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giovedì 3 Dicembre 2015, 15:40

Un mese a guardare le stelle

Premetto che questo post non ha un valore politico, tantomeno a nome del Movimento 5 Stelle, e non vuole nemmeno essere polemico; la politica sarà il mio lavoro ancora per qualche mese, ma il mio blog tornerà progressivamente ad essere, come è stato sin dal 2003, un semplice diario personale e la mia finestra sul mondo; e mi spiaceva lasciarlo ancora incustodito.

Le elezioni, comunque, si mettono bene per il M5S; gli ultimi sondaggi danno la coalizione PD+Moderati attorno al 40 per cento, il che vuol dire che al ballottaggio, dove tutti gli altri più o meno convintamente convergeranno su di lei, Appendino parte con venti punti di vantaggio; ne perderà una parte per astensionismo e altro, ma con venti punti hai voglia… Sono in tanti, giornalisti e osservatori, a dirci “avete già vinto, basta che non facciate stupidaggini”.

Per quanto mi riguarda, invece, sono state settimane di isolamento. Da quella domenica in cui Appendino si presentò e io feci il mio annuncio, non ho più sentito nessuno dei dirigenti del M5S; né Bono, né i parlamentari, né Casaleggio. Diciamo anzi che, dal candidato sindaco e dal suo entourage in su, nessuno mi ha neanche vagamente invitato a ripensarci o espresso qualche rammarico, o anche solo un grazie per il lavoro fatto; non mi aspettavo peraltro nulla di diverso, perché in politica, quando se ne va una persona conosciuta, i suoi colleghi di partito vedono essenzialmente lo spazio che si libera per loro. Piuttosto, lo staff della campagna mi ha chiesto di nominare nuovi editor sulla pagina Facebook e di consegnare i dati e il software del sito, e hanno cambiato le password del banking online (l’ho scoperto da una mail automatica della banca, anche se poi, a domanda diretta, la nuova password mi è stata data).

Mi è stato però chiesto di metterci la faccia, assistendo Appendino in alcuni eventi elettorali su temi che ho seguito io, e qualche gruppo di lavoro ha insistito chiedendomi di continuare a partecipare. Agli incontri pubblici ho detto di no, perché mettere la mia faccia su una futura amministrazione di cui non farò parte mi sembra pubblicità ingannevole, ma ho ricominciato, dopo un paio di settimane di pausa, ad andare a una riunione interna, anche se alla fine era solo un incontro di formazione in cui alcuni esperti spiegavano a Chiara le questioni trasportistiche aperte, nel caso in cui qualcuno gliele chiedesse; e visto che erano cose che sapevo a memoria e che c’erano già gli altri a spiegarle, mi sono sentito inutile e dopo un’oretta sono andato via. Andrò comunque ogni tanto alle riunioni in futuro, da attivista, ma preferisco concentrarmi sul mio mandato di consigliere, fin che resterò in carica.

Invece, tra i miei contatti e i simpatizzanti del Movimento, tanta gente mi ha invitato a tenere duro; c’è chi mi prega di fare marcia indietro e di rimettermi in scia, chi vuole che resti nel M5S però a fare opposizione alla direzione che ha preso, chi vorrebbe che andassi avanti con le mie idee in un altro partito o addirittura che fondassi il mio. Ora, a me la politica piace molto, è un onore e una gratificazione, le ho dedicato otto anni della mia vita e potete immaginare come mi sento, tagliato fuori a un metro dal traguardo da un progetto politico di cui sono uno dei fondatori, in cui ho creduto sin dall’inizio e a cui ho contribuito credo ben più di tanta gente che ora si accinge a governare la città e l’Italia. Provare ad amministrare Torino mi piacerebbe, ma non dipende più da me: non si può fare politica nelle istituzioni senza il sostegno di un partito, e non si può fare politica tanto per starci dentro, indipendentemente dai contenuti.

Avrei infatti diverse critiche da fare su queste prime settimane di campagna elettorale del M5S a Torino; sul libro-manifesto, sul posizionamento politico, sullo stile di comunicazione, sul metodo di formazione della lista. Anche in giro per l’Italia vedo diverse cose che non mi convincono molto, dalla querelle di Bologna alla battaglia dei rifiuti di Livorno. Ma a quanto pare sono l’unico a non essere d’accordo, e, come avevo promesso, non voglio fare il vecchio ingombrante e brontolone; quindi, mi taccio, confermo la mia decisione e me ne sto per i fatti miei, limitandomi a qualche commento sulla mia bacheca.

Perché la politica, oggi, è questo. Non è discussione sul bene comune e mediazione tra interessi diversi; è guerra di propaganda, per cui tu devi scegliere una fazione e dire che ha sempre ragione, devi diffondere a macchinetta il materiale pensato da un professionista del marketing, devi allinearti al manovratore, a sua volta allineato a un manovratore più forte, e non contraddirlo mai. Tutto questo non è nel mio modo di essere, e non era questa la politica che volevo costruire.

So che in questo modo, alla faccia delle accuse di “poltronismo” che ho ricevuto in abbondanza da dentro il M5S, perderò delle occasioni personali; del resto, se dal 2006 il sottotitolo del mio blog è “come rovinarsi una brillante carriera in Italia” un motivo c’è. Ma se talvolta mi sento stupido o preoccupato per il futuro, alla fine credo che essere fedeli a se stessi sia l’unico modo di vivere con dignità.

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giovedì 19 Novembre 2015, 15:33

Se Facebook è pieno di falsi

Normalmente ignoro queste cose (a parte farmi una risata, visto quanto sono ben scritte), ma siccome per ognuna di esse vedo decine di persone che credono convinte che siano vere e le ricondividono a ripetizione, volevo darvi due dritte su come verificare che questo è un falso (prendo questo perché mi è capitato oggi, ma è irrilevante chi sia il personaggio preso di mira).

Allora:

1) Sulla pagina di Salvini il post non esiste; ce n’è un altro in cui attacca Dario Fo, ma con parole diverse e senza strafalcioni. Ok, ma direte voi, magari l’ha modificato dopo che è stato fotografato;

2) Tuttavia, accanto al post sulla pagina di Salvini non compare la scritta “Modificato”. Ok, ma potrebbe averlo eliminato e poi riscritto (come tra l’altro sostiene un anti-leghista nei commenti allo stesso, raccogliendo molti like);

3) Allora esaminiamo meglio lo screenshot riportato; si tratterebbe di un post fotografato dopo soli 5 minuti, ma che in questi pochi minuti avrebbe già raccolto 5700 like, 3598 commenti e 2512 condivisioni; per quanto sia inquietantemente grande il numero di follower della pagina di Salvini, è un po’ improbabile che possa attivarsi un seguito del genere in cinque minuti per un post come tanti altri, per cui quasi certamente lo screenshot è falso;

4) Ma se avete ancora dei dubbi, basta seguire la sequenza dei commenti, secondo i quali il primo commento avrebbe raccolto 394 like in soli tre minuti, e la risposta di Salvini sarebbe avvenuta un solo minuto dopo, raccogliendo 520 like in soli due minuti; anche questi numeri sono un po’ insostenibili;

5) Ma se avete ancora dei dubbi, basta accorgersi che l’ultima risposta del misterioso commentatore (tra l’altro senza nemmeno una foto del profilo) sarebbe avvenuta “3 minuti fa” a un commento di Salvini di “2 minuti fa”, ovvero sarebbe avvenuta un minuto prima del commento a cui starebbe rispondendo: questo è oggettivamente impossibile.

