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giovedì 19 Marzo 2015, 19:30

Chi controlla il gioco d’azzardo

Tra le attività storiche del Movimento 5 Stelle, molto prima di entrare nelle istituzioni elettive, c’è quella di informare i cittadini su quello che accade nelle istituzioni, cercando di permettere loro di formarsi un’idea approfondita delle questioni di cui la politica si deve occupare.

Per questo motivo, negli scorsi mesi abbiamo organizzato un ciclo di incontri dedicato a diversi temi, che si concluderà sabato 28 con le mense scolastiche. L’ultimo incontro, un paio di settimane fa, è stato invece dedicato al gioco d’azzardo e alle sue patologie: un tema di cui la politica si occupa spesso, ma che altrettanto spesso viene ridotto a una serie di slogan o a una dichiarazione di buone intenzioni sottoscritta da tutte le forze politiche, alla quale però non seguono mai le azioni concrete.

Già lo scorso autunno vi avevo raccontato molti dati sulla realtà dell’azzardo a Torino e provincia; questi e altri dati sono finiti poi nel mio intervento, che si basava su questa presentazione che metto volentieri a disposizione. Di questo argomento non impressiona soltanto l’enormità delle cifre in gioco (quasi un miliardo e mezzo di euro di giocate annue solo a Torino città), ma anche l’ambivalenza delle istituzioni che dovrebbero regolarlo e controllarlo.

Alla fine, difatti, con la scusa che bisogna spingere l’azzardo autorizzato per evitare che la gente si rivolga a quello illegale, lo Stato mette più energia nel promuovere l’azzardo che nel tenerlo sotto controllo. L’ente pubblico a cui è primariamente affidata la questione, l’AAMS (Azienda Autonoma Monopoli di Stato), esprime esplicitamente la propria missione come “promuovere il gioco d’azzardo legale”: evitare che la gente comune si rovini non appare da nessuna parte. Idem per la Guardia di Finanza, che parla di “tutelare il mercato e il bilancio statale”.

Il risultato è che lo Stato investe molto poco nella prevenzione degli illeciti e nell’assistenza sanitaria ai ludopatici: i controlli sulla regolarità delle macchinette sono rari e blandi, tanto che gli stessi controllori ammettono che, con un po’ più di impegno, si potrebbe scoprire (per esempio) che sono moltissimi i gestori del gioco d’azzardo che evadono in tutto o in parte le tasse sulla raccolta.

Comunque, per ridurre la quantità di gente che si rovina con l’azzardo la strada primaria è quella culturale. Per quello è ottimo il lavoro di Fate il nostro gioco, un gruppo di matematici appassionati che da anni porta in giro per le scuole una vera e propria simulazione di un gioco d’azzardo, condotta in modo da svelarne i segreti e da far toccare con mano quanto il destino di chi gioca regolarmente sia quello di perdere. Qui sotto vedete il loro calcolo del risultato di dieci milioni di giocate al WinForLife: alla fine, statisticamente avrete perso sette milioni di euro.

Il M5S si impegna in tutte le sedi per avere regole più severe contro il gioco d’azzardo, contrastando l’azione del governo (l’ultima pensata di Renzi è eliminare i già scarsi poteri che hanno i Comuni per limitare l’installazione delle macchinette); ma, alla fine, l’unico modo di vincere è non giocare, ovvero farlo solo per divertimento, giocandosi pochi soldi come se fossero il biglietto per una serata al cinema o allo stadio. Farlo capire non è facile, specie alle persone non giovani e poco acculturate che sono la clientela privilegiata di questi giochi, e che ne diventano schiave, magari dopo quella buona vincita che quasi sempre illude le persone sulla possibilità di uscirne arricchiti. Eppure, questa finisce veramente per essere, in tempi di crisi, la nuova droga che conquista e rovina gli italiani.

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giovedì 12 Marzo 2015, 15:19

Cara Stampa, mi autodenuncio

Cara Stampa, mi autodenuncio. Mi chiamo Vittorio Bertola e sono il consigliere comunale che con una mozione ha chiesto di proteggere le corsie preferenziali di via Pietro Micca e via Cernaia dalle auto che svoltano illegalmente a sinistra, in piazza Solferino e negli altri incroci.

Ogni giorno, migliaia di torinesi usano tram e bus su quelle strade per andare dalla metro al centro di Torino e viceversa. Ogni giorno, i tram e i bus vengono bloccati in mezzo all’incrocio dalle auto private che, nonostante sia vietato, tengono ferme per minuti un centinaio di persone per la loro personale svolta a sinistra, per non perdere un minuto a fare il giro da via Botero. Ogni giorno su quei mezzi, già sovraccarichi e ridotti a carri bestiame dai continui tagli, vedo anziani volare via e persone farsi male perché l’autista deve inchiodare per evitare un SUV o un furgone che gli taglia la strada con arroganza.

Certamente i vigili devono rispettare per primi le norme, e spesso i Comuni esagerano nel fare cassa con le multe. Tuttavia, il problema del traffico di Torino non è il vigile dietro la colonna, ma la quantità crescente di incivili che rendono stressante e pericoloso girare per la città con qualsiasi mezzo, tra manovre pericolose e veicoli abbandonati ovunque.

Io sono stufo di vivere in un Paese che garantisce sempre e solo i furbi e i delinquenti, e trovo agghiacciante che ci siano consiglieri comunali (molti e di ogni colore) che li difendono pure. Può capitare a tutti, me compreso, di violare una regola, ma se si viene beccati si tace e si paga senza cercare scuse; ed è anche peggio l’idea che i vigili debbano prima “farsi vedere”, in modo che tutti possano violare in tranquillità le regole ovunque non ci sia un vigile con divisa fluorescente in bella mostra.

La vera emergenza è liberare Torino dalla malasosta e dagli egoisti del traffico, e dato che la dissuasione e i gentili inviti ricevono in risposta soltanto scherno ed insulti, l’unico modo per farlo è avere più vigili e più multe. Sarà anche impopolare dirlo apertamente, ma credo che alla fine, se riusciremo ad avere una città un po’ più simile all’Europa anche in termini di comportamenti stradali, ne avremo guadagnato tutti.

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venerdì 6 Marzo 2015, 17:43

Di nomadi, cani e immondizia

Ancora una volta in questi giorni si è parlato molto di via Germagnano, per le difficoltà di convivenza tra il canile e i nomadi. Mi sono però reso conto che su questa realtà tutti hanno un’opinione, ma pochi la conoscono veramente; per questo ho deciso di usare il materiale reperito in vari sopralluoghi per accompagnarvi in un giro virtuale.

