sarebbe bastato investire per tempo sui tram; un tram dura cinquant’anni, mentre gli splendidi bus nuovi di oggi tra cinque anni saranno già scomodi e scassati, e necessiteranno di grandi spese in manutenzione che saranno appaltate con logiche immaginabili.

Nella delibera di vendita non c’è traccia di scelte industriali sulla mobilità; ci sono dei punti su un piano industriale da valutare in termini essenzialmente economici. Nel frattempo si prospettano altri tagli dei fondi nazionali e regionali; si parla di un ulteriore 24% di taglio, il che vorrebbe dire chiudere molte linee e viaggiare con i mezzi strapieni su tutte le altre. Eppure – come dicevo in aula l’altro giorno (nel video) – ci sarebbero soluzioni per risparmiare dentro GTT, tagliando gli sprechi; i sindacati le hanno presentate da mesi, ma non si fanno.

Per questo noi siamo contrari, e lo siamo da sempre e con chiarezza, e già due anni fa denunciavamo in aula la svendita del bene comune e le logiche perverse che le stanno dietro. Eppure, Fassino preferisce vendere, magari a un partner amico come Trenitalia, e per il resto vivere alla giornata, abbandonando un servizio vitale per la stessa sopravvivenza della nostra città; tanto, il sindaco certo non viaggia in pullman.

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mercoledì 30 Ottobre 2013, 15:41

I dati di spesa sul welfare

Ieri il consiglio comunale ha approvato il bilancio di previsione per il 2013; e già l’idea di approvare un bilancio di previsione – che dovrebbe pianificare le spese dell’anno – a fine ottobre, avendo atteso per tutto l’anno che da Roma decidessero su IMU eccetera, dimostra quanto la gestione della cosa pubblica sia ormai in totale emergenza.

Vorrei affrontare in questo post l’argomento dei finanziamenti al welfare, ossia a tutte quelle categorie deboli che hanno bisogno di essere sostenute dalla collettività. In questo modo potrò anche chiarire una questione che mi è stata sollevata infinite volte nelle scorse settimane, girandomi a colpi di due o tre al giorno due link (presi da blog piuttosto xenofobi) che hanno imperversato per i social network, ovvero “la città dà cinque milioni di euro agli zingari e poi taglia le scuole” e poi “undici milioni di euro regalati a zingari e immigrati”. Io vi dirò come stanno le cose, poi ognuno potrà farsi la propria opinione.

Questa è la tabella che illustra gli stanziamenti per le varie macro-categorie del welfare cittadino, confrontati con quelli degli anni precedenti, aggiornando quella che già vi avevo mostrato lo scorso anno:


2011 2012 2013 Var. sul 2012 Var. sul 2011 % sul tot.
Stranieri e nomadi 4.229.312 4.291.577 10.909.570 +154,2% +158,0% 11,3%
Anziani e famiglie 37.689.973 29.581.872 32.228.987 +8,9% -14,5% 33,3%
Adulti in difficoltà 6.864.354 6.925.343 8.111.122 +17,1% +18,2% 8,4%
Minori 22.607.373 18.737.517 19.888.586 +6,1% -12,0% 20,6%
Disabili 27.186.539 25.243.076 25.563.363 +1,3% -6,0% 26,4%
Altro 498.994 25.500 25.500


TOTALE 99.076.545 84.804.885 96.727.128 +14,1% -2,4%
di cui





Fondi comunali 41.172.897 40.176.639 42.417.521 +5,6% +3,0%  
Fondi esterni 57.903.648 44.628.246 54.309.607 +21,7% -6,2%

Quest’anno le cose sono migliorate; lo stanziamento complessivo è risalito quasi ai livelli del 2011, recuperando gran parte dei tagli del 2012, anche se per completezza va detto che su altre spese che non fanno parte del settore welfare le cose non sono andate così bene; per esempio il fondo per i trasporti dei disabili è di 1,5 milioni di euro (l’anno scorso erano 2,2, nel 2011 erano 3), e quello per i cantieri di lavoro (ovvero lavori socialmente utili per disoccupati) ha subito tagli analoghi.

Il grosso della risalita sul welfare vero e proprio, tuttavia, deriva non dai fondi comunali – che sono un po’ aumentati, ma sono aumentate non di poco anche le tasse… – ma dai fondi regionali e nazionali, che sono aumentati del 20% rispetto allo scorso anno. Ad ogni modo, questa è una buona notizia e ne va dato atto, dopo che molti di noi, in maniera bipartisan, avevano passato i mesi a battere sul tema.

In sostanza, sul welfare vengono stanziati 97 milioni di euro, così ripartiti: 32 per l’assistenza agli anziani, 26 per i disabili, 20 per i minori, 11 per stranieri e nomadi, 8 per gli adulti in difficoltà. Come detto, il totale è quasi pari a quello del 2011 (97 invece di 99) ma è diversa la ripartizione, che allora era: 38 per gli anziani, 27 per i disabili, 23 per i minori, 4 per stranieri e nomadi e 7 per gli adulti in difficoltà.

E’ chiaro che l’aumento di una volta e mezzo dello stanziamento per stranieri e nomadi è quello che proporzionalmente attira di più l’attenzione, ma va anche spiegato che tale aumento è dovuto all’arrivo di cinque milioni di euro di fondi nazionali stanziati molti anni fa per affrontare il problema dei campi nomadi abusivi e recentemente sbloccati; degli 11 milioni, i fondi comunali destinati a questo capitolo sono solo 800.000 euro, corrispondenti alla quota minima prevista per poter avere i finanziamenti nazionali; inoltre, una buona parte di questo fondo non è per i nomadi ma per i profughi e per i minorenni stranieri soli. E poi, è un po’ ingannevole parlare solo degli 11 milioni e non spiegare che ce ne sono altri 86 destinati a tutte le altre categorie, o non spiegare che l’aumento è un fatto straordinario derivante in gran parte da un fondo nazionale una tantum.

Certo, lascia perplessi anche la divisione dei 900.000 euro disponibili per investimenti nell’edilizia sociale per il 2013, che sono così ripartiti: zero per anziani, adulti, stranieri e minori; 300.000 euro per i disabili (realizzazione di rampe di accesso ai Poveri Vecchi); 600.000 euro per i nomadi (ripristino delle casette danneggiate nel campo regolare di via Germagnano e relativi impianti igienici e idrici; impianto di raccolta acque bianche nel campo di strada dell’Aeroporto; realizzazione di una barriera attorno all’area di Lungo Stura Lazio).

