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venerdì 6 Settembre 2013, 15:31

Porta Nuova e Porta Susa, un disastro annunciato

Le stazioni ferroviarie sono ovunque uno dei luoghi di riferimento della città; in termini topografici – interi quartieri sono definiti come “vicino alla stazione” -, in termini di servizio di trasporto e anche, sempre più spesso, in termini commerciali. Torino ultimamente ha fatto grandi investimenti, con la nuova stazione di Porta Susa e con una ristrutturazione profonda di Porta Nuova, che mira a diventare il centro commerciale più centrale della città. La situazione, però, è più problematica di prima.

Dal punto di vista dei trasporti, pare non esserci una scelta chiara: la stazione principale sarà Porta Nuova o Porta Susa? Si è sempre detto che sarebbe stata la seconda, che però, con solo sei binari, ha una capacità limitata. Inoltre, spostando la stazione da piazza XVIII Dicembre al nulla di corso Bolzano la si è scollegata da tutto; a parte la metropolitana, tutto il resto del trasporto pubblico di superficie è scomodo e lontano. C’era un vecchio progetto di mettere i binari del tram sul corso e deviarci sopra il 13 (che ci arriverebbe passando da piazza Bernini e dal tribunale, allungando di molto il percorso) e il 9 (che percorrerebbe invece via Cibrario e corso San Martino), ma non ci sono e non ci saranno i soldi.

Sono state deviate lì un paio di linee di superficie alla bell’e meglio, in particolare il 57, che però passa davanti all’ingresso meridionale della stazione, nonché a quello della metro, senza fermare, andando poi a fermare a metà del corso davanti a un ingresso permanentemente sbarrato. Con una interpellanza abbiamo chiesto: ma che senso ha? Possibile che per trent’anni si costruisce da zero una nuova stazione, poi apre e nessuno ha pensato dove far fermare gli autobus, e poi gli autobus vengono messi in un posto scomodo perché è l’unico che si trova?

D’altra parte, Porta Nuova è tagliata fuori dal passante ferroviario e dunque dal servizio ferroviario metropolitano, salvo deviarci la linea che arriva da Orbassano, che così facendo però, stante che non ci sono i soldi per finire la stazione Zappata (che aspetta di essere finita da vent’anni), non fa coincidenza con niente. Abbiamo speso un sacco di soldi per ristrutturarla per poi vederla sempre meno usata, dato che anche il grosso del traffico di medio-lungo raggio va verso Milano e dunque è più comodo salire a Porta Susa.

Peraltro, anche i lavori di Porta Nuova sono ancora a metà; a causa del fallimento delle imprese, il parcheggio sotterraneo dal lato di via Sacchi – per il quale, come segnalammo già due anni fa, fu sacrificata a tradimento l’alberata storica – non è ancora finito e non lo sarà almeno fino alla fine del 2014, così come i lavori di risistemazione della facciata e anche del tetto. Segnalo una perla: siccome hanno avuto la brillante idea di ristrutturare prima l’interno e poi il tetto, il vecchio tetto ha fatto piovere sui nuovi interni che hanno già iniziato a deteriorarsi… E comunque, anche senza aver finito questi, ora vogliono dare il via ad altri lavori per un altro parcheggio sotterraneo dal lato di via Nizza: auguri.

Ma è dal punto di vista commerciale che la situazione è più preoccupante. Porta Nuova, a causa anche del ridursi del passaggio, è sempre più desolata; i negozi sono sempre vuoti e ovviamente chiudono. Avevo presentato già in primavera una interpellanza sulla situazione, che vedete nel video; dopo di essa, la crisi del supermercato si è conclusa con la chiusura. Anche il self service del piano superiore ha chiuso da un giorno all’altro, sfrattato per morosità. Il rischio è di avere una stazione senza negozi, scomoda e pericolosa per chi la usa e inquietante per chi arriva da fuori, per cui la stazione è il primo impatto con la città.

Porta Susa, però, non è meglio. Ci hanno detto che a breve dovrebbero aprire nuovi negozi, ma di fatto ci sono tre punti vendita dello stesso bar, un’edicola e nient’altro: la stazione è un enorme contenitore di cemento triste e vuoto, in cui è facile perdersi e sentirsi spaesati. Oltretutto, se nell’unico bar un panino costa quattro euro e mezzo, contando sul fatto che fuori c’è il nulla e che per trovare alternative bisogna fare cinque minuti a piedi, è facile prevedere che non ci sarà molto affollamento.

Nell’interpellanza noi abbiamo chiesto: ma scusate, visto che da trent’anni Città e ferrovie (Porta Nuova e Porta Susa sono gestite rispettivamente da Grandi Stazioni e da Centostazioni, società del gruppo Ferrovie dello Stato) si parlano e si accordano per il passante, possibile che nell’accordo non ci fosse un impegno per le ferrovie di garantire almeno un minimo di servizi commerciali ai viaggiatori e al pubblico? Non c’è, ma l’assessore sembrava trovarla una buona idea. Chissà se prima o poi ci arriveremo.

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venerdì 30 Agosto 2013, 15:41

Non si esce vivi dagli anni ’80

A fine luglio in molti hanno alzato più di un sopracciglio, quando Giusi La Ganga è entrato in consiglio comunale, da ventitreesimo classificato nelle liste del PD, sfruttando la nomina ad assessore del capogruppo Lo Russo, che ha così lasciato libero un posto in Sala Rossa. A me, il sopracciglio l’ha fatto alzare l’intervento in aula del Partito Democratico (potete leggere il verbale di tutta la discussione, sicuramente interessante), in cui il capogruppo ad interim Paolino ha parlato di pacificazione, di riconciliazione, di guardare avanti, e persino di rappresentare la tradizione socialista (non oso immaginare quale).

Per questo ho preso la parola e, su due piedi, ho detto le cose che sentite nel video: in particolare, che non può esserci pacificazione con la classe politica di Tangentopoli, e che chi ha una condanna del genere in giudicato, pur avendo saldato il conto con la giustizia, non dovrebbe più avere la possibilità di amministrare la cosa pubblica, e le forze politiche non lo dovrebbero candidare (come già fa il M5S).

Allo stesso tempo, la vera riflessione che vorrei suggerire è che forse La Ganga è una falsa pista rispetto alla sostanza, e cioé al fatto che la politica italiana non è mai veramente uscita dagli anni ’80. Ci hanno detto per vent’anni che la seconda repubblica era tutt’altra cosa rispetto alla prima; che nella prima c’erano le ideologie, c’era la DC sempre al governo e il PCI sempre all’opposizione, e invece nella seconda finalmente c’era il bipolarismo, l’alternanza al governo. Questa, però, è la superficie; la realtà è che i comportamenti della politica, i modi con cui essa si approccia alla gestione quotidiana della cosa pubblica, non sono mai cambiati.

