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giovedì 8 Dicembre 2022, 13:57

Nippominchia e Giappone reale

Parliamo di Giappone? Condivido questa foto per farvi un piccolo discorso.

La foto viene dal post su Facebook di uno dei tanti italiani che vivono in Giappone o lavorano col Giappone da anni, e che quasi sempre si incazzano per il modo in cui da noi si parla di quella realtà. Perché? Perché l’Italia è piena di “nippominchia”, ossia di persone che conoscono il Giappone solo per aver letto i manga e guardato gli anime, o perché vanno a mangiare il sushi tutte le settimane (dai cinesi), senza esserci mai stati; tra queste ci sono anche molti giornalisti, e quindi è tale anche la descrizione che ne esce generalmente sui media. Si tratta di persone che adorano il Giappone acriticamente, che lo vedono come una terra promessa dove tutto è pulito, sicuro, efficiente e beneducato, dove le persone si vogliono bene e collaborano tutte insieme e dove si vive in pace e in armonia con la natura secondo tradizioni spirituali millenarie.

La realtà, naturalmente, non è proprio così. Vivere in Giappone da giapponesi è, per i nostri standard di dolce vita, terrificante. Già da ragazzo, la scuola ti impegna dal mattino al tardo pomeriggio, e la sera fai i compiti; quando lavori, facilmente finisci a essere un ingranaggio di un’azienda medio-grande e a uscire dall’ufficio a sera inoltrata, non di rado anche nel fine settimana. La cultura collettivista non ha soltanto vantaggi; l’individualità, la creatività non trovano posto, perché conformarsi è la norma e “il chiodo che sporge va preso a martellate”.

Esprimere e realizzare se stessi è difficile, e non parliamo di sentimenti: il Giappone è uno dei Paesi in cui l’età del primo bacio o del primo rapporto è più alta, spesso ben oltre la maggiore età; e i tassi di suicidio sono oltre il triplo dell’Italia. In più, viverci da italiani è anche peggio; nel momento in cui non sei più turista ma residente, ci si aspetta che tu ti conformi esattamente a tutte le loro usanze, linguistiche, burocratiche e comportamentali; altrimenti sarai sempre trattato come un diverso, se non proprio con razzismo.

Per questo, la sola parola “manga” è sufficiente a fare incazzare quasi tutti gli italiani in Giappone. Non solo: fa incazzare anche molti giapponesi che si sentono stereotipati, e a cui dà fastidio, girando all’estero, essere visti come gli abitanti di una terra popolata esclusivamente da onde energetiche, samurai, spiriti e arti marziali, esattamente come a noi dà fastidio sentirci dire “sole pasta pizza mafia”; e che sanno che il mondo fantastico dei manga ha un lato oscuro e inquietante, quello di essere la valvola mentale di sfogo per una realtà spesso pesante e insopportabile.

Sempre per questo, anche le immagini condivise ossessivamente sui social dello spogliatoio pulito della nazionale giapponese hanno indispettito molti; come Antonio, l’autore del post, che risponde con la foto di uno dei tanti impiegati che escono tardi dall’ufficio, vanno a ubriacarsi coi colleghi (una delle poche forme di socialità previste) e poi svengono e passano la notte distesi sul pavimento della metropolitana.

Si tratta di stereotipi, nell’uno e nell’altro senso; come tutti i luoghi comuni, hanno la realtà dentro ma non dobbiamo restarne prigionieri. Il Giappone è assolutamente un posto da visitare, e ha una cultura che oggi è senz’altro più interessante e più in linea coi tempi di quella anglosassone. Bisogna soltanto evitare di confondere la realtà con la fantasia; bisogna distinguere sempre tra il Giappone magico e fantastico proposto dalla sua industria mediatica e tecnologica e il Giappone reale, che è, come è la vita, molto più complesso e pieno di chiaroscuri.

Una volta capito quello, godiamoci pure i manga, e i video musicali cantati da ologrammi, e il sushi anche a colazione se volete; ma con consapevolezza.