Allora, è vero che spendiamo “undici milioni di euro per zingari e immigrati”? Tecnicamente sì, almeno se equipariamo fondi locali e nazionali, ma la vera domanda è: ma questi soldi a cosa servono? Sono spesi bene o spesi male? E’ questo il problema; perché da una parte non possiamo pensare di risolvere il problema senza spendere niente (persino per abbattere le baracche abusive servono soldi e non pochi), ma dall’altra quanto speso in questi anni non è mai servito a risolvere il problema; si è limitato a finanziare associazioni direttamente connesse alla politica, dando risultati scarsi o nulli sia per i rom che per chi vive vicino a loro.

Insomma, io sarei ben lieto di spendere cinque milioni di euro se servissero a far sparire i campi abusivi, a togliere i bambini dall’immondizia (e dalle famiglie che li sfruttano), ad avviare qualcuno a una condizione di vita decente e a cacciare o catturare i delinquenti; ma ho il forte sospetto che anche questi soldi non serviranno a questo (nel video sopra trovate il mio intervento in aula quando si è discusso dell’argomento a settembre). E a cosa servirà ripristinare le casette di via Germagnano, distrutte nelle faide tra gli stessi occupanti, sapendo che verranno presto di nuovo devastate?

E allora, poi non ci si può lamentare se – come raccontavo anche nel mio intervento – mentre la politica pontifica e poi s’indigna e grida al razzismo a qualsiasi mezza parola non allineata sull’argomento, e però mantiene su queste spese una omertà difficile da penetrare persino per noi, basta girare per strada per sentire invettive e voci incontrollate contro “gli zingari” (ieri sul 4 un ventenne italiano apostrofava urlando il controllore con “e poi agli zingari non fate mai niente, anzi il Comune gli regala i biglietti e loro li rivendono e si fanno i soldi e poi girano senza”), e sui social network continuano a fare furore i link di cui sopra o foto come questa, in cui bastano un cartone e due pacchi di pasta a scatenare la furia da tastiera contro i rom, condivisa e approvata da decine di migliaia di persone. Io ho molta paura che prima o poi il nodo verrà al pettine, e nel modo peggiore.

Il discorso, peraltro, va per forza di cose esteso a tutte le categorie di cui sopra: c’è una grande parte di società che si trova in difficoltà ed è doveroso assisterla, ma al suo interno ce n’è una parte per cui questa assistenza è diventata un meccanismo opaco e clientelare, in cui la casa popolare o l’assistenza economica, anche se ottenute per diritto, implicano la riconoscenza in sede di cabina elettorale, o magari persino di congresso di partito (vedete l’istruttivo racconto del senatore Esposito su quanto avviene a Santa Rita); e ce n’è una parte di cui alla politica, più che il suo benessere, importano gli appalti che si possono dare ad aziende e cooperative amiche in nome del welfare.

In una società che prospera, la collettività è in grado di sostenere fasce anche rilevanti che vivono di pura assistenza; in una società in cui le fasce in difficoltà aumentano e le aziende chiudono, in cui le entrate fiscali diminuiscono e la spesa per il welfare aumenta, questo non è più sostenibile. Il rischio, conoscendo la politica, è che il welfare progressivamente sparisca per tutti, tranne che per quelli che permettono col loro voto di sostenere il sistema.

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venerdì 18 Ottobre 2013, 12:29

I rifiuti ammazzano la città

Quando molti anni fa ho iniziato ad attivarmi nel Movimento 5 Stelle, il tema dei rifiuti era già in cima alle nostre priorità; e ricordo che ai banchetti e alle serate molti ci guardavano con sufficienza, come i soliti ecologisti che si preoccupano delle tendine mentre il Titanic affonda. Forse molti di quelli che ci guardavano con sufficienza ora cambieranno idea, quando riceveranno la bolletta della nuova tassa rifiuti, la Tares (per chi non lo sapesse, quanto fin qui pagato per i rifiuti è considerato un acconto e a dicembre dovremo pagare la differenza rispetto alla nuova tassa).

I rifiuti, insomma, rischiano di ammazzare la città; e qui non mi riferisco ai pericoli per la salute portati dall’inceneritore, di cui abbiamo abbondantemente parlato. Mi riferisco invece al fatto che molte famiglie e molte aziende faranno grande fatica a pagare una nuova stangata, anche perché gli aumenti non ricadranno allo stesso modo su tutti.

Le tariffe Tares, difatti, si calcolano così: si prende il costo della raccolta rifiuti in città dello scorso anno, che è stato calcolato in 204 milioni di euro (di cui circa il 20% sono costi indiretti, principalmente quelli spesi da Soris per riscuotere il tributo, e su cui è stato aggiunto un 5% di addizionale provinciale per coprire i costi di questo fondamentale ente) e lo si ripartisce tra utenze domestiche e utenze non domestiche (commerciali, industriali, professionali…) proporzionalmente a una stima di quanta immondizia fanno le due categorie (risulta che le famiglie producano il 46% dell’immondizia totale e le aziende il 54%).

La parte domestica viene distribuita tra le famiglie torinesi in base a due parametri, i metri quadri dell’alloggio e il numero di persone che vi abitano; questo secondo parametro è stato introdotto dalla legge in base al principio che più sono le persone e più immondizia producono. Il risultato è riassumibile in questo grafico, che rappresenta la proposta della giunta: le diverse curve sono relative al numero di componenti del nucleo familiare.

Sono comunque previsti degli sconti in base all’ISEE, del 50% sotto i 13.000 euro, del 35% tra 13.000 e 17.000, del 25% tra 17.000 e 24.000. Tuttavia, per le famiglie numerose ci sarà un aumento molto significativo (una famiglia di quattro persone in 90 mq pagherà oltre 300 euro), mentre i single pagheranno qualcosa meno dell’anno scorso.