Nella realtà, la politica di oggi ha mantenuto la stessa concezione del bene comune e dello Stato, come feudo e come mucca da mungere e su cui scaricare i costi del consenso, di trent’anni fa; l’ha solo svuotata delle scuse ideologiche e ricoperta invece di “tette e culi”, di lustrini del Drive In e di tecniche pubblicitarie e manipolatorie importate dagli Stati Uniti, con convinzione e attitudine se parliamo di Berlusconi, e con la frustrazione del ragazzino sfigato che fa lo snob ma sotto sotto invidia l’arroganza e il successo dell’altro se parliamo della dirigenza del centrosinistra.

Il problema è che il mondo è cambiato, e se gli anni ’80 erano periodo di vacche grasse, oggi la nostra incapacità di arrivare a una gestione onesta e moderna della cosa pubblica ci è letale. Eppure siamo sempre lì: mentre si tagliano il welfare e i servizi, si mandano avanti enormi progetti infrastrutturali spesso superflui o mal pensati, ma che permettono un grande giro di denari pubblici tra aziende amiche. Mentre si rischia di non avere i soldi per pagare gli stipendi, si assumono decine di migliaia di precari nella pubblica amministrazione; e son ben contento per chi legittimamente aspettava da anni una sistemazione e ora festeggia come fosse un miracolo (e poi ovviamente voterà i partiti che gli hanno dato il posto di lavoro), ma dove si è mai vista un’azienda sull’orlo del fallimento che assume ottantamila persone, e che fine fa un’azienda che affronta così la crisi?

E’ proprio l’idea di Stato che abbiamo noi che è sbagliata; uno Stato che nella nostra testa dovrebbe dare tutto senza chiedere niente, anche se nei fatti poi, esattamente all’opposto, ci offre una pressione fiscale esagerata in cambio di servizi scadenti. Sarebbe allora meglio puntare su uno Stato che mantenga strettamente nelle proprie mani la proprietà dei beni comuni e la gestione dei servizi fondamentali, ma che poi chieda il meno possibile e faccia il meno possibile, evitando di accumulare nelle mani della politica una parte preponderante dell’economia, della società e del denaro dell’Italia, il che, in Italia, sta alla base del suo potere di corrompere e di corrompersi.

Nessun politico, però, potrà mai fare questo; perché in termini elettorali sarebbe un suicidio, la medicina cattiva che alla lunga ti salva, ma nel breve fa veramente schifo. Per questo io spero che lo faccia il Movimento 5 Stelle, che è sempre partito dal principio di essere una medicina sgradevole e temporanea, senza avere alcuna aspirazione a restare al potere all’infinito (il giorno della fondazione, nell’ottobre 2009, Grillo disse “avremo avuto successo se ci saremo sciolti entro cinque anni”). Temo, però, che l’unica cosa che potrà (forse) cambiare l’idea e la pratica del rapporto tra gli italiani e la cosa pubblica è il fallimento, l’azzeramento forzato per disastro annunciato da lustri e nonostante ciò mai evitato; è che il nostro Stato riesca infine ad uscire dagli anni ’80, nell’unico modo in cui ne può uscire: morto.

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venerdì 2 Agosto 2013, 13:32

Inceneritore, la fiducia bruciata

Mercoledì è stata una nuova giornata di protesta e informazione contro l’inceneritore del Gerbido: il comitato torinese ha ospitato gli omologhi di Parma e Firenze per una conferenza stampa e un presidio in centro, con un piccolo corteo.

Questi mesi di prova dell’inceneritore sono stati difatti piuttosto tormentati. Da maggio l’impianto è in esercizio provvisorio: si accendono una ad una le tre linee del forno, scaldandole per qualche giorno col metano, e poi si prova a bruciare un po’ di rifiuti.

Peccato che già il 2 maggio si sia verificato un incidente, di cui noi vi avevamo già ampiamente dato conto: alla prima pioggia, l’acqua era finita direttamente sulle barre a media tensione elettrica che alimentavano l’impianto, causando un blackout generale. L’incidente era stato tenuto sotto silenzio, comunicandolo soltanto all’Arpa e alla Provincia, finché noi, sulla base di indiscrezioni, non avevamo presentato l’interpellanza che vedete nel post linkato; solo allora, un paio di settimane dopo, l’incidente era stato reso noto sui giornali.

Non solo, ma a fronte di dichiarazioni minimizzanti da parte di chi teoricamente dovrebbe controllare, si è poi scoperto non solo che l’incidente aveva provocato lo sforamento dei limiti di legge sugli inquinanti, anche se la legge permette sessanta ore di sforamento l’anno in caso di incidenti, ma che addirittura il sistema di monitoraggio dell’inquinamento interno all’inceneritore era anch’esso stato vittima del blackout e non aveva misurato niente (per questo è stata anche aperta una inchiesta dalla magistratura).

Abbiamo presentato una seconda interpellanza, che vedete nel video, per chiedere spiegazioni su come mai questo non ci fosse stato detto in risposta alla prima; a quanto pare, la comunicazione era stata tale che nessuno aveva realizzato il problema. Inoltre, solo insistendo abbiamo avuto indicazioni rassicuranti sulla domanda fondamentale, cioé se in caso di blackout che mette fuori uso i filtri elettrici funzionino almeno i filtri a manica successivi, per evitare di sparare tutto l’inquinamento in aria.

Tutto a posto? Nemmeno per idea, perché, finite le verifiche e le polemiche dopo il primo incidente, il 9 luglio l’impianto è stato riacceso… e nel tardo pomeriggio del 10 luglio si è verificato un secondo incidente. In pratica, appena hanno provato ad avviare la linea, il monitoraggio ha indicato che l’aria che usciva dai filtri era troppo inquinata, oltre i limiti di legge; hanno provato a risolvere il problema, ma non riuscendoci hanno dovuto spegnere tutto il giorno dopo.

Anche stavolta, ci è voluto un po’ per avere informazioni su cosa fosse davvero successo; il 24 luglio, la commissione ambiente del consiglio comunale si è recata al Gerbido per visitare nuovamente l’impianto e avere spiegazioni sul nuovo incidente.