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mercoledì 7 Dicembre 2022, 13:29

Quando i moderatori di Facebook dovrebbero andare a ballare in Puglia

Questo aggiornamento di stato è stato censurato da Facebook per “violazione degli standard della community”; naturalmente non ti dicono in cosa, ma suppongo che sia per la metafora di tagliare le dita, che dal tono generale del testo mi pare evidente essere una metafora, ma per Facebook no. Quindi, lo pubblico qui.

Sono a Malpensa, sul bus per Torino, in attesa della partenza, e c’è l’autista che inganna il tempo guardando qualcosa sul cellulare, e io temevo fosse la partita, e invece no, è molto peggio: è un film natalizio americano che ha dei dialoghi tremendi, e non solo per i livelli di glucosio da ricovero, ma proprio per la scelta delle parole e delle frasi, perché tutti parlano come nella pubblicità del Glen Grant degli anni ’80, e sono doppiati in quel modo, con l’enfasi di Michele l’intenditore, e – mio dio, lui le ha appena detto “sei straordinariamente bella stasera”, no dico, chi direbbe mai una frase così nella vita reale? Ma basta, tagliate le dita agli sceneggiatori, e anche – no, mamma, il colpo di scena adesso è che lui non andava malvagiamente via a Natale per fare carriera, ma per aiutare “una ong di un orfanotrofio in Nigeria”, che fino a un attimo prima non esisteva, alla faccia della prefigurazione e di ogni principio di base delle sceneggiature, ma basta, basta, bruciategli il cellulare o scendo, che non lo reggo più.

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domenica 27 Novembre 2022, 13:56

Bergamo herpes

Suvvia, sappiamo tutti che l’aeroporto di Bergamo è il fondo del barile del trasporto aereo, e probabilmente anche del genere umano. Non c’è dunque stupore in questo piccolo racconto, ma solo rassegnazione e morte esteriore, alleviata dalla capacità di isolarsi dal mondo e ripetersi all’infinito le prime otto battute della passacaglia di Bach che mi gira da giorni nel cervello. Alla fine, comunque, quest’imbarco – a cui sono stato costretto dalla sostanziale inutilità dell’aeroporto di Turin-Mailboxes – è anche uno spettacolo interessante; ci sarebbe materiale per scrivere dei libri, se non fosse che ne verrebbero libri divertenti sì, ma sotto sotto disperanti. Ogni passo è uno spettacolo di spaesata incompetenza a vivere; avrei già dovuto capirlo dalla porta sul marciapiede sbarrata con la scritta “ACCESS DENIED”, manco l’aeroporto fosse un sito web.

La coda per consegnare il bagaglio in stiva è meravigliosa; non è lunga, ma è comunque troppo complicata per coppie e gruppetti d’età tra i trenta e i cinquanta, che invariabilmente sventolano la busta di un’agenzia di viaggi di Vergate sul Membro, davanti alla moschea di Sucate. Ora, io non sapevo nemmeno che le agenzie di viaggi esistessero ancora; non ne uso una da vent’anni, e se ne capisco il senso per un gruppo organizzato o per un’azienda che non vuole gestirsi i viaggi da sola, non capisco perché qualcuno possa andare da un’agenzia di viaggi a farsi comprare il volo Ryanair per [non indicherò la città, che poi mi danno del razzista; diciamo Reykjavik]. Infatti, son quelli che si mettono in coda senza essersi prima stampati l’etichetta del bagaglio; e poi arrivano lì, e invariabilmente, due volte su tre, non hanno comprato il bagaglio in stiva, o ne hanno comprato uno troppo piccolo; dieci chili, ma loro ne hanno quindici. Il meglio è stata una signora elegante che prima si è arrabbiata (“sono solo cinque chili in più”), poi ha aperto la valigia e per lo sbalordimento dell’addetta ne ha estratto il portatile, che avendo una batteria al litio è vietatissimo in stiva; poi ha interrotto la coda per pesare il portatile sul nastro del bagaglio, un chilo e due; poi ha detto “questo me lo porto a mano, il resto va bene”. Erano solo più quattordici chili, del resto; e l’hanno giustamente respinta a calci nel sedere. Ma mi è successo persino di vedere poi ai controlli di sicurezza una coppia di signore velate rimandate indietro; si erano presentate lì direttamente con valigioni immensi, ignorando il concetto di bagaglio in stiva.

