[[Luca Carboni – Ho visto anche degli zingari felici]]
Mi è capitato di sentire l’altro giorno in radio per caso una nuova canzone, cantata da uno che, dalla voce, sembrava proprio Luca Carboni. La stranezza, però, è che la canzone era bella; quindi mi sono incuriosito, e ho cercato di capire cosa fosse successo.
Sapete infatti che Luca Carboni, con tutto il rispetto che si deve a qualsiasi professionista, rappresenta per me uno dei punti più bassi della storia della musica italiana, e non ho mai capito perché gli abbiano permesso di fare dei dischi. Così ho indagato, e ho scoperto che la canzone, intitolata Ho visto anche degli zingari felici, era cantata insieme a tal Riccardo Sinigallia: ecco, ho pensato, Carboni sfrutta il talento di un giovane sconosciuto per rilanciarsi.
Solo che, indagando ancora, ho scoperto che questo Sinigallia è in realtà l’ex produttore dei Tiromancino (nonché di Gazzé e altri) e insomma, questo spiega l’arrangiamento intimista, ma non il fatto che questi due insieme abbiano tirato fuori un pezzo che è miglia più in alto di qualsiasi altra cosa abbiano mai realizzato da soli. Così, completando l’indagine, ho scoperto che il pezzo non è inedito e non è loro, ma è del 1976 ed è di Claudio Lolli.
Ora io questo Lolli l’ho vagamente sentito nominare talvolta, come un rudere dell’ideologia passata; l’unica cosa che mi fosse mai capitato di ascoltare è la tremenda Borghesia, un tale distillato di luoghi comuni che se uno si fosse messo a cantare la pagina sette di un qualsiasi numero della Pravda avrebbe dimostrato più apertura mentale. Finiti gli anni ’70, per fortuna finì anche l’idea che si potessero vendere dischi mettendo testi di ideologia ortodossa sopra tre accordi in croce (anche se nessuno ha ancora avvertito Ivano Fossati).
Eppure, quest’altro brano è completamente diverso, dimostra una poesia struggente e insieme partecipata che è del tutto assente in Borghesia. Non so cosa sia successo nel mezzo, ma non mi stupisce che questo brano sia diventato uno degli inni del movimento del ’77. Mi sorprende invece l’attualità del percorso che descrive; non tanto per il riferimento decoloniale (peraltro citato) della prima parte, ma per la descrizione delle incertezze e delle durezze di chi si preoccupa ancora di cambiare il mondo; della tensione tra il desiderio di riprendersi la vita e l’abbondanza e la difficoltà di capirsi, di organizzarsi, di comunicare e di trovare una strada per giungere infine a rotolarsi felici in piazza Maggiore; persi nell’avere troppo da fare per fare qualcosa, e nel rovello intellettuale e sfiduciario per cui tutti i movimenti di piazza si spaccano in faide prima ancora di iniziare.
Sono contento che le ideologie degli anni ’70 riposino in pace, e però, sotto sotto, probabilmente il mondo (e la musica come sua manifestazione evidente) ha bisogno di smettere di parlare di niente, e tornare a preoccuparsi collettivamente della propria vita.
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E siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone riso e grano
e noi piantiamo il mais su tutto l’altopiano
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane
le nostre braccia arrivano ogni giorno più lontano
da noi vengono i tesori alla terra carpiti
con che poi tutti gli altri restano favoriti
E siamo noi, noi a far bella la luna
con la nostra vita coperta di stracci e di sassi di vetro
quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto, come un ragno nella stanza
E riprendiamola in mano, e riprendiamola intera
riprendiamoci la vita, la terra, la luna
e l’abbondanza
E’ vero che non ci capiamo
che non parliamo mai in due la stessa lingua
che abbiamo paura del buio e anche della luce è vero
che abbiamo tanto da fare che non facciamo mai niente
E’ vero che spesso la strada sembra un inferno, una voce
in cui non riusciamo a stare insieme, dove non riconosciamo mai i nostri fratelli
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri
e odiamo tutte le nostre donne e tutti i nostri amici
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra
e ho visto anche degli zingari felici
in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna
di vendetta e di guerra
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