L’impianto, visto da vicino, è veramente impressionante: si tratta di una gigantesca “sfabbrica”, che invece di produrre distrugge. Più ci si avvicina e più ci si rende conto con mano che spendere mezzo miliardo di euro e costruire impianti, palazzi, capannoni per distruggere tonnellate di roba, non di rado perfettamente riutilizzabile, è un’assurdità. Dalle foto non è facile rendersi conto delle dimensioni gigantesche; per esempio, questo è l’interno all’inizio delle linee, e sopra le teste, là su quelle discese rosse, scorrono i rifiuti verso la griglia dove bruceranno.

Questa, invece, in tutto il suo nauseante splendore, è la fossa dei rifiuti; ognuna di quelle aperture sulla destra è grande come un camion, e lì i camion, fino a dieci in parallelo, si susseguiranno per scaricare i rifiuti; la fossa può contenere fino a seimila tonnellate di immondizia, pari a tre-quattro giorni di funzionamento.

Durante questa visita, abbiamo avuto una spiegazione dettagliata dell’incidente del 10-11 luglio. In pratica, accanto al filtro a maniche – che è il secondo stadio di filtraggio dei fumi – è stato costruito un condotto di bypass, di diversi metri di larghezza, perché se la temperatura del fumo per qualche problema fosse troppo alta il filtro a manica (che costa alcuni milioni di euro) si danneggerebbe; dunque esiste una paratia di lamiera che, se aperta, devia i fumi attorno al filtro invece che dentro, proteggendo l’impianto ma scaricando l’inquinamento nell’aria.

Il problema è che questa paratia di lamiera, nuova di pacca, appena messa in funzione si è deformata e ha lasciato un bel buco di alcuni centimetri di altezza per diversi metri di larghezza, tramite quale è passata una parte del fumo e dei reagenti usati nei filtri, i quali, aggirando il filtro a manica, sono arrivati fino all’uscita senza essere filtrati e hanno dunque reso l’aria inquinata.

In più, quando poi – a impianto fermo – sono andati ad aprire il bypass, anche a causa della differenza di pressione dell’aria, le scorie solide che si erano fermate nel condotto sono venute giù di botto; e dunque, in una parte dell’impianto, era in corso una bella attività di pulizia e raccolta scorie e polveri all’interno dei sacchi (aperti) che poi saranno in qualche modo smaltiti.

Anche in questo caso è in corso un’inchiesta della magistratura, in particolare sulle modalità di spegnimento dell’impianto che sono state diverse dalla procedura prevista, anche se TRM sostiene di averlo fatto per ridurre l’inquinamento prodotto (sarà la magistratura a valutare). Inoltre, TRM ha deciso di saldare la lamiera e chiudere completamente il bypass, anche perché il filtro a manica risulterebbe più resistente del previsto alle eventuali alte temperature, risolvendo alla radice il problema; ora prosegue il test delle altre linee, in attesa di capire se la soluzione adottata è gradita alla Provincia, responsabile del controllo.

Resta la questione di fondo: quanto ci si può fidare di un impianto che continua a registrare problemi? Se da una parte è normale che durante il collaudo non tutto funzioni al primo colpo, certo questi episodi non tranquillizzano sulla solidità e sulla corretta costruzione dell’impianto, appaltato a cooperative rosse (Coopsette e Unieco) politicamente amiche ma dalla situazione economica precaria e che certo non avevano soldi da sprecare.

Ma poi, quello che preoccupa è la mancanza di trasparenza, sono le mezze verità e le informazioni che arrivano per approssimazioni successive, dopo settimane di insistenza in ogni sede, mentre TRM – società ormai sotto il controllo privato di Iren – invece di spiegare pubblicamente e tempestivamente ogni cosa minaccia velatamente di denuncia chi chiede chiarimenti o riporta le voci dei tanti cittadini che segnalano, anche a noi, puzze, odori e fumi misteriosi provenienti dall’inceneritore. Questo dovrebbe preoccupare chiunque, compresi i sostenitori dell’incenerimento dei rifiuti e gli stessi politici che hanno voluto questo impianto.

Nel frattempo, noi continuiamo la nostra attività di controllo a vantaggio della salute di tutti, in attesa che chi ci governa rinsavisca e decida di adottare politiche di trattamento dei rifiuti adatte al ventunesimo secolo, e non risalenti agli anni ’70. Molti a Torino ancora non sanno che la nocività degli inceneritori è provata, che ci sono tecnologie alternative, che il mondo si orienta verso i “rifiuti zero”, che le norme europee tra breve metteranno fuorilegge l’idea stessa di bruciare materiale potenzialmente riciclabile. Spacciano il fuoco per modernità, quando la vera modernità sarebbe non sprecare più niente.

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venerdì 26 Luglio 2013, 14:44

Arrivano le strisce blu

E così, dopo tanto parlare sui giornali, finalmente qualche giorno fa l’assessore Lubatti è venuto a presentare ai consiglieri comunali il piano per l’espansione delle strisce blu sul territorio cittadino, per circa venticinquemila posti auto che diventerebbero a pagamento.

Per chi ancora non l’avesse vista, questa è la (poco discernibile, ma è tutto quel che ci hanno dato) cartina delle nuove zone a pagamento, identificate in azzurro. Le maggiori espansioni sono lungo l’asse della metropolitana: attorno a corso Francia fino all’altezza di Pozzo Strada, nella fascia tra via Frejus-corso Peschiera e via Fabrizi-corso Lecce-via Medici-via Carrera; e a Lingotto fino all’altezza del sottopasso. Diverrà a pagamento anche Madonna del Pilone fino a corso Chieri, e poi le zone attorno al raddoppio del Politecnico e al nuovo campus Einaudi, quella del terminal bus di via Fiochetto, quella di piazza Zara e quella di Spina 1 a ovest di largo Orbassano.

Noi pensiamo che questa manovra sia sbagliata nel modo in cui è stata concepita e giustificata: incredibilmente, la motivazione ufficiale delle nuove strisce blu non è legata a valutazioni sulla mobilità cittadina, che si sarebbero potute discutere, ma al fatto che secondo la giunta GTT – da buon carrozzone politicizzato, aggiungo io – ha nel settore parcheggi troppi dipendenti rispetto al necessario. Siccome ora, per fare cassa, l’intero settore parcheggi sarà privatizzato, il privato non vuol certo pagare tutti i funzionari in eccesso assunti per logiche di consenso elettorale; allora, per garantire il posto a tutti, gli si concede un cospicuo aumento dei posti a pagamento, in modo da aumentare i ricavi del privato e la quantità di territorio da controllare.

Pertanto, se dici qualcosa in proposito, ti attaccano subito come “nemico dei lavoratori” che vuole mettere in mezzo alla strada i poveri dipendenti GTT. Nessuno apparentemente ha pensato all’aggravio di spesa per chi comunque è costretto a usare l’auto per recarsi in quelle zone, e nemmeno ai dipendenti delle attività commerciali che potrebbero essere messe in difficoltà dalle nuove strisce blu: non essendo fedeli elettori del centrosinistra non contano.

