Deserto
Anni fa se ne parlava molto di più. Poi, col tempo, la popolarità di questa gara è un po’ calata; eppure, continua ad attirare sponsor e iscrizioni da tutto il mondo, con una lunga lista d’attesa per poter partecipare. Sui giornali non specializzati, però, finisce soltanto quando – come regolarmente accade, l’ultima volta ieri – muore qualcuno (54 morti in 28 edizioni).
Stiamo parlando della Dakar (un tempo Parigi-Dakar, poi rinominata da quando il punto di partenza ha cominciato a spostarsi in giro per l’Europa, fino alla sede attuale di Lisbona). Per i pochi che non la conoscono, è una corsa di rally per automobili e motocicli, che attraverso il deserto del Sahara, con tutte le relative insidie, raggiunge la capitale del Senegal.
Nata dall’idea di un pazzo francese che poi vi morì nel 1986, è stata oggetto negli anni di critiche continue. Persino l’Osservatore Romano la definì “una volgare esibizione di ricchezza e potere”, non solo per i dubbi sulla moralità di attraversare con fuoristrada da centomila euro in su, appositamente costruiti per l’evento, alcuni dei territori più poveri del pianeta, ma per le continue vittime tra i corridori e tra la popolazione locale (fece scalpore, negli anni ’80, la bambina maliana di dieci anni investita da un corridore). Sono critiche comunque sensate, perfettamente razionali. Eppure…
Io ho visto il Sahara solo dal bordo e dall’aereo, quest’estate a Marrakech. E’ stato sufficiente per capire che il deserto non è una entità razionale; è invece uno specchio infinito e sfaccettato del microcosmo infinito e sfaccettato che ognuno di noi si porta dentro. In una distesa di nulla, deprivati di punti di riferimento e di molte delle nostre sensazioni abituali, in continuo pericolo di perdersi e morire, ci si trova privi di protezioni fisiche e mentali, soli con se stessi, con la vita, con l’immutabilità di una distesa inospitale apparentemente senza confini nello spazio e nel tempo. Il fascino di tutto questo confina con la follia; tuttavia non ho dubbi, persino senza avere avuto la possibilità di entrarvi, che si tratti di una follia speciale.
Ho il sospetto che per molti dei partecipanti – certamente per quelli che non riescono a smettere di farla, fino a morirci, magari dopo averla vinta due volte come Fabrizio Meoni – la Dakar come ogni altro attraversamento del deserto sia un viaggio esistenziale, una di quelle sfide che, invece di essere uno spreco della propria vita, rappresentano l’incarnazione della ricerca di se stessi: una ricerca che è per definizione folle, che è per definizione solitaria, ma che alla fine costituisce una delle necessità fondamentali degli esseri umani.