Morale? La rete è piena di tifoserie, ma è anche piena di manipolatori, di tutti gli orientamenti politici, che si divertono in maniera interessata a dare alle tifoserie una pappa pronta con cui sostenere il proprio tifo… solo che in genere è falsa.

E questo è un vero problema, anche perché il risultato a lungo termine è di minare completamente la credibilità della rete, ovvero dell’unico mezzo di informazione che non è così direttamente controllabile dai poteri che orientano i media tradizionali; e questo, secondo me, è il vero obiettivo di questi falsi.

Ogni volta che ne condividete uno, ogni volta che propagate una bufala, date una mano a chi vorrebbe ritornare al vecchio mondo, quello in cui bastava controllare i direttori dei giornali per decidere cosa è vero e cosa no. Capita a tutti (pure a me) di cascarci, ma prima di condividere qualcosa, per favore, invece di farvi trascinare dall’antipatia verso un avversario politico, cercate di valutare se è almeno verosimile.

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martedì 10 Novembre 2015, 11:46

Perché non mi ricandido

Domenica è stata una giornata importante; vi è stato l’annuncio della candidatura di Appendino a sindaco per il M5S, e il mio annuncio di lasciare la politica attiva a fine mandato. Ho cercato di fare il mio annuncio in maniera trasparente all’inizio della campagna, limitando al minimo la polemica e accompagnandolo a frasi positive; eppure, un gruppo di attivisti è apparso in massa sul mio profilo per accusarmi pubblicamente di essere un bugiardo e di non aver riportato correttamente le ragioni e le modalità della scelta, il che poi ha provocato le telefonate dei giornalisti per chiedere “scusi ma lei è un bugiardo?” e le conseguenti polemiche anche sulla stampa, che potevano tranquillamente essere evitate se mi avessero risposto semplicemente “grazie e arrivederci”.

Comunque, visto che non sono un bugiardo e visto che ho ricevuto molte domande sul perché e per come delle mie scelte, ho scritto questo post per spiegare tutto per bene a chi fosse interessato, sperando che sia l’ultimo e che si possa poi voltare pagina.

Premetto che credo di essere stato un buon consigliere comunale; tutto è sempre migliorabile, specie col senno di poi, ma in questi anni ho presentato centinaia di atti, ho affrontato in modo costruttivo i piccoli e grandi problemi di tanti cittadini e comitati, e sono il consigliere comunale più presente di tutta la Sala Rossa, sia dall’inizio del mandato che nell’anno 2015 (vedi i dati sulle presenze qui sotto e anche la mia relazione di metà mandato).

C’è tuttavia una parte del Movimento 5 Stelle di Torino che non condivide questo giudizio; non starebbe a me dirlo e chi vuole potrà spiegarlo meglio, ma le critiche che mi vengono fatte sono tipicamente queste:
1. essere poco aggressivo nei miei interventi, urlare troppo poco in aula, lavorare troppo sull’attività istituzionale e troppo poco a trovare e montare scandali per attaccare Fassino;
2. essere troppo poco allineato al partito, raccontare in rete troppo delle nostre discussioni interne, criticare troppo spesso in pubblico i parlamentari e le scelte del Movimento;
3. essere troppo poco “progressista”, aver preso posizioni troppo “conservatrici” su temi come la chiusura dei CIE, la concessione della residenza ai profughi, le occupazioni e così via.

Io ritengo queste critiche immotivate e in buona parte anche non coerenti con quello che voleva essere il Movimento 5 Stelle almeno alle origini, con il “nè di destra nè di sinistra” e con le promesse di trasparenza e partecipazione; e penso che un giudizio sul mio mandato dovrebbe essere espresso dai cittadini e non solo dal partito.

Eppure, per questa situazione, negli ultimi due anni ho portato avanti il mio mandato abbastanza da separato in casa, con periodi più o meno tesi ma certamente senza grande serenità e con ripercussioni anche sulla vita personale. Più volte sono state chieste le mie dimissioni anche da parte di altri eletti, ho subito un tentativo di cacciarmi dalla carica di capogruppo e sostituirmi con Appendino (finito nel nulla quando chiesi di renderlo pubblico e di votare sul portale), un processo politico a livello provinciale con successivo provvedimento disciplinare, persino una mezza aggressione in piazza da parte di un attivista un po’ agitato.

Nonostante questo, io non ho mai voluto abbandonare il M5S e dimettermi, perché credo che l’unità sia un requisito fondamentale per scalzare il sistema, e che per essa sia necessario accettare anche le penalizzazioni personali; non ho nemmeno mai reso pubbliche molte delle cose che ho subito.

Siamo così giunti alla nuova campagna elettorale e in particolare alla scadenza fissata per proporsi come candidato sindaco, il 4 novembre; in una situazione peraltro un po’ strana, visto che la candidatura di Appendino a sindaco era già stata ufficializzata a livello nazionale in un articolo del Fatto Quotidiano del 28 ottobre. Come capogruppo uscente e ex candidato sindaco sarei comunque stato il candidato più ovvio, come è stato per Bono in Regione, ma mi sono reso conto da solo e da molto tempo che la mia candidatura avrebbe spaccato il movimento, portando a una votazione da cui, qualunque fosse stato l’esito, il movimento sarebbe uscito diviso.

Per questo motivo, io ho deciso di fare un passo indietro, di non presentarmi alle selezioni interne e di sostenere Appendino come candidato sindaco, non solo per le sue capacità e il suo appeal mediatico, ma perché riscuote il massimo gradimento interno anche a livello regionale e nazionale. L’ho detto anche pubblicamente già dalla scorsa estate, quando i giornalisti hanno cominciato a chiedermelo, pur non rinunciando a criticare una evidente deriva a sinistra che non condivido.