Le uniche consolazioni che posso darvi per ora sono che l’estensione non è comunque ancora del tutto certa, in quanto sarà il privato che compra i parcheggi GTT a valutare se conviene farla, e dati i costi elevati e gli scarsi ricavi di molte zone in periferia potrebbe anche lasciar perdere. Di sicuro non vedremo arrivare le strisce blu prima del 2014, visto che bisogna ancora concludere la privatizzazione; anche le tariffe non sono ancora state decise (passeranno comunque dal consiglio comunale).

Quanto ai residenti nelle nuove zone blu (tra cui il sottoscritto), potranno parcheggiare un’auto sotto casa illimitatamente per 45 euro l’anno, anche se nessuno sa bene come funzioneranno i permessi per residenti, attualmente gestiti dal servizio clienti GTT, quando i parcheggi saranno stati venduti a qualcun altro; nelle zone vicine alla metro, spesso usate da chi viene da fuori come parcheggio di interscambio, la disponibilità di parcheggio potrebbe anche aumentare.

Credo comunque, per onestà intellettuale, che sia necessario fare anche un discorso che so benissimo essere impopolare. E’ necessario, infatti, cominciare tutti insieme a riflettere sul fatto che parcheggiare in strada completamente gratis è una anomalia.

Difatti il Comune, che non incassa alcunché dalle varie tasse su auto e benzina, normalmente si fa pagare e non poco per qualsiasi uso privato del suolo pubblico, dai banchi del mercato ai box pertinenziali; il parcheggio in strada è praticamente l’unica eccezione. Finora è stato più o meno ovvio permettere a tutti di parcheggiare gratis perché tanto tutti avevano una macchina, dunque era una concessione che non creava particolari discriminazioni: tutti, con le tasse, contribuiscono ai costi di mantenimento del suolo pubblico, e tutti lo usano per la propria auto. Ma nel momento in cui una parte importante della collettività non vuole avere o non può più permettersi un’auto, è giusto che questa parte sovvenzioni l’uso del suolo di tutti per il parcheggio degli altri?

Per questo credo che sarebbe anche stato giusto espandere le strisce blu, anche con tariffe molto basse, se il ricavato fosse servito a migliorare i mezzi pubblici: in questo modo si sarebbe tassato il traffico privato per finanziare i mezzi pubblici, servendo le fasce più deboli della città e spingendo ad avere meno traffico e meno inquinamento. Ma così, invece, assolutamente no: purtroppo in questo caso l’espansione delle strisce blu servirà invece esclusivamente a far fare più soldi al privato che comprerà la sezione parcheggi di GTT…

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venerdì 19 Luglio 2013, 12:13

Ce lo chiede l’aeroporto

Del progetto del tunnel ferroviario di corso Grosseto vi parliamo da molto tempo, anzi io ne parlo da molto prima di fare politica (vedi un post del 2005 e uno del 2008); eppure, la maggioranza dei torinesi ancora non ne sa nulla.

Dovete sapere che l’aeroporto di Caselle è attaccato alla storica ferrovia Torino-Ceres, costruita nel 1869, che in origine partiva da Porta Palazzo. Alla fine degli anni ’80, per ridurre il disturbo della ferrovia, Stato e Comune decidono di investire circa 200 miliardi di lire per scavare un tunnel sotto via Stradella in cui interrarla, costruendo la nuova stazione Dora GTT, la nuova stazione Madonna di Campagna e la nuova stazione Rigola-Stadio (difatti una parte dei fondi arrivano dai mondiali Italia ’90), e abbandonando invece il tratto da Dora a corso Giulio Cesare. Già allora, il progetto è di collegare i binari al costruendo passante ferroviario, e far arrivare i treni dall’aeroporto a Porta Susa.

Dieci anni dopo, nel maggio 1998, il servizio non è ancora pronto: come racconta La Stampa, la stazione Madonna di Campagna è ancora mezza da finire, e stanno appena iniziando i lavori per la faraonica (quattro binari) stazione dell’aeroporto. Nel frattempo, il comune di Caselle si lamenta per il “continuo passaggio dei treni” (un treno di tre carrozze ogni mezz’ora) e quindi si spendono altri soldi per interrare la ferrovia pure lì. I lavori, che devono chiudersi “entro il 1999”, vengono inaugurati a ottobre 2001 – dopo tre anni di nuovo fermo della linea – dall’allora presidente della Satti, un certo Davide Gariglio; il costo totale è nel frattempo salito a 345 miliardi di lire.

Peccato che, proprio mentre si finiscono questi lavori, il neoeletto sindaco Chiamparino abbia un’altra idea: stravolgere il progetto del passante ferroviario lungo corso Principe Oddone per farlo passare sotto la Dora anziché sopra. Vengono così spesi altri 150 miliardi, demolendo parte dei lavori già realizzati e mai inaugurati, ritardando di “due anni” i lavori, che naturalmente però saranno finiti per le Olimpiadi, anzi: “Se si realizzerà l’interramento, durante i giochi del 2006 non verranno interrotti i collegamenti ferroviari con Caselle”.

E’ solo un paio d’anni dopo, nel 2003, che i nostri brillanti amministratori si rendono conto che è esattamente l’opposto, per via di un piccolo problema: volendo abbassare la ferrovia sotto la Dora, in piazza Baldissera i binari che arrivano dall’aeroporto – appositamente rifatti solo dieci anni prima – si troveranno una quindicina di metri più in alto di quelli del passante, e diventa un po’ difficile far passare i treni dall’una all’altra ferrovia per mandarli a Porta Susa.

La soluzione è geniale: buttare via i lavori fatti nel 1990 e costati duecento miliardi e scavare un nuovo tunnel sotto corso Grosseto, dal costo dichiarato di altri 100 milioni di euro, naturalmente da finire entro il 2010. E dunque arriviamo ad oggi: il tunnel ancora non è stato fatto, il costo previsto è praticamente raddoppiato (siamo a 180 milioni di euro), e ora Comune e Regione vorrebbero dare il via a quest’opera.

Se facciamo i conti, per il collegamento ferroviario per l’aeroporto sono stati spesi o saranno spesi, in soldi di oggi, oltre 600 milioni di euro, in gran parte per opere che sono o saranno inutili. Il tunnel di via Stradella e le due stazioni Dora e Madonna di Campagna, costruiti a fine anni ’80 (quest’ultima finita a fine anni ’90), saranno abbandonati e buttati via. Alla stazione Rigola-Stadio fermano due treni al giorno, in sostanza è del tutto inutilizzata. I due binari extra alla stazione dell’aeroporto non sono mai stati usati e probabilmente non lo saranno mai, visto che comunque non ci saranno treni che faranno capolinea lì. E il nuovo percorso via corso Grosseto sarà pure più lungo di quasi tre chilometri.