Per prima cosa, via Germagnano è una traversa al fondo di corso Vercelli; appena superato il ponte sulla Stura in direzione autostrada, c’è un semaforo e sulla sinistra inizia la via, con una ripida discesa che finisce in una curva secca che si infila in un sottopasso sotto la ferrovia. Questa è una caratteristica molto importante, perché quello stretto sottopasso è l’unico accesso da Torino a tutta l’area, che risulta così praticamente chiusa e abbandonata a se stessa, anche se la strada, dopo il lungo rettilineo della baraccopoli, diviso in due dal ponte della superstrada per Caselle, gira poi verso nord e raggiunge il Molino del Villaretto. Qui sotto vedete l’area su Google Maps, secondo cui (non l’ho aggiunto io con Photoshop!) il nome ufficiale del quartiere da indicare sulla mappa è Baraccopoli di via Germagnano.

In via Germagnano – a parte alcuni bassi palazzi all’angolo di corso Vercelli – ci sono solo tre cose: nomadi, cani e immondizia. Per farvi capire, ho preso la foto dal satellite e ho evidenziato le diverse zone attorno al rettilineo della via, che scorre da sinistra a destra inclinata verso il basso (corso Vercelli è nell’angolo in basso a destra).

Nella zona, storicamente agricola, la prima ad arrivare fu l’immondizia: già nel dopoguerra si cominciò ad accumularla lungo la Stura, in un’area oltre la fine della via, e poi, dagli anni ’80, in un’altra enorme area subito a nord, tra la vecchia discarica e la tangenziale: la famosa discarica Basse di Stura, chiusa nel 2009. Le discariche sono fuori da questa visuale, ma in verde chiaro vedete evidenziata l’area occupata dagli uffici e dagli impianti dell’Amiat, nonché dal centro sportivo antistante.

Dopodiché, arrivarono i canili. Già, perché in via Germagnano ci sono ben tre canili, indicati in giallo; quello identificato col numero 1 (nella foto qui sotto) è di proprietà del Comune, che lo utilizza come canile sanitario, ovvero per il ricovero di animali malati o aggressivi e dunque bisognosi di cure mediche e difficilmente adottabili. Il numero 2 è della Lega Difesa del Cane, mentre il numero 3 è quello dell’ENPA; entrambi sono privati, usati dalle associazioni per le proprie attività.

L’ENPA, in particolare, costruì il canile numero 3 negli anni ’60, in sostituzione del loro precedente canile che fu sfrattato per realizzarci sopra il laghetto di Italia ’61. L’ENPA, essendosi aggiudicata un appalto da quattro milioni di euro in tre anni, gestisce anche per conto del Comune il canile numero 1 e l’altro canile comunale, ossia il canile e gattile rifugio di strada Cuorgné alla Falchera, dove vengono tenuti e/o dati in adozione gli animali smarriti.

Gli ultimi arrivati sono i nomadi, nelle aree indicate in rosso. Nel 2004 venne inaugurato il campo regolare di via Germagnano, quello indicato dalla lettera A; fu creato per ospitare le famiglie sgomberate dal campo di strada dell’Arrivore, che così potè venire chiuso; si trattava di bosniaci che vivevano a Torino sin dagli anni ’70, per cui, tranne gli anziani, sono nati e cresciuti a Torino. Si tratta di un’area con 30 piazzole, ognuna delle quale contiene una o due casette in muratura dotate di tutti gli impianti; purtroppo però, tra incidenti, faide interne al campo e saccheggi, molte sono bruciate e inagibili.

A fianco di questo, sono nati via via altri insediamenti (B, C e D), che a differenza del campo A sono tutti abusivi; si tratta prevalentemente di rom romeni, arrivati qui da alcuni anni. (Qui sotto il campo B, oltre la strada, visto uscendo dal canile comunale in un giorno di pioggia.)

Queste sono baraccopoli vere e proprie, realizzate con mezzi di fortuna; sono costruite sulla terra, che diventa un mare di fango appena piove; sono per gran parte in aree alluvionabili dalla Stura; sono prive di acqua, e l’unico modo per averla è andarsela a prendere con le taniche fino alla fontanella, che sta presso il puntino azzurro sulla mappa.

Se volete avere un’idea delle dinamiche di rom e sinti, vi consiglio di leggere almeno le prime pagine di questa tesi; oltre a raccontare nel dettaglio alcune delle attività per cui le istituzioni stanziano ogni anno centinaia di migliaia di euro, spiega tra le altre cose perché alla fine “zingaro” sia il termine più corretto da usare. Tra i punti importanti da ricordare, il fatto che l’80% degli zingari non vivono nei campi ma in normali abitazioni sparse per la città; quello che gli zingari, pur culturalmente portati a viaggiare, non sono più nomadi da un pezzo, per cui il campo è semplicemente la loro abitazione; quello per cui non vivono nei campi perché gli piace (in Jugoslavia o in Romania generalmente avevano una casa), ma perché lo Stato italiano ha creato i campi nomadi come unica risposta all’immigrazione di zingari dall’Est europeo, e con essi li ha ghettizzati impedendo di distinguere tra buoni e cattivi, e rendendo praticamente impossibile uscirne (se nel campo uno ruba, tutto il campo è di ladri; e chi di noi affiderebbe a uno zingaro del campo una casa o un lavoro?); che gli zingari sono sporchi anche perché provate voi a vivere in una baracca nel fango senza acqua corrente e a rimanere sempre puliti.

Sia il campo ufficiale che quelli abusivi sono pieni di immondizia in ogni dove, così come la strada stessa. Questo è legato al fatto che gli zingari, se non vivono di elemosina o di furti, vivono di una economia dell’immondizia: recuperano tutto quello che possono – in origine metalli, dato che quella del fabbro è una delle loro professioni secolari, ma oggi qualsiasi cosa – e lo rivendono o riciclano per quanto possibile, o lo usano per realizzare le proprie abitazioni.

Il resto, però, viene abbandonato dove capita; e se è vero che generalmente non hanno a disposizione i cassonetti, è anche vero che anche quando vengono messi vengono in gran parte ignorati. Si creano così aree miste, dove ci sono baracche, panni stesi, distese di immondizia e anche i luoghi predisposti per i roghi con cui si cerca di liberarsi di un po’ dei rifiuti, ma anche di liberare dalla plastica i metalli recuperati o rubati (foto dal campo D).