Ho deciso anche di non ricandidarmi a consigliere comunale, anche se penso che sarei rieletto senza problemi, per diversi motivi: sia perché dopo cinque anni non ho voglia e motivazioni per rifare la stessa cosa per altri cinque, sia per non incollarmi alla poltrona e lasciare ad altri la possibilità di fare la stessa esperienza (comunque bellissima) che ho fatto io, sia perché non me lo posso permettere dal punto di vista lavorativo; per fare seriamente il consigliere comunale ho lasciato il mio lavoro, accettando di guadagnare la metà di prima e di rimanere con cinque anni di buco per la pensione; questi sacrifici non sono sostenibili per altri cinque anni, e inoltre, se già sarà difficile rientrare nel mondo del lavoro adesso a 41 anni, non oso immaginare come sarebbe a 46.

Mi rendo però conto di essere comunque, per il nostro elettorato e per tutti i cittadini e i gruppi che hanno lavorato con me in questi anni, una figura di riferimento importante per la credibilità del Movimento 5 Stelle. La difficoltà della nostra proposta per le elezioni comunali sarà convincere i torinesi di essere davvero in grado di amministrare bene una città di un milione di abitanti con un sacco di problemi, e mi sembra più difficile farlo senza avere a bordo le uniche due persone che hanno idea di prima mano di come funziona il Comune di Torino, ossia io e Appendino.

Per questo motivo, nell’annunciare in riunione la mia rinuncia alla candidatura a sindaco, ho fatto un’altra proposta. Credo che sarebbe stata la cosa migliore per il Movimento, per dimostrare unità e rassicurare tutte le anime del nostro elettorato, presentare da subito oltre al candidato sindaco Appendino anche Bertola come futuro vicesindaco, mettendo da parte tutti gli screzi del passato, dimostrando unità e lavorando insieme in squadra per conquistare Torino. Per me sarebbe stata una opportunità stimolante per mettere a frutto le mie capacità e l’esperienza di questi cinque anni, e motivarmi a fare un secondo mandato in politica prima di tornare alla vita normale.

Credevo che si trattasse di una proposta ovvia, ragionevole e fatta nell’interesse del Movimento e mi aspettavo che potesse avere il consenso di tutti. Purtroppo, la proposta è stata invece respinta; dopo una lunga e tesa discussione in cui è stato detto un po’ di tutto, tra persone che mi hanno difeso a spada tratta, altre che volevano apertamente scaricarmi e mi hanno accusato di “poltronismo”, e molte che comunque mi stimano ma volevano evitare lo scontro, l’assemblea ha deciso a grande maggioranza di non decidere e di rimandare la questione a dopo le elezioni.

La stessa Appendino non ha speso alcuna parola a sostegno della mia proposta, anzi ha spiegato di avere altre idee in merito alle nomine di vicesindaco e assessori, da fare comunque dopo il voto; e molti dei suoi sostenitori hanno ribadito che tali nomine saranno comunque di sua esclusiva pertinenza e basate sulla sua fiducia personale. Per cui, magari dopo le elezioni io potrei essere nominato vicesindaco o assessore o consigliere d’amministrazione o chissà che altro, ma il mio problema non è mai stato quello di avere garantita una nomina, quanto piuttosto quello di capire che tipo di progetto politico si volesse presentare e se il Movimento, dopo anni di critiche nei miei confronti, avesse ancora sufficiente fiducia in me, una fiducia di cui il peso di una eventuale nomina è il simbolo e non lo scopo.

Essendo stata bocciata l’idea di un progetto politico di squadra, in cui fossero rappresentate sia l’anima di sinistra che quella populista del Movimento, per presentare invece un progetto tutto centrato sulla persona del candidato sindaco e disegnato per guardare da una parte sola, e avendo ricevuto in assemblea attacchi personali pesanti proprio da persone molto vicine ad Appendino senza essere stato difeso, e nessun atto concreto di stima ma un “lavora e dopo le elezioni valuteremo il tuo curriculum”, non posso che prendere atto di una situazione insostenibile e fare l’ultimo favore che posso al Movimento, ovvero chiamarmi fuori da subito lasciando Appendino libera di farsi la sua campagna elettorale senza che le chiedano ogni cinque minuti cosa farà Vittorio Bertola, e senza che la mia nota antipatia per le occupazioni e l’immigrazione incontrollata pregiudichi il suo dialogo con certi ambienti della città.

Declino anche, pur ringraziando, la proposta fattami da diversi attivisti in questi giorni, cioè quella di candidarmi a consigliere anche se non lo voglio fare, per poi dimettermi subito dopo il voto per fare qualcos’altro se vinciamo o per lasciare la politica se perdiamo: mi sembra una presa in giro verso gli elettori.

In fin dei conti, io sono un cittadino in servizio civile temporaneo che ha creduto nel progetto originario di Grillo, quello (per chi se lo ricorda ancora) del “dipendente dei cittadini a tempo determinato”; non ho mai pensato di fare politica per tutta la vita. Mi appresto pertanto a ritornare un semplice attivista; finirò gli ultimi mesi di mandato e continuerò a contribuire al buon andamento di questa campagna, pur difendendo la mia visione delle cose e non condividendo l’impostazione politica di fondo. Nel frattempo, comincio a ragionare sulle mie opportunità lavorative a partire dalla prossima primavera (si accettano proposte).

In conclusione, vorrei ringraziare quegli attivisti che in assemblea, pur di fronte a un ambiente in parte ostile che comprendeva anche consiglieri regionali e parlamentari, non hanno avuto paura di dichiarare il loro sostegno per la mia proposta.

E poi, vorrei ringraziare di cuore ancora una volta tutti i cittadini che mi hanno seguito, sostenuto e incoraggiato in questa avventura politica. Senza di voi, avrei probabilmente già lasciato molto tempo fa. Molte delle emozioni che mi avete fatto vivere resteranno indelebilmente nella mia memoria e nel mio cuore, e spero di avere ancora l’opportunità di servire il bene comune, i cittadini e l’Italia, in altre forme e in altri modi nel futuro.

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mercoledì 28 Ottobre 2015, 15:58

Vita da vigile

Ieri pomeriggio i capigruppo del consiglio comunale hanno avuto l’opportunità di incontrare per due ore e mezza le rappresentanze sindacali della polizia municipale.

Fare il vigile in una grande città è sicuramente difficile; il vigile è il primo riferimento per la tutela della sicurezza e della legalità sul territorio, ma è spesso sotto accusa. I giornali riescono a lamentarsi contemporaneamente dei vigili che “fanno troppe multe” e dei vigili che “non vengono mai a multare quando li chiami”; le persone vorrebbero il vigile pronto a multare chi gli dà fastidio, ma allo stesso tempo protestano se vengono multate loro. Ognuno ha priorità e visioni diverse; chi pretende un intervento immediato contro i venditori abusivi in via Garibaldi, ma poi si lamenta della multa presa in macchina; e chi gira in bici e chiede più multe alle macchine, ma poi quando i vigili fermano i venditori abusivi li accusa di razzismo. In tutto questo, ascoltare per due ore lo sfogo dei vigili – diversi vigili di diversi sindacati – è stato interessante; e ho deciso quindi di riportare qui, senza commento, alcune delle cose che ci hanno detto.