La parte non domestica è distribuita in base ai metri quadri dell’attività e alla macro-categoria della stessa, in base a stime elaborate dall’Amiat su quanti kg di immondizia per mq produce un negozio rispetto a un banco del mercato o a un ufficio o a un parcheggio. Anche qui, è la prima volta che si fa il calcolo in questo modo e il risultato è un vantaggio per molte categorie che hanno una riduzione e pagheranno di meno (la più economica, parcheggi e magazzini a parte, è “chiese e oratori” che paga 43 centesimi al mq), ma ne consegue un aumento del 20% (sarebbe stato quasi del 50%, ma è stato calmierato) per i banchi alimentari dei mercati, per ristoranti e mense, per bar e birrerie, per gli alberghi, come da questa tabella:

E qui è scoppiata la rivoluzione, con proteste di piazza e infuocate audizioni consiliari. Per esempio, gli ambulanti ci hanno fatto notare che un banco di alimentari a Torino paga già tremila o quattromila euro l’anno di rifiuti, mentre lo stesso banco a Grugliasco ne paga 350 e l’intero Auchan di Venaria paga 12.000 euro. Come è possibile questa disparità? Il Comune risponde affidandosi agli studi tecnici, sui quali peraltro c’è stato un piccolo giallo: lo studio è stato commissionato dalla Città (100% pubblica) all’Amiat (100% pubblica fino allo scorso anno, ora 51% pubblica e 49% Iren di cui Torino è il primo socio) che l’ha appaltato all’IPLA (100% pubblico), eppure ambulanti e consiglieri non sono mai riusciti ad averlo; ci è stato dato ieri mattina intimandoci di non farlo circolare perché è “sotto copyright dell’Amiat”.

Lo studio risale a dieci anni fa, anche se i dati sono poi stati aggiornati ogni anno, e utilizza come campione i mercati Brunelleschi, Don Rua, Campanella e Chironi; ora, chi conosce la zona sa che gli ultimi tre sono da tempo morenti e addirittura quello di piazza Chironi è stato chiuso per oltre quattro anni per i lavori di un parcheggio pertinenziale; di qui le obiezioni degli ambulanti sulla significatività dei risultati. A maggior ragione dunque i mercatali dicono: perché dobbiamo subire un aumento di centinaia di euro l’anno, quando già facciamo fatica ad arrivare a fine mese, per uno studio segreto che non possiamo confutare? E come è possibile che le aziende torinesi (che già devono smaltire i residui inquinanti a parte, come rifiuti speciali) producano il 54% dei rifiuti urbani, quando la media europea e i valori di molti altri Comuni sono del 30-35%?

D’altra parte, dice il Comune, la raccolta dell’immondizia nei mercati ci costa 12 milioni l’anno e comunque la tassa rifiuti dei mercatali ne copre al massimo cinque; sette sono già messi, da anni, dalla collettività per sovvenzionare i mercati; inoltre, anche le famiglie dovranno sopportare aumenti pesantissimi. Di qui, la discussione poi degenera: i commercianti accusano, spesso senza tanti giri di parole, il Comune e Amiat di “mangiarci sopra” all’infinito; e qualche consigliere della maggioranza, spazientito, ha risposto dicendo “tanto questa è l’unica tassa che pagate” e “i ristoranti sono gli unici che continuano a crescere e far soldi”; insomma, la fiera del luogo comune.

E’ difficile, in effetti, intervenire in modo ragionevole: se prendi per buoni i calcoli “scientifici” di Amiat, tutto il resto è inevitabile; per contestarli servirebbero tempo e dati che non ci danno (io ho chiesto di avere un foglio di calcolo con il gettito totale di ogni categoria, in modo da poter lavorare ad aggiustamenti a somma zero; secondo voi me li hanno dati? è sotto copyright pure quello).

Certamente però qualche riflessione va fatta: è giusto aiutare le famiglie in difficoltà, ma se il risultato è che gli aumenti fanno chiudere le aziende allora l’anno prossimo avremo più famiglie in difficoltà e meno entrate fiscali per aiutarle; partire dal principio che chi fa impresa è per principio ricco e pure un po’ evasore e allora possiamo aumentargli le tasse all’infinito è al giorno d’oggi ridicolo. In pratica, se i dati sono veri, e se non si può spendere meno di 12 milioni di euro per pulire i mercati ma gli ambulanti non possono pagarne più di cinque senza chiudere, l’unica conclusione logica è che i mercati non sono più ambientalmente sostenibili e dunque bisogna chiuderli tutti; a me sembra impossibile, ma se l’amministrazione la pensa così, e vuole il completo dominio degli ipermercati, almeno che lo dica chiaramente.

In tutto questo bailamme, completato da un assurdo ostruzionismo del centrodestra che sta costando un mucchio di soldi e di tempo alla città senza alcun motivo comprensibile, noi abbiamo cercato di fare proposte concrete, utili e ragionevoli, partendo dalla considerazione che il vero problema di fondo è il costo insostenibile della raccolta rifiuti a Torino, derivante da anni di sprechi, clientele, cattivi investimenti e scelte sbagliate; se ora, invece di spendere 72 euro a tonnellata in una discarica, spendiamo per incenerire i rifiuti al Gerbido cento euro noi più altri cento lo Stato (con i certificati verdi), più i costi di realizzazione dell’impianto per la parte ancora di nostra competenza, è chiaro che i costi aumentano. Alla fine smaltire i rifiuti urbani ci costa “all inclusive” circa 40 centesimi di euro al chilo: è una bella notizia per Iren che deve gestire un debito-mostro di 2,5 miliardi di euro, ma per noi cittadini-clienti è troppo.

Le soluzioni dunque, oltre a quella prioritaria e radicale di produrre meno rifiuti e a quella rivoluzionaria di amministrare la cosa pubblica senza sprechi, sono due: aumentare i ricavi ottenibili differenziando e recuperando i rifiuti, e aumentare l’equità del sistema per davvero, misurando quanto produce ogni singolo utente (o, per le famiglie, il condominio), invece di stimarlo in maniera vaga e inevitabilmente arbitraria; ormai esistono sistemi e tecnologie per farlo, dal conteggio del numero dei sacchetti al peso del contenitore all’atto dello svuotamento, e perlomeno bisognerebbe provarli.

A questo scopo noi abbiamo presentato una mozione che chiedeva di destinare l’1% del gettito Tares all’estensione della differenziata porta a porta, ferma da anni per mancanza di investimenti (tra l’altro dobbiamo salire dell’8% entro cinque anni oppure l’inceneritore non sarà sufficiente e le discariche saranno esaurite); e di sperimentare i sistemi per la tariffazione puntuale. La maggioranza ha cassato la seconda parte, ma ha accolto la prima, evitando però di mettere una cifra ma impegnandosi a investire sul porta a porta quanto serve per salire dell’1,5% di differenziata all’anno. Tra tante parole, questo è un buon risultato concreto per il futuro, ammesso che mantengano l’impegno.