I campi, comunque, sono relativamente stabili; il turn-over è limitato e legato all’approvazione delle famiglie “capo” del campo. Anche il livello di baraccamento è vario; ci sono baracche poverissime e cadenti, ma anche casette relativamente solide e comode, col generatore per la corrente elettrica che alimenta il televisore, e magari un’auto nuova o un camper costoso a fianco. Generalizzare è l’ultima cosa che si dovrebbe fare; bisognerebbe conoscere ogni famiglia, distinguere chi vive onestamente da chi non lo fa, capire quali sistemazioni sono possibili (i guai spesso iniziano da gruppi di origine diversa che si trovano troppo vicini).

I problemi di convivenza tra gli zingari e gli altri sono molteplici. Nella prima parte della via, il problema principale è la vicinanza del canile privato dell’ENPA (numero 3) col campo regolare (A). Come vedete dalla mappa, per accedere al canile è necessario percorrere una stretta strada sterrata, chiusa tra il campo e il terrapieno della ferrovia; su questa strada si apre uno degli ingressi laterali del campo ufficiale, che è recintato.

Purtroppo, lo sport preferito dei ragazzini rom per passare i pomeriggi è il tiro al bersaglio con le pietre, o in alternativa con rottami e immondizia; per cui il Comune ha realizzato una seconda recinzione, che vedete al centro della foto sotto (a sinistra vedete gli edifici comuni, semibruciati, che costituiscono il bordo esterno del campo, e i cassonetti messi a disposizione del campo, con immondizia tutta attorno). La recinzione divide la strada in due; a destra si va al canile, a sinistra all’ingresso laterale del campo, creando così uno spazio cuscinetto. Gli abitanti del campo, tuttavia, hanno progressivamente spinto in avanti la recinzione, riducendo l’accesso al canile a un viottolo impercorribile dai mezzi più grandi, compresi quelli di soccorso.

Sempre per creare un cuscinetto, ENPA è stata costretta ad affittare dal Comune il terreno situato tra il canile e il campo, salvo poi doverci pagare sopra la tassa rifiuti e subire le ordinanze di sgombero dei rifiuti buttati lì dal campo. E poi, c’è il problema dei furti e dei vandalismi, che peraltro si ripetono continuamente da anni. Nessuno può dire con certezza che siano stati fatti da abitanti del campo, ma se vedete la via d’accesso capite che non è facilissimo arrivarci di notte da fuori.

Ora, una possibilità sta nel fatto che il Comune ha ricevuto da un benefattore animalista una eredità di 350.000 euro destinata alla costruzione di un nuovo canile sanitario, probabilmente in strada Cuorgné, abbandonando il vecchio, che, pur anch’esso soggetto a furti e minacce, stando dall’altra parte della strada è decisamente più protetto. Una possibilità dunque è che ENPA vinca il bando per la concessione del canile comunale e abbandoni il suo; tuttavia, abbandonare completamente un edificio di proprietà su cui si sono investiti molti soldi non è né giusto, né indolore. D’altra parte, il Comune non può certo rifondere danni fatti da privati (nemmeno identificati) ad altri privati.

Analoghi problemi di convivenza si verificano dall’altra parte, tra i campi C (nella foto qui sopra) e D e i lavoratori Amiat. Nonostante le discariche siano ormai chiuse, lì lavorano ancora 400 persone, tra la gestione della discarica (che produce tuttora biogas), il call center e la raccolta dei rifiuti di Torino nord, che vengono concentrati lì per essere poi inviati tramite camion all’inceneritore del Gerbido o ai consorzi di riciclaggio.

Gli episodi non si contano: macchine danneggiate da lanci di pietre, addirittura con fionde; aggressioni a lavoratrici che tornano alla macchina, con richieste di soldi e/o sputi a raffica; dipendenti degli uffici intossicati dai fumi dei roghi che entrano dalle finestre; assalti ai camion di rifiuti quando si fermano per la pesa, prima di entrare nell’impianto; furti (in pieno giorno) di materiale riutilizzabile, ad esempio rifiuti elettronici. Anche qui, spesso queste attività sono svolte da bambini e ragazzini, che vivono nel fango allo stato brado.

La presenza di un presidio fisso di vigili dalle 7 alle 20, o nella palazzina Amiat o in giro per la zona, ha un po’ migliorato le cose. Tuttavia, il problema di fondo resta.

Purtroppo, difatti, le baraccopoli esistono e, con la crisi, sono in costante crescita. L’unico modo di evitare le baraccopoli, una volta rimossi quelli che ci vivono non per povertà ma per necessità di un territorio franco per attività criminali, è di sussidiare le persone che ci vivono, cosa che però non è compatibile con la scarsità di fondi per il welfare e soprattutto, specialmente se si parla di zingari, vede contraria tutta la popolazione. Altrimenti, si può fare quello che si sta facendo, ossia cercare di mettere in piedi progetti per mandare i bambini a scuola e aiutare gli adulti a trovare un lavoro e uscire dal campo, cosa che però non risolve immediatamente il problema, né gestisce il continuo arrivo di nuovi ospiti (anche perché i rom si sposano da giovanissimi e fanno molti figli).

Gli sgomberi, tanto richiesti, non risolvono il problema; servono a evitare di avere un campo in un determinato punto, sapendo che le persone rimaste senza baracca andranno a farsene una nuova poco più in là, perché da qualche parte devono pur vivere; e non è possibile pattugliare con l’esercito qualsiasi anfratto di Torino e cintura. E’ giusto sgomberare subito quando nascono nuovi insediamenti, per non far degenerare la situazione, ma sgomberare centinaia di persone in una volta sola, come in teoria si potrebbe fare in via Germagnano, provocherebbe solo la nascita di parecchi nuovi accampamenti in altri punti della città.

(Tra l’altro, gira voce che per gli ultimi sgomberi di lungo Stura Lazio, pur residuali rispetto a tanta gente accomodata volontariamente in altro modo, il Comune sia stato appena denunciato dalle associazioni pro diritti umani dei rom, con tanto di richiesta dei danni materiali per le baracche demolite e di quelli per il trauma psicologico subito dagli sgomberati.)

E allora, sapete che c’è? Che un’area defilata, chiusa e poco visibile, in cui concentrare i poveri, i cani e l’immondizia, fa comodo a tutti. Piano piano, anzi, succederà che andranno via i cani e l’immondizia, e resterà soltanto la baraccopoli, un pezzo di favela brasiliana in una città del nord Italia. A questo proposito aggiungo ancora un’immagine, la foto dall’alto di una zona molto più grande, di cui quella di cui abbiamo parlato finora è solo l’angolino in basso a destra.