Ci sono diverse alternative alla soluzione scelta da chi ci amministra. Per esempio, si poteva riscavare in discesa l’ultimo tratto del tunnel di via Stradella, abbassandone il piano del ferro. O si poteva realizzare un collegamento in superficie lungo la Stura fino a Borgaro, meno costoso e più diretto, e coi soldi risparmiati realizzare una linea di metropolitana sul tratto Borgaro-Venaria-stazione Dora.

Oppure si potrebbe valutare che di questi tempi è meglio spendere “solo” un milione di euro per rendere comodo il trasbordo pedonale a Dora, dal passante alla stazione attuale, e con i 179 milioni risparmiati – anche essendo obbligati a spenderli in infrastrutture – fare tante altre cose che aspettano, ad esempio le stesse stazioni Dora e Zappata del passante ferroviario (40 milioni), o la copertura di corso Principe Oddone (30-50 milioni), o l’acquisto dei treni per aumentare la frequenza del servizio metropolitano, o il rinnovo dei tram cittadini, o il bici plan, o anche molte di queste cose insieme, vista l’imponenza della cifra.

Ma la cosa più ridicola è spendere 180 milioni di euro per collegare più velocemente un aeroporto che da anni sta morendo perché non si trovano 3 milioni di euro da dare a Ryanair per realizzare una base low cost e far sì che abbia dei voli decenti e vagamente competitivi rispetto a Malpensa e a Bergamo. Avremo pure il treno che ci arriva in un quarto d’ora, ma che ce ne facciamo se poi non c’è un volo decente a prezzo abbordabile per praticamente nessuna destinazione?

In compenso, la realizzazione di questo tunnel provocherà, a cascata, altri problemi. Si tratta di chiudere per almeno tre anni la carreggiata centrale di corso Grosseto, spostando il traffico sui controviali, nei quali sarà vietato il parcheggio, che potrà invece avvenire in parte della zona centrale; ovviamente per i negozi sarà dura.

In più, prima di iniziare i lavori sarà necessario demolire la sopraelevata che collega il corso con corso Potenza (potrebbe forse sopravvivere solo la curva da corso Potenza verso corso Grosseto, in una sola direzione), e solo trascorsi i tre anni e se non finiscono i soldi si potrà fare un sottopasso, solo tra corso Potenza e corso Grosseto. Tutte le altre auto, comprese quelle che proseguono su corso Ferrara, convergeranno in una gigantesca rotonda di 100 metri di diametro che potrebbe diventare una piazza Derna al cubo: auguri.

Nel progetto, dato che si butta via la stazione Madonna di Campagna, è prevista una nuova stazione in corso Grosseto angolo via Lulli, nell’area occupata dal mercato. Questo vuol dire, anche qui, chiudere il mercato per alcuni anni e poi naturalmente “riaprirlo riqualificato”. Vedendo cosa è successo durante le riqualificazioni di vari mercati, da piazza Crispi a corso Taranto, è facile concludere che spenderemo milioni di euro per realizzare un nuovo mercato che poi non riaprirà mai per mancanza di clienti, i quali nel frattempo saranno passati ai tanti ipermercati che la città fa costruire a iosa.

Credo di avere spiegato perché questo progetto è una follia, a cui noi siamo contrari sin dal programma elettorale. Noi abbiamo presentato una mozione al consiglio comunale che chiede di soprassedere almeno per il momento, dando priorità a completare i lavori già aperti e mai finiti (persino corso Francia aspetta ancora dal 2006 la sistemazione definitiva dopo i lavori della metropolitana, da piazza Bernini a piazza Massaua).

Perché, oltre a tutti questi argomenti specifici, c’è un discorso generale: non si può più andare avanti a far partire megaprogetti, credendo che la colata di cemento sia il motore dell’economia cittadina, rimanendo poi sempre con opere monche, incomplete e in ritardo di lustri (come dicevo su Torinow, nel video, qualche settimana fa). Per una volta, potremmo spendere in modo più oculato i nostri soldi.

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giovedì 4 Luglio 2013, 10:33

Arriva il bici plan

Ho raccontato spesso che il momento in cui decisi di impegnarmi in politica a livello comunale fu quando, percorrendo per l’ennesima volta la pista ciclabile di corso Vittorio da piazza Rivoli a piazza Bernini, rischiai per l’ennesima volta di investire un cliente dell’edicola che il Comune vi aveva genialmente collocato in mezzo (da qui anche l’idea per il video di presentazione della lista).

Da quando siamo stati eletti solleviamo problemi relativi alla viabilità ciclabile, e da quando siamo stati eletti ci viene risposto che bisogna aspettare l’approvazione di un “bici plan” omnicomprensivo, in cui saranno contenute le soluzioni a tutti i problemi. Ci sono voluti solo tre anni e mezzo (la decisione di farlo risale a inizio 2010) ma alla fine ce l’hanno fatta, e qualche giorno fa i tecnici del Comune ci hanno ufficialmente presentato il piano.

Devo dire che hanno fatto un gran lavoro, creando effettivamente un documento articolato che arriva fino al livello di dettaglio di dove passeranno e come saranno fatte tutte le future piste ciclabili. E però, secondo noi può essere decisamente migliorato; restano diversi dei problemi che già segnalammo in questo post di un anno fa (con il video dell’indimenticabile pedalata di tre isolati di un terrorizzato Fassino).

In particolare, io vorrei che fossero incorporate le due mozioni che abbiamo presentato da molto tempo e che sono state sospese in attesa di questo momento: quella che stabilisce dei criteri costruttivi per i nuovi percorsi ciclabili, e quella che chiede un vero e proprio “piano parcheggi” per le biciclette (ultimamente, invece di metterne, li tolgono…) occupandosi anche di problemi come la riconsegna delle bici rubate e recuperate.

L’approccio della Città in questi anni, difatti, è stato quello di realizzare percorsi ciclabili un tanto al chilo, puntando più sulla quantità che sulla qualità e solo sui punti facili, tanto che spesso quelle che sui piani risultano linee continue sono in realtà percorsi che al primo semaforo o alla prima rotonda finiscono contro un gradino o direttamente nel nulla del traffico, proprio dove un percorso ciclabile separato servirebbe di più.

