Scampoli di pianeta
A Torino, ieri pomeriggio, c’era un vento gelido che portava via il mondo; man mano che si avvicinava il tramonto, sembrava veramente che la città stesse per svanire in una lattigine indistinta. In bicicletta era difficile tirare diritto, anche perché si era continuamente avvolti da nuvole di polvere di foglie secche frantumate: gli alberi sono ancora carichi di giallo, ma non lo saranno per molto. Il sole era una palla pallida sopra i mattoni rossi dei poveri vecchi, appena nascosti da svergognate affissioni di politici bolliti e di Winx seminude.
Se tutto questo già è straniante, aspettate di vedere l’interno: perché in quel mondo nascosto di mattoni rossi, sospeso tra l’ospedale e il dimenticatoio, sta una realtà improbabile quanto poetica, fatta di anziani, di disabili e persino di anziani disabili. Capita così di trovare dietro un angolo, in una stanza che fu di degenza, una vera balera; un eccezionale ballo a palchetto alle tre di un pomeriggio feriale. L’età minima per varcare la porta è sui settantacinque, eppure, da fuori, si può rubare uno sguardo: ballano bene, e sembrano ancora innamorati.
Francoforte, oggi, è verde scura: le foreste attorno all’aeroporto sono rossicce e bagnate, e ti verrebbe da cercare presto un caminetto. Invece ci scaricano a metà dell’infinito corridoio A, e mi tocca lottare sui tapis roulant e poi intasarmi nell’ascensore; il tunnel lisergente dai colori artificialmente cangianti, per cui questo aeroporto è famoso, oggi è ancora peggio del solito. Rimaniamo intampati dietro a una famigliola con bambini: il genere di passeggero che l’industria definisce VFR, che ufficialmente significa “visiting friends and relatives”, ma che nel gergo taluni interpretano come “very frightened and rambling”. Vallo a spiegare al bambinetto irrequieto e al genitore che non capisce dove andare, che stanno bloccando una fila di almeno una decina di businessmen spazientiti che sanno quel percorso a memoria!
La lounge è pure peggio: non è più il Senator di una volta, ormai c’è più spazio nella metro di Londra che nelle sale Lufthansa di prima classe. Però, oltre a spararmi in vena un intero bretzel, mi godo i telegiornali tedeschi: tra il konjunkturpaket e la chiusura di Tempelhof, spunta un servizio su come fare Halloween da professionisti, con tanto di interviste a vari “profi-monster”. Non c’è niente da fare, i tedeschi sono così: tutto deve essere scientifico, tecnologico e soprattutto professionale. Qui ancora si ricorda quando la nota casa tedesca di pneumatici Continental scelse come slogan pan-europeo “Supremazia tecnologica tedesca”: a un tedesco sembrava la cosa migliore che si potesse dire di un pneumatico, ma al resto d’Europa faceva venire in mente il rumore di militari e carri armati in marcia all’unisono verso la Polonia, così le vendite non andarono benissimo.
Cairo… cosa si può dire del Cairo: veramente uno dei pochissimi posti dove non avrei voluto venire. Nulla voglio togliere alla meraviglia delle piramidi, al centro storico bellissimo e unico al mondo, e anche alla gentile ospitalità di questo popolo. Eppure vivere qui, anche per pochi giorni, è davvero stressante: il concetto di organizzazione non esiste nemmeno. All’aeroporto le persone che devono aspettarti per aiutarti a passare la frontiera e arrivare all’albergo non ci sono, hanno cartelli sbagliati, faticano a leggere i caratteri occidentali, e appena possibile litigano tra loro per contendersi il piacere di chiederti la mancia. Per passare la frontiera, una volta acquistato il visto al costo di 15 dollari americani (niente carte, niente valuta locale e per pagare in euro devi pregare e poi pagare 15 euro), il tizio prende in mano 15 o 20 passaporti del gruppo e va da una guardia che, dopo un po’ di discussione, fa passare tutti senza nemmeno aprire i documenti, contando semplicemente che numero di persone uguale numero di passaporti. Dopodiché la navetta gratuita promessa dall’organizzazione non c’è, o meglio c’è ma è parcheggiata in fondo allo spiazzo, in mezzo a un cantiere abbandonato, e gli autisti non ci sono, e comunque se ci fossero sarebbero stati corrotti da quelli delle limousine in modo da forzarti a prendere quelle.
Quindi attraversi la strada rischiando la vita e ti infili alla bell’e meglio in una macchina, con cui ti portano alla sede del convegno: un albergone a 20 chilometri dal centro, nel bel mezzo di un centro commerciale. E’ come se avessero preso l’Auchan di corso Giulio Cesare e ci avessero messo accanto un albergo, però con attorno palazzi di cemento cadente, niente verde e tutto dieci volte più squallido. E quando finalmente riesci a fare il check-in, dopo dieci minuti che sei in camera, nonostante tu abbia affisso fuori il segnale di non disturbare, entra un addetto senza bussare e ti porta dalla lavanderia un vestito e delle camicie non tue – e non parla mezza parola d’inglese per farglielo capire. Ah, e la rete dell’albergo funziona per dieci minuti, poi si pianta troncando i pacchetti di brutto, ma se stacchi e riattacchi il cavo (niente wi-fi) riprende a funzionare per altri dieci minuti.
Non so, spero di non sembrare snob; il problema, come dicevo, è che già essere in giro è pesante, se di fatto sei prigioniero in un posto del genere diventa poco piacevole. Ma forse è solo la stanchezza del viaggio.
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