Vedete quanto sono enormi le due discariche, che si estendono per chilometri: pensate a quanti rifiuti abbiamo prodotto… Comunque, mentre la discarica Basse di Stura sarà ancora in gestione Amiat per quasi trent’anni, in quanto instabile e fonte di gas, quella più vecchia è ormai stabilizzata ed è diventata un parco, il parco della Marmorina. Erano anche stati spesi dei soldi per realizzare un accesso indipendente per il pubblico, senza dover passare dentro l’Amiat, ma l’accesso è ormai inglobato nel campo D e il parco è inaccessibile.

Vedete però quella zona indicata con E? E’ grande come tutti gli altri campi messi assieme e anche più, si trova tra il parco e le rive della Stura, e dall’alto è già punteggiata di baracche, completamente a rischio alluvione. Una volta erano orti urbani abusivi, ma io non ho idea di chi ci viva adesso e perché. Anche penetrare nel parco chiuso al pubblico non sarà così difficile; per la nostra favela appartata, lontano dagli occhi e dal cuore, lo spazio non mancherà di certo.

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sabato 28 Febbraio 2015, 13:35

Un commento sulla Costituente di Firenze

Oggi a Firenze si tiene un incontro intitolato Verso la costituente a cui partecipano molti degli esponenti e dei gruppi cacciati o fuoriusciti dal M5S negli ultimi mesi, con l’obiettivo di costituire qualcosa che possa rappresentare il “dopo M5S” per tutti quelli che ne sono usciti.

Alcuni giorni fa mi hanno invitato a partecipare o a mandare un videomessaggio, ma ho detto di no senza esitazioni, primo perché sono tuttora dentro il M5S che rappresento in una carica elettiva e che continuo a cercare di riportare su una strada più convincente, e secondo perché capisco chi si trova privo di una casa politica e volendo continuare l’attivismo deve costruirsene una nuova, ma tra i partecipanti ci sono anche persone ex M5S che hanno tradito ogni impegno etico preso in precedenza, e nessun nuovo progetto è credibile se accoglie tra gli applausi questo genere di persone.

I problemi del M5S sono sotto gli occhi di tutti e io li denuncio apertamente da tempo, ma questo non vuol dire che si debba buttare via quanto di buono il M5S ha fatto, che è molto. Non ha senso costruire una forza politica di opposizione ma in opposizione anche al M5S, vorrebbe dire solo frantumare il fronte anti-sistema a vantaggio dei partiti di governo.

Ha senso, invece, capire come andare “oltre il M5S”, oltre i limiti che ha dimostrato, costruendo qualcosa di più grande che tenga insieme il M5S – i “grillini” ancora convinti e la cospicua fetta di Italia che tuttora rappresentano – con l’altrettanto cospicuo mondo delle persone che non rivoterebbero il M5S o che non l’hanno mai voluto votare, ma che potrebbero votare un progetto serio di alternativa all’attuale classe dirigente che offrisse al proprio interno scelte aggiuntive rispetto al grillismo ortodosso, con la garanzia di poterlo tenere a bada nei suoi eccessi.

Questo richiede un grosso sforzo di tutti, sia di chi è ancora dentro il M5S (a partire dai capi politici, Casaleggio e Di Maio) che di chi ne è uscito o non ne ha mai fatto parte, ma è l’unica strada che può condurre alla vittoria; né il M5S in splendido isolamento, né i ventilati nuovi partiti di fuoriusciti, di ex sinistri al decimo tentativo o di intellettuali in poltrona, possono riuscirci da soli.

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venerdì 27 Febbraio 2015, 14:10

Malasosta all’italiana

Questa settimana in Comune abbiamo ricevuto il presidente di GTT Ceresa. Si è parlato un po’ di tutto, dagli investimenti in nuovi tram (speriamo, ma non c’è ancora niente di concreto) alla situazione finanziaria dell’azienda, legata anche ai tagli della Regione Piemonte.

I fondi per il trasporto pubblico, difatti, dipendono dalla Regione, che dal 2010 al 2013 li ha tagliati del 15%, con il conseguente taglio di linee e di passaggi, nonostante l’utenza sia molto aumentata a causa della crisi. Poi nel 2014 c’è stato un ulteriore taglio di 18 milioni di euro, che non è stato tradotto in tagli di servizio perché altrimenti esso sarebbe collassato; per cui è rimasto il buco. Con un ricorso al TAR, la Regione è stata condannata a ripianare almeno in parte questo buco; Chiamparino vorrebbe cavarsela con 3 milioni su 18, e se così sarà ci saranno altri tagli nel 2015 per recuperare il resto.

E non pensiate che basti “far pagare quelli che non pagano”: in realtà i biglietti coprono meno di un terzo dei costi del trasporto, e anche se tutti i portoghesi pagassero si recupererebbe al più qualche milione di euro, a fronte però dei costi necessari per potenziare i controlli. Ceresa, peraltro, a fronte delle lamentele dei cittadini sull’evasione del biglietto ha anche esposto una contro-lamentela, raccontando che quando alcuni giorni fa è stato infine bloccato il ragazzo senza biglietto che aveva appena picchiato due controllori e cinque vigili, la gente gridava “lasciatelo stare poverino”.

Tra le altre cose discusse stamattina con GTT c’è la questione delle multe degli ausiliari del traffico. In un Paese normale, a fronte di qualcuno che parcheggia male ci sarebbe qualcun altro che gli fa una multa, ma noi non siamo un Paese normale; per questo esistono due tipi diversi di ausiliari del traffico, quelli abilitati secondo l’art. 17 comma 132 della relativa legge, che possono fare le multe solo per violazioni di sosta relative alle strisce blu, e quelli abilitati secondo l’art. 17 comma 133, che possono fare le multe per qualsiasi violazione di sosta su tutto il territorio comunale.

Il risultato pratico è che gli ausiliari della divisione parcheggi di GTT, che sono quasi tutti “comma 132”, possono multare la vettura parcheggiata nelle strisce blu che ha sforato di dieci minuti la scadenza del tagliando, ma non possono multare la vettura a fianco parcheggiata su un portone o nel posto dei disabili, cosa che richiede l’abilitazione “comma 133”; il che certo fa piacere a chi parcheggia abitualmente nei posti dei disabili, ma non agli altri che si beccano la multa per molto meno, e ai cittadini in generale.

La soluzione sarebbe abilitare gli addetti secondo il comma 133, cosa per cui sono già stati fatti corsi di aggiornamento nel lontano 2012; però tutto si è fermato su problemi sindacali, perché ovviamente, se l’addetto deve fare la multa non solo sulle strisce blu ma anche sull’adiacente posto dei disabili, deve anche essere pagato di più e compensato per questa responsabilità aggiuntiva (peraltro nel settore trasporti il contratto nazionale è scaduto e non rinnovato da sette anni, gli scatti sono bloccati da un pezzo, e capisco che a quel punto si riduca anche la disponibilità lato lavoratori).