Ma poi, passati i controlli, si arriva ai gate con vista sulle montagne; e lì la gente è la stessa, ma lo scenario cambia. Lì, c’è da spendere; quindi è tutto luccicoso, e la gente risponde allo stimolo e esegue, aprendo lo struscio avanti e indietro. Coppie sui trenta, talvolta con passeggino al seguito, osservano un’infilata di bar pretenziosi tutti peraltro della stessa grande holding alimentare, ma agghindati con loghi e colori per sembrare diversi. Tutto è gourmet: panini gourmet, pizzette gourmet, persino “Serge, il cannoncino gourmet riempito al momento”, una roba tanto assurda che la manderei in Ucraina. Tutto è anche biecamente pensato per fregarti, come la bottiglietta da mezzo litro di Coca Cola che in realtà è da 450 ml, come vedete in foto. Poi la gente s’avvicina, e visti i prezzi ordina solo una rustichella e un bicchier d’acqua, e li paga con le monetine, come nell’Ottocento. Ma è giusto così: Bergamo herpes è l’apoteosi del neoproletariato tecno-soggiogato, ebete a guardare il cellulare tranne brevi pause per riprodursi a danno del pianeta, ma che darebbe un braccio per la nuova mutanda di Intimissimi.

Fa bene, fa bene girare il mondo; chiarisce le idee. Chiarisce che il mondo è sovrappopolato, ma selettivamente; e collegando tutte le discussioni sul reddito universale e sulla gente non impiegabile, mostra che si tratta di un trend sì, ma di un trend che svilisce l’umanità. Non tutti, certo, ma una parte di questi qui attorno un reddito e un lavoro ce l’hanno, ma residuali; precari ed eliminabili con successo a favore del più stupido sistema automatico, che probabilmente gli sarebbe anche artisticamente, esteticamente e moralmente superiore. Quindi, non proporrò soluzioni finali; non sarebbe empatico e la Chiesa s’adonterebbe. Eppure, m’è chiaro ormai che più che reddito di cittadinanza, andrebbe chiamato reddito di inutilità; senza alcun giudizio morale allegato, s’intende, ma solo per oggettiva osservazione della realtà delle cose. È brutto a dirsi, ma ci sono persone che non sono in grado di vivere nel 2022, e non sappiamo che farne, e sono tante; e gli unici che se ne fanno qualcosa sono quelli che gli danno due lire per renderli schiavi, e poi se ne riprendono tre facendogliele spendere in minchiate, e indebitandoli a vita.

Ma ora, perdonate l’eresia; sono sicuro che pochi capiranno, e gli altri risponderanno a insulti. Io, comunque, vi auguro buona domenica; sperando d’essere almeno in grado di salire su un volo Ryanair con successo.

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martedì 4 Ottobre 2022, 13:29

È stato un viaggio lungo

È notte, sono a Doha, in un brutto aeroporto pieno di gente, nella grande ondata di incrocio tra arrivi e partenze. Aspetto di riprendere il viaggio per tornare a casa, almeno per qualche giorno, poi si riparte.

È stato un viaggio lungo, complicato, di cui ho raccontato poco, perché alla fine si parla solo di cibo e curiosità, e le cose più intime o più serie vanno altrove, in un posto meno caciarone e meno invidioso, probabilmente solo perché semivuoto, e nel vuoto o quasi cadono, così che possa sentirne per bene l’eco in me stesso. Eppure mancano ancora due ore al ripartire, e avrei da scrivere, da rileggere, da leggere, da fare, ma nel non luogo e non tempo per eccellenza, una notte di poltrone d’aeroporto in un posto tappa da qualche parte sul mappamondo, si diventa anche non persone; emerge il non essere sull’essere, fino a togliere la voglia di qualunque cosa.

