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venerdì 18 Ottobre 2013, 12:29

I rifiuti ammazzano la città

Quando molti anni fa ho iniziato ad attivarmi nel Movimento 5 Stelle, il tema dei rifiuti era già in cima alle nostre priorità; e ricordo che ai banchetti e alle serate molti ci guardavano con sufficienza, come i soliti ecologisti che si preoccupano delle tendine mentre il Titanic affonda. Forse molti di quelli che ci guardavano con sufficienza ora cambieranno idea, quando riceveranno la bolletta della nuova tassa rifiuti, la Tares (per chi non lo sapesse, quanto fin qui pagato per i rifiuti è considerato un acconto e a dicembre dovremo pagare la differenza rispetto alla nuova tassa).

I rifiuti, insomma, rischiano di ammazzare la città; e qui non mi riferisco ai pericoli per la salute portati dall’inceneritore, di cui abbiamo abbondantemente parlato. Mi riferisco invece al fatto che molte famiglie e molte aziende faranno grande fatica a pagare una nuova stangata, anche perché gli aumenti non ricadranno allo stesso modo su tutti.

Le tariffe Tares, difatti, si calcolano così: si prende il costo della raccolta rifiuti in città dello scorso anno, che è stato calcolato in 204 milioni di euro (di cui circa il 20% sono costi indiretti, principalmente quelli spesi da Soris per riscuotere il tributo, e su cui è stato aggiunto un 5% di addizionale provinciale per coprire i costi di questo fondamentale ente) e lo si ripartisce tra utenze domestiche e utenze non domestiche (commerciali, industriali, professionali…) proporzionalmente a una stima di quanta immondizia fanno le due categorie (risulta che le famiglie producano il 46% dell’immondizia totale e le aziende il 54%).

La parte domestica viene distribuita tra le famiglie torinesi in base a due parametri, i metri quadri dell’alloggio e il numero di persone che vi abitano; questo secondo parametro è stato introdotto dalla legge in base al principio che più sono le persone e più immondizia producono. Il risultato è riassumibile in questo grafico, che rappresenta la proposta della giunta: le diverse curve sono relative al numero di componenti del nucleo familiare.

Sono comunque previsti degli sconti in base all’ISEE, del 50% sotto i 13.000 euro, del 35% tra 13.000 e 17.000, del 25% tra 17.000 e 24.000. Tuttavia, per le famiglie numerose ci sarà un aumento molto significativo (una famiglia di quattro persone in 90 mq pagherà oltre 300 euro), mentre i single pagheranno qualcosa meno dell’anno scorso.

La parte non domestica è distribuita in base ai metri quadri dell’attività e alla macro-categoria della stessa, in base a stime elaborate dall’Amiat su quanti kg di immondizia per mq produce un negozio rispetto a un banco del mercato o a un ufficio o a un parcheggio. Anche qui, è la prima volta che si fa il calcolo in questo modo e il risultato è un vantaggio per molte categorie che hanno una riduzione e pagheranno di meno (la più economica, parcheggi e magazzini a parte, è “chiese e oratori” che paga 43 centesimi al mq), ma ne consegue un aumento del 20% (sarebbe stato quasi del 50%, ma è stato calmierato) per i banchi alimentari dei mercati, per ristoranti e mense, per bar e birrerie, per gli alberghi, come da questa tabella:

E qui è scoppiata la rivoluzione, con proteste di piazza e infuocate audizioni consiliari. Per esempio, gli ambulanti ci hanno fatto notare che un banco di alimentari a Torino paga già tremila o quattromila euro l’anno di rifiuti, mentre lo stesso banco a Grugliasco ne paga 350 e l’intero Auchan di Venaria paga 12.000 euro. Come è possibile questa disparità? Il Comune risponde affidandosi agli studi tecnici, sui quali peraltro c’è stato un piccolo giallo: lo studio è stato commissionato dalla Città (100% pubblica) all’Amiat (100% pubblica fino allo scorso anno, ora 51% pubblica e 49% Iren di cui Torino è il primo socio) che l’ha appaltato all’IPLA (100% pubblico), eppure ambulanti e consiglieri non sono mai riusciti ad averlo; ci è stato dato ieri mattina intimandoci di non farlo circolare perché è “sotto copyright dell’Amiat”.

Lo studio risale a dieci anni fa, anche se i dati sono poi stati aggiornati ogni anno, e utilizza come campione i mercati Brunelleschi, Don Rua, Campanella e Chironi; ora, chi conosce la zona sa che gli ultimi tre sono da tempo morenti e addirittura quello di piazza Chironi è stato chiuso per oltre quattro anni per i lavori di un parcheggio pertinenziale; di qui le obiezioni degli ambulanti sulla significatività dei risultati. A maggior ragione dunque i mercatali dicono: perché dobbiamo subire un aumento di centinaia di euro l’anno, quando già facciamo fatica ad arrivare a fine mese, per uno studio segreto che non possiamo confutare? E come è possibile che le aziende torinesi (che già devono smaltire i residui inquinanti a parte, come rifiuti speciali) producano il 54% dei rifiuti urbani, quando la media europea e i valori di molti altri Comuni sono del 30-35%?

D’altra parte, dice il Comune, la raccolta dell’immondizia nei mercati ci costa 12 milioni l’anno e comunque la tassa rifiuti dei mercatali ne copre al massimo cinque; sette sono già messi, da anni, dalla collettività per sovvenzionare i mercati; inoltre, anche le famiglie dovranno sopportare aumenti pesantissimi. Di qui, la discussione poi degenera: i commercianti accusano, spesso senza tanti giri di parole, il Comune e Amiat di “mangiarci sopra” all’infinito; e qualche consigliere della maggioranza, spazientito, ha risposto dicendo “tanto questa è l’unica tassa che pagate” e “i ristoranti sono gli unici che continuano a crescere e far soldi”; insomma, la fiera del luogo comune.

E’ difficile, in effetti, intervenire in modo ragionevole: se prendi per buoni i calcoli “scientifici” di Amiat, tutto il resto è inevitabile; per contestarli servirebbero tempo e dati che non ci danno (io ho chiesto di avere un foglio di calcolo con il gettito totale di ogni categoria, in modo da poter lavorare ad aggiustamenti a somma zero; secondo voi me li hanno dati? è sotto copyright pure quello).

Certamente però qualche riflessione va fatta: è giusto aiutare le famiglie in difficoltà, ma se il risultato è che gli aumenti fanno chiudere le aziende allora l’anno prossimo avremo più famiglie in difficoltà e meno entrate fiscali per aiutarle; partire dal principio che chi fa impresa è per principio ricco e pure un po’ evasore e allora possiamo aumentargli le tasse all’infinito è al giorno d’oggi ridicolo. In pratica, se i dati sono veri, e se non si può spendere meno di 12 milioni di euro per pulire i mercati ma gli ambulanti non possono pagarne più di cinque senza chiudere, l’unica conclusione logica è che i mercati non sono più ambientalmente sostenibili e dunque bisogna chiuderli tutti; a me sembra impossibile, ma se l’amministrazione la pensa così, e vuole il completo dominio degli ipermercati, almeno che lo dica chiaramente.