Dato però che gli stipendi li paga GTT, ma le multe le incassa il Comune, che per questo servizio paga a GTT un fisso di 3.700.000 euro l’anno, per i bilanci di GTT la cosa è comunque un costo. Inoltre, come sapete, sia GTT che il settore parcheggi sono da anni in vendita, anche se nessuno se li piglia; e dunque all’acquirente privato fare multe a vantaggio del Comune non interessa per niente, per non parlare del fatto che la legge richiede che gli ausiliari del traffico “comma 133” siano comunque dipendenti di una società di trasporto pubblico, per cui se per caso l’acquirente privato dei parcheggi fosse stato uno che fa solo parcheggi le multe sarebbero andate a farsi benedire.

Comunque, pare che adesso si sia giunti a più miti consigli, ossia che si sia concluso che tanto il settore parcheggi non si vende, e si sia deciso di procedere con l’abilitazione “comma 133” di almeno una ventina di addetti su cento; anche il consiglio comunale potrebbe esprimersi a breve in senso favorevole.

Secondo me, però, questo è tutt’altro che sufficiente. Torino ha seri e crescenti problemi di sosta selvaggia un po’ dappertutto, e non parliamo di auto formalmente in divieto ma che non disturbano nessuno, ma di automobili abbandonate sui posti per disabili, sulle fermate dei pullman, sui passi carrai, sugli scivoli agli incroci, sulle piste ciclabili, spesso per molto tempo e con arroganza, spesso bloccando pedoni, anziani, disabili, ciclisti o semplicemente le altre auto, e non di rado causando incidenti: basta scorrere l’agghiacciante galleria di Malasosta.

Per questo, un aumento sensato delle multe a chi sosta in maniera incivile e pericolosa farebbe solo bene; non lo riterrei una “spremitura” dei cittadini. Allora, dato che il Comune comunque incasserebbe non poco dalle multe in più, non basterebbe fare un accordo per formare altri addetti, magari gli ex autisti inabili alla guida, e mandarli a fare gli ausiliari del traffico, pagando a GTT il loro costo?

Non so se sia un’idea troppo semplice, comunque ho presentato una mozione in tal senso, che comprende anche la proposta di pattuglie in bicicletta per controllare le piste ciclabili e quella di nuove telecamere a protezione delle corsie preferenziali e delle aree pedonali. I partiti evitano di fare queste proposte, perché ritengono che gli incivili siano in maggioranza e fare multe sia impopolare; io però penso che siamo giunti a un livello in cui l’anarchia per le nostre strade non è più tollerabile.

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venerdì 23 Gennaio 2015, 17:04

L’ipocrisia della politica pulita

Dal Partito Democratico ci arriva la proposta di far aderire la Città, tramite un voto del consiglio comunale, alla Carta di Avviso Pubblico – Codice etico per la buona politica.

Si tratta di un documento realizzato da una associazione di enti locali presieduta dal sindaco di Grugliasco, che contiene una lunga e dettagliata serie di impegni per il pubblico amministratore in termini di trasparenza, conflitti di interessi, nomine, pulizia della fedina penale eccetera; con la clausola che la carta sarebbe vincolante solo per i consiglieri che votano a favore, mentre chi non vuole prendersi l’impegno può uscire dall’aula o astenersi.

Io non ho problemi a sottoscrivere su due piedi l’intero documento, che mi sembra pieno di buoni precetti che il Movimento 5 Stelle in gran parte già attua da anni, ma l’idea di approvarlo in consiglio comunale mi sembra estremamente ipocrita, visto che solo nella maggioranza, tra PD e Moderati, ci sono:

  • un consigliere rinviato a giudizio (se ben ricordo per truffa) nell’ambito delle inchieste sui rimborsi allegri dei consiglieri regionali, e che quindi ai sensi dell’articolo 21 del documento dovrebbe dimettersi immediatamente;
  • un consigliere che ha patteggiato una condanna per finanziamento illecito ai partiti, e che quindi pure lui, per lo stesso articolo, dovrebbe dimettersi immediatamente;
  • un consigliere che cumula le due cariche di consigliere comunale e consigliere regionale, in violazione dell’articolo 6 del documento.

E questi sono solo i primi che mi sono venuti in mente, senza nemmeno considerare le minoranze.

Allora non capisco: se i consiglieri della maggioranza credono in questo documento, dovrebbero innanzi tutto chiedere ai propri colleghi che lo violano di dimettersi, come è obbligatorio fare in base all’articolo 22 per chiunque sottoscriva la Carta, e al proprio partito di adottare queste norme impedendone la ricandidatura.

Se no, quella del PD mi sembra una iniziativa estremamente ipocrita, tanto per fare bella figura sbandierando dei principi che vengono violati il giorno stesso dal loro stesso partito e dai loro stessi compagni, oltre che, sul piano umano, una cattiveria di una parte della maggioranza contro i propri stessi colleghi, i quali dovrebbero scegliere tra votare (ancora più ipocritamente) un documento che non rispettano, oppure essere additati pubblicamente come “politici sporchi”.

Poche cose mi fanno arrabbiare come l’ipocrisia della politica italiana; io credo quindi che i partiti dovrebbero farsi un esame di coscienza e decidere una volta per tutte da che parte stare. Se credono nella “pulizia della politica” così come emersa dal dibattito pubblico degli ultimi anni, allora invece di far finta di adottare questo genere di principi li applichino davvero al proprio interno, senza ritardi, senza sconti e senza tante cerimonie. Altrimenti, perlomeno abbiano la decenza di stare zitti.

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venerdì 16 Gennaio 2015, 13:39

Il social housing e l’assistenza ai poveri

Il tema dell’accesso a una casa, necessità primaria per sopravvivere, è a Torino sempre più attuale, a fronte delle migliaia di sfratti ogni anno. Noi ce ne siamo occupati continuamente in questi anni, presentando in aula proposte concrete, che escano dagli schemi ideologici e possano dare delle soluzioni immediate; purtroppo non ci hanno dato molto ascolto.

A fronte della scarsità di risorse delle casse pubbliche, negli ultimi anni si sta affermando una nuova soluzione per l’assistenza immediata a chi perde la casa: quella del social housing. Esistono molte diverse interpretazioni di questo termine, ma generalmente si tratta di iniziative in cui un ente benefico privato contribuisce a mettere in piedi un edificio in cui sia possibile offrire spazi a prezzo convenzionato a chi non riesce più a pagare l’affitto, sia per breve che per medio termine, ma in cui abitino anche altre persone (spesso studenti o lavoratori fuori sede) che pagano il prezzo pieno.