Per il presente, il PDL propone di aumentare la tassa alle famiglie per abbassarla alle imprese, dividendo il gettito 50/50; io preferirei invece una maggiore gradualità nella diversificazione tra le diverse categorie di imprese, abbassando un po’ sia gli aumenti che le diminuzioni senza modificare la ripartizione tra aziende e famiglie. Su queste proposte, e su tutta la materia, raccogliamo volentieri i vostri commenti per portarli in consiglio comunale.

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mercoledì 9 Ottobre 2013, 13:40

Il disastro che verrà

Oggi è il cinquantennale del disastro del Vajont, ed è impossibile non pensare a quella tragedia, un disastro che ha cancellato una valle e che chiama tutti a non dimenticare (il mio piccolo contributo, diversi anni fa, fu riscrivere quasi da capo la relativa pagina sulla wikipedia inglese).

Del Vajont è stato scritto e detto molto, e oggi, se volete, potete visitare l’abbandono di Erto con Mauro Corona o ascoltare la retorica del video ufficiale dei lavori; per questo il discorso che vorrei farvi non riguarda proprio il Vajont. Perché ci sono disastri e disastri; il Vajont è enorme, immenso, palese, impossibile da minimizzare; ma ci sono quelli che sono avvenuti in maniera più sottile e ancora faticano a essere riconosciuti, e quelli che ancora aspettano un responsabile che forse non si troverà mai.

Tra i primi ci sono quelli relativi all’inquinamento; solo adesso si comincia a parlare seriamente della devastazione ambientale in Campania, e solo adesso si comincia a indagare sulle stragi da inceneritore (il vecchio inceneritore di Pietrasanta avrebbe causato oltre mille morti di cancro in Versilia negli anni ’70 e ’80); e per processare l’amianto ci sono voluti decenni di tragedie e migliaia di morti. Tra i secondi c’è la strage di Viareggio, che nemmeno ancora si può chiamare strage: solo per avere degli indagati ci sono voluti anni di lotte.

Ieri, davanti al Parlamento, si è svolta una manifestazione per i diritti negati a chi si è ammalato di mesotelioma su luoghi di lavoro pieni di amianto; e hanno partecipato anche i familiari delle vittime di Viareggio. Hanno però commesso una colpa imperdonabile: hanno aperto gli striscioni nel punto sbagliato della piazza, e sono stati allontanati in malo modo dalla polizia, con uno dei tutori dell’ordine che, secondo il titolo ad effetto del Fatto Quotidiano, “fa le corna ai manifestanti”. In realtà, il poliziotto non fa le corna alla manifestante, per offenderla; fa le corna perché la signora dice “ringrazino che non è successo a loro” e lui, da buon italiano scaramantico, fa le corna.

Ed è proprio così: l’unica seria contromisura delle istituzioni per i disastri che verranno è fare le corna e sperare che non accadano. Se c’è un rischio, negare; sostenere che tutte le norme (ampie, complicate e pesantissime per tutte le aziende oneste, mentre i disonesti tanto se ne fregano e continuano a delinquere) sono state rispettate, e che pertanto non ci saranno problemi. Poi, regolarmente, si scopre che i limiti di emissione degli inquinanti non venivano rispettati, che i rifiuti non venivano smaltiti come dovuto, che le bonifiche non hanno bonificato un bel niente o hanno solo spostato il problema dal punto A (noto) al punto B (ignoto). E lo Stato che fa? Fa le corna.

Per esempio, oggi è uscita la notizia per cui, nell’ambito dell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex presidente socialista del Piemonte Enrico Enrietti (almeno fin che Napolitano non indulterà pure lui), si sarebbe scoperto che l’amianto estratto dall’ex area Fiat Avio di via Nizza – che a rigor di logica avrebbe dovuto essere bonificato dalla Fiat, e che invece sta venendo bonificato a spese pubbliche dalla Regione Piemonte, che ha acquistato l’area per costruirci il proprio grattacielo – non sarebbe stato smaltito regolarmente, ma sarebbe stato direttamente interrato sotto i nuovi parcheggi della Reggia di Venaria: non ci sono ancora le analisi, ma ci sono le intercettazioni in cui se ne parla.

Noi, un anno fa, preoccupati dalle segnalazioni dei nostri attivisti della zona, avevamo presentato una interpellanza in materia; e, come vedete nel video, l’assessore Lavolta ci aveva rassicurato sul fatto che lo smaltimento era ben gestito. Sicuramente l’assessore non immaginava che chi doveva smaltire quell’amianto non lo faceva in regola, e la verità è ancora da accertare; certo che se la storia sarà confermata, e però nessuno si fosse accorto di niente, e poi magari chi abita vicino a quei parcheggi avesse iniziato ad ammalarsi, si sarebbe parlato di statistica e di fatalità, e ci sarebbero voluti anni di lotte e di spintoni dei tutori dell’ordine per avere ascolto.

Per questo è giusto ricordare il Vajont e tutti i disastri, ma è anche giusto ricordare che il disastro più importante è quello che verrà, almeno se non smetteremo di trattare il nostro pianeta come un immondezzaio e di fidarci delle rassicurazioni facili di chi amministra.

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venerdì 4 Ottobre 2013, 14:11

Acqua pubblica, acqua passata

I partiti hanno un vecchio vizio: quello di fare promesse che non hanno nessuna intenzione di mantenere, semplicemente per appagare le domande dei loro elettori che non possono però accogliere per via di altri interessi. Esemplare a questo proposito è come l’amministrazione Fassino ha affrontato in questi due anni e mezzo il tema dell’acqua pubblica; vi abbiamo dato diversi aggiornamenti in passato, ma la situazione ormai è divenuta veramente surreale, per non dire vergognosa.

A marzo, come forse ricorderete, dopo mesi di dilazioni di ogni genere, sotto la pressione delle migliaia di firme raccolte dal comitato per l’acqua pubblica (e, se permettete, anche del nostro fiato sul collo), la maggioranza aveva dovuto approvare la delibera di iniziativa popolare che prevedeva di trasformare Smat in azienda di diritto pubblico; tuttavia, nonostante il pronto e trionfale comunicato stampa che vantava una presunta dedizione del PD torinese alla causa dell’acqua pubblica, la delibera era stata “annacquata†inserendo la necessità di una ulteriore verifica da svolgersi nei mesi successivi.

