Tallinn o Marte
Ho ancora molte cose da raccontare su questi giorni, ma prima di parlare della Finlandia volevo raccontare la gita di oggi a Tallinn – che, per chi confonde le repubbliche baltiche l’una con l’altra, è la capitale dell’Estonia.
Ho capito che c’era qualcosa di strano in questo posto quando sono sceso dal traghetto e ho dovuto percorrere una strana banchina che disegnava angoli retti sul mare, evitando una serie di scalinate dal senso poco chiaro. Per arrivare in città dall’attracco della Linda Line bisogna attraversare la parte più remota e abbandonata del porto, vicino a una opprimente fabbrica abbandonata la cui ciminiera dialoga con i campanili della città . Dopo cinque minuti, però, si arriva all’inizio del centro e lì si trova la prima sorpresa.
Infatti, basta attraversare il grande vialone e ci si trova davanti a una torre medievale rotonda in pietra, accanto alla quale si apre una porta in stile gotico da cui parte una via di case quattrocentesche perfettamente conservate, pitturate e coperte di fiori. Il centro antico di Tallinn potrebbe essere tranquillamente quello di una qualsiasi città tedesca, ma molto meglio conservato; ed è pieno zeppo di ristoranti, negozietti e alberghi nuovi ed eleganti, con tanto di BMW e Audi parcheggiate davanti in abbondanza.
Arrivare a Tallinn dalla Finlandia fa dunque un po’ l’effetto di arrivare in Sudafrica dal Mozambico… per carità , la Finlandia non è male, ma è grigia e nordica, priva di qualsiasi forma di decorazione (quando i russi se ne sono andati, i finnici hanno rimosso tutte le cupole dorate delle chiese ortodosse perché erano troppo appariscenti e luminose), austera al massimo, totalmente priva di lusso e anche un po’ consunta; Tallinn invece è, un po’ come Dublino fino a pochissimi anni fa, una città ex poverissima in mezzo a un boom economico senza precedenti. Inoltre, Tallinn è una città palesemente mitteleuropea. Mentre Helsinki non potrebbe essere altro che in un angolo remoto della regione nordica, Tallinn potrebbe benissimo essere in Germania, in Olanda o nella Francia orientale, e ha un aspetto accogliente e familiare.
Il centro si sviluppa con una serie di scorci meravigliosi – vicoli, case, chiese gotiche e la grande piazza con il regolamentare municipio tedesco con torre, loggiato e ristorante. Poi si sale sulla collina di Toompea – la collina dei danesi, là dove secondo la leggenda nel 1219 una bandiera rossa con la croce bianca piombò dal cielo e segnò la nascita della bandiera e della nazione danese, in trasferta sul Baltico per motivi bellico-commerciali. La collina ospita il duomo protestante e la cattedrale ortodossa, che si guardano l’una con l’altra come a sfidarsi, e una serie di panorami da fiaba sulla città vecchia, sulle mura e sulle periferie immerse nel verde (pur se con ampi casermoni e fabbriconi sovietici a vista).
Dopo aver fatto il peggior cambio di valuta della mia vita (in genere uso il bancomat e da oggi lo farò ancora più regolarmente) abbiamo mangiato bene in uno dei caffè della piazza principale; io ho assaggiato le salsicce del posto e una torta con salsa di ribes, tutto molto buono. Purtroppo la città era piena zeppa di mandrie di turisti; siamo stati tanto sfortunati da incrociare anche qui (come già a Stoccolma) la maledetta Costa Magica, da noi rinominata Costa Maggica Roma perché sembra ospitare migliaia di turisti romanideroma caciaroni e burinissimi. Una nave da crociera è una iattura vivente per il resto del mondo; sbarca in un porto e scarica migliaia di persone che tutte insieme, divise in gruppetti per lingua guidati da una ragazza con palettina numerata, si affollano presso i vari monumenti rendendoli rumorosi e inaccessibili.
Ma noi eravamo preparati, così abbiamo lasciato la cattedrale e solo un paio di isolati più giù siamo andati al momento della verità : il poco conosciuto ma fondamentale Museo delle Occupazioni. Se leggete un po’ di giornali internazionali, sapete che l’Estonia è il paese più antirusso dell’ex Unione Sovietica; la consistente minoranza russa, immigrata negli ultimi cinquant’anni, è fonte di continui scontri di piazza con i nazionalisti e la polizia. Dopo aver conquistato la sua indipendenza approfittando del caos derivante dalla Rivoluzione d’Ottobre e sconfiggendo i tedeschi pre-Weimar e i sovietici bolscevichi, l’Estonia cadde vittima del patto Molotov-Ribbentrop, in cui fu assegnata ai sovietici: nell’estate 1939 fu riempita di basi russe “in segno di amicizia”, poi occupata ed annessa, e così tutti dovettero imparare il russo e professarsi comunisti. Poi nell’estate 1941 fu occupata dai nazisti, e allora tutti dovettero buttare i libri russi e imparare il tedesco. Poi però nella primavera 1944 stavano tornando i russi, e allora gli estoni, pur di non cambiare di nuovo lingua, smisero la resistenza e si arruolarono in massa nell’esercito nazista, purtroppo per loro con pessimo esito. Dopo la guerra i partigiani estoni continuarono a combattere nel silenzio, alcuni fino agli anni ’70, ma per la maggior parte gli estoni non allineati vennero spediti nei gulag e rimpiazzati da immigranti russi.