Tutti se la prendono con i vigili, sia chi si lamenta perchè non interveniamo, sia chi si lamenta perché lo sanzioniamo. Noi siamo il biglietto da visita della città, il simbolo dell’istituzione comunale, chi ci aggredisce aggredisce non la persona ma le istituzioni. Sulla strada prendiamo continuamente sputi, insulti, schiaffi, perché veniamo continuamente delegittimati dai giornali e anche dai politici, quelli che contestano le multe e fanno le battaglie contro di noi. Prima o poi a forza di denigrarci qualcuno si sentirà autorizzato a investirci o ad accoltellarci, e allora tutti piangeranno lacrime di coccodrillo per cinque minuti e poi tornerà come prima.

Nei campi nomadi Iren non entra se non ci siamo noi, la polizia non entra se non ci siamo noi, i carabinieri non entrano se non ci siamo noi… noi però ci entriamo in due, senza attrezzatura, senza protezioni, vestiti normalmente. Fino a qualche anno fa il nucleo nomadi dei vigili aveva il compito di mantenere un rapporto, quando c’era da fare un sequestro di un’auto o fermare qualcuno li si aspettava fuori dal campo, lo si faceva fare a qualcun altro, in modo che noi continuassimo a essere il poliziotto buono. Adesso questo non si fa più, per cui il livello di scontro e di tensione si è alzato: spesso veniamo aggrediti a pietrate, mandando avanti donne e bambini a farlo, oppure ci prendono a calci la macchina e ci spaccano gli specchietti, e un collega addirittura è stato assalito con un’accetta. Perchè entriamo nel campo con la macchina? Perchè almeno è un riparo se cominciano a piovere pietre, visto che non abbiamo caschi o protezioni.

La campagna dei giornali contro di noi per l’intervento in Lungo Stura Lazio è vergognosa, e neanche il Comune ci ha difesi. Stampa e Repubblica fanno girare da settimane il fermo immagine di una collega con la pistola ad altezza uomo, preso da un video di un nomade e intitolato “la verità” cercando di screditarci in ogni modo, e non dicono che quello è solo un pezzo di un movimento in una situazione complicata, e che la pistola non è armata e la collega non ha il dito sul grilletto, insomma non poteva sparare in alcun modo. In quel caso i tre colleghi sono stati mandati allo sbaraglio, li hanno mandati in tre a fermare un nomade con una Panda a due porte, ora immaginatevi voi a caricare un fermato recalcitrante sui sedili dietro di una Panda a due porte… così hanno dovuto fermarsi lì e chiamare un’altra auto, e aspettare, e subito sono arrivate trenta o quaranta persone minacciose e li hanno circondati. Loro sono stati estremamente professionali, sono stati bravissimi, hanno rischiato la loro pelle per la legge e questo è il ringraziamento. Vorrei vedere cosa avrebbero fatto in quella situazione quelli che criticano.

Io domenica scorsa ero in servizio al suk in via Monteverdi. Eravamo presi in mezzo tra gli abusivi che cercavano di sistemarsi fuori dal mercato e i cittadini della zona che protestavano con noi. Io ho provato tanta amarezza davanti a quei cittadini, mi son chiesto: ma ha senso che i vigili tutelino un mercato di illegalità? Nel mercato abbiamo fatto pochissimi interventi, giusto qualche sequestro di alimenti e borse contraffatte, ma abbiamo aspettato tutto il giorno la Finanza per controllare la provenienza della merce, vedere se era rubata, e loro non si sono presentati. All’estero in questi mercati per prima cosa si chiede al venditore di provare come ha ottenuto la merce, se no lo si manda via. Perché non si fa anche da noi?

Vogliamo anche noi le telecamere, tutti ci filmano col cellulare e poi mostrano solo le cose che fanno comodo a loro e l’opinione pubblica gli va dietro, allora vogliamo poter filmare gli interventi anche noi, per poterci difendere.

I vigili a differenza di polizia e carabinieri non sono considerati un mestiere usurante, dal 2011 non ci pagano più le cause di servizio, non siamo più assicurati. Noi prendiamo lo stesso stipendio del dipendente comunale che sta in un ufficio, più 60 euro lordi al mese per l’indennità di pistola. Se volete vi ridò i 60 euro e la pistola e vado in un ufficio anch’io… Se ci picchiano restiamo a casa coi lividi, ci paghiamo i cerotti e perdiamo pure dei soldi perchè una parte dello stipendio è legata alla presenza effettiva. Eppure il 90% degli interventi sul territorio urbano sono nostri, riceviamo 90.000 chiamate e facciamo 70.000 interventi l’anno, polizia e carabinieri messi assieme questi numeri li fanno in tre anni, e sono sei volte noi.

Nei campi nomadi non vogliamo più entrare in queste condizioni, vogliamo essere almeno in gruppi di otto, avere caschi e protezioni, mezzi adatti. Chi si occupa di nomadi ha paura di ritorsioni, magari quando poi li incrocia fuori servizio al mercato. I colleghi del caso di lungo Stura Lazio hanno chiesto un trasferimento per non dover tornare nei campi nomadi, gli è stato detto che o vanno a dirigere il traffico o posti non ce ne sono, ma non ci sono oppure è che bisogna tutelare prima altri che hanno la tessera sindacale giusta?

Abbiamo un problema di mezzi: i computer sono vecchissimi, le divise sono rattoppate, lo spray al peperoncino che abbiamo in dotazione è scaduto da anni, le macchine sono rotte. Hanno comprato delle Panda a metano ma le possiamo rifornire solo al Gerbido, ha senso che da via Germagnano attraversiamo tutta la città per fare il pieno? Col blocco del turnover siamo sempre di meno, ma il lavoro aumenta sempre: la politica deve scegliere delle priorità, se vuole che tuteliamo il decoro oppure la sicurezza oppure la movida oppure il traffico o cos’altro, non possiamo più accontentare tutti.

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giovedì 15 Ottobre 2015, 13:59

Per un governo a cinque stelle

Sabato e domenica anch’io sarò a Imola per la seconda edizione di Italia 5 Stelle. Avremo uno spazio nello stand del Piemonte e sarà una buona occasione per incontrare vecchi e nuovi amici; e anche per discutere di un tema importante come quello del Movimento 5 Stelle al governo.