Bene, esattamente come temevamo, a fine luglio l’amministrazione si è presentata in commissione ambiente a raccontare che purtroppo, sapete com’è, la banca di qua, la legge di là… insomma, alla fine è chiaro che questa pubblicizzazione di Smat non si vuole proprio fare; sono passati oltre sei mesi dalla delibera del consiglio comunale e in sostanza non si è fatto alcun passo avanti; adesso torneranno tra qualche settimana a dire che, sapete com’è, la legge di qua, la banca di là… e così via.

Ma c’è di peggio; a marzo era anche stata approvata una nostra mozione che vincolava il Sindaco a non usare più Smat come un bancomat, pretendendo di ricevere ogni anno come dividendo una parte degli utili, e lo impegnava a chiedere di usare gli utili o per investimenti o per abbassare le bollette ai cittadini, i quali tra l’altro da luglio 2011 aspettano che venga applicato quanto deciso dagli italiani con il referendum, ovvero l’abbassamento del prezzo dell’acqua in bolletta eliminando quella parte (pari da noi a circa il 15% del totale) che garantisce alle aziende un ritorno sicuro del 7% sui capitali investiti (faccio notare che i BOT annuali rendono poco più dell’1% e che il rischio di investire in un servizio che fornisce ai cittadini una risorsa vitale, in regime di monopolio di fatto e pagata regolarmente da tutti tramite bollette, è circa zero, alla faccia di tutti i loro discorsi sul “mercatoâ€). Tra l’altro, una recente sentenza a Chiavari dimostra che l’obbligo di abbassare il prezzo è pienamente esistente e può addirittura essere fatto rispettare in sede legale.

Bene, cosa ha fatto il Sindaco? Se ne è fregato, dimostrando che il consiglio comunale non conta niente, o che va bene solo quando pigia i bottoni che lui dice di pigiare. Il 28 giugno, all’assemblea Smat, l’allora vicesindaco Dealessandri si è presentato con in mano una lettera di Fassino che dice che, siccome il Comune ha pochi soldi e lo Stato gliene dà sempre di meno, lui pretendeva un dividendo di alcuni milioni di euro; e così è stato, nonostante l’opposizione di comuni virtuosi come Rivalta e Avigliana.

Ultimo sgarbo, se ancora il messaggio non fosse chiaro: il 21 settembre il comitato ha organizzato a Torino un convegno di altissimo livello sul tema, che vedeva tra gli ospiti il professor Rodotà e diversi esponenti istituzionali, tra cui il vicesindaco di Parigi. Bene, nonostante l’invito, il sindaco della Città di Torino – che normalmente manda qualcuno con la fascia a porgere i saluti a qualsiasi minimo raduno o evento sociale – non si è presentato e non ha mandato nessuno, snobbando anche le cariche istituzionali presenti. L’unica risposta di qualche genere è stata una intervista a Repubblica di La Ganga a favore delle privatizzazioni; più che acqua pubblica, ormai la difesa dei beni comuni è acqua passata.

Ovviamente noi abbiamo chiamato l’amministrazione a rispondere tramite una interpellanza; nel video potete sentire le (non) risposte. Ai vostri amici che sostengono il centrosinistra potete tranquillamente chiederlo: questa vi sembra coerenza?

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venerdì 27 Settembre 2013, 09:42

I fatti dello scandalo Csea

Dunque, la relazione su Csea non è ancora pubblica e lo sarà solo tra una decina di giorni, con eventuali omissis che il segretario generale del Comune vorrà applicare. Tuttavia, il regolamento del consiglio comunale (scritto peraltro in modo confuso) stabilisce all’art. 74 che il segreto d’ufficio sui lavori della commissione decade al termine dell’indagine, e all’art. 75 che il segreto su quanto appreso decade dopo la discussione in consiglio comunale, che si è svolta martedì. Per questo vorrei iniziare a farvi il quadro di ciò che è successo in Csea, partendo dall’inizio.

Nel 1994, l’amministrazione del neosindaco Castellani comincia a dire che bisogna dare in gestione a un privato i centri di formazione professionale del Comune; già allora partono i peana su “privato è bello”, ben riassunti dalla dichiarazione di una consigliera comunale dell’epoca, una certa Elsa Fornero, che su La Stampa del 22 maggio 1996 dichiara “Il Comune non [ha] gli strumenti per gestire la formazione professionale. E’ giusto che l’affidi a chi sa farla” (si vedrà dopo come la sa fare).

Per questo motivo il Comune affida armi e bagagli i centri di formazione e il relativo professionale al consorzio Csea, fondato nel 1979 e già recuperato da un fallimento nei primi anni ’80, con l’ingresso del Comune; soci di Csea, oltre alla Provincia, sono una serie di aziende private del territorio, che dovrebbero fornire il famoso “legame tra scuola e impresa”. Si crea così una società privata, teoricamente senza scopo di lucro, in cui l’unico cliente è il pubblico, in particolare la Regione e poi dal 2002 la Provincia, che mediante bandi affida la gestione dei corsi di formazione professionale.

La formazione viene inizialmente affidata a Csea così, senza gara; poi il Coreco boccia la delibera, si fa un bando e Csea lo vince. Dato che la gestione comunale perdeva otto miliardi l’anno – un dirigente del Comune ci ha detto che sapete com’è, insomma, è normale che in un ente pubblico si assuma un po’ più del necessario, per “pressione politica” – a Csea vengono dati anche trenta miliardi di lire a fondo perduto in cinque anni (tra l’altro, la convenzione parte dal 1 maggio 1997 ma la quota del 1997 viene concessa a Csea per intero); in più, vengono dati locali (diversi edifici) e attrezzature al prezzo simbolico di centomila lire l’anno.