In questo modo, le rette di chi può pagare il prezzo più alto sovvenzionano in parte anche le spese delle famiglie bisognose, e inoltre si crea un ambiente sociale misto in cui i diversi ospiti possono aiutarsi a vicenda, e questo può aiutare anche le famiglie bisognose a trovare vie d’uscita dalla condizione di bisogno; gli spazi comuni vengono condivisi, utilizzati per servizi (dal medico alla mensa alla sala studio) e spesso messi a disposizione anche del quartiere circostante.

Non di rado, comunque, è anche il Comune a finanziare e sfruttare queste iniziative, stipulando convenzioni con cui paga il costo di una parte delle camere e dei miniappartamenti che vengono poi destinate alle famiglie senza casa, tipicamente come “soluzione ponte” nel periodo tra lo sfratto e l’ottenimento di una casa popolare dall’ATC, ma anche per altre emergenze in cui in passato il Comune sistemava le persone in albergo, una soluzione generalmente più costosa e meno dignitosa; per esempio, gli sfollati di strada della Verna sono finiti in blocco nel social housing di via Ribordone.

A Torino le esperienze sono ormai parecchie. C’è Buena Vista, all’interno di una delle palazzine dell’ex MOI, realizzato da un raggruppamento di molte note associazioni e cooperative sociali torinesi; e c’è Luoghi Comuni, realizzato dalla Compagnia di San Paolo in piena Porta Palazzo. C’è DORHO, intitolato a don Orione e promosso dalla Caritas Diocesana in una struttura già esistente di corso Principe Oddone, e c’è Sharing, realizzato in un ex immobile delle Poste di via Ribordone poi passato alla Cassa Depositi e Prestiti e ristrutturato grazie a 14 milioni di euro della Fondazione CRT, e che nei prossimi anni raddoppierà con un progetto simile ristrutturando a tale scopo la Cascina Fossata.

Il Comune, di suo, non avrebbe mai avuto le decine di milioni di euro necessarie per mettere in piedi queste strutture; e anche se il modello in cui dal welfare pubblico si ritorna alla beneficenza privata sa di ritorno all’Ottocento, anche se indubbiamente queste iniziative sopravvivono anche grazie a buoni rapporti con la politica e/o i poteri forti della Città, bisogna comunque dire “meno male che ci sono”.

D’altra parte, qualcosa è cambiato anche nel rapporto tra le istituzioni e quella fetta di città che non ha niente e vive di assistenza. Fino a due o tre anni fa, per esempio, le case venivano anche date gratis; adesso, anche per chi ufficialmente ha reddito e patrimonio zero, l’ATC richiede un affitto minimo di 40 euro al mese.

Il Comune, per queste soluzioni temporanee, richiede lo stesso canone che chiederebbe l’ATC. Gli assistiti versano così al Comune circa 18.000 euro l’anno a fronte di una spesa di circa 400.000, ma quello che conta è il messaggio; nessuno può più vivere completamente di assistenza, sedersi lì e pensare che tutto gli sia dovuto.

In questi anni, infatti, ho imparato che l’assistenza ai poveri va fatta con la testa. E’ molto facile, difatti, farsi trascinare dall’emozione e dalla pietà per persone che perdono la casa o il lavoro, ma non sempre dare a tutti ciò che chiedono è la soluzione giusta. Per ogni persona povera che occupa una casa ATC o vi si barrica dentro per non esserne cacciata avendo perso i requisiti, ce n’è una ancora più povera che aspetta in silenzio il suo turno per avere la casa a cui ha diritto; e a fronte di un inquilino che non può più permettersi di pagare l’affitto e cerca di bloccare lo sfratto con la forza, può esserci non un cattivo proprietario speculatore immobiliare coi miliardi in banca, ma un comune cittadino della ex classe media che ha investito in una seconda casa da affittare i risparmi di una vita e che se non riceve regolarmente l’affitto non sa come pagare le spese e i mille euro di IMU che gli chiede il Comune.

Gli stessi dirigenti comunali ci raccontavano che ogni giorno arriva qualcuno negli uffici a battere i pugni sul tavolo, convinto che gridando più forte o facendo una sceneggiata potrà scavalcare le graduatorie o ottenere ciò a cui non ha diritto, e che non di rado sono costretti a chiamare la forza pubblica per difendersi. Aggiungo io che questi sono i risultati di decenni di assistenzialismo a fondo perduto e di collusioni con la politica, in quanto spesso l’assistenza è stata concessa essenzialmente per “intercessione” del politico di turno in cambio di voti, al di là delle effettive necessità; e quindi, molti si sono abituati a chiedere con insistenza per avere (ci provano anche con noi).

Per questo, anche se cacciare da una casa popolare qualcuno che non ha 40 euro al mese può sembrare a prima vista una cattiveria, alla fine promuovere la responsabilità e l’iniziativa di chi è in difficoltà, mettendolo piuttosto in ambienti sociali che gli diano l’opportunità di crescere e di tirarsene fuori, è più opportuno che scaricare tutto all’infinito sulle casse pubbliche, magari in quartieri-ghetto senza prospettive. Almeno, questa è la mia opinione e mi piacerebbe sentire la vostra.

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mercoledì 24 Dicembre 2014, 12:10

Ciao, sono B. il capo politico

Ciao, sono Silvio Berlusconi, il capo politico del nostro movimento orizzontale senza leader.

So che ultimamente molti attivisti ed elettori sono delusi dalla mancanza di coinvolgimento della base, dalla confusione dovuta alle non-regole del movimento, dalle continue espulsioni e abbandoni e da alcune decisioni autoritarie, per cui ho deciso d’autorità di sostituire il vecchio “non Statuto” con un nuovo “regolamento”, con una mossa che sicuramente farà contenti tutti (se qualcuno scrive il contrario è un giornalaio venduto al regime), ma intanto io la annuncio alle sei di sera dell’antivigilia di Natale, per garantire maggiore partecipazione e informazione.

Il principale cambiamento è questo: mentre prima per cacciare un parlamentare dovevo ottenere prima l’approvazione dell’assemblea dei parlamentari e poi quella della rete, adesso potrò cacciarlo di mia volontà senza preavviso, e l’espulsione avrà effetto immediato dal momento in cui lo decido io. Se però il parlamentare non si rassegnasse a essere cacciato, potrà andare sul mio sito Web e usare il modulo “Contattaci”, che notoriamente non legge mai nessuno, per inviare una formale protesta.