In tutto questo bailamme, completato da un assurdo ostruzionismo del centrodestra che sta costando un mucchio di soldi e di tempo alla città senza alcun motivo comprensibile, noi abbiamo cercato di fare proposte concrete, utili e ragionevoli, partendo dalla considerazione che il vero problema di fondo è il costo insostenibile della raccolta rifiuti a Torino, derivante da anni di sprechi, clientele, cattivi investimenti e scelte sbagliate; se ora, invece di spendere 72 euro a tonnellata in una discarica, spendiamo per incenerire i rifiuti al Gerbido cento euro noi più altri cento lo Stato (con i certificati verdi), più i costi di realizzazione dell’impianto per la parte ancora di nostra competenza, è chiaro che i costi aumentano. Alla fine smaltire i rifiuti urbani ci costa “all inclusive” circa 40 centesimi di euro al chilo: è una bella notizia per Iren che deve gestire un debito-mostro di 2,5 miliardi di euro, ma per noi cittadini-clienti è troppo.

Le soluzioni dunque, oltre a quella prioritaria e radicale di produrre meno rifiuti e a quella rivoluzionaria di amministrare la cosa pubblica senza sprechi, sono due: aumentare i ricavi ottenibili differenziando e recuperando i rifiuti, e aumentare l’equità del sistema per davvero, misurando quanto produce ogni singolo utente (o, per le famiglie, il condominio), invece di stimarlo in maniera vaga e inevitabilmente arbitraria; ormai esistono sistemi e tecnologie per farlo, dal conteggio del numero dei sacchetti al peso del contenitore all’atto dello svuotamento, e perlomeno bisognerebbe provarli.

A questo scopo noi abbiamo presentato una mozione che chiedeva di destinare l’1% del gettito Tares all’estensione della differenziata porta a porta, ferma da anni per mancanza di investimenti (tra l’altro dobbiamo salire dell’8% entro cinque anni oppure l’inceneritore non sarà sufficiente e le discariche saranno esaurite); e di sperimentare i sistemi per la tariffazione puntuale. La maggioranza ha cassato la seconda parte, ma ha accolto la prima, evitando però di mettere una cifra ma impegnandosi a investire sul porta a porta quanto serve per salire dell’1,5% di differenziata all’anno. Tra tante parole, questo è un buon risultato concreto per il futuro, ammesso che mantengano l’impegno.

Per il presente, il PDL propone di aumentare la tassa alle famiglie per abbassarla alle imprese, dividendo il gettito 50/50; io preferirei invece una maggiore gradualità nella diversificazione tra le diverse categorie di imprese, abbassando un po’ sia gli aumenti che le diminuzioni senza modificare la ripartizione tra aziende e famiglie. Su queste proposte, e su tutta la materia, raccogliamo volentieri i vostri commenti per portarli in consiglio comunale.

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giovedì 10 Ottobre 2013, 19:30

Sull’immigrazione e sull’unità del M5S

Sapete tutti come la penso sull’immigrazione: che una limitazione dei flussi è necessaria, che chi entra regolarmente va tutelato ma chi entra irregolarmente o delinque va espulso senza ritardi e senza pietismi. Sono favorevole all’abolizione del reato di clandestinità, perché – questioni di principio a parte – non serve a niente, lo sostiene persino la polizia; i clandestini non vanno incarcerati, vanno espulsi. Ma non è questa la vera questione di oggi.

La questione è se due parlamentari del Movimento 5 Stelle possano svegliarsi un bel mattino, guardarsi allo specchio, dire “cosa facciamo oggi? aboliamo il reato di clandestinità, dai”, e senza discuterne con nessuno, o al massimo con una manciata di colleghi, presentare la proposta e cercare di farla approvare. E la risposta, ovviamente, è no.

A maggior ragione è no perché la materia è delicata e nel Movimento ci sono posizioni molto diverse. Il Movimento si è unito su altre priorità; deve occuparsi di lotta alla casta e ai privilegi, della crisi economica, della gente – italiana e straniera – che non arriva a fine mese (e in questo senso davvero non capisco cosa pensa di ottenere chi, in questa situazione, vorrebbe ancora aprire le frontiere e accogliere senza limiti altra gente che muore di fame). Quelle sono le cose che ci uniscono; le altre ci dividono, e vengono abilmente usate dai partiti per disinnescare il pericolo che il Movimento rappresenta per il sistema.

E proprio perché nel Movimento ci sono posizioni molto diverse sull’immigrazione, un portavoce – e sottolineo portavoce – non può sposarne una a spada tratta (qualsiasi essa sia) e fregarsene di tutti quelli che l’hanno votato ma che la pensano in maniera opposta.

Sottolineo anche che essere portavoce è questione di mentalità e di approccio, non di piattaforme. Non ci vuole una piattaforma per sapere che il tema dell’immigrazione spacca il Movimento, e quindi che non si possono prendere posizioni in materia con leggerezza, specie se sono posizioni forti. Se uno non lo capisce, vuol dire che non è proprio capace di fare politica.

Si poteva comunque benissimo portare il Movimento 5 Stelle, Grillo compreso, a sostenere l’abolizione del reato di clandestinità. Bastava parlarne prima, spiegare con calma anche ai nostri elettori più arrabbiati che abolire il reato non vuol dire aprire le frontiere, raccogliere le opinioni in rete (basta un post su un blog), discutere, preparare il terreno. E’ la base del fare politica su questioni controverse: ma a Roma non l’hanno saputo fare.

Eppure, ancora stasera sento dei parlamentari – sia sui giornali che di persona – che si infuriano per il richiamo all’ordine di Grillo e Casaleggio (che, poveretti, hanno solo cercato di evitare l’esplosione del Movimento), che reclamano il diritto di decidere loro, a maggioranza, in assemblea. Ma cari parlamentari, non ce ne frega niente di cosa pensa la vostra assemblea, non siete lì per portare avanti le vostre convinzioni personali, siete lì essenzialmente perché alla gente piaceva quello che Grillo gridava nelle piazze, che non era certo “più immigrazione!” e “siamo più a sinistra di SEL!” (e non era nemmeno “fuori gli stranieri!” e “siamo la nuova Lega!”).

Lasciate perdere le questioni che ci dividono, e se non siete sicuri chiedete alla rete, lanciate un referendum, lasciate decidere i cittadini, cercando però di proporre un compromesso che tenga insieme tutto il Movimento, non una vostra posizione personale da far passare col 51% contro un 49% che un minuto dopo se ne va scazzato. Concentratevi sul rovesciare il sistema, sul denunciare i privilegi, sul difendere chi non ha il lavoro, chi è massacrato dalla crisi e dalle tasse. Solo così dimostrerete di saper fare politica, e di essere all’altezza del difficile compito per cui vi siete candidati.

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mercoledì 9 Ottobre 2013, 13:40

Il disastro che verrà

Oggi è il cinquantennale del disastro del Vajont, ed è impossibile non pensare a quella tragedia, un disastro che ha cancellato una valle e che chiama tutti a non dimenticare (il mio piccolo contributo, diversi anni fa, fu riscrivere quasi da capo la relativa pagina sulla wikipedia inglese).

Del Vajont è stato scritto e detto molto, e oggi, se volete, potete visitare l’abbandono di Erto con Mauro Corona o ascoltare la retorica del video ufficiale dei lavori; per questo il discorso che vorrei farvi non riguarda proprio il Vajont. Perché ci sono disastri e disastri; il Vajont è enorme, immenso, palese, impossibile da minimizzare; ma ci sono quelli che sono avvenuti in maniera più sottile e ancora faticano a essere riconosciuti, e quelli che ancora aspettano un responsabile che forse non si troverà mai.

Tra i primi ci sono quelli relativi all’inquinamento; solo adesso si comincia a parlare seriamente della devastazione ambientale in Campania, e solo adesso si comincia a indagare sulle stragi da inceneritore (il vecchio inceneritore di Pietrasanta avrebbe causato oltre mille morti di cancro in Versilia negli anni ’70 e ’80); e per processare l’amianto ci sono voluti decenni di tragedie e migliaia di morti. Tra i secondi c’è la strage di Viareggio, che nemmeno ancora si può chiamare strage: solo per avere degli indagati ci sono voluti anni di lotte.