Nonostante tutti questi aiutini, Csea continua a piangere miseria; e allora il Comune decide di riprendersi indietro alcuni dei locali datigli gratis, pagando a Csea un paio di miliardi per il disturbo, che però vengono compensati con una cifra quasi uguale di debiti pregressi di Csea verso il Comune per utenze mai pagate. La vicenda delle utenze continuerà, e si arriverà al fallimento con circa un milione di euro di utenze Csea mai riscosse dalla Città, alcune risalenti a moltissimi anni prima; anche se dal 1997 Csea avrebbe dovuto intestarsi direttamente i contratti, la Città ha sempre lasciato perdere. In più occasioni la Città chiuderà entrambi gli occhi; per esempio, a un certo punto Csea si mette a subaffittare al Museo del Cinema un locale comunale avuto gratuitamente dal Comune per farci formazione; l’ex vicesindaco Dealessandri ci dirà che sì, lo sapevano e l’assessore al Patrimonio dell’epoca si era anche arrabbiato, ma poi non avevano fatto nulla.

Sebbene Csea non paghi la Città da anni per le utenze, la Città in compenso paga regolarmente Csea: difatti, personale Csea – inizialmente gratis, poi dal 2001 a pagamento – viene distaccato a lavorare negli uffici comunali. Alcuni dipendenti Csea passano direttamente al Comune e ne diventano dirigenti, cominciando poi a firmare le determine che chiedono a Csea personale a pagamento. Curiosamente, tutti i dirigenti che abbiamo sentito dichiarano di non aver saputo nulla della situazione economica e della cattiva gestione di Csea; quelli delle Partecipate dicono che dovevano controllare quelli del Lavoro, e quelli del Lavoro dicono che dovevano controllare quelli delle Partecipate (peraltro entrambi settori dipendenti da Dealessandri, rispettivamente dal 2006 e dal 2001). La cosa è resa ancora più strana dal fatto che almeno due dirigenti videro i propri figli assunti in Csea nei primi anni 2000 (sicuramente persone competenti e assunte per merito); probabilmente non parlavano di lavoro in famiglia.

Comunque, negli anni più recenti si verificano ripetuti episodi per cui una determinata persona viene assunta da Csea e immediatamente messa a lavorare in Comune, in diversi assessorati, previo pagamento del suo stipendio dal Comune a Csea, aggirando di fatto le procedure pubbliche con cui il Comune avrebbe dovuto selezionare eventuale personale. Tra l’altro, alcune di queste persone grazie a questo trattamento si assicurano i titoli con i quali potranno poi partecipare e vincere un concorso per un posto stabile in Comune. La cosa è piuttosto strana, perché negli stessi anni Csea era già in profonda crisi e faticava a pagare gli stipendi, essendo piena di personale che non sapeva più come utilizzare; addirittura, alcune di queste assunzioni avvengono durante la cassa integrazione, in cui ovviamente non si potrebbe assumere. Peraltro, un dirigente e anche un politico dicono tranquillamente che questo meccanismo era fatto anche per alleggerire il peso economico di Csea, facendole entrare dei soldi: un altro aiutino.

Nel frattempo, l’azienda si impoverisce in ogni modo, arrivando negli ultimi anni a non pagare regolarmente gli stipendi. Non si sa bene che fine abbiano fatto le attrezzature della Città, anche se a un certo punto la Città ne dona a Csea una parte perché le usi nel terzo mondo (ci si chiede se ci siano veramente arrivate). I lavoratori raccontano di progressive sparizioni e spoliazioni. A un certo punto Csea smette persino di pagare le borse di studio agli studenti, pur avendo regolarmente e anticipatamente incassato i relativi fondi pubblici dalla Provincia; e parliamo di ragazzi, spesso stranieri, per cui quei soldi servivano a sopravvivere.

In azienda il clima è pessimo; i lavoratori sono divisi tra i fedelissimi, per i quali si dice ci fossero anche consistenti premi economici dati senza tante formalità, e gli altri, che raccontano invece di mobbing e punizioni, di gente fatta andare via; ci sono sin dai primi anni 2000 segnalazioni, su cui indagherà la magistratura, di ristrutturazioni di ville e lavori alle barche dei dirigenti, messi a carico di Csea. I lavoratori raccontano anche di come i capi di Csea si sentissero intoccabili, protetti dalla politica, e non ne facessero mistero. Del resto, un lavoratore Csea racconta di come sia andato a segnalare ai dirigenti della Provincia il problema delle borse di studio non pagate, suggerendo come migliorare i controlli; non solo la Provincia non fece apparentemente nulla, ma lui fu convocato dall’amministratore delegato di Csea che gli intimò di farsi gli affari suoi. I lavoratori raccontano anche di una abitudine a falsificare i registri delle presenze, in modo da poter ottenere più fondi del dovuto (la Provincia paga in funzione del numero di allievi); e di come i controlli della Provincia fossero mediamente piuttosto benevoli, anzi in un caso si racconta proprio di un ispettore che stracciò un report degli allievi perché troppo sfavorevole a Csea.

E il sindacato? Beh, direi che si può riassumere così: nel 2004, il responsabile regionale della Cgil per la formazione professionale negozia con Csea (il più grosso e importante ente di formazione del Piemonte) e gli altri centri di formazione il contratto di lavoro, e poi, appena chiuso il contratto, viene assunto da Csea come capo del personale. Tutto chiaro, no?

Del resto, Csea viene fin dal principio definito da più parti il centro di formazione “di area” per la Cgil e il PDS; la Cisl aveva lo IAL (altro ente tracollato di recente), i cattolici ne hanno molti, Csea dunque era il “polo laico” della formazione. E mica solo del PDS, ma di tutta la sinistra; l’appena citato ex dirigente Cgil poi capo del personale racconta (quanto sia attendibile non si sa) che Csea diede, per motivi imprecisati, 70 milioni di lire a un parlamentare torinese comunista e anticapitalista. Ma per capire meglio i giochi politici bisogna parlare del processo del 2004, e quello meriterà un racconto a parte.

E’ però chiaro che Csea viveva in simbiosi con la politica locale; cercava di fare favori ai politici sperando poi di ricevere nuovi aiutini. E’ sintomatico il racconto fatto da un lavoratore di come, l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni regionali del 2010, i dirigenti Csea abbiano radunato tutti gli allievi di una sede di Ivrea in presenza dell’assessore uscente Pentenero, che fece il suo comizio, e abbiano distribuito pure i suoi santini (la stessa Pentenero viene descritta come imbarazzata da tanta promozione).