L’anno scorso avevo osservato (scatenando un mezzo polverone mediatico, e francamente non si capisce perché il minimo commento debba sempre essere preso per un attacco) che gli spazi di discussione dal basso erano ridotti, con tutta l’attenzione concentrata sul palco; sembra che mi abbiano ascoltato, perché quest’anno sono stati introdotti un paio di spazi agorà che dovrebbero ospitare dibattiti su vari temi, anche se il programma ufficiale ancora non c’è. Cercherò di partecipare dove ho qualcosa da contribuire, ma è evidente, secondo me, che le questioni che attendono il Movimento 5 Stelle, per passare definitivamente da forza di sola opposizione a forza principale di governo del Paese, sono altre e solo in piccola parte sono legati a temi specifici.

Il M5S, negli ultimi due anni, ha iniziato un radicale cambiamento di pelle. Spesso il cambiamento è in meglio; abbiamo ormai parecchi sindaci anche di città di media dimensione, che stanno accumulando una esperienza amministrativa importante per tutti; abbiamo dismesso in gran parte il velleitarismo e la caccia allo scontrino, facendo emergere capacità e credibilità, con diverse persone di valore nazionale. In peggio, ci sono le spinte derivanti da tutti i difetti degli italiani; nella base, ci sono troppi attivisti interessati soprattutto al selfie con Di Battista e al tifo acritico per il Movimento; tra gli eletti, ci sono anche quelli che si sono fatti i propri interessi, quelli che si sono fatti ridere dietro per ignoranza e complottismo, e quelli che si sono montati un po’ troppo la testa, comportandosi sul territorio come se ci fosse una gerarchia con loro a capo.

Restano, dunque, dei problemi irrisolti. Il primo è quello della selezione di una classe dirigente capace, che possa convincere la grande quantità di italiani che non sono convinti di nessun partito o che disprezzano la politica tout court; è il loro voto a decidere le elezioni. Finora, capaci, incapaci e così-così sono emersi più o meno per caso; non esiste un metodo consolidato per scoprire talenti e competenze tra gli attivisti e aiutarli ad emergere nella normale competizione per l’elezione o nelle selezioni, ancora completamente prive di regole, per le posizioni di staff; e non esiste un metodo consolidato per valutare il lavoro degli eletti, e magari per creare un processo in cui le persone, ora che ne abbiamo il modo, facciano una prima esperienza nelle istituzioni a livello locale e soltanto dopo, una volta provati, possano accedere a quello nazionale.

In mancanza di un metodo chiaro e condiviso, ogni deriva è possibile; anche la scorciatoia del “candidiamo Di Battista sindaco di Roma”, che io non condivido, riflette l’esigenza di organizzare i percorsi personali dei nostri attivisti ed eletti per massimizzare le probabilità di avere le persone giuste al posto giusto nel momento giusto. Se non lo si fa in maniera intelligente, difendendo principi sacrosanti come quello di fare politica per un tempo limitato e non come professione a vita, o quello di avere eletti che siano portavoce dei cittadini e della rete e non quadri di una gerarchia o leader da applaudire, il rischio è che prima o poi prevalgano le naturali ambizioni di molti e si arrivi a un liberi tutti, con la competizione scomposta e non meritocratica che già vediamo nei partiti; o che si perdano elezioni per mancanza di candidati adatti.

Il secondo problema irrisolto è quello del posizionamento politico, e direi pure sociale. Se vuole governare, il Movimento deve continuare a penetrare nel cuore della società, nelle varie professioni, nelle reti; siamo partiti dal voto dei giovani, degli outsider e delle fasce più deboli, ma dobbiamo arrivare anche alla testa delle categorie più illuminate, a quelle che per cinquant’anni si sono organizzate per sostenere questo o quel partito e che ora ne sono deluse.

Inoltre, il Movimento deve contenere e allontanare gli estremisti di tutti i tipi; i fascisti e i centri sociali, i razzisti e i buonisti ad oltranza, i maschilisti e le femministe, i leoni da tastiera e i forcaioli di ogni genere. Sui temi più ideologici e delicati bisogna praticare e difendere la concretezza, ricordando che il datore di lavoro del Movimento è l’elettore italiano in tutte le sue sfaccettature, e che la politica esiste per risolvere i problemi della gente e non per educarla o farle la morale.

Per arrivare davvero a governare, battere i pugni sul tavolo e gridare allo scandalo non basta; la nostra onestà è ormai comprovata, e a parte qualche troll nessuno la mette in dubbio; i toni esasperati non ci aiutano più. I dubbi nell’affidarci il governo, quelli che hanno portato diciotto mesi fa a un plebiscito per Renzi quando sembrava che potessimo vincere, sono legati alla paura che oltre all’onestà, sotto le grida, non ci sia niente. E’ il momento della costruttività, della pacatezza, dell’italiano corretto, del curriculum credibile e dei fatti. Di Maio piace perché è tutto questo; e, se davvero vogliamo governare, la sfida è trovare altre decine e centinaia di Di Maio per fargli fare il ministro, il sindaco o l’amministratore in posizioni di responsabilità.

Ecco, questo è il contributo di pensiero che volevo dare in vista della festa di Imola, e spero proprio che, sul posto e in rete, ci sia il modo di parlarne tutti insieme.

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sabato 26 Settembre 2015, 19:58

Ricordi di Dublino

Quando inizia a venire l’autunno capita, e non poco, di ricordarsi di Dublino; ma non della Dublino di oggi, con gli edifici di vetro e il benessere leccato. La prima volta che ci andai fu nel 1989, quattordicenne, ed era un altro pianeta; era ancora poco più che il Terzo Mondo a pochi chilometri dalla guerra civile, tanto è vero che la famiglia che mi ospitava (indubbiamente per soldi) per quelle settimane d’estate, abitando nell’estrema periferia nord, non aveva né l’auto né il telefono. In tutta la strada, una ordinata fila di casette, una sola famiglia aveva l’auto, ed era quella che faceva il trasporto dall’aeroporto; e una sola famiglia, ma non la stessa, aveva il telefono, sicché quando i genitori dall’Italia dovevano telefonare uno dei ragazzini del posto correva giù per la strada per venirmi a chiamare, e riportarmi su fino all’apparecchio.