Ieri, davanti al Parlamento, si è svolta una manifestazione per i diritti negati a chi si è ammalato di mesotelioma su luoghi di lavoro pieni di amianto; e hanno partecipato anche i familiari delle vittime di Viareggio. Hanno però commesso una colpa imperdonabile: hanno aperto gli striscioni nel punto sbagliato della piazza, e sono stati allontanati in malo modo dalla polizia, con uno dei tutori dell’ordine che, secondo il titolo ad effetto del Fatto Quotidiano, “fa le corna ai manifestanti”. In realtà, il poliziotto non fa le corna alla manifestante, per offenderla; fa le corna perché la signora dice “ringrazino che non è successo a loro” e lui, da buon italiano scaramantico, fa le corna.

Ed è proprio così: l’unica seria contromisura delle istituzioni per i disastri che verranno è fare le corna e sperare che non accadano. Se c’è un rischio, negare; sostenere che tutte le norme (ampie, complicate e pesantissime per tutte le aziende oneste, mentre i disonesti tanto se ne fregano e continuano a delinquere) sono state rispettate, e che pertanto non ci saranno problemi. Poi, regolarmente, si scopre che i limiti di emissione degli inquinanti non venivano rispettati, che i rifiuti non venivano smaltiti come dovuto, che le bonifiche non hanno bonificato un bel niente o hanno solo spostato il problema dal punto A (noto) al punto B (ignoto). E lo Stato che fa? Fa le corna.

Per esempio, oggi è uscita la notizia per cui, nell’ambito dell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex presidente socialista del Piemonte Enrico Enrietti (almeno fin che Napolitano non indulterà pure lui), si sarebbe scoperto che l’amianto estratto dall’ex area Fiat Avio di via Nizza – che a rigor di logica avrebbe dovuto essere bonificato dalla Fiat, e che invece sta venendo bonificato a spese pubbliche dalla Regione Piemonte, che ha acquistato l’area per costruirci il proprio grattacielo – non sarebbe stato smaltito regolarmente, ma sarebbe stato direttamente interrato sotto i nuovi parcheggi della Reggia di Venaria: non ci sono ancora le analisi, ma ci sono le intercettazioni in cui se ne parla.

Noi, un anno fa, preoccupati dalle segnalazioni dei nostri attivisti della zona, avevamo presentato una interpellanza in materia; e, come vedete nel video, l’assessore Lavolta ci aveva rassicurato sul fatto che lo smaltimento era ben gestito. Sicuramente l’assessore non immaginava che chi doveva smaltire quell’amianto non lo faceva in regola, e la verità è ancora da accertare; certo che se la storia sarà confermata, e però nessuno si fosse accorto di niente, e poi magari chi abita vicino a quei parcheggi avesse iniziato ad ammalarsi, si sarebbe parlato di statistica e di fatalità, e ci sarebbero voluti anni di lotte e di spintoni dei tutori dell’ordine per avere ascolto.

Per questo è giusto ricordare il Vajont e tutti i disastri, ma è anche giusto ricordare che il disastro più importante è quello che verrà, almeno se non smetteremo di trattare il nostro pianeta come un immondezzaio e di fidarci delle rassicurazioni facili di chi amministra.

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venerdì 4 Ottobre 2013, 14:11

Acqua pubblica, acqua passata

I partiti hanno un vecchio vizio: quello di fare promesse che non hanno nessuna intenzione di mantenere, semplicemente per appagare le domande dei loro elettori che non possono però accogliere per via di altri interessi. Esemplare a questo proposito è come l’amministrazione Fassino ha affrontato in questi due anni e mezzo il tema dell’acqua pubblica; vi abbiamo dato diversi aggiornamenti in passato, ma la situazione ormai è divenuta veramente surreale, per non dire vergognosa.

A marzo, come forse ricorderete, dopo mesi di dilazioni di ogni genere, sotto la pressione delle migliaia di firme raccolte dal comitato per l’acqua pubblica (e, se permettete, anche del nostro fiato sul collo), la maggioranza aveva dovuto approvare la delibera di iniziativa popolare che prevedeva di trasformare Smat in azienda di diritto pubblico; tuttavia, nonostante il pronto e trionfale comunicato stampa che vantava una presunta dedizione del PD torinese alla causa dell’acqua pubblica, la delibera era stata “annacquata” inserendo la necessità di una ulteriore verifica da svolgersi nei mesi successivi.

Bene, esattamente come temevamo, a fine luglio l’amministrazione si è presentata in commissione ambiente a raccontare che purtroppo, sapete com’è, la banca di qua, la legge di là… insomma, alla fine è chiaro che questa pubblicizzazione di Smat non si vuole proprio fare; sono passati oltre sei mesi dalla delibera del consiglio comunale e in sostanza non si è fatto alcun passo avanti; adesso torneranno tra qualche settimana a dire che, sapete com’è, la legge di qua, la banca di là… e così via.

Ma c’è di peggio; a marzo era anche stata approvata una nostra mozione che vincolava il Sindaco a non usare più Smat come un bancomat, pretendendo di ricevere ogni anno come dividendo una parte degli utili, e lo impegnava a chiedere di usare gli utili o per investimenti o per abbassare le bollette ai cittadini, i quali tra l’altro da luglio 2011 aspettano che venga applicato quanto deciso dagli italiani con il referendum, ovvero l’abbassamento del prezzo dell’acqua in bolletta eliminando quella parte (pari da noi a circa il 15% del totale) che garantisce alle aziende un ritorno sicuro del 7% sui capitali investiti (faccio notare che i BOT annuali rendono poco più dell’1% e che il rischio di investire in un servizio che fornisce ai cittadini una risorsa vitale, in regime di monopolio di fatto e pagata regolarmente da tutti tramite bollette, è circa zero, alla faccia di tutti i loro discorsi sul “mercato”). Tra l’altro, una recente sentenza a Chiavari dimostra che l’obbligo di abbassare il prezzo è pienamente esistente e può addirittura essere fatto rispettare in sede legale.

Bene, cosa ha fatto il Sindaco? Se ne è fregato, dimostrando che il consiglio comunale non conta niente, o che va bene solo quando pigia i bottoni che lui dice di pigiare. Il 28 giugno, all’assemblea Smat, l’allora vicesindaco Dealessandri si è presentato con in mano una lettera di Fassino che dice che, siccome il Comune ha pochi soldi e lo Stato gliene dà sempre di meno, lui pretendeva un dividendo di alcuni milioni di euro; e così è stato, nonostante l’opposizione di comuni virtuosi come Rivalta e Avigliana.

Ultimo sgarbo, se ancora il messaggio non fosse chiaro: il 21 settembre il comitato ha organizzato a Torino un convegno di altissimo livello sul tema, che vedeva tra gli ospiti il professor Rodotà e diversi esponenti istituzionali, tra cui il vicesindaco di Parigi. Bene, nonostante l’invito, il sindaco della Città di Torino – che normalmente manda qualcuno con la fascia a porgere i saluti a qualsiasi minimo raduno o evento sociale – non si è presentato e non ha mandato nessuno, snobbando anche le cariche istituzionali presenti. L’unica risposta di qualche genere è stata una intervista a Repubblica di La Ganga a favore delle privatizzazioni; più che acqua pubblica, ormai la difesa dei beni comuni è acqua passata.

Ovviamente noi abbiamo chiamato l’amministrazione a rispondere tramite una interpellanza; nel video potete sentire le (non) risposte. Ai vostri amici che sostengono il centrosinistra potete tranquillamente chiederlo: questa vi sembra coerenza?