Ci sono tanti altri motivi per cui negli ultimi dieci anni Csea comincia ad accumulare perdite; per esempio, l’insostenibile rapporto tra i dipendenti amministrativi (troppi, e alle volte assunti tra parenti e amici di persone influenti) e i formatori (pochi e talvolta nemmeno utilizzati, preferendo dare comunque commesse all’esterno, che talvolta vengono descritte come modi per far lavorare specifici fornitori esterni); per esempio, una politica di espansione scriteriata che anch’essa necessiterebbe di spazio per essere raccontata.

Sta di fatto che, quando a dicembre 2011 finalmente arrivano persone indipendenti a guardare i bilanci, si capisce subito che non stanno in piedi e non sono credibili; ad aprile 2012 Csea fallisce, ma la magistratura dirà che era di fatto già fallita nel 2007. In apparenza, secondo i bilanci approvati anno dopo anno, la situazione di Csea non era così drammatica, anche se inspiegabilmente continuavano ad aumentare gli oneri finanziari; ma non è un caso che dal 2007 in poi i bilanci di Csea non siano più stati certificati (senza che il socio Comune peraltro lo ritenesse un problema). Per questo l’indagine ha portato la magistratura ad accusare soprattutto due persone, l’amministratore delegato Renato Perone e il consigliere e commercialista della società Piero Ruspini; tra l’altro, dei tre revisori dei conti che dovevano verificare i bilanci, due erano colleghi di studio di quest’ultimo…

Al di là della cattiva gestione dei dirigenti di Csea, capite che il punto politico allora è: perché questo andazzo è andato avanti per quindici anni – e per tutta l’epoca Chiamparino-Dealessandri – senza che nessuno intervenisse, continuando ad aggravare il buco fino a decine di milioni di euro? I dirigenti e i politici che si occupavano di Csea non si sono mai accorti di niente, e come mai? Potevano, dovevano accorgersene prima? Cosa sapevano e cosa non sapevano del modo in cui era gestita Csea? I continui “aiutini” a Csea (questi sono solo una parte) volevano salvare i corsi e i posti di lavoro, oppure volevano salvare gli amministratori, la gestione aziendale e i favori reciproci tra politica e Csea?

Quanto vi ho riassunto qui è solo l’inizio; ci sono ancora molti tasselli da inserire nel quadro. Con calma, procederemo.

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mercoledì 25 Settembre 2013, 13:48

Csea, la politica affonda

Non è facile raccontare la vicenda Csea in poche righe, perché è una storia lunga e complessa; probabilmente ci vorranno diversi post per diverso tempo. Io ci ho dedicato sei mesi, sei mesi di lavori segreti che progressivamente si sono espansi fino ad occupare ogni minuto del tempo disponibile, comprese le notti e i fine settimana; e ancora adesso non penso di avere capito tutto, scoperto tutto, collegato tutto. Ma se c’è una cosa che ho capito è che Csea – un crac che ha bruciato decine di milioni di euro pubblici in quindici anni, mentre in molti se ne approfittavano – è il paradigma di come è stata gestita Torino, di come è stata gestita la cosa pubblica in questi quindici anni di apparente trionfo, realizzato in gran parte a colpi di debiti e di amicizie interessate.

Se dovessi riassumere in cinque parole la vicenda Csea, non potrei che dire “è tutto un magna magna”. Detta così, però, sembra la solita affermazione qualunquista; è per questo che è importante approfondire, leggersi i racconti dettagliati, impressionanti, di cosa succedeva, per capire che veramente non si tratta di una esagerazione. Nella vicenda Csea tutto si mischia: politici di primo livello, dirigenti comunali, sindacalisti, imprenditori, massoni; sorgono degli interrogativi persino sulle forze dell’ordine e sulla magistratura torinese, che nel 2004 indagò su un gruppo di esterni che volevano entrare in Csea senza interessarsi di ciò che vi accadeva dentro.

Non solo; colpisce il fatto che il malcostume fosse noto da quindici anni e segnalato in tutte le sedi, comprese quelle istituzionali, senza che nessuno prendesse provvedimenti. Vi sono prove evidenti di un muro di gomma, in primis in sede politica, che proteggeva la dirigenza aziendale veramente oltre ogni logica e ogni ragionevolezza, ignorando gli allarmi e anche concedendo a Csea trattamenti di favore, in Comune (dove tutto era nelle mani dell’ex vicesindaco Dealessandri) ma anche in Provincia, ma anche presso l’Inps, per dire. E vi sono i racconti dell’arroganza dei dirigenti Csea, che dicevano apertamente, in faccia ai lavoratori, di essere protetti dalla politica.

E’ preoccupante, anche, l’epilogo di questi giorni. Fino alla sua scadenza, a mezzanotte di lunedì scorso, la commissione d’indagine ha lavorato bene, compresi i membri del PD, dandomi la speranza che la politica potesse tutto sommato riuscire a indagare su se stessa e a voltare pagina. Quel che è successo dopo ha dimostrato che avevo torto; qualcuno ha passato la relazione a La Stampa, che ne ha fatte uscire solo certe parti, gravi ma tutto sommato non così devastanti come altre. Non si sa chi sia stato; il centrodestra accusa il centrosinistra e il centrosinistra accusa il centrodestra; nel frattempo poi qualcuno ha dato a Repubblica pezzi dell’altra relazione riservata sugli affidamenti diretti, perché Repubblica aveva “bucato” Csea e voleva una rivincita; i “professionisti della politica” si sono rivelati bambini in cerca di applausi, incapaci di tenere un segreto.

Poi, dando come giustificazione la fuga di notizie, ieri mattina la maggioranza (la voce è che sia stato direttamente il sindaco, del resto il presidente del consiglio comunale è arrivato un’ora in ritardo dopo essere rimasto a lungo nel suo ufficio) ha preteso che la seduta fosse segreta, e che in sostanza non si potesse raccontare ai cittadini quello che avevamo scoperto, e trarne le conclusioni in una pubblica discussione. A questo punto noi, come molte altre opposizioni (tranne il PDL, che ha poi pure detto che non si potevano chiedere le dimissioni di Dealessandri perché se no si sarebbe dovuto dimettere anche Berlusconi: alla faccia dell’opposizione e del pubblico interesse), abbiamo lasciato l’aula, perché la discussione doveva essere pubblica. E loro si sono resi di nuovo ridicoli: la seduta “segreta”, con dentro solo il centrosinistra e il PDL, è stata raccontata in diretta da Lo Spiffero, che ha pubblicato in tempo reale ampi riassunti di tutti gli interventi, evidentemente passatigli da qualcuno all’interno.