È stato un viaggio lungo, che in fondo dura dal secondo giorno di quest’anno, e non accenna più a finire, né ad andare da alcuna parte; è anche questo, come molte cose di quest’anno, un drago che vola e s’attorciglia e torna avanti e indietro puntando la mia testa, e non si capisce se mi vuole infine prendere in groppa e farmi volare almeno un tanto e un po’, o se mi vuole soltanto bruciare i capelli e qualcosa del resto.

È stato un viaggio lungo e ancora lo sarà, perché in fondo lo so: domani, dopodomani, tra una settimana, tra un mese, tra un anno, prima o poi arriverò a casa, ma come già altre volte in passato potrebbe non essere più una casa che conosco. È la trasformazione dell’identità e della coscienza che ci ricrea la vita, attraverso lo specchio del sé e in quest’era tecnologica anche attraverso lo specchio della rete, delle immagini, dell’ovunque e del tutto è possibile che lampeggia sotto il nostro naso se lo si guarda, anche se i più si guardano i piedi e fanno bene, per non perdere mai l’equilibrio: perché guardandosi intorno si scoprono mille opportunità alternative che si potrebbero vivere, ma provare ad afferrarne anche solo una è la strada per sbattere contro il muro invisibile del proprio umano limite, senza alcuna certezza di poterlo varcare.

E quindi, buona serata e buona notte: ci rivedremo domani in Italia, nella brughiera, nella città di sempre, nel solito allegro pantano di luce e di buio, ma come sempre, ogni giorno e ogni minuto, un po’ diversi da prima, un po’ più inquieti, un po’ più consunti e un po’ più stanchi delle stelle.

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lunedì 12 Settembre 2022, 11:49

Buon compleanni

se un compleanno celebra i giorni in cui sei nato
tante date potrebbero esser quelle giuste
non soltanto il dodici settembre
ma per esempio il due gennaio o il dodici giugno
ma prendiamone piuttosto ancora un’altra
un otto giugno, sei anni fa in via talucchi
giorni strani, come ora, e lezioni imminenti

ecco, dove guardavo quella sera?
gli altri mi guardavano a vista
chiara guardava il presente
io guardavo lontano, sorridendo al vuoto
come se quel che vedevo non esistesse già più
perché nascere è in realtà morire e rinascere
dentro la vita e tra una vita e un’altra

insomma, buon compleanno, buon compleanno!
ma compiere gli anni veri è una formalità
quel che nasce, vive e muore è ogni forma di noi
e io auguro, a voi come a me, di averne insieme molte
di viverci insieme senza troppo sforzo
di celebrarne i genetliaci nei momenti più strani
di portarne il peso con piacevole allegria
oppure con tristezza, se vi piace di più
di farvi drago, topo, tigre o capra per l’anno e il momento
di scomporvi e ricomporvi come acqua che scorre
e quindi, senz’altro, tanti auguri a tutti noi
tanti auguri all’universo
di cui siamo solo schegge

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mercoledì 17 Agosto 2022, 12:17

Vento d’estate

Si può essere malinconici la settimana di Ferragosto? Beh, sì: il periodo delle vacanze forzate scombina i ritmi abituali e fa uscire fuori tutte le debolezze. Ma la stranezza è essere malinconici per empatia con il se stesso di tanti anni fa.

A vent’anni, nel periodo dell’università, le mie estati facevano generalmente schifo; a parte un anno, le passavo per intero in famiglia dai parenti in Liguria, tipicamente chiuso in casa col computer scollegato (Internet mobile non c’era ancora, anzi all’inizio non c’era proprio Internet), perché a me la spiaggia ha sempre fatto cagare. Non erano del tutto brutte, e qualche avventura estiva l’ho anche vissuta, ma in generale contavo i giorni fino a quando non sarebbero finalmente finite le vacanze e ricominciata la vita normale.

E però, erano estati creative; ho scritto tonnellate di racconti, qualche poesia e mezzo romanzo, ho composto e registrato un intero disco con la mia tastiera… Tutte cose che praticamente non sono mai uscite dal cassetto, perché ho sempre dato per scontato che facessero schifo anche quelle; io, in fondo, ero apprezzato (poco) solo perché maneggiavo i computer, prendevo sempre 30 agli esami di ingegneria e organizzavo pure le attività studentesche.