In tal caso, la sua situazione sarà riesaminata da un “comitato di appello” di tre persone, di cui una nominata dal comitato direttivo del nostro movimento orizzontale senza leader, di cui fino a ieri ignoravate l’esistenza e che comunque è stato creato solo per via delle vergognose leggi imposte contro di noi da quei comunisti che ci governano; comunque, i membri del comitato direttivo, da me decisi, sono: Silvio Berlusconi, Marina Berlusconi, Niccolò Ghedini.

Gli altri due membri del “comitato di appello” saranno votati da voi, sì da voi, i cittadini di cui noi siamo solo umili e insignificanti portavoce. Per favorire la partecipazione, il voto si terrà la vigilia di Natale, dalle 10 alle 19, come preavvisato la sera prima. Però non potete scegliere proprio chiunque, eh! I nomi tra cui potete scegliere sono: Sandro Bondi, Renato Brunetta, Daniele Capezzone, Gianni Letta, Elio Vito. Scegliete chi volete, è una grande prova di democrazia in rete!

Ah, dimenticavo: se i nomi usciti dalla votazione di cui sopra non vi piacciono, potete girare per l’Italia cercando casa per casa uno per uno gli iscritti alla piattaforma, il cui elenco è ignoto e certo non ve lo do, per raccogliere centinaia di firme che potete inviare alla mia casella postale, per fare una votazione in cui potete sostituire uno dei tre, basta che lo votino almeno un quinto degli iscritti; certo, nelle ultime votazioni l’intero totale dei votanti è stato più o meno pari a un quinto degli iscritti, quindi è sostanzialmente impossibile farcela; ma anche se ce la faceste, comunque gli altri due membri sono quelli indicati da me, quindi avrò sempre la maggioranza.

Comunque, se il comitato di appello concorderà sul fatto che quel parlamentare che mi sta sui coglioni è uno stronzo da cacciare subito, non ci sarà più nessun voto in rete: basta che io e i miei fedelissimi del comitato d’appello siamo d’accordo e possiamo cacciare chiunque su due piedi.

Se queste regole non vi piacciono, tuttavia, potete modificarle: basta girare l’Italia casa per casa ecc. ecc., e poi ottenere il voto favorevole di due terzi degli iscritti; certo, non vi è mai stata nessuna votazione online in cui anche solo il numero dei votanti fosse pari a due terzi degli iscritti, ma è un dettaglio insignificante. Del resto, noi siamo per la democrazia partecipativa e i referendum senza quorum, perché il quorum è uno strumento usato dai politici bastardi per togliere potere agli onesti cittadini! E’ per questo che per modificare le nostre regole serve un quorum altissimo.

Avete chiesto delle regole? Tié, beccatevi queste. Ora però non perdiamo altro tempo! C’è da salvare un Paese, e di fronte a questo le questioni di democrazia sono quisquilie e chi le pone è un traditore che ostacola la nostra corsa verso il potere. Sostituiremo il vecchio regime autoritario e corrotto con un nuovo regime autoritario, ma per la corruzione non preoccupatevi: se abbiamo imparato ad essere autoritari e intolleranti come i partiti, nulla ci impedisce più di imparare anche il resto.

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venerdì 21 Novembre 2014, 13:56

Speriamo nel buon senso

In rete, la vicenda della settimana è quella della pizzeria Mamita (ex Bagni Doria) di Loano, il cui titolare due settimane fa, rivedendo il menu, ha avuto l’idea di chiamare una pizza Speriamo nel Vesuvio. Un cliente ha messo la foto su Facebook e la cosa è giunta sul noto paginone neoborbonico Briganti, che ha scatenato sul locale la classica tempesta di merda: razzisti, leghisti, assassini, dando per scontato che, come in tutti gli stadi lombardo-veneti in cui all’arrivo dei napoletani gli ultrà gridano “Forza Vesuvio”, si trattasse di una speranza di eruzione.

E così, da Napoli sono partite richieste di scuse e genuflessioni, telefonate minatorie al locale, inviti al boicottaggio di Loano e dell’intera Liguria, cori di speranza nel Bisagno e in ulteriori alluvioni, ondate di recensioni negative al locale su tutti i siti di settore e anche minacce di visita di persona per rispondere a mazzate (ovviamente sempre a mezzo tastiera), e in breve la questione è diventata un caso nazionale.

Premetto che in questa vicenda sono di parte, se non altro perché in quel locale di Loano, anche se con la precedente gestione, ho festeggiato poco più di un anno fa il matrimonio di mio cugino, e a Loano ho un sacco di parenti e i miei più bei ricordi dell’infanzia. Premetto che sono di parte anche dall’altra parte, come mi tocca sempre rimarcare ogni volta che si parla di terroni & polentoni, perché, nonostante il cognome tipicamente torinese e ascendenze piemontesi da settantasette generazioni, un quarto del mio sangue deriva direttamente da una famiglia di antica nobiltà napoletana, e ne vado molto orgoglioso.

Non so se siano vere le giustificazioni del gestore, che sostiene che l’intento del nome fosse esattamente l’opposto, ossia benaugurale per i vesuviani. Pur essendovi affezionato, riconosco che il lungomare di Loano quanto a livello culturale non è Oxford e che quell’augurio cretino con retroterra di razzismo è una delle classiche scemenze che vengono dette a cuor leggero un po’ per tutto il Nord, pensando di fare una battuta simpatica che, vista da chi sul Vesuvio ci vive davvero, giustamente non risulta affatto simpatica.

Da qui, però, a pensare che uno che chiama una pizza così stia seriamente sperando nella morte di migliaia di persone, e quindi meriti di avere la vita rovinata e la propria attività lavorativa messa a rischio, ce ne passa. Così come ce ne passerebbe, almeno se esistesse ancora un giornalismo serio, tra il raccontare il caso e il fare articoli con nome, cognome, indirizzo e numero di telefono invitando di fatto al linciaggio (basta leggere i commenti agli articoli o al post originale su Facebook).

Anche gli admin della pagina Briganti, più che di Napoli, sembrano di San Damiano, a forza di tirare la pietra e nasconder la mano, per esempio ripostando la questione una volta al giorno ma poi dicendo che “naturalmente noi non auguriamo invece ai genovesi di essere alluvionati” (forse bisognerebbe fargli un ripassino di geografia, visto che tra Loano e Genova ci sono quasi cento chilometri e che Loano non è mai stata alluvionata).