Siamo poi rientrati al momento di votare la nostra mozione, che sfiduciava Dealessandri e attribuiva le giuste responsabilità anche a Chiamparino, nonché a tutti gli altri personaggi di questa vicenda; e su quella la maggioranza ha rischiato di tracollare, dato che la mozione è stata respinta a voto segreto per un solo voto, nonostante in teoria ci fosse uno scarto di almeno dieci voti; una vera ondata di franchi tiratori.

Poi si doveva di nuovo votare su due mozioni di sfiducia a Dealessandri presentate da SEL, che da settimane chiedeva a gran voce la testa dell’ex vicesindaco; peccato che al momento buono, cinque minuti prima del voto, le abbiano direttamente ritirate; loro dicono perché sarebbero state bocciate, io mi limito a notare che contano i fatti e che quando si viene al dunque SEL fa spesso marcia indietro e si allinea buona buona al PD. Del resto, volevano talmente la sua testa che stamattina la commissione ambiente, presieduta da SEL, ha ospitato Dealessandri a fianco di Profumo per parlare di Iren, ovvero il lavoro da cui a parole volevano cacciarlo!

Infine, gran finale, si doveva votare su una mozione all’acqua di rose presentata dalla maggioranza, che in sostanza non individua nessun responsabile del disastro di Csea e si limita a dare una serie di generiche indicazioni in stile “dai, controllate un po’ meglio” e una timida richiesta di “valutare azioni sanzionatorie” non si sa verso chi; tarallucci e vino, insomma. Ma nemmeno questa sono riusciti ad approvare: visto che noi abbiamo deciso di non votare, loro erano soltanto in venti ed è caduto il numero legale.

In breve, ieri la maggioranza (mettiamoci dentro pure il PDL, tanto…) ha secretato d’autorità la seduta del consiglio comunale per impedire una discussione pubblica, poi ha raccontato sottobanco a Lo Spiffero tutta la seduta segreta, poi ha rischiato di disfarsi di fronte alla mozione da me scritta che traeva semplicemente le conclusioni logiche da tutto quanto appurato, poi si è sciolta e non è riuscita nemmeno ad approvare un singolo atto, concludendo la seduta ufficiale dedicata all’indagine Csea con il consiglio comunale che non prende nessuna posizione e non dice niente: complimenti.

Il tentativo di nascondere le cose è peraltro puerile; io mi ritengo libero e anzi in dovere di raccontare, con misura e obiettività, quello che abbiamo scoperto; ne riparliamo presto.

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venerdì 20 Settembre 2013, 11:39

Il treno nucleare vien di notte

Se l’Italia fosse un Paese pienamente democratico, di nucleare non dovrebbe più esserci bisogno di parlare; gli italiani per ben due volte, nel 1987 e nel 2011, hanno chiarito che non intendono avvalersi di questa tecnologia. Eppure, ci siamo ancora dentro fino al collo e questo è dimostrato anche dalla vicenda, purtroppo poco conosciuta, dei treni nucleari che attraversano Torino di notte.

Nel video c’è anche il riassunto della questione: come ho raccontato al consiglio comunale – al quale peraltro non fregava niente della questione, come potete sentire dall’evidente rumore di fondo del chiacchiericcio generalizzato – le scorie nucleari italiane sono immagazzinate a Saluggia, in un luogo peraltro pericoloso e soggetto al rischio di alluvione, in attesa che il governo si decida a individuare un sito nazionale sicuro dove metterle, cosa che doveva fare già dieci anni fa ma che poi non si è mai fatta perché nessuno le vuole.

Nel frattempo però, non contenti, questi prendono ogni tanto un po’ di scorie e le caricano su un treno che facendo un giro assurdo – presumibilmente per minimizzare il tratto in galleria – arriva a Torino a notte fonda da Alessandria, attraversa la stazione Lingotto, percorre il primo pezzo in galleria del passante, passa sotto largo Orbassano e riemerge verso il parco Ruffini per andare poi in Francia.

Il senso di questo trasporto, tuttavia, non è quello di portare le scorie in un deposito definitivo, ma è quello di trasferirle provvisoriamente a La Hague, in Francia, dove gli amici d’oltralpe svolgono una attività chiamata riprocessamento, che serve ad estrarre dal combustibile nucleare esausto nuovo materiale nucleare, principalmente plutonio-239, che può essere rivenduto a caro prezzo perché, pensate un po’, è la principale materia prima per la costruzione delle bombe atomiche. Dopodiché, finito questo trattamento, le scorie dovranno tornare a casa nostra con un altro treno, perché ovviamente i francesi mica se le vogliono tenere.

Ora, questi trasporti sono piuttosto pericolosi, perché se il treno mai si fermasse per qualsiasi motivo – anche un semplice guasto meccanico – ben presto la quantità di radiazioni emessa verso eventuali persone che si trovino nelle immediate vicinanze sarebbe potenzialmente dannosa per la salute. Per questo motivo attraversare una città di un milione di abitanti, perdipiù con un tratto in galleria, non è certo raccomandabile; ma non ci sono altri percorsi. In teoria, la legge prevede che le istituzioni informino in anticipo i cittadini del transito e predispongano piani di evacuazione di emergenza in caso di problemi, ma questo viene risolto – e solo dopo una lunga battaglia portata avanti dal Movimento sia in Comune che in Regione – con una riga sul sito della prefettura.

Per questo, noi abbiamo chiesto che la Città di Torino prendesse posizione e dicesse basta ai treni nucleari funzionali al riprocessamento delle scorie, che come detto non serve alla sicurezza di tutti ma solo a vantaggi economico-militari peraltro in mano ai francesi, e chiedesse invece al governo di spostare le scorie definitivamente in un sito sicuro, come previsto dalla legge.

Secondo voi, cosa ha deciso l’amministrazione comunale? Nel disinteresse generale – nel video c’è pure il presidente del Consiglio Comunale che fa una domanda che fa pensare che non abbia sentito praticamente niente di quello che ho detto – la nostra proposta è stata sbrigativamente bocciata; oltre a noi, hanno votato a favore solo SEL, un dissidente del PD e un paio del centrodestra. Speriamo solo che non si verifichi mai un incidente.

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