Quello che la famiglia aveva, però, era un giradischi coi dischi degli U2. Quelli venuti dopo di noi degli anni ’70, quelli degli ’80 e dei ’90, mica lo possono sapere veramente cosa erano gli U2, quelli veri, quelli che avrebbero ancora fatto un disco come Achtung Baby, talmente leggendario che uno dopo averlo fatto può anche morire, e difatti morirono subito dopo lasciandoci solo dei sosia sazi, bolsi e insopportabili. Oddio, già Rattle and Hum a ben vedere era un disco rivelatore della pomposità pretenziosa del Bono adulto, ma era comunque un bel disco e lo ascoltavamo a nastro. Ma la simbosi tra Dublino e gli U2 era totale, tanto che in quella vacanza noi ragazzini italiani non potemmo esimerci dal prendere il treno e andare fino a Bray, a vedere quella che si presumeva essere la villa di Bono.

Per questo, oggi, mi son ripreso da Youtube il video di Gloria. E’ del 1981, filmato in mezzo al grande dock che sta a est del centro e a sud del tratto finale della Liffa, che si vede pure sullo sfondo nell’inquadratura finale. Guardatelo bene, perché quelli erano gli U2: dei ragazzi rabbiosi col ciuffo in mezzo al niente, in mezzo al devastato e abbandonato buco del culo dell’impero industriale britannico di tempi ormai andati, grigio fumo e nero carbone e grigio pure il cielo, non più una fabbrica aperta, solo disoccupazione ed eroina (l’argomento preferito delle canzoni di Bono negli anni ’80).

Gloria non è nemmeno la miglior canzone di quel periodo; la miglior canzone di quel periodo è 11 O’Clock Tick Tock, un concentrato di rabbia adolescenziale e disperazione suburbana lanciate a trecento all’ora verso un muro di mattoni. Ma il video di Gloria vi dà l’idea di come fosse Dublino negli anni ’80 (e se volete, se non l’avete mai visto, ovviamente c’è The Commitments, specie la scena in cui cantano Destination Anywhere sulla freccetta).

L’Irlanda di oggi, invece, è tutt’altra cosa. Ci sono tornato spesso, negli anni, per vacanza e per lavoro, per amore e per amici; ho persino il mio immancabile pellegrinaggio rituale, sulla collina di Howth (qualcuno forse ricorderà una delle mie vecchie copertine di Facebook). Mi ci è capitato di tutto, ne ho raccontato più volte sul blog, ad esempio nel notturno Flux; e gli irrici, un popolo fantastico, negli anni mi hanno sfottuto per Houghton e ringraziato per Trapattoni, e cibato a carote bollite e spiegato come in tutta Dublino non ci fosse più un benzinaio, che la bolla immobiliare degli anni zero era tale che erano tutti stati rasi al suolo per farci sopra un palazzo.

Ci tornerò ancora, se riesco già l’anno prossimo. E’ sempre un gran bel posto, ma la rabbia misera di un tempo è stata sostituita dal moderno benessere globale; al posto dei magazzini abbandonati c’è la sede europea di Google e la gente ha disertato i Supermac per nuove creperie e ristoranti fusion. Probabilmente d’estate è meglio così, ma, d’autunno, è bello aver saputo com’era prima.

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domenica 20 Settembre 2015, 10:44

Quello che fa paura

Il razzismo mi fa paura, l’ignoranza mi fa paura, la rabbia latente mi fa paura. Ma la cosa che mi fa più paura degli italiani è la facilità con cui si fanno manipolare dai mezzi di comunicazione per trovare subito qualcuno a cui accollare una colpa.

Gli piazzano sotto il naso la foto del Colosseo chiuso, gli scrivono tre titoli indignati sugli statali fannulloni, e alé: sdegno generale! licenziamoli tutti, oppure obblighiamoli a lavorare col fucile puntato, ai lavori forzati trascinando la palla di ferro alla caviglia! Ma magari c’era un motivo valido per quella protesta, magari la responsabilità è invece di chi pur preavvisato a norma di legge e ben pagato per farlo non ha saputo gestire la situazione, o risolvere prima il problema.

Gli fanno vedere una stronza che fa lo sgambetto al profugo, aggiungono due editorali sdegnati di qualche trombone a cottimo, tirano fuori un paragone storico appositamente selezionato (tipo: ma sessant’anni fa erano loro i profughi!), e alé: ungheresi nazisti! non fanno niente per i profughi, li scaricano tutti a noi, egoisti, cacciamoli dall’Europa! Peccato (ma questa informazione nessuno la riporta) che l’Ungheria nel secondo trimestre 2015 ha accolto e ospitato, in proporzione alla popolazione, tredici volte più profughi dell’Italia; davvero gli possiamo fare la morale?

Di storie così ce n’è un continuo (un’altra: quella del tassista che odia i disabili, che poi è venuta fuori essere in buona parte un equivoco legato al rifiuto dei buoni taxi comunali e non del cliente disabile). Sono tutte notizie che partono da un fondo di verità, ma che lo raccontano ingigantendo le cose a vantaggio di una parte sola, ed evitando accuratamente di riportare le ragioni dell’altra – se non, magari, due giorni dopo in un articoletto che nessuno leggerà. E la gente va dietro all’ondata di sdegno del momento, invece di cercare di capire le cose davvero, da tutti i punti di vista, e valutare se veramente l’interpretazione così netta offerta dai media è giustificata (magari sì, magari no), e provare a immaginare soluzioni costruttive ai problemi, che possano tener conto delle esigenze di tutti.

Che poi sarebbe anche il compito della politica, invece di passare il tempo a cavalcare lo sdegno e montare scandali su qualsiasi cosa per buttare fango addosso agli avversari; e questa è una responsabilità che dobbiamo prenderci tutti noi che la facciamo, specialmente chi, come il Movimento 5 Stelle, vuole dimostrare di saper affrontare e risolvere i problemi per poter governare.

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sabato 19 Settembre 2015, 10:48

Le misteriose dimissioni dell’AD di Alitalia

Sappiamo tutti che Alitalia ormai (purtroppo per noi) è una barzelletta, e nemmeno una buona barzelletta ma una di quelle che sono decisamente troppo lunghe e ripetitive per fare davvero ridere. Però, quando ho letto sui giornali la notizia delle dimissioni dell’amministratore delegato (il miliardesimo amministratore delegato di Alitalia dell’ultimo decennio) “per motivi personali”, non ho resistito al tasso di fuffa e ho deciso di riassumere gli ultimi sei mesi della nostra ex compagnia di bandiera in modo comprensibile agli umani:

1. Alitalia viene “salvata” da una cordata di “imprenditori italiani” capeggiati da Colaninno, Benetton e Riva (quelli dell’Ilva), però non coi soldi loro, ma in gran parte con quelli delle banche (Intesa Sanpaolo e Unicredit) e degli italiani (Poste).

2. Non riuscendo a farla funzionare, gli “imprenditori italiani” “vendono” Alitalia agli arabi di Etihad… con la piccola clausola che il 51% rimane in mano agli “imprenditori italiani” per “motivi legali” (la maggioranza deve restare in Europa per non perdere una serie di protezioni commerciali).