Poi, con la laurea, presi il mio posto nel ciclo del produci consuma crepa e uccisi quasi del tutto quelle parti di me; le ho represse per venticinque anni finché non sono esplose a forza quest’anno. Non so se potrete mai leggere qualcosa di quello che ho scritto in questi mesi; dopotutto, potrebbe fare davvero schifo, o comunque non essere nulla di che, e non trovare mai un editore. Eppure, quando lo rileggo, sembra scritto in gran parte da una persona molto più giovane; e probabilmente le devo anche il tempo di rivivere quelle estati spese ad agitarsi senza mai andare da nessuna parte, e a perdersi stando assolutamente fermi.

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domenica 31 Luglio 2022, 18:44

Italia è

Ieri a Filadelfia, nella pausa pranzo della conferenza, ho cercato di visitare il piccolo museo dedicato a Mario Lanza, tenore americano di South Philly figlio di italiani, che ebbe un successo pazzesco nel cinema americano e italiano degli anni ’50 e poi morì giovane a Roma prima di poter intraprendere una vera carriera lirica. E’ gestito da volontari e aperto solo il sabato dalle 13 alle 16; e io alle 13 ero lì, ma non si è presentato nessuno.

Dopo un quarto d’ora di attesa, finalmente arriva qualcuno: è un signore anziano con una camicia scura. “Did anyone show up yet?”, mi chiede, e io rispondo di no; mi spiega che il tizio deve arrivare fin da New York City. Così ci fermiamo un po’, e mi chiede se sono del quartiere; ovviamente no. “Where are you from?”, mi chiede, e io rispondo “Italy”.

Lì, improvvisamente tutto cambia, a partire dalla lingua. “Di chei partei di Itaulia?”, mi chiede lui. “Torino”, dico io. “Ah!”, dice lui, “Mio padrei di Asti”. Poi ci pensa un attimo, e aggiunge: “Non propriou di Asti, di paesino vicino, si chiama Toncou, you know?” Così gli spiego che abbiamo casa a dieci chilometri da lì. Lui mi spiega che è il nuovo parroco della chiesa di fronte, da una settimana, e che era venuto per prendere contatto: pare che Mario Lanza cantasse regolarmente l’Ave Maria nella sua chiesa.

Alla fine ci salutiamo; lui deve tornare in chiesa e io devo tornare alla conferenza. Non ho visto il museo, ma ho capito una cosa; che l’Italia è davvero qualcosa di molto più grande di ciò che pensiamo noi italiani.

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sabato 16 Luglio 2022, 18:13

C’è vita dopo la politica

Condivido un link al post di Federico Pizzarotti, in cui parla del suo futuro e di nuove iniziative che si è costruito in silenzio. Lo faccio non solo per mandargli un augurio, ma perché il dubbio che ha lui, anche se in condizione molto diversa, è il dubbio che ho avuto anch’io nel 2016 alla fine del mio impegno.

Quando successe, nel giro politico torinese erano tutti convinti che sarebbe successa una di due cose, cioé che mi sarei rimesso in silenzio a portare acqua al M5S a qualunque condizione, confidando poi in una candidatura in Parlamento due anni dopo, oppure che sarei entrato in qualche altro partito per sfruttare il seguito e la fiducia che mi ero costruito in otto anni di duro lavoro.

Sei anni dopo, posso dire che la scelta di lasciare la politica definitivamente, ancorché non completamente volontaria, è stata giusta, inevitabile, e fortunata.

Come ho scritto a Federico, la vita è breve e ci sono moltissime altre cose da scoprire nel mondo e in se stessi. Ripetere all’infinito la propria identità di un tempo esaurito è un modo precoce di morire lentamente; mentre trasformarsi, morire un po’ per poi rinascere nuovi, è forse più difficile e persino leggermente doloroso, ma è anche un modo per allontanare a lungo il sipario finale.