Per esempio, per non disturbare troppo le auto, molti dei percorsi recenti sono stati realizzati tirando una riga sul marciapiede con la vernice e mandando le bici a coesistere con i pedoni, spesso in punti strettissimi e trafficati (ad esempio davanti alle Nuove), creando una situazione pericolosa che esaspera la difficile convivenza tra chi cammina e chi pedala.

Anche molti dei progetti contenuti nel bici plan sono così: come è possibile pensare a una pista ciclabile sul marciapiede di via Lessona, che sopra ha di tutto, dalle fermate del pullman ai benzinai? I percorsi promiscui dovrebbero essere utilizzati solo come ultima possibilità, se proprio non ci sono alternative. Piuttosto, bisogna avere il coraggio di restringere lo spazio per le auto, anche a fronte del fatto che il numero di auto in circolazione è comunque in calo, mentre quello di biciclette è in forte aumento; bisogna riequilibrare gli spazi.

Ci sono tante osservazioni possibili, e per questo il nostro gruppo di lavoro sui trasporti invita chiunque a contribuire, lasciando commenti o partecipando direttamente all’elaborazione di proposte di emendamento sul suo wiki. L’ultima osservazione però la faccio io: che è tanto bello per l’amministrazione comunale elaborare un grosso libro dei sogni ciclistici, per poi tenerlo nel cassetto perché non ci sono soldi. E’ importante che si definisca fin da subito un piano di finanziamento e di realizzazione delle opere, che poi potrà anche venire aggiustato, ma che preveda di partire subito con qualcosa; altrimenti sarà soltanto stata una presa in giro.

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lunedì 1 Luglio 2013, 15:49

Anarchia o cazzi propri

Sabato sera, alla festa No Tav Valsangone di Rivoli, mi hanno portato a sentire il concerto di Daniele Sepe, e tramite un’amica comune ho avuto anche modo di scambiare alcune parole con lui. Per chi non lo conoscesse, Sepe è un gran musicista e il concerto, mescolando jazz, world music e canto popolare, è stato di livello musicale veramente elevato.

D’altra parte, Sepe è anche un artista dichiaratamente di sinistra, che pubblica i suoi dischi per il Manifesto e non sa se definirsi più anarchico o più comunista; e così, parlando dei partiti che espellono gente ogni minuto senza che nessuno si scandalizzi, il suo esempio è stato “come Rifondazione con Ferrando”, e alla fine si è un po’ lamentato di essere stato depennato da certe manifestazioni da quando ha dato spazio sul palco a Oreste Scalzone; e anche se concordiamo entrambi che il Movimento 5 Stelle ha evitato che la rabbia si riversasse in una insurrezione di piazza, per me questo è un fatto positivo mentre per lui non tanto.

Ora, è chiaro che la sua non è l’ideologia del Movimento, e personalmente quando sento tutti questi discorsi e tutte queste canzoni presi di peso dagli anni ’70, pieni di termini come “compagni” e “proletariato”, provo la stessa sensazione che ho visitando le rovine romane e leggendo le iscrizioni in latino scritte sul marmo: un interessante lascito di qualcosa di completamente morto, in primis non nei contenuti (perché alcune delle analisi possono anche essere ancora attuali) ma nel linguaggio e nel modo di porli. E se sento definire Scalzone “una persona che ha pagato quello che doveva alla giustizia” mi sento proprio poco d’accordo, dato che trent’anni di latitanza a Parigi in attesa della prescrizione non mi sembrano esattamente il pagamento che era dovuto.

D’altra parte, l’incontro fortuito è stato positivo; lui è stato fortunato a incontrare credo l’unico eletto del Movimento 5 Stelle nel raggio di cento chilometri che sapesse almeno a grandi linee chi è Oreste Scalzone, e io sono stato fortunato a sentire un punto di vista ragionato e diverso dal mio, visto che chiudersi in un gruppo di gente che la pensa tutta uguale e si dà sempre ragione a vicenda non fa bene alla salute, anzi dissecca il cervello.

Perché, indubbiamente, il passato ritorna ed è preoccupante che si affronti il presente senza conoscerlo. Sepe ha chiuso il concerto con la Ballata di Franco Serantini tracciando un paragone tra quest’ultimo e Stefano Cucchi, ed è vero che quarant’anni dopo in Italia si continua a morire di polizia, anche se negli anni ’70 la polizia ammazzava manifestanti e attivisti politici, e oggi ammazza ultrà e persone fragili. Il “né di destra né di sinistra” del Movimento 5 Stelle è dunque un passo avanti verso forme politiche nuove, oppure è un passo indietro verso l’ignoranza della storia?

La verità è che “né di destra né di sinistra” non vuol dire privo di idee, e forse nemmeno privo di ideologie. Ci sono molte ideologie non posizionabili sul tradizionale “arco costituzionale”, e quella che ci viene più spesso attribuita è il qualunquismo, il populismo. Secondo me è un errore; non ho mai avuto il piacere di chiacchierare con Grillo di queste cose, ma vedendo la sua casa piena di libri e leggendo la sua storia personale mi sembra chiaro che il suo retroterra culturale e politico non è il qualunquismo, ma è l’anarchia disillusa del suo grande amico Fabrizio De André; anarchia che peraltro è anche alla base concettuale dell’invenzione di Internet, e di qui il suo trovarsi con Casaleggio.

Il Movimento 5 Stelle è – magari inconsapevolmente – un movimento anarchico, ma ben lontano dall’anarco-insurrezionalismo dei centri sociali, che è “né di destra né di sinistra” perché si è spinto talmente avanti da uscire dal bordo sinistro dello schermo; se mai, viene dal libertarismo americano degli hacker e dei fondatori della rete e in parte anche dall’anarco-capitalismo alla Ron Paul, contemperati però con tradizioni anarchiche europee come il rifiuto della delega elettorale, l’antimilitarismo, l’autogestione dal basso, l’attenzione agli ultimi della società, la rivendicazione della comunità dei beni essenziali.

E’ un movimento che non aspira a distruggere il sistema insorgendo nelle piazze, ma abbracciando la democrazia per svuotarla della gerarchia. Per questo è così tremendamente pericoloso per il potere: perché per la prima volta lo potrebbe distruggere con i suoi stessi mezzi. E per questo è, effettivamente, una forma politica nuova e tutt’altro che priva di obiettivi di lungo termine e di coerenza ideale.

C’è, però, un problema: che un conto è provare a essere “né di destra né di sinistra” in un quadro concettuale chiaro come questo, e un conto è esserlo per (nessuno si offenda) ignoranza, perché in tal caso l’azione politica, oltre a perdere di efficacia, può diventare disastrosa. Un bell’esempio è quel che sta accadendo nei nostri gruppi parlamentari.