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giovedì 3 Ottobre 2013, 17:10

Il Movimento del sorriso

Da ieri, tra le tante cose che vengono “tirate” dai media contro il Movimento 5 Stelle, c’è anche un non-caso: quello delle inesistenti minacce che il senatore Castaldi avrebbe urlato in aula contro la fuoriuscita senatrice De Pin. Già ieri su Facebook avevo scritto che bastava guardare la fonte del racconto, ovvero un tweet del senatore Esposito, per capirne l’attendibilità (vedi una ricostruzione della vicenda); in realtà non ci sono state minacce, smentite dalla stessa De Pin, ma un richiamo gridato alla coerenza, per cui peraltro Castaldi si è anche onorevolmente scusato.

Il richiamo a De Pin ci sta tutto. Sicuramente un parlamentare, una volta eletto, ha il diritto legale di fare ciò che vuole senza essere minacciato o vincolato. Dal punto di vista politico, però, se ti candidi in una formazione che predica il vincolo di mandato e che pone in cima alle posizioni quella di non fare alleanze, non puoi solo sei mesi dopo dire che non riconosci il vincolo di mandato e che vuoi fare alleanze o addirittura entrare al governo: vuol dire che hai preso in giro tutti. Il fatto di mettersi a piangere, poi, per quanto umanamente comprensibile, indica solo la propria inadeguatezza alla situazione e alle responsabilità che ci si è presi.

Tuttavia, credo che sia davvero opportuna una riflessione sul clima interno che si è sviluppato in questi mesi attorno al Movimento 5 Stelle; perché c’è una parte del mondo che ruota attorno a noi – degli elettori, degli attivisti e talvolta anche degli eletti – che dimostra un crescente tasso di aggressività e di intolleranza, che rischia di cancellare quanto (molto) di buono il Movimento sta facendo, di spaventare molte delle persone che ci hanno votato e di aprire le porte a una contemporanea marginalizzazione e radicalizzazione del Movimento, che significherebbe la sua sconfitta e magari il passaggio dei più esagitati a forme meno democratiche di lotta; un film già visto negli anni ’70.

Pur con tutto il disprezzo e la disapprovazione che provo per De Pin e simili, non è assolutamente accettabile che loro siano soggette ad aggressioni verbali come queste (peraltro anche orridamente sessiste). Le si può denunciare semplicemente contestando loro l’incoerenza, in maniera civile, accettando però il fatto che ogni cittadino, in un Paese libero, può manifestare le proprie opinioni e agire di conseguenza, persino quando tali opinioni derivino dal mero interesse personale.

Vi è, in una parte del Movimento (e sottolineo una parte, nonostante i tentativi da fuori di far sembrare che sia il tutto), una crescente incapacità di accettare qualsiasi dissenso, anzi, qualsiasi discussione; una parte di Movimento imbevuta di un sacro fuoco per cui “io so cos’è giusto” e chi mette in dubbio qualcosa ha già tradito; oppure, per cui le critiche equivalgono necessariamente a un tentativo di indebolire il Movimento o comunque danno fastidio a prescindere, persino se oneste e motivate.

Persino a me è successo, per qualsiasi momento di scontento personale o per analisi credo garbate e costruttive come queste, di venire accusato di carrierismo e di esibizionismo, di sentir dire che “parla così perché vuole andare in un partito”, di sentirmi chiedere dimissioni, passi indietro, ritorni allo “spirito originario”, e “se non ti piace vattene”. Per aver espresso su Facebook la mia delusione (personale e soggettiva) per come era andata una iniziativa del Movimento cittadino, invece di poterne parlare tranquillamente, mi sono trovato cinque o sei nostri attivisti in sequenza a riempirmi di insulti e di “vergogna!”, fin che non ho cancellato l’intera discussione.

Del resto, anche il linguaggio del Movimento si fa aggressivo; dal blog di Grillo all’ultimo gruppo locale, è un fiorire di “distrugge i partiti”, di “intervento durissimo”, di metafore con guerre e soldati. A me questi toni non piacciono, non li condivido: si può essere fermi e incorruttibili senza per questo distruggere nessuno, anzi parlando a chi non la pensa come te tranquillamente e con buona educazione. Eppure i “toni duri” vengono usati perché funzionano, perché raccolgono applausi, perché a chiederli siete voi (la parte più rumorosa di voi, che non è detto sia la più numerosa), nonostante ci portino a metterci sullo stesso becero livello dei partiti, nonostante dalla violenza, anche verbale, non possa affatto nascere un mondo migliore.

Di fronte a De Pin e soci, più che mettersi a insultarli, bisognerebbe riflettere su come migliorare, su come evitare in futuro di candidare persone non all’altezza (tra l’altro politicamente pure un po’ scarse, visto che si vedevano già come preziosi salvatori del governo e ora contano meno di un usciere). Bisognerebbe riflettere sulla mancanza di meritocrazia nel Movimento, vissuta da molti nell’ambiente non come un problema ma addirittura come una grande conquista, quella che permette all’italiano medio, dopo aver sognato di andare in televisione, di sognare di andare in Parlamento, indipendentemente dalle proprie effettive capacità.

Bisognerebbe chiedersi davvero chi metteremo a governare l’Italia se il sistema si dissolverà, come faremo a essere pronti, come faremo a convincere gli italiani che siamo pronti, come proporremo persone credibili per competenza e serietà, persone che urlino poco ma che, ognuna nel proprio settore, sappiano quello che fanno e possano costruire qualcosa di buono per tutti. Quelle che già ci sono nei nostri gruppi parlamentari sono lì abbastanza per caso, scelte in quarantott’ore tra un numero limitato di attivisti mai messi alla prova; quelle che sarebbero forse disponibili ad aiutarci, tra il meglio delle intelligenze italiane, sono spaventate proprio da quanto sopra.

Eppure, io non so nemmeno dove portare una discussione del genere, con chi farla, come concluderla; ormai si fa sempre più comunicazione, ma sempre meno partecipazione e assemblea; io non ho altro modo che parlarne in rete, ma non mollo. Vorrei che il Movimento 5 Stelle fosse ricordato come la forza politica che ha sollevato l’Italia con le idee e con un sorriso, mettendo il Paese in mano a persone nuove, capaci e scelte per merito; e non come quella che passava il tempo a gridare dietro agli altri.

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venerdì 27 Settembre 2013, 09:42

I fatti dello scandalo Csea

Dunque, la relazione su Csea non è ancora pubblica e lo sarà solo tra una decina di giorni, con eventuali omissis che il segretario generale del Comune vorrà applicare. Tuttavia, il regolamento del consiglio comunale (scritto peraltro in modo confuso) stabilisce all’art. 74 che il segreto d’ufficio sui lavori della commissione decade al termine dell’indagine, e all’art. 75 che il segreto su quanto appreso decade dopo la discussione in consiglio comunale, che si è svolta martedì. Per questo vorrei iniziare a farvi il quadro di ciò che è successo in Csea, partendo dall’inizio.

Nel 1994, l’amministrazione del neosindaco Castellani comincia a dire che bisogna dare in gestione a un privato i centri di formazione professionale del Comune; già allora partono i peana su “privato è bello”, ben riassunti dalla dichiarazione di una consigliera comunale dell’epoca, una certa Elsa Fornero, che su La Stampa del 22 maggio 1996 dichiara “Il Comune non [ha] gli strumenti per gestire la formazione professionale. E’ giusto che l’affidi a chi sa farla” (si vedrà dopo come la sa fare).