Di conseguenza, la teoria storica estone dice che l’Estonia non è mai stata parte dell’Unione Sovietica, ma è soltanto stata occupata con la forza per cinquant’anni; naturalmente la teoria storica russa dice l’opposto, in quanto l’annessione fu formalmente approvata dal parlamento estone in carica all’epoca, anche se gli estoni sostengono che tale parlamento fu eletto in stato di occupazione con elezioni fantoccio. In questo simpatico caos, il principale risultato è che gli estoni portano un odio forte e duraturo ai russi (presumo ricambiato); la libertà venne solo perché Gorbaciov non ebbe la forza di reprimere le crescenti spinte nazionalistiche (comunque durante il colpo di stato fallito dell’agosto 1991 arrivarono lo stesso i carri armati da Mosca).
Il museo, dunque, è un pelino orientato contro il comunismo; a un certo punto si dice chiaramente che i nazisti non erano neanche lontanamente cattivi come i sovietici. Ad essere più impressionanti per noi non sono poi tanto le testimonianze delle occupazioni e delle repressioni, viste un po’ in qualsiasi ex regime autoritario del pianeta, ma gli oggetti della vita quotidiana in un paese sovietico. Per esempio il museo ospita una cabina del telefono degli anni ’70, tutta arrugginita perchè completamente in ferro e legno: la plastica doveva essere quasi sconosciuta. Poi vi è una sedia da parrucchiere degli anni ’80: una seggiolina anni ’50 di quelle che da noi erano di formica, ma lì era tutta di legno, con sopra un mostruoso robo per la messa in piega in cui io non infilerei la testa nemmeno sotto minaccia di morte. Ecco, è questa distanza pratica che impressiona: l’incapacità del comunismo di garantire un minimo di benessere, anche solo una frazione di quello che noi da bambini abbiamo vissuto. Ciò che doveva funzionare meglio in teoria, in pratica era diventato solo un vuoto rito di moduli e burocrazia per qualsiasi cosa – tipo, il “permesso per comprare una bicicletta”, naturalmente da ottenere solo dopo ampi servigi al partito – totalmente senza senso e contatto con la realtà , e come tale destinata a far piantare grano dove crescono solo le patate.
Si capisce bene dunque come per questa città fondata e dominata fino a inizio Novecento da mercanti tedeschi, da sempre piena parte della cultura europea, i cinquant’anni sovietici devono essere stati un trasferimento forzato su Marte; e si capisce anche che gli estoni abbiano sradicato praticamente qualsiasi segno di questo passato, almeno dalla zona centrale. Questo non può che essere un paese schizofrenico, in cui l’identità europea e quella ex sovietica convivono ignorandosi e apparendo soltanto una per volta, e in cui la seconda può soltanto essere rimossa.
Per capire bene mancava però ancora qualcosa, e l’abbiamo trovato proprio alla fine: tornando all’imbarco, abbiamo scoperto cos’erano le scalinate. Venendo dalla città , ci siamo trovati davanti a una gigantesca costruzione di cemento – e quando dico gigantesca intendo gigantesca, immensa, grande come un paio di campi da calcio. Oltre che gigantesca, però, questa costruzione era priva di senso; non aveva alcuna funzione apparente, era vuota, deserta e chiaramente in abbandono. Sembrava una specie di spazioporto, e infatti salendo le prime scalinate di cemento – solo cemento e null’altro, né metallo né vetro né legno – ci siamo trovati davanti a una infinita sequenza di lampioncini corrosi, un palo di ferro dell’età del ferro con sopra una bolla circolare di vetro, disposti in una sequenza perfettamente regolare, come a segnalare una pista di atterraggio sopraelevata di dieci metri sul terreno ma assolutamente piana. Evitando le bottiglie rotte e le piastrelle quadrate spaccate, abbiamo percorso l’infinita distesa e abbiamo scoperto delle vecchie porticine di alluminio, chiuse tra due ulteriori scalinate di puro cemento che andavano fino al cielo. Una insegna semicancellata diceva un qualcosa che sembrava “Sala concerti”, ma tutto era sbarrato e chiuso con nastro bianco e rosso, anche se all’interno si vedevano delle seggiole di plastica che sembravano relativamente recenti. L’esterno, però, sembrava in abbandono da quindici o vent’anni.
Salendo un altro giro di scalinate, evitando un po’ di macerie, si arriva al tetto altrettanto piatto, da cui si domina il paesaggio; da una parte si ridiscende verso il mare e l’attracco, dall’altra si vede il porto (tutto rifatto negli ultimi anni con modernissimi palazzi di vetro, centri commerciali, ristoranti e così via) e poi i campanili della città vecchia. Eppure il cemento del tetto è corroso, e verso il mare una bella parte è chiusa e transennata, mentre sul retro c’è l’ingresso di un ex locale notturno di qualche genere nel cui tetto c’è un buco, da cui spunta un tubo arrugginito che gocciola chissà quale schifezza; tuttavia dentro, anche se è tutto sbarrato, ci sono una luce accesa e un registratore di cassa funzionante con scritto “0.00”. Mi aspettavo solo di vedere arrivare dei fantasmi a chiedere un biglietto per l’opera…
Tornati a casa, abbiamo scoperto cos’è: è la Linnahall, già Palazzo della Cultura e dello Sport V. I. Lenin, costruito nel 1980 per le Olimpiadi di Mosca (Tallinn ospitò la vela). E’ l’esempio perfetto dell’architettura sovietica: enorme, inutile, pensato per impressionare e non per servire a qualcosa, immanutenibile, costruito con materiali pessimi, destinato all’abbandono; in più, costruito in uno stile architettonico totalmente scollegato dalla realtà , perfettamente razionale, aggressivo e brutale come il regime, ma assolutamente affascinante, sconvolgente, bellissimo. Così in abbandono, attraversarlo è stato davvero un viaggio su Marte; una scoperta emozionante e piena di timore. Poi però abbiamo scoperto che è chiuso solo da un anno, e che riapre (schivando le perdite d’acqua e il cemento che crolla) tra poche settimane; uno dei primi