Nella politica tradizionale, difatti, le persone si riferivano a un ideale e spesso erano pronte persino a morire per esso. Più prosaicamente, nella politica piccina di questi anni, i politici di professione hanno comunque almeno la voglia di fare politica, il che li spinge a cercare perlomeno di farla il più a lungo possibile. L’impressione è che nel nostro gruppo parlamentare siano finite anche persone che non solo non hanno alcun ideale e alcuna cultura politica che gli permetta di averne a ragion veduta, ma non hanno nemmeno alcuna particolare voglia di fare politica; ci son finite per caso o perché hanno visto l’occasione di trovare un lavoro molto ben retribuito, indipendentemente da quale fosse.

E’ chiaro che se una persona non ha ideali, ma solo pragmatismo, e nemmeno tanta passione di fare politica, a quel punto prevale il pragmatismo supremo, quello degli interessi personali. E così, si farfugliano tre parole un po’ a caso sulla “democrazia interna” e sul “sistema feudale”, probabilmente senza nemmeno ben capire cosa vogliono dire, come scusa per andare a farsi i cazzi propri e per attirare l’occhio della televisione compiacente, da bravi protagonisti del “rotocalco cafone” di cui parlava De André.

Insomma, un movimento politico che non sappia promuovere nei propri militanti un ideale forte sarà sempre soggetto a continue fughe e problemi di personale, perché è proprio il credere in un ideale che porta le persone, almeno ogni tanto, a non fare il proprio interesse, e a metterlo in secondo piano rispetto all’obiettivo collettivo; e perderà di efficacia, perché il pragmatismo può dettare la tattica, ma è l’ideale a dettare la strategia.

Credo dunque che al Movimento 5 Stelle non manchino, come talvolta viene contestato, un progetto politico e un quadro ideale di riferimento. Manca, se mai, la capacità di trasmetterlo coerentemente ai propri attivisti e di assicurare che almeno chi viene scelto per le posizioni elettive di maggior responsabilità lo abbia approfondito, compreso e accettato nel profondo, distinguendo tra una visione anarchica della società della rete e il mero individualismo senza valori. E su questo, davvero, bisognerebbe lavorare.

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venerdì 28 Giugno 2013, 11:20

Un passo avanti per il piemontese

La festa di San Giovanni, patrono di Torino, è da decenni un appuntamento fisso per tutta la città; centinaia di migliaia di persone scendono in piazza per il corteo storico e per i fuochi. Eppure, non è sempre stato così; l’evento attuale è il frutto di una scelta di oltre quarant’anni fa, quando, in un periodo di grandi cambiamenti sociali, si volle rilanciare il festeggiamento di un appuntamento tradizionale.

Tuttavia, dopo quarant’anni, il corteo storico di domenica scorsa rischia di essere anche l’ultimo. Lo storico organizzatore, l’Associassion Piemonteisa, versa in condizioni economiche difficili, oltre che nella necessità di un rinnovamento generazionale che fatica ad avvenire.

In questi quarant’anni l’atteggiamento verso la lingua e la cultura del Piemonte è molto cambiato: in peggio. Scambiando la perdita di identità per l’arrivo della modernità, è diventato di moda liquidare la storia millenaria del Piemonte come un residuo del passato, un bagaglio culturale da “barotti” e da ignoranti, difeso solo da una manciata di associazioni, pro loco e gruppi folkloristici spesso impegnati a litigare tra di loro. Peggio ancora ha fatto la strumentalizzazione politica che ne ha operato la Lega Nord, confondendo il piano della difesa di una tradizione culturale con quello di insensate rivendicazioni separatiste.

Eppure la diversità culturale, in un mondo di globalizzazione e di massificazioni imposte dall’altro, è un tesoro fondamentale per chi ancora ce l’ha. E’ un tesoro anche economico: pensate a quanti turisti volano in Irlanda affascinati anche dalla cultura celtica e dalla lingua gaelica, la quale peraltro è parlata soltanto da poche decine di migliaia di persone, molte meno di quante parlano piemontese. E’ un carattere distintivo che, nella famosa “competizione tra territori” di cui spesso i politici si riempiono la bocca, può fare la differenza tra Torino e una qualsiasi altra città del mondo.

Basta varcare le Alpi per scoprire come la cultura tradizionale italiana, con i suoi mille campanili, sia considerata affascinante e preziosa. Si trovano rapporti e relazioni dell’UNESCO e del Consiglio d’Europa che non solo considerano il piemontese una vera e propria lingua, con tanto di sue varianti e dialetti locali in giro per la regione, ma ne segnalano con allarme il rischio di estinzione nel giro di un paio di generazioni: perché noi non lo tramandiamo più ai giovani e lo utilizziamo sempre di meno, e una lingua non usata regolarmente è destinata a morire. E se indubbiamente in questo momento le priorità sono altre, le persone senza lavoro e senza casa, l’orologio comunque va avanti e la tradizione si perde un po’ ogni giorno.

Bisogna dunque entrare in un’ottica europea, in cui la cultura tradizionale di ogni regione va difesa come una ricchezza, senza per questo pretendere inesistenti superiorità. Il piemontese non è meglio o peggio del friulano, del siciliano, dello yoruba parlato in Nigeria o del cantonese e dei suoi 70 milioni di nativi; però è storicamente radicato qui e dunque, se non lo difendiamo noi, non lo difenderà nessuno.

Eppure, a livello politico, siamo ancora fermi al riconoscimento del piemontese tra le lingue minoritarie italiane che necessitano di tutela, inserendolo nella lista della legge 482 del 1999, che al momento, per il Piemonte, contiene il walser, l’occitano, il francoprovenzale e il francese; lo deve fare il Parlamento. L’anno scorso è stata lanciata una campagna denominata Piemont482, che ha visto molti comuni medi e piccoli esprimersi a favore di questo riconoscimento. La Città di Torino, però, nonostante vari tentativi, non si era mai espressa a favore, spesso liquidando superficialmente la proposta come “leghista”.

Ci siamo infine riusciti noi; un paio di mesi fa, dopo un anno di iter, è stato approvato (anche con mia sorpresa) il nostro ordine del giorno con cui la Città prende posizione a favore di questo riconoscimento. E’ un gesto simbolico, ma è anche un passo avanti; sperando che agli auspici possano poi seguire anche i fatti.