La cosa che più mi spiace è il diffondersi al Sud di una mentalità uguale e contraria a quella della Lega, per cui i problemi del Sud sono solo colpa degli abitanti del Nord, e qualsiasi stronzata più o meno razzista partorita da un singolo polentone diventa un modo per rinforzare il vittimismo, prontamente strumentalizzato a fini politici (tra un post e l’altro, quelli di Briganti promuovono un nuovo partito civico campano). E questo spiace, perché il meridione è pieno di luoghi meravigliosi e di potenzialità inespresse, e alle volte sembra che dovrebbe soltanto credere un po’ di più in se stesso invece di recriminare.

Mi piacerebbe comunque sapere cosa ne pensano i miei amici del Sud e del Nord. Nel frattempo, già prima di questa storia, avevo invitato a cena per stasera una coppia di amici napoletani: io ci metto la bagna caoda e loro il dolce. Tra una cosa e l’altra, magari intingendo la pastiera nelle acciughe, sono curioso di discutere la questione.

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venerdì 7 Novembre 2014, 12:17

La misteriosa tassa sul gas

Negli scorsi mesi, i torinesi che acquistano il gas da Eni, circa il 60% del totale, aprendo la bolletta hanno avuto una sgradita sorpresa, questa:

Al normale importo della bolletta sono stati aggiunti senza preavviso circa 30 euro (24,03 + IVA, perché in Italia si paga l’IVA al 22% anche sulle tasse) a titolo di “canone comunale 2012-2013”. Non sono una cifra enorme, ma non sono nemmeno pochi per chi fatica ad arrivare a fine mese, e perdipiù vanno a colpire un bene fondamentale come il gas, che permette di cucinare e di scaldarsi.

A fronte delle numerose segnalazioni, dopo la pausa estiva ho presentato una interpellanza per chiedere spiegazioni: chi ha deciso di introdurre questa tassa e di farla pagare tutta in una volta? Come vedete nel video, la risposta dell’assessore in aula, circa un mese fa, è piena di dubbi; capito che questa tassa esiste dal 2011 e che è stata Eni a dimenticarsi di farla pagare per poi chiederla tutta insieme in un colpo solo, nemmeno la giunta sembrava sapere bene come funzionasse.

Ho quindi chiesto un approfondimento, che è avvenuto qualche giorno fa con l’audizione dell’amministratore delegato di AES Torino, Rocco Luigi Didio (anche lui lucano come mezzo PD torinese). AES Torino è la società nata nel 2001 come joint venture a metà tra la municipalizzata AEM (oggi Iren) e Italgas (cioé la stessa Eni), per gestire le reti cittadine del gas e del teleriscaldamento; qualche mese fa, peraltro, il matrimonio si è sciolto e Iren si è presa tutto il teleriscaldamento, mentre Eni si è tenuta la società e la rete del gas.

Anche questo è un tassello della storia; perché la tassa comunale sul gas nasce quando, alla fine dello scorso decennio, il governo decide di “portare il mercato nei servizi pubblici locali”. Come già per l’acqua, per i rifiuti e per i trasporti, gli esegeti del mercato a tutti i costi vogliono trasformare le vecchie società pubbliche e parapubbliche che avevano in gestione servizi di monopolio naturale, come sono i tubi del gas, in aziende che si contendono il servizio tramite gara, in modo da “fare efficienza per i cittadini”.

L’efficienza per i cittadini di questa scelta è talmente elevata che, per compensare i Comuni dalla futura perdita del controllo diretto della distribuzione del gas e dei relativi utili, viene introdotta subito la possibilità che essi istituiscano una tassa sul gas, il cui importo massimo è fissato da un algoritmo nazionale a un teorico “giusto utile” del servizio, pari al 10% di un “giusto ricavo” detto VRT; per Torino, questo massimo è pari a 5,7 milioni di euro.

Siamo a fine 2010, e il sindaco è ancora Chiamparino: può forse farsi sfuggire un’occasione per imporre nuove tasse? No, e dunque introduce la tassa e la fissa al massimo possibile. I giornalisti cittadini, secondo voi, denunceranno questo ennesimo prelievo dalle tasche dei torinesi? No, il massimo che esce è questo articolo che racconta le cose in modo un po’ diverso: si tratterebbe di un aumento di tasse di soli 200.000 euro che servirebbe a finanziare il welfare.

La realtà è invece che i 5,7 milioni vengono ripartiti in due come da regole nazionali: 2,1 milioni li paga AES Torino, che prima ne pagava 1,9 (di qui l’ “aumento di 200.000 euro”), e che comunque ribalterà il costo ai suoi clienti, che sono le decine di società che vendono il gas ai torinesi, che a loro volta aumenteranno le tariffe ai clienti finali per coprire l’aumento; ma gli altri 3,6 sono un nuovo prelievo che viene caricato agli utenti direttamente in bolletta, per poi girare le cifre incassate ad AES Torino e da AES al Comune.

Considerando che a Torino ci sono un po’ più di 450.000 utenze del gas, la tassa in bolletta diventa quindi di 8 euro l’anno, uguale per tutti indipendentemente da reddito e consumi. Siccome però siamo in Italia, l’Agenzia per l’Energia Elettrica e il Gas ci mette un anno a ratificare la nuova tassa torinese, che quindi entra in vigore il primo gennaio 2012, però con la clausola che per il 2012 la tassa sarà raddoppiata per recuperare il 2011. Di qui, quindi, le cifre apparse nella bolletta Eni; gli altri operatori, invece, hanno semplicemente spalmato questi importi nelle bollette già dal 2012.

Nel frattempo, a ritmi italici, l’avvento del mercato sui tubi del gas va avanti: e dunque dovrebbe partire tra un po’ la gara pubblica per la gestione della rete del gas a Torino e nei comuni limitrofi, che dovrebbe concludersi a fine 2015 (io scommetto che la vincerà una società chiamata AES Torino). Comunque, a quel punto la tassa sarà eliminata e sostituita dalla cifra che il miglior offerente si sarà impegnato a pagare ai Comuni in cambio della gestione del servizio, cifra peraltro che potete indovinare chi pagherà alla fine.

Per il 2014 e per il 2015, tuttavia, ci troveremo ancora altri 8 Euro + IVA in bolletta; già, perché in teoria la Città, che ha già incassato 5,7 milioni l’anno per tre anni, potrebbe decidere di ridurre l’importo o prevedere facilitazioni per i meno abbienti (peraltro complesse da realizzare in pratica, visto il giro che fanno questi soldi), ma quando ho anche solo ipotizzato la cosa si sono messi tutti a ridere.

Ah, e il welfare? Ovviamente era una bufala: quando ho chiesto dove sono finiti questi soldi, ho saputo che sono finiti nel calderone generale delle entrate del Comune, a tappare i buchi di bilancio; “però sul welfare mettiamo comunque già tanti soldi, dunque fa lo stesso”.

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