Per questo motivo il Comune affida armi e bagagli i centri di formazione e il relativo professionale al consorzio Csea, fondato nel 1979 e già recuperato da un fallimento nei primi anni ’80, con l’ingresso del Comune; soci di Csea, oltre alla Provincia, sono una serie di aziende private del territorio, che dovrebbero fornire il famoso “legame tra scuola e impresa”. Si crea così una società privata, teoricamente senza scopo di lucro, in cui l’unico cliente è il pubblico, in particolare la Regione e poi dal 2002 la Provincia, che mediante bandi affida la gestione dei corsi di formazione professionale.

La formazione viene inizialmente affidata a Csea così, senza gara; poi il Coreco boccia la delibera, si fa un bando e Csea lo vince. Dato che la gestione comunale perdeva otto miliardi l’anno – un dirigente del Comune ci ha detto che sapete com’è, insomma, è normale che in un ente pubblico si assuma un po’ più del necessario, per “pressione politica” – a Csea vengono dati anche trenta miliardi di lire a fondo perduto in cinque anni (tra l’altro, la convenzione parte dal 1 maggio 1997 ma la quota del 1997 viene concessa a Csea per intero); in più, vengono dati locali (diversi edifici) e attrezzature al prezzo simbolico di centomila lire l’anno.

Nonostante tutti questi aiutini, Csea continua a piangere miseria; e allora il Comune decide di riprendersi indietro alcuni dei locali datigli gratis, pagando a Csea un paio di miliardi per il disturbo, che però vengono compensati con una cifra quasi uguale di debiti pregressi di Csea verso il Comune per utenze mai pagate. La vicenda delle utenze continuerà, e si arriverà al fallimento con circa un milione di euro di utenze Csea mai riscosse dalla Città, alcune risalenti a moltissimi anni prima; anche se dal 1997 Csea avrebbe dovuto intestarsi direttamente i contratti, la Città ha sempre lasciato perdere. In più occasioni la Città chiuderà entrambi gli occhi; per esempio, a un certo punto Csea si mette a subaffittare al Museo del Cinema un locale comunale avuto gratuitamente dal Comune per farci formazione; l’ex vicesindaco Dealessandri ci dirà che sì, lo sapevano e l’assessore al Patrimonio dell’epoca si era anche arrabbiato, ma poi non avevano fatto nulla.

Sebbene Csea non paghi la Città da anni per le utenze, la Città in compenso paga regolarmente Csea: difatti, personale Csea – inizialmente gratis, poi dal 2001 a pagamento – viene distaccato a lavorare negli uffici comunali. Alcuni dipendenti Csea passano direttamente al Comune e ne diventano dirigenti, cominciando poi a firmare le determine che chiedono a Csea personale a pagamento. Curiosamente, tutti i dirigenti che abbiamo sentito dichiarano di non aver saputo nulla della situazione economica e della cattiva gestione di Csea; quelli delle Partecipate dicono che dovevano controllare quelli del Lavoro, e quelli del Lavoro dicono che dovevano controllare quelli delle Partecipate (peraltro entrambi settori dipendenti da Dealessandri, rispettivamente dal 2006 e dal 2001). La cosa è resa ancora più strana dal fatto che almeno due dirigenti videro i propri figli assunti in Csea nei primi anni 2000 (sicuramente persone competenti e assunte per merito); probabilmente non parlavano di lavoro in famiglia.

Comunque, negli anni più recenti si verificano ripetuti episodi per cui una determinata persona viene assunta da Csea e immediatamente messa a lavorare in Comune, in diversi assessorati, previo pagamento del suo stipendio dal Comune a Csea, aggirando di fatto le procedure pubbliche con cui il Comune avrebbe dovuto selezionare eventuale personale. Tra l’altro, alcune di queste persone grazie a questo trattamento si assicurano i titoli con i quali potranno poi partecipare e vincere un concorso per un posto stabile in Comune. La cosa è piuttosto strana, perché negli stessi anni Csea era già in profonda crisi e faticava a pagare gli stipendi, essendo piena di personale che non sapeva più come utilizzare; addirittura, alcune di queste assunzioni avvengono durante la cassa integrazione, in cui ovviamente non si potrebbe assumere. Peraltro, un dirigente e anche un politico dicono tranquillamente che questo meccanismo era fatto anche per alleggerire il peso economico di Csea, facendole entrare dei soldi: un altro aiutino.

Nel frattempo, l’azienda si impoverisce in ogni modo, arrivando negli ultimi anni a non pagare regolarmente gli stipendi. Non si sa bene che fine abbiano fatto le attrezzature della Città, anche se a un certo punto la Città ne dona a Csea una parte perché le usi nel terzo mondo (ci si chiede se ci siano veramente arrivate). I lavoratori raccontano di progressive sparizioni e spoliazioni. A un certo punto Csea smette persino di pagare le borse di studio agli studenti, pur avendo regolarmente e anticipatamente incassato i relativi fondi pubblici dalla Provincia; e parliamo di ragazzi, spesso stranieri, per cui quei soldi servivano a sopravvivere.

In azienda il clima è pessimo; i lavoratori sono divisi tra i fedelissimi, per i quali si dice ci fossero anche consistenti premi economici dati senza tante formalità, e gli altri, che raccontano invece di mobbing e punizioni, di gente fatta andare via; ci sono sin dai primi anni 2000 segnalazioni, su cui indagherà la magistratura, di ristrutturazioni di ville e lavori alle barche dei dirigenti, messi a carico di Csea. I lavoratori raccontano anche di come i capi di Csea si sentissero intoccabili, protetti dalla politica, e non ne facessero mistero. Del resto, un lavoratore Csea racconta di come sia andato a segnalare ai dirigenti della Provincia il problema delle borse di studio non pagate, suggerendo come migliorare i controlli; non solo la Provincia non fece apparentemente nulla, ma lui fu convocato dall’amministratore delegato di Csea che gli intimò di farsi gli affari suoi. I lavoratori raccontano anche di una abitudine a falsificare i registri delle presenze, in modo da poter ottenere più fondi del dovuto (la Provincia paga in funzione del numero di allievi); e di come i controlli della Provincia fossero mediamente piuttosto benevoli, anzi in un caso si racconta proprio di un ispettore che stracciò un report degli allievi perché troppo sfavorevole a Csea.

E il sindacato? Beh, direi che si può riassumere così: nel 2004, il responsabile regionale della Cgil per la formazione professionale negozia con Csea (il più grosso e importante ente di formazione del Piemonte) e gli altri centri di formazione il contratto di lavoro, e poi, appena chiuso il contratto, viene assunto da Csea come capo del personale. Tutto chiaro, no?

Del resto, Csea viene fin dal principio definito da più parti il centro di formazione “di area” per la Cgil e il PDS; la Cisl aveva lo IAL (altro ente tracollato di recente), i cattolici ne hanno molti, Csea dunque era il “polo laico” della formazione. E mica solo del PDS, ma di tutta la sinistra; l’appena citato ex dirigente Cgil poi capo del personale racconta (quanto sia attendibile non si sa) che Csea diede, per motivi imprecisati, 70 milioni di lire a un parlamentare torinese comunista e anticapitalista. Ma per capire meglio i giochi politici bisogna parlare del processo del 2004, e quello meriterà un racconto a parte.

E’ però chiaro che Csea viveva in simbiosi con la politica locale; cercava di fare favori ai politici sperando poi di ricevere nuovi aiutini. E’ sintomatico il racconto fatto da un lavoratore di come, l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni regionali del 2010, i dirigenti Csea abbiano radunato tutti gli allievi di una sede di Ivrea in presenza dell’assessore uscente Pentenero, che fece il suo comizio, e abbiano distribuito pure i suoi santini (la stessa Pentenero viene descritta come imbarazzata da tanta promozione).