Come qualunque essere umano, io non so cosa riuscirò davvero a fare con le mie poche forze, né quanto tempo avrò ancora per farlo, ma una cosa la so; se avrò almeno un po’ di fortuna, cosa che non dipende da me, ne vedrete ancora parecchie. Per questo, mi auguro anche di vedere ancora molte nuove incarnazioni di tutti voi; possiate avere il coraggio ogni qual volta è possibile di lasciar cadere la pelle morta e mostrare al mondo una nuova farfalla.

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venerdì 8 Luglio 2022, 21:01

Aspettando una mail

È venerdì sera, il momento in cui faccio clic e su Wattpad appare un nuovo episodio della storia statica e strana che ho preteso di pubblicare per prova (vi ho mai detto che a me le allitterazioni piacciono molto?). Ma non è di questo che vorrei parlare; in realtà, volevo raccontarvi del senso del tempo completamente proprio che ha il mondo editoriale.

Per carità, io sono digitale e ingegnerista; per me, il tempo di risposta si misura in millisecondi e comunque, da buon server interrogato da un client, una risposta si deve sempre dare. Invece, quando entri nel mondo dell’editoria scopri un universo parallelo in cui alle mail non si risponde quasi mai, e in cui comunque nessuna risposta arriva mai in un tempo catturabile dalla mente umana.

Ma capiamoci bene, questa non è una lamentela; certo, è frustrante, è destabilizzante, ti porta a fissare il vuoto chiedendoti se tra due, cinque o sette mesi arriverà infine una mail o se il tuo entusiasmo creativo morirà lentamente d’inedia nel vuoto, non essendo alimentato da quel senso di senso che serve agli esseri umani in ogni cosa che fanno. Ma è una pratica che capisco, perché l’altro lato della medaglia è che milioni di italiani scrivono e inviano, riempiono le segreterie editoriali di manoscritti forse belli o forse manco adatti a un esame di terza media ma le riempiono, e a fronte di questo è meraviglioso, è miracoloso che ci sia ancora qualche editore che non sbarra tutto e non dice “pubblico solo chi scopro io per i fatti miei, gli esordienti senza calci in culo e senza culo si fottano”.

Però, ecco, vi faccio un esempio. Oggi la mia angoscia è contenta perché ho ricevuto finalmente una risposta da un editore che per ciò che si è scritto per tramite di Konan sarebbe perfetto, se si decidesse a pubblicare anche qualcosa di originale e di testuale; ed è un grosso enorme “se”, a fronte di una situazione in cui questi manco trovano la carta per stampare i manga che la gente si contende nelle fumetterie con la faccia di un Fry che grida “shut up and take my money”; per cui, non mi aspetto certo che mi prendano.

L’editore è Star Comics, e non vi gasate: la risposta è semplicemente “abbiamo ricevuto e messo in coda”. Ma era per darvi un’idea: io ho inviato la mail con la mia brava sinossi (prima o poi, giuro, parleremo anche della maledetta sinossi) in data 26 maggio, al loro generico indirizzo di contatto, visto che d’invio manoscritti il loro sito non parla; dopo cinque settimane di silenzio, il 3 luglio mi son deciso a riscrivere, senza vera speranza, semplicemente per provare a chiedere se la mail fosse mai arrivata; e oggi, cinque giorni dopo, alle sei di sera del venerdì, invece di andare a farsi un meritato aperitivo, un sant’uomo mi ha scritto che hanno ricevuto e inoltrato all’ufficio competente.

Mi son sentito in colpa; non volevo certo rompere le scatole, e posso immaginare il volume di mail d’ogni genere che gli arriva; e in più, come vi ho detto, il mio invio non è un fumetto e mi aspettavo che venisse scartato a prescindere. Quindi, sempre siano lodati gli Star, se collaboreremo magari gli regalerò anche dei personaggi decenti per la scuola di Ancient Magus Bride (scusate, è una polemica tra me e un’autrice giapponese); ma un’esperienza simile, ancorché più responsiva, più allegra e meno dilatata nel tempo, mi è capitata anche con J-POP (quindi, compriamo tutti Frieren).