3. A fine 2014 inizia l’avventura: i “proprietari” arabi nominano l’amministratore delegato (Silvano Cassano) mentre i “soci” italiani nominano il presidente (Montezemolo).

4. Dopo pochi mesi, l’aeroporto di Fiumicino (gestito dalla società Aeroporti di Roma) è vittima di un disastroso incendio che si trascina per settimane: un capolavoro di faciloneria e negligenza che causa 80 dei 130 milioni di perdite di Alitalia nel primo semestre 2015, azzoppando il già difficile piano di rilancio.

5. Esasperato dall’incapacità di Aeroporti di Roma, l’AD Cassano annuncia che Alitalia sta pensando di lasciare Fiumicino e usare qualche altro aeroporto come hub primario (es. Malpensa).

6. Piccolo particolare: mentre Malpensa è di proprietà prevalentemente pubblica (enti locali e Cassa Depositi e Prestiti, oltre alle solite banche), Aeroporti di Roma è di proprietà al 95,9% di Atlantia, cioè dei Benetton, cioè degli “imprenditori italiani” che hanno in mano il 51% di Alitalia.

7. Annunciate ieri le “misteriose” dimissioni dell’amministratore delegato di Alitalia Silvano Cassano “per motivi personali”.

Evviva gli “imprenditori italiani”, e poveretti gli arabi che si son fatti abbindolare così…

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venerdì 11 Settembre 2015, 08:44

Se La Stampa ti spamma

Anni fa mi sono registrato sul sito de La Stampa, per poter commentare online le lettere di Specchio dei Tempi.

Da un paio di giorni però ricevo ogni mattina, senza averla mai chiesta, una newsletter del direttore Calabresi con i suoi pensierini sulle sue scelte per l’uscita del giorno, tipo stamattina (in grassetto): “È così bello quando in prima pagina si può mettere la Storia” (con la S maiuscola, mi raccomando).

A un certo punto c’è comunque scritto: “Abbiamo deciso di mandarti questa newsletter per fartela conoscere. Ti verrà inviata automaticamente fino a giovedì 17 settembre. Se vuoi continuare a riceverla gratis devi attivare il servizio.” Che è un po’ come prendere un ateo e mandargli gratis tutte le mattine una copia delle riviste dei Testimoni di Geova, con allegati i due tizi che suonano il campanello alle otto del mattino, così per fargli provare il servizio. Sicuramente a qualcuno nel mucchio piacerà, ma sarebbe gentile chiedere prima se uno gradisce; anzi no, sarebbe un obbligo di legge; anzi nemmeno, sarebbe un obbligo di legge non mandare niente a nessuno, nemmeno una gentile richiesta, se non è stato lui per primo a chiedertelo sul sito.

In fondo, in piccolo, c’è un link di disiscrizione e ho provato ad usarlo. Bene, si viene rimandati a una pagina in cui inserire il proprio username e password; io li metto (giusti, ho controllato con il recupero password) e… non succede niente; la pagina torna alla form in questione. Non so se comunque la disiscrizione funzioni, ve lo saprò dire domani mattina.

Certo che è disarmante vedere come nel 2015 i quotidiani italiani non abbiano ancora capito granché di come ci si relaziona con i lettori nel mondo digitale, anzi si trasformino tranquillamente in pessimi spammer.

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venerdì 4 Settembre 2015, 10:09

Gli immigrati portano ricchezza?

Uno degli argomenti più dibattuti in rete, quando si parla di immigrazione, è questo: gli immigrati sono un costo o una ricchezza? I giornali ne parlano spesso, e ne parlano malissimo; di solito si limitano a un concetto strettamente economico di “ricchezza” (lo farò anch’io in questo articolo, rimandando altre riflessioni al futuro) e sparano un titolone con una cifra che faccia impressione, positiva o negativa a seconda del pregiudizio che il giornale ha rispetto al fenomeno.

Repubblica, per esempio, definisce gli immigrati “un tesoro da 123 miliardi di euro”; detto così, sembra che siano soldi che gli immigrati mettono di tasca loro, ma in realtà si tratta semplicemente della fetta di PIL corrispondente in proporzione al numero di lavoratori immigrati rispetto al totale dei lavoratori in Italia (l’8,8%). Per dire che questa ricchezza è generata dagli immigrati, bisogna dare per scontato che in loro assenza non ci sarebbe altro modo di produrla, ad esempio impiegando al loro posto i disoccupati italiani, oppure migliorando la produttività degli altri lavoratori; e questo può essere o non essere vero a seconda di tanti fattori, a partire dal tipo di produzione e di competenze richieste.

Ancora peggio è Il Giornale, una vera fabbrica di cifre usate male, grazie a una costante manipolazione dei termini. Sia quando espone cifre corrette, come il miliardo di euro annuo abbondante che ci costa l’accoglienza dei profughi, sia quando fa confronti che non stanno nè in cielo nè in terra, come quello tra il costo mensile (peraltro abbastanza gonfiato) dell’accoglienza di un profugo e lo stipendio mensile di un poliziotto, Il Giornale non usa la parola “profugo” o “sbarcato” o “rifugiato” ma parla genericamente di “immigrato”. Eppure queste spese si riferiscono solo alle decine di migliaia di profughi attualmente ospitati nel nostro sistema di accoglienza, e non a tutti i circa cinque milioni di immigrati (più i clandestini, presunti essere tra 500.000 e un milione) attualmente presenti in Italia.

Il discorso, infatti, è ben diverso se parliamo degli immigrati regolari, quelli che entrano e rimangono in Italia con un permesso di soggiorno e con un lavoro, o se parliamo dei poveretti appena sbarcati a Lampedusa, sia che siano veri rifugiati che hanno perso tutto, sia che siano persone in cerca di lavoro e benessere.

Per quanto riguarda l’immigrazione in generale, troverete citato ovunque il rapporto di una certa Fondazione Moressa di Venezia, che trovate esposto qui alle pagine 11 e 12, e che conclude che il conto tra quanto gli immigrati versano allo Stato e quanto ricevono in servizi sarebbe in attivo di 3,9 miliardi di euro: 16,5 miliardi di entrate e 12,6 di uscite.

Ora, io vi prego di leggere bene in quel documento la tabellina e la spiegazione, perché qualche dubbio sulla sensatezza di questo calcolo ce l’ho. In particolare, più della metà delle entrate sono i contributi previdenziali, eppure in uscita la voce per i trattamenti previdenziali non compare affatto; a parte che ormai nella prima generazione di immigrati ci sono anche i pensionati, ma tra venti o trent’anni poi queste pensioni andranno pur pagate, quindi un qualcosa andrà pure accantonato.