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mercoledì 26 Giugno 2013, 17:55

La ballata dell’eroe

Trent’anni fa a Torino veniva assassinato il procuratore Bruno Caccia, magistrato integerrimo che aveva già segnato la storia della giustizia torinese, come pubblico ministero nel processo contro i capi delle Brigate Rosse, e poi indagando sul riciclaggio mafioso di denaro sporco tramite i casinò, sulla corruzione in politica (cadde la giunta Novelli, otto anni prima di Mani Pulite) e su tanti altri affari scomodi.

L’inchiesta concluse che ad ucciderlo era stata la ndrangheta, nella persona di Domenico Belfiore, poco più che un ragazzo. Ma quanto è credibile che un giovane esponente della ndrangheta, che non ha mai ucciso magistrati e tantomeno al Nord, prenda da solo una iniziativa del genere, perdipiù proprio la sera delle elezioni politiche, un’ora dopo la chiusura dei seggi?

Emersero storie inquietanti, connessioni con la mafia siciliana e i servizi segreti. Si scoprì che già allora la ndrangheta era ben introdotta a Torino, che almeno cinque magistrati, colleghi di Caccia, intrattenevano rapporti con essa. Tutto questo, però, finì in niente: a parte l’esecutore materiale, non si è mai scoperto chi ha deciso che Caccia doveva morire e perché. E, trent’anni dopo, si riscopre che la situazione è come allora, se non peggio: l’inchiesta Minotauro riporta alla luce i rapporti tra politica e ndrangheta, le telefonate per chiedere voti, interi quartieri costruiti in base all’accordo tra un sindaco e le locali calabresi; la criminalità organizzata che ritiene di avere le spalle coperte dal potere e dallo Stato che dovrebbe combatterla.

Oggi in Sala Rossa Bruno Caccia è stato commemorato con grande partecipazione, ma anche con un vago senso dell’assurdo, a sentire un esperto come il professor Sciarrone dire che non è credibile che i politici che telefonano agli ndranghetisti per chiedere i voti non sappiano con chi stanno parlando, a sentire Caselli ribadire (come stamattina al processo) che la politica fa troppo poco, e poi a sentire la prolusione del sindaco Fassino, cioé proprio un politico che, sicuramente a propria insaputa, è stato oggetto di una di quelle telefonate.

L’Italia è piena di storie così, di persone che “quando gli dissero di andare avanti” si sono spinte troppo lontano a cercare la verità, e per questo sono diventate eroi morti. Per gli eroi morti si celebrano i riti e a Caccia Torino ha dedicato una targa, una piazza e l’intero palazzo di giustizia, nonché la cascina sequestrata ai Belfiore e data in gestione a Libera. Per questo, se non tutti, molti sanno chi era Caccia: un magistrato ucciso dalla ndrangheta. Non sanno, però, su cosa aveva indagato, e che interessi stava toccando, e che quegli interessi non riguardavano solo quelli che nel gioco del potere hanno la parte dei cattivi, ma anche quelli che hanno la parte dei buoni. E’ proprio in questo oblio che la figura di Caccia viene ancora ed ancora privata della verità, e del pericolo che essa costituiva per una parte del potere.

Da trent’anni la famiglia di Bruno Caccia attende di sapere perché è morto; lo chiede ancora oggi, in una lettera aperta. Chiede una riflessione perché Bruno Caccia non resti soltanto un nome su una medaglia, perché si riapra la discussione scomoda su quale sia oggi il vero ruolo e il vero potere della criminalità organizzata rispetto allo Stato. Senza questa discussione, saremo condannati a vivere una bugia: quella per cui davvero, in Italia, le mafie e lo Stato siano sempre acerrimi nemici.

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martedì 18 Giugno 2013, 10:46

Piedi preziosi

Ha fatto piuttosto scalpore la notizia, riportata ieri con evidenza dal quotidiano cittadino, di uno spiacevole inciampo: quello della vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, senatrice del PD, che domenica mattina alle nove in piazza Carignano è inciampata in una buca dovuta ai sampietrini mancanti, cadendo e ferendosi al viso.

Bene, persino La Stampa, normalmente allineatissima all’amministrazione comunale, non può nascondere lo stupore: nella città delle buche eterne e selvagge, un’ora dopo, alle 10 di domenica mattina, c’era già una squadra di operai a riparare il selciato.

C’è però un retroscena che vorrei svelare. Tra le tante cose che sottotraccia faccio il più possibile in consiglio comunale, c’è anche quella di prendermi cura delle vostre segnalazioni e delle mie osservazioni sulle piccole cose che non vanno – e tra queste ci sono le buche.

Per questo, in data 19 dicembre 2011 (un anno e mezzo fa), ho protocollato una interrogazione avente ad oggetto “Pavimentazione dissestata in piazza Carignano”, che segnalava proprio quelle buche, chiedeva conto dell’esecuzione dei lavori e sollecitava una sistemazione.

Il 30 gennaio 2012 l’assessore Lubatti rispose così: i lavori sono stati eseguiti bene ed è normale che ogni tanto alcuni sampietrini si stacchino, ma purtroppo “nell’ultimo periodo, la riduzione delle risorse economiche, in particolare per la manutenzione ordinaria, non permette la necessaria azione preventiva di mantenimento”.

Naturalmente, ci si chiede perché riempire il centro cittadino di porfido, un materiale costoso che crea problemi a diversi utenti della città, dai disabili alle biciclette, se poi non si hanno i soldi per mantenerlo: ma nella logica della politica l’importante è avere i soldi per una magnifica “piccola grande opera” da inaugurare davanti ai media, e non importa se poi chi arriverà dopo non saprà come mantenerla…

Da allora, ogni volta che passavo in piazza Carignano, buttavo un occhio e notavo come ci fossero sempre diverse buche; non so se siano le stesse o se ogni tanto chiudano le vecchie e se ne aprano di nuove, ma il giornale cittadino ha contato 35 rattoppi; anche se nella didascalia alla foto tentano di salvare la faccia al Comune dicendo che “quasi sicuramente il problema è frutto delle ultime piogge ma non era ancora stato affrontato”, mi sembra probabile che, nonostante la mia segnalazione di un anno e mezzo prima, nulla fosse mai stato rattoppato… fino a quando a inciampare non sono stati i comuni piedi di un torinese qualsiasi, ma i piedi preziosi della vicepresidente del Senato, nonché compagna di partito del sindaco.

E allora non so se essere contento e chiedere all’onorevole Fedeli di venire a inciamparsi più spesso a Torino, o se sentirmi indignato come consigliere comunale, che svolge il proprio ruolo di segnalazione senza venire degnato di attenzione fino a quando non ci scappa il morto o il coinvolgimento di un potente (vedi anche la storia degli attraversamenti pedonali); o direttamente come cittadino, il cui eventuale incidente per il Comune vale meno di quello di una senatrice in visita.

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