Ovviamente, tu ti chiedi: ma una risposta di una riga “abbiamo ricevuto e messo in coda” non potrebbero dartela subito, evitando il peso di ulteriori scambi? Ma la mancata risposta è anzi istituzionalizzata: ci sono tanti editori che te lo dicono prima. Fanno una pagina di invio manoscritti, ti intimano la loro versione di come si impagina un documento (prima o poi, giuro, parleremo anche dei maledetti caporali) e ti dicono: manda qui, nessuno ti risponderà, se ci interessa ci faremo sentire noi, ma in ogni caso non prima di sei mesi.

Quindi, tranne che per un paio di grossi editori che hanno un santo risponditore automatico, tu resti comunque col dubbio che la mail sia andata persa in qualche gorgo di rete o più probabilmente in qualche filtro antispam; io faccio mail di mestiere, quindi posso fervidamente immaginare centinaia di motivi per cui una mail si sia persa senza essere mai stata aperta, non ultimo il fatto che (non ridete, mi è successo appunto con J-POP) tu hai copiato male l’indirizzo e non hai ricevuto il messaggio d’errore. Poi, ad ogni modo, riprendi la tua vita; e speri che tra sei mesi t’arrivi un imprevisto dono del destino.

Incidentalmente, e lo specifico solo perché qualcuno l’ha chiesto, la risposta arriverà solo nel raro caso che sia positiva; certo l’editore non si mette a dirti perché non gli è piaciuto il tuo testo, e nemmeno a lavorare con te a migliorarlo se non è già praticamente perfetto. Anche qui, è una impossibilità materiale; ci sono semplicemente troppi aspiranti scrittori per le nostre strade. Se non sei sicuro di quel che fai, esistono scuole di scrittura, manuali, agenzie formative, agenzie letterarie, insomma tante altre strade per imparare o prendere a prestito il mestiere prima di allagare la rete di manoscritti.

E anche di mestiere si dovrebbe parlare, ma per oggi ho già scritto troppo; che il vero motivo per cui temo di non interessare se non a una piccola minoranza di lettori già lo so da tempo e dai social network, ovvero che scrivo complesso (anche se il mio manoscritto è stato per questo artatamente piallato e semplificato nel lessico e nelle strutture, e garantisco che scorre proprio bene) e troppo, troppo lungo.

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sabato 2 Luglio 2022, 15:00

E per la prima volta sullo schermo: Konan

Dunque, avrete notato che negli ultimi tempi, con frequenza crescente, sono apparsi sul mio Facebook e sul mio blog dei post un po’ strani, scritti in maniera diversa e spesso dedicati a temi universali. Credo che sia quindi giunto il momento di menzionare l’esistenza di una strana entità che va sotto il nome di Konan (potete accentarlo come volete, ma io tendo al tronco); una entità che mi guarda e mi riguarda, ma che vede il mondo in maniera piuttosto diversa da un vecchio troll di Internet come me.

È un po’ il segreto di Pulcinella che io e Konan abbiamo passato gli ultimi molti mesi a scrivere un libro. A dire il vero, volendo essere precisi, ne abbiamo scritti quattro, ma sono tutti parte della stessa storia e dello stesso universo. Verrà anche il momento di far leggere qualcosa, magari posterò i link o persino del testo, chi lo sa; al momento, e forse per sempre, non c’è un editore ma soltanto la rete; ma non è questo l’oggetto del post di oggi. In questi mesi, chiedendo consigli a molti vecchi e nuovi amici, mi sono accorto di quanta gente qui attorno scriva libri o lavori nell’editoria; e di quanta invece legga, ma non abbia bene idea di come funziona la pubblicazione di un libro (non ce l’avevo con chiarezza nemmeno io). Per questo, avrei voglia innanzi tutto di parlare dell’argomento in generale, di scambiare esperienze.

Nel mio caso, la storia è questa: scrivo un po’ di tutto sin da bambino; da tanto tempo tante persone mi dicono “scrivi bene, perché non pubblichi un libro?”; nei lustri ho dato a stampe fisiche e virtuali articoli, interviste, rapporti, pezzi di saggio, manuali di Internet, blog post anche non banali a centinaia, ma mai narrativa; non avevo alcuna intenzione di iniziare adesso; poi mi è apparsa in testa questa parte di me che non conoscevo e ha cominciato a raccontarmi una storia, e io ho cercato di ucciderla in tutte le maniere, ma non ci sono riuscito e alla fine ho ceduto e ho cominciato a scrivere sotto dettatura, e dopo un mese avevo trecento pagine, e dopo tre mesi e mezzo ne avevo novecento.