Poi si arrampicano sugli specchi: ti dicono che la sanità costa molto, ma gli immigrati la usano meno della media perché sono giovani, quindi non puoi imputargliela appieno; poi però ti dicono che, essendo giovani, usano la scuola più della media, ma comunque i costi della scuola sono fissi perché sono gli stipendi degli insegnanti, quindi non puoi imputarli a loro. E nella sanità gli stipendi non ci sono? E poi anche in settori come casa e servizi sociali gli stranieri beneficiano dei servizi in maniera ben più alta della media; vi raccomando di dare un’occhiata all’elenco dei beneficiari dei contributi per l’affitto del Comune di Torino per farvi un’idea da soli.

Anche altre voci di spesa sono palesemente sottostimate: per esempio la spesa per la gestione dei fenomeni migratori (“Ministero dell’Interno”) è stimata in un miliardo di euro, ma noi sappiamo che è già superiore solo la spesa per l’accoglienza dei profughi esclusi i costi di salvataggio, trasporto e gestione, senza nemmeno cominciare a parlare di tutti gli altri immigrati.

Infine, un altro grosso errore: dal lato delle spese, l’elenco è chiaramente incompleto. Difatti, all’attivo viene messo l’intero gettito Irpef dei lavoratori immigrati, nonché una minuzia di altre tasse (persino le tasse sul presunto gioco d’azzardo da parte degli immigrati, o sulla benzina che probabilmente comprano…), ma come spese vengono contate solo alcune delle voci pagate con le entrate fiscali nazionali dei cittadini: sanità, scuola, servizi sociali, casa, giustizia. E i trasporti? Le strade? La polizia? L’ambiente? La cultura? Gli immigrati usufruiscono di tutti i servizi pubblici, come tutti gli altri cittadini. La spesa pubblica italiana è di 835 miliardi, se gli immigrati sono quasi il 10% della popolazione la loro quota potrebbe arrivare fino a 80 miliardi, altro che 12,6.

E in tutto questo non abbiamo ancora considerato un altro grosso fattore: loro stessi stimano in 5,5 miliardi (qui, al fondo di pagina 3) il valore delle rimesse inviate ogni anno dagli immigrati al loro Paese, soldi che non sono una spesa dello Stato, ma che comunque lasciano l’economia italiana e vanno ad alimentare quella di altre nazioni, e che però nel conto non compaiono.

Allora, capite che questo calcolo è talmente complesso, e talmente influenzato dal risultato che si vuole ottenere, che lascia un po’ il tempo che trova; peraltro, stante che il bilancio italiano è in perenne deficit e che abbiamo un’ampia tendenza all’assistenzialismo, sospetto che il conto sarebbe negativo anche per buona parte degli italiani.

Credo quindi che non abbia molto senso discutere se “gli immigrati” portano ricchezza oppure vivono alle spalle degli italiani; è un tipo di ragionamento strumentale sin dal principio, che viene fatto solo per dare una pretesa di scientificità ai propri pregiudizi positivi o negativi sull’immigrazione. Perché, vedete, “gli immigrati” o “gli italiani” non sono categorie sensate; bisogna capire cosa fa ogni persona.

Basta un po’ di buon senso per capire infatti che l’immigrato che arriva qui, rispetta la legge, lavora, paga le tasse è una ricchezza per tutti; mentre l’immigrato che arriva qui e non lavora, trovandosi a sopravvivere di espedienti ai margini della società o peggio a rubare o spacciare o prostituirsi per vivere, non è una ricchezza ma un danno.

E’ proprio per questo che tutti gli stati moderni, almeno dall’età industriale, non lasciano entrare chiunque, ma adottano politiche di gestione dei flussi: decidono quante persone possono essere accolte dall’economia e che qualifiche devono avere, fanno entrare quelle e rimandano indietro gli altri. Il primo strumento di integrazione, difatti, non è il sindaco che festeggia il Ramadan con te per mettere la foto sui giornali, e nemmeno l’accoglienza in albergo pagata dalla collettività, ma è il lavoro che ti trovi e che ti permette di mantenerti e di sistemare te e la tua famiglia; senza lavoro non c’è integrazione.

Per questo io sono basito da tutti quelli che dicono che noi dobbiamo accogliere a braccia aperte tutti quelli che si presentano oggi alle nostre frontiere, perché un secolo fa noi siamo stati accolti negli Stati Uniti e altrove. Gli Stati Uniti hanno accolto quasi tutti per un periodo ben definito, alla fine dell’Ottocento, in cui avevano un intero continente da popolare e colonizzare; una situazione molto particolare, certo non quella dell’Italia di oggi. Anche loro facevano comunque una selezione sulla capacità di lavorare, rimandando indietro per esempio i disabili, e nel Novecento ben presto introdussero un sistema di quote e progressivamente chiusero le frontiere; e gli italiani che entrarono là, lo fecero quasi tutti regolarmente, con un visto valido e dopo essere stati identificati e schedati. Oggi, negli Stati Uniti, senza qualifiche si entra a numero chiuso con una lotteria; in Australia nemmeno così, ma si entra, dopo i trent’anni, praticamente solo se si fa parte di una serie ben precisa di professioni di cui hanno bisogno. Se ti presenti alla frontiera senza il visto, ti fermano (oddio!), ti mettono in una cella (oddio!!!), e ti reimbarcano a tue spese sul primo aereo per il tuo Paese (oddio!!!!! tutte cose che qui sono bollate come razzismo).

I rifugiati, quelli veri, sono un caso particolare; sono persone che non hanno necessariamente prospettive di integrarsi nella nostra economia, e che quindi potrebbero pesare sul nostro sistema di welfare a lungo, ma che accogliamo per civiltà e solidarietà. Gli altri, i migranti economici, quando sono entrati in questi anni con un visto e hanno trovato un lavoro, hanno dato e stanno dando il loro contributo al benessere degli italiani e sono i benvenuti.

Quelli però che non rientrano in una stima dei lavoratori che ragionevolmente possiamo assorbire, quelli che non troveranno un lavoro e resteranno in mezzo a una strada, non saranno una ricchezza, ma un problema per tutti. E allora trovo giusto che anche l’Italia decida ogni anno quanti migranti economici accogliere, che riceva le domande già dai Paesi di origine e gli conceda il visto prima di partire, in modo che i prescelti possano venire qui in aereo e non rischiando la vita in mare, e possano arrivare e lavorare e prosperare insieme a noi, magari nell’ottica di trasferire poi denaro e conoscenza nel Paese di origine per accelerarne lo sviluppo. Per gli altri, mi spiace: senza razzismo, senza cattiveria, ma oggettivamente il posto non c’è.

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