Ci sono tanti altri motivi per cui negli ultimi dieci anni Csea comincia ad accumulare perdite; per esempio, l’insostenibile rapporto tra i dipendenti amministrativi (troppi, e alle volte assunti tra parenti e amici di persone influenti) e i formatori (pochi e talvolta nemmeno utilizzati, preferendo dare comunque commesse all’esterno, che talvolta vengono descritte come modi per far lavorare specifici fornitori esterni); per esempio, una politica di espansione scriteriata che anch’essa necessiterebbe di spazio per essere raccontata.

Sta di fatto che, quando a dicembre 2011 finalmente arrivano persone indipendenti a guardare i bilanci, si capisce subito che non stanno in piedi e non sono credibili; ad aprile 2012 Csea fallisce, ma la magistratura dirà che era di fatto già fallita nel 2007. In apparenza, secondo i bilanci approvati anno dopo anno, la situazione di Csea non era così drammatica, anche se inspiegabilmente continuavano ad aumentare gli oneri finanziari; ma non è un caso che dal 2007 in poi i bilanci di Csea non siano più stati certificati (senza che il socio Comune peraltro lo ritenesse un problema). Per questo l’indagine ha portato la magistratura ad accusare soprattutto due persone, l’amministratore delegato Renato Perone e il consigliere e commercialista della società Piero Ruspini; tra l’altro, dei tre revisori dei conti che dovevano verificare i bilanci, due erano colleghi di studio di quest’ultimo…

Al di là della cattiva gestione dei dirigenti di Csea, capite che il punto politico allora è: perché questo andazzo è andato avanti per quindici anni – e per tutta l’epoca Chiamparino-Dealessandri – senza che nessuno intervenisse, continuando ad aggravare il buco fino a decine di milioni di euro? I dirigenti e i politici che si occupavano di Csea non si sono mai accorti di niente, e come mai? Potevano, dovevano accorgersene prima? Cosa sapevano e cosa non sapevano del modo in cui era gestita Csea? I continui “aiutini” a Csea (questi sono solo una parte) volevano salvare i corsi e i posti di lavoro, oppure volevano salvare gli amministratori, la gestione aziendale e i favori reciproci tra politica e Csea?

Quanto vi ho riassunto qui è solo l’inizio; ci sono ancora molti tasselli da inserire nel quadro. Con calma, procederemo.

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mercoledì 25 Settembre 2013, 13:48

Csea, la politica affonda

Non è facile raccontare la vicenda Csea in poche righe, perché è una storia lunga e complessa; probabilmente ci vorranno diversi post per diverso tempo. Io ci ho dedicato sei mesi, sei mesi di lavori segreti che progressivamente si sono espansi fino ad occupare ogni minuto del tempo disponibile, comprese le notti e i fine settimana; e ancora adesso non penso di avere capito tutto, scoperto tutto, collegato tutto. Ma se c’è una cosa che ho capito è che Csea – un crac che ha bruciato decine di milioni di euro pubblici in quindici anni, mentre in molti se ne approfittavano – è il paradigma di come è stata gestita Torino, di come è stata gestita la cosa pubblica in questi quindici anni di apparente trionfo, realizzato in gran parte a colpi di debiti e di amicizie interessate.

Se dovessi riassumere in cinque parole la vicenda Csea, non potrei che dire “è tutto un magna magna”. Detta così, però, sembra la solita affermazione qualunquista; è per questo che è importante approfondire, leggersi i racconti dettagliati, impressionanti, di cosa succedeva, per capire che veramente non si tratta di una esagerazione. Nella vicenda Csea tutto si mischia: politici di primo livello, dirigenti comunali, sindacalisti, imprenditori, massoni; sorgono degli interrogativi persino sulle forze dell’ordine e sulla magistratura torinese, che nel 2004 indagò su un gruppo di esterni che volevano entrare in Csea senza interessarsi di ciò che vi accadeva dentro.

Non solo; colpisce il fatto che il malcostume fosse noto da quindici anni e segnalato in tutte le sedi, comprese quelle istituzionali, senza che nessuno prendesse provvedimenti. Vi sono prove evidenti di un muro di gomma, in primis in sede politica, che proteggeva la dirigenza aziendale veramente oltre ogni logica e ogni ragionevolezza, ignorando gli allarmi e anche concedendo a Csea trattamenti di favore, in Comune (dove tutto era nelle mani dell’ex vicesindaco Dealessandri) ma anche in Provincia, ma anche presso l’Inps, per dire. E vi sono i racconti dell’arroganza dei dirigenti Csea, che dicevano apertamente, in faccia ai lavoratori, di essere protetti dalla politica.

E’ preoccupante, anche, l’epilogo di questi giorni. Fino alla sua scadenza, a mezzanotte di lunedì scorso, la commissione d’indagine ha lavorato bene, compresi i membri del PD, dandomi la speranza che la politica potesse tutto sommato riuscire a indagare su se stessa e a voltare pagina. Quel che è successo dopo ha dimostrato che avevo torto; qualcuno ha passato la relazione a La Stampa, che ne ha fatte uscire solo certe parti, gravi ma tutto sommato non così devastanti come altre. Non si sa chi sia stato; il centrodestra accusa il centrosinistra e il centrosinistra accusa il centrodestra; nel frattempo poi qualcuno ha dato a Repubblica pezzi dell’altra relazione riservata sugli affidamenti diretti, perché Repubblica aveva “bucato” Csea e voleva una rivincita; i “professionisti della politica” si sono rivelati bambini in cerca di applausi, incapaci di tenere un segreto.

Poi, dando come giustificazione la fuga di notizie, ieri mattina la maggioranza (la voce è che sia stato direttamente il sindaco, del resto il presidente del consiglio comunale è arrivato un’ora in ritardo dopo essere rimasto a lungo nel suo ufficio) ha preteso che la seduta fosse segreta, e che in sostanza non si potesse raccontare ai cittadini quello che avevamo scoperto, e trarne le conclusioni in una pubblica discussione. A questo punto noi, come molte altre opposizioni (tranne il PDL, che ha poi pure detto che non si potevano chiedere le dimissioni di Dealessandri perché se no si sarebbe dovuto dimettere anche Berlusconi: alla faccia dell’opposizione e del pubblico interesse), abbiamo lasciato l’aula, perché la discussione doveva essere pubblica. E loro si sono resi di nuovo ridicoli: la seduta “segreta”, con dentro solo il centrosinistra e il PDL, è stata raccontata in diretta da Lo Spiffero, che ha pubblicato in tempo reale ampi riassunti di tutti gli interventi, evidentemente passatigli da qualcuno all’interno.

Siamo poi rientrati al momento di votare la nostra mozione, che sfiduciava Dealessandri e attribuiva le giuste responsabilità anche a Chiamparino, nonché a tutti gli altri personaggi di questa vicenda; e su quella la maggioranza ha rischiato di tracollare, dato che la mozione è stata respinta a voto segreto per un solo voto, nonostante in teoria ci fosse uno scarto di almeno dieci voti; una vera ondata di franchi tiratori.

Poi si doveva di nuovo votare su due mozioni di sfiducia a Dealessandri presentate da SEL, che da settimane chiedeva a gran voce la testa dell’ex vicesindaco; peccato che al momento buono, cinque minuti prima del voto, le abbiano direttamente ritirate; loro dicono perché sarebbero state bocciate, io mi limito a notare che contano i fatti e che quando si viene al dunque SEL fa spesso marcia indietro e si allinea buona buona al PD. Del resto, volevano talmente la sua testa che stamattina la commissione ambiente, presieduta da SEL, ha ospitato Dealessandri a fianco di Profumo per parlare di Iren, ovvero il lavoro da cui a parole volevano cacciarlo!