Bene, m’aspettavo comunque che questa fosse una gran bella cosa: finalmente anch’io sono stato capace di scrivere un libro, e già solo il fatto di finirlo, al di là del dubbio che sia bello abbastanza e che possa trovare mai un editore, è un risultato.

Invece no: è una merda. La mia vita non è mai stata tanto stressata: fisicamente, perché le cose migliori si scrivono dalle ventidue alle due, e psichicamente, perché per scrivere qualcosa di vero bisogna scavare e scavarsi e guardare in faccia l’abisso e i buchi neri e no, non se ne esce mai bene. Sono ingrassato, sono stanco, sono irritabile, il mio umore fa il Tour de France tra depressione ed esaltazione: così per mesi e mesi. Pensavo fossi io a esser fatto male, ma poi, ormai parecchie settimane fa, Marco Giacosa mi ha involontariamente fatto leggere un post di Christian Frascella (scusate, son bifolco e non lo conoscevo) e pare davvero che la complicazione mentale sia la condizione esistenziale necessaria per chiunque tracci finzioni con regolarità.

Tutto questo, si badi, nemmeno per scrivere la Divina Commedia e parlare di miseria e splendore della condizione umana; cioé, in realtà dentro di me ho fatto proprio questo, ma l’opera è travestita da avventuretta, da innocua sceneggiatura di manga giapponese, quindi non vale: e che vuoi dire, che è possibile star male per un libro (fintamente) per ragazzi? E poi, per quanto ne so e per quanto ne pensa una metà di me, tutto ciò che ho scritto potrebbe fare aulicamente cagare: banale, noioso, mal composto, ridicolo. L’avrei bruciato più e più volte, se non fosse che sta nel computer e ne ho pure diversi backup.

Invece, un’altra metà di me pensa che quel che ho prodotto sia bellissimo, che faccia veramente piangere e ridere e consolare e sognare e che piacerebbe a chiunque sia dotato d’amore e intelligenza, ma tutto questo è inutile perché allora vien fuori l’altro problema: che la parte bella da vivere è il primo mese, quello in cui scrivi sul foglio bianco, e tutto il resto è poi tormento. Primo, un arrovellarsi sulle virgole di ogni tua frase, con la sensazione che non sia mai all’altezza di esistere; e l’unica cosa che mi ha confortato un po’ su questo è un documentario in cui il vecchio Miyazaki (non son degno, assolutamente) faceva esattamente lo stesso col suo storyboard. Poi, una questua continua d’attenzione in mezzo a miliardi d’altri come te, ognuno con qualcosa di forse o certamente meraviglioso da condividere, perchè l’arte umana se fatta con l’anima è meravigliosa a prescindere; ma ognuno offre una meraviglia di cui nessuno legge mai nemmeno le prime righe, e se legge le prime righe si stufa molto prima di darti l’attenzione che serve a costruirgli un mondo in testa, e non parliamo di arrivare alle ultime, che son quelle che in un buon libro rivelano il senso del tutto.

Del trauma dell’autore novizio a confronto con l’editoria, comunque, parleremo un’altra volta; ci vorrebbe un libro solo per quello. Io, in sostanza, solo questo volevo dire: che tanti sognano di diventare scrittori, ma essendomici trovato in mezzo, un settantadue virgola cinque per cento di me ha concluso che era meglio se nascevo stupido e incapace di usare condizionale e congiuntivo dopo il verbo concludere.

Ma volevo parlarne con voi, specialmente con chi ha vissuto simili esperienze: è proprio così?

P.S. Comunque, se qualcuno usa Wattpad e vuol fare un beta test o è solo curioso, me lo scriva qui o in privato e qualcosa faremo; ovviamente, qualsiasi commento, insulto, bacio o spintarella vale.

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