Infine, gran finale, si doveva votare su una mozione all’acqua di rose presentata dalla maggioranza, che in sostanza non individua nessun responsabile del disastro di Csea e si limita a dare una serie di generiche indicazioni in stile “dai, controllate un po’ meglio” e una timida richiesta di “valutare azioni sanzionatorie” non si sa verso chi; tarallucci e vino, insomma. Ma nemmeno questa sono riusciti ad approvare: visto che noi abbiamo deciso di non votare, loro erano soltanto in venti ed è caduto il numero legale.

In breve, ieri la maggioranza (mettiamoci dentro pure il PDL, tanto…) ha secretato d’autorità la seduta del consiglio comunale per impedire una discussione pubblica, poi ha raccontato sottobanco a Lo Spiffero tutta la seduta segreta, poi ha rischiato di disfarsi di fronte alla mozione da me scritta che traeva semplicemente le conclusioni logiche da tutto quanto appurato, poi si è sciolta e non è riuscita nemmeno ad approvare un singolo atto, concludendo la seduta ufficiale dedicata all’indagine Csea con il consiglio comunale che non prende nessuna posizione e non dice niente: complimenti.

Il tentativo di nascondere le cose è peraltro puerile; io mi ritengo libero e anzi in dovere di raccontare, con misura e obiettività, quello che abbiamo scoperto; ne riparliamo presto.

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venerdì 20 Settembre 2013, 11:39

Il treno nucleare vien di notte

Se l’Italia fosse un Paese pienamente democratico, di nucleare non dovrebbe più esserci bisogno di parlare; gli italiani per ben due volte, nel 1987 e nel 2011, hanno chiarito che non intendono avvalersi di questa tecnologia. Eppure, ci siamo ancora dentro fino al collo e questo è dimostrato anche dalla vicenda, purtroppo poco conosciuta, dei treni nucleari che attraversano Torino di notte.

Nel video c’è anche il riassunto della questione: come ho raccontato al consiglio comunale – al quale peraltro non fregava niente della questione, come potete sentire dall’evidente rumore di fondo del chiacchiericcio generalizzato – le scorie nucleari italiane sono immagazzinate a Saluggia, in un luogo peraltro pericoloso e soggetto al rischio di alluvione, in attesa che il governo si decida a individuare un sito nazionale sicuro dove metterle, cosa che doveva fare già dieci anni fa ma che poi non si è mai fatta perché nessuno le vuole.

Nel frattempo però, non contenti, questi prendono ogni tanto un po’ di scorie e le caricano su un treno che facendo un giro assurdo – presumibilmente per minimizzare il tratto in galleria – arriva a Torino a notte fonda da Alessandria, attraversa la stazione Lingotto, percorre il primo pezzo in galleria del passante, passa sotto largo Orbassano e riemerge verso il parco Ruffini per andare poi in Francia.

Il senso di questo trasporto, tuttavia, non è quello di portare le scorie in un deposito definitivo, ma è quello di trasferirle provvisoriamente a La Hague, in Francia, dove gli amici d’oltralpe svolgono una attività chiamata riprocessamento, che serve ad estrarre dal combustibile nucleare esausto nuovo materiale nucleare, principalmente plutonio-239, che può essere rivenduto a caro prezzo perché, pensate un po’, è la principale materia prima per la costruzione delle bombe atomiche. Dopodiché, finito questo trattamento, le scorie dovranno tornare a casa nostra con un altro treno, perché ovviamente i francesi mica se le vogliono tenere.

Ora, questi trasporti sono piuttosto pericolosi, perché se il treno mai si fermasse per qualsiasi motivo – anche un semplice guasto meccanico – ben presto la quantità di radiazioni emessa verso eventuali persone che si trovino nelle immediate vicinanze sarebbe potenzialmente dannosa per la salute. Per questo motivo attraversare una città di un milione di abitanti, perdipiù con un tratto in galleria, non è certo raccomandabile; ma non ci sono altri percorsi. In teoria, la legge prevede che le istituzioni informino in anticipo i cittadini del transito e predispongano piani di evacuazione di emergenza in caso di problemi, ma questo viene risolto – e solo dopo una lunga battaglia portata avanti dal Movimento sia in Comune che in Regione – con una riga sul sito della prefettura.

Per questo, noi abbiamo chiesto che la Città di Torino prendesse posizione e dicesse basta ai treni nucleari funzionali al riprocessamento delle scorie, che come detto non serve alla sicurezza di tutti ma solo a vantaggi economico-militari peraltro in mano ai francesi, e chiedesse invece al governo di spostare le scorie definitivamente in un sito sicuro, come previsto dalla legge.

Secondo voi, cosa ha deciso l’amministrazione comunale? Nel disinteresse generale – nel video c’è pure il presidente del Consiglio Comunale che fa una domanda che fa pensare che non abbia sentito praticamente niente di quello che ho detto – la nostra proposta è stata sbrigativamente bocciata; oltre a noi, hanno votato a favore solo SEL, un dissidente del PD e un paio del centrodestra. Speriamo solo che non si verifichi mai un incidente.

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venerdì 6 Settembre 2013, 15:31

Porta Nuova e Porta Susa, un disastro annunciato

Le stazioni ferroviarie sono ovunque uno dei luoghi di riferimento della città; in termini topografici – interi quartieri sono definiti come “vicino alla stazione” -, in termini di servizio di trasporto e anche, sempre più spesso, in termini commerciali. Torino ultimamente ha fatto grandi investimenti, con la nuova stazione di Porta Susa e con una ristrutturazione profonda di Porta Nuova, che mira a diventare il centro commerciale più centrale della città. La situazione, però, è più problematica di prima.

Dal punto di vista dei trasporti, pare non esserci una scelta chiara: la stazione principale sarà Porta Nuova o Porta Susa? Si è sempre detto che sarebbe stata la seconda, che però, con solo sei binari, ha una capacità limitata. Inoltre, spostando la stazione da piazza XVIII Dicembre al nulla di corso Bolzano la si è scollegata da tutto; a parte la metropolitana, tutto il resto del trasporto pubblico di superficie è scomodo e lontano. C’era un vecchio progetto di mettere i binari del tram sul corso e deviarci sopra il 13 (che ci arriverebbe passando da piazza Bernini e dal tribunale, allungando di molto il percorso) e il 9 (che percorrerebbe invece via Cibrario e corso San Martino), ma non ci sono e non ci saranno i soldi.

Sono state deviate lì un paio di linee di superficie alla bell’e meglio, in particolare il 57, che però passa davanti all’ingresso meridionale della stazione, nonché a quello della metro, senza fermare, andando poi a fermare a metà del corso davanti a un ingresso permanentemente sbarrato. Con una interpellanza abbiamo chiesto: ma che senso ha? Possibile che per trent’anni si costruisce da zero una nuova stazione, poi apre e nessuno ha pensato dove far fermare gli autobus, e poi gli autobus vengono messi in un posto scomodo perché è l’unico che si trova?

D’altra parte, Porta Nuova è tagliata fuori dal passante ferroviario e dunque dal servizio ferroviario metropolitano, salvo deviarci la linea che arriva da Orbassano, che così facendo però, stante che non ci sono i soldi per finire la stazione Zappata (che aspetta di essere finita da vent’anni), non fa coincidenza con niente. Abbiamo speso un sacco di soldi per ristrutturarla per poi vederla sempre meno usata, dato che anche il grosso del traffico di medio-lungo raggio va verso Milano e dunque è più comodo salire a Porta Susa.

Peraltro, anche i lavori di Porta Nuova sono ancora a metà; a causa del fallimento delle imprese, il parcheggio sotterraneo dal lato di via Sacchi – per il quale, come segnalammo già due anni fa, fu sacrificata a tradimento l’alberata storica – non è ancora finito e non lo sarà almeno fino alla fine del 2014, così come i lavori di risistemazione della facciata e anche del tetto. Segnalo una perla: siccome hanno avuto la brillante idea di ristrutturare prima l’interno e poi il tetto, il vecchio tetto ha fatto piovere sui nuovi interni che hanno già iniziato a deteriorarsi… E comunque, anche senza aver finito questi, ora vogliono dare il via ad altri lavori per un altro parcheggio sotterraneo dal lato di via Nizza: auguri.

Ma è dal punto di vista commerciale che la situazione è più preoccupante. Porta Nuova, a causa anche del ridursi del passaggio, è sempre più desolata; i negozi sono sempre vuoti e ovviamente chiudono. Avevo presentato già in primavera una interpellanza sulla situazione, che vedete nel video; dopo di essa, la crisi del supermercato si è conclusa con la chiusura. Anche il self service del piano superiore ha chiuso da un giorno all’altro, sfrattato per morosità. Il rischio è di avere una stazione senza negozi, scomoda e pericolosa per chi la usa e inquietante per chi arriva da fuori, per cui la stazione è il primo impatto con la città.

Porta Susa, però, non è meglio. Ci hanno detto che a breve dovrebbero aprire nuovi negozi, ma di fatto ci sono tre punti vendita dello stesso bar, un’edicola e nient’altro: la stazione è un enorme contenitore di cemento triste e vuoto, in cui è facile perdersi e sentirsi spaesati. Oltretutto, se nell’unico bar un panino costa quattro euro e mezzo, contando sul fatto che fuori c’è il nulla e che per trovare alternative bisogna fare cinque minuti a piedi, è facile prevedere che non ci sarà molto affollamento.

Nell’interpellanza noi abbiamo chiesto: ma scusate, visto che da trent’anni Città e ferrovie (Porta Nuova e Porta Susa sono gestite rispettivamente da Grandi Stazioni e da Centostazioni, società del gruppo Ferrovie dello Stato) si parlano e si accordano per il passante, possibile che nell’accordo non ci fosse un impegno per le ferrovie di garantire almeno un minimo di servizi commerciali ai viaggiatori e al pubblico? Non c’è, ma l’assessore sembrava trovarla una buona idea. Chissà se prima o poi ci arriveremo.

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venerdì 30 Agosto 2013, 15:41

Non si esce vivi dagli anni ’80

A fine luglio in molti hanno alzato più di un sopracciglio, quando Giusi La Ganga è entrato in consiglio comunale, da ventitreesimo classificato nelle liste del PD, sfruttando la nomina ad assessore del capogruppo Lo Russo, che ha così lasciato libero un posto in Sala Rossa. A me, il sopracciglio l’ha fatto alzare l’intervento in aula del Partito Democratico (potete leggere il verbale di tutta la discussione, sicuramente interessante), in cui il capogruppo ad interim Paolino ha parlato di pacificazione, di riconciliazione, di guardare avanti, e persino di rappresentare la tradizione socialista (non oso immaginare quale).

Per questo ho preso la parola e, su due piedi, ho detto le cose che sentite nel video: in particolare, che non può esserci pacificazione con la classe politica di Tangentopoli, e che chi ha una condanna del genere in giudicato, pur avendo saldato il conto con la giustizia, non dovrebbe più avere la possibilità di amministrare la cosa pubblica, e le forze politiche non lo dovrebbero candidare (come già fa il M5S).

Allo stesso tempo, la vera riflessione che vorrei suggerire è che forse La Ganga è una falsa pista rispetto alla sostanza, e cioé al fatto che la politica italiana non è mai veramente uscita dagli anni ’80. Ci hanno detto per vent’anni che la seconda repubblica era tutt’altra cosa rispetto alla prima; che nella prima c’erano le ideologie, c’era la DC sempre al governo e il PCI sempre all’opposizione, e invece nella seconda finalmente c’era il bipolarismo, l’alternanza al governo. Questa, però, è la superficie; la realtà è che i comportamenti della politica, i modi con cui essa si approccia alla gestione quotidiana della cosa pubblica, non sono mai cambiati.

Nella realtà, la politica di oggi ha mantenuto la stessa concezione del bene comune e dello Stato, come feudo e come mucca da mungere e su cui scaricare i costi del consenso, di trent’anni fa; l’ha solo svuotata delle scuse ideologiche e ricoperta invece di “tette e culi”, di lustrini del Drive In e di tecniche pubblicitarie e manipolatorie importate dagli Stati Uniti, con convinzione e attitudine se parliamo di Berlusconi, e con la frustrazione del ragazzino sfigato che fa lo snob ma sotto sotto invidia l’arroganza e il successo dell’altro se parliamo della dirigenza del centrosinistra.

Il problema è che il mondo è cambiato, e se gli anni ’80 erano periodo di vacche grasse, oggi la nostra incapacità di arrivare a una gestione onesta e moderna della cosa pubblica ci è letale. Eppure siamo sempre lì: mentre si tagliano il welfare e i servizi, si mandano avanti enormi progetti infrastrutturali spesso superflui o mal pensati, ma che permettono un grande giro di denari pubblici tra aziende amiche. Mentre si rischia di non avere i soldi per pagare gli stipendi, si assumono decine di migliaia di precari nella pubblica amministrazione; e son ben contento per chi legittimamente aspettava da anni una sistemazione e ora festeggia come fosse un miracolo (e poi ovviamente voterà i partiti che gli hanno dato il posto di lavoro), ma dove si è mai vista un’azienda sull’orlo del fallimento che assume ottantamila persone, e che fine fa un’azienda che affronta così la crisi?

E’ proprio l’idea di Stato che abbiamo noi che è sbagliata; uno Stato che nella nostra testa dovrebbe dare tutto senza chiedere niente, anche se nei fatti poi, esattamente all’opposto, ci offre una pressione fiscale esagerata in cambio di servizi scadenti. Sarebbe allora meglio puntare su uno Stato che mantenga strettamente nelle proprie mani la proprietà dei beni comuni e la gestione dei servizi fondamentali, ma che poi chieda il meno possibile e faccia il meno possibile, evitando di accumulare nelle mani della politica una parte preponderante dell’economia, della società e del denaro dell’Italia, il che, in Italia, sta alla base del suo potere di corrompere e di corrompersi.

Nessun politico, però, potrà mai fare questo; perché in termini elettorali sarebbe un suicidio, la medicina cattiva che alla lunga ti salva, ma nel breve fa veramente schifo. Per questo io spero che lo faccia il Movimento 5 Stelle, che è sempre partito dal principio di essere una medicina sgradevole e temporanea, senza avere alcuna aspirazione a restare al potere all’infinito (il giorno della fondazione, nell’ottobre 2009, Grillo disse “avremo avuto successo se ci saremo sciolti entro cinque anni”). Temo, però, che l’unica cosa che potrà (forse) cambiare l’idea e la pratica del rapporto tra gli italiani e la cosa pubblica è il fallimento, l’azzeramento forzato per disastro annunciato da lustri e nonostante ciò mai evitato; è che il nostro Stato riesca infine ad uscire dagli anni ’80, nell’unico modo in cui ne può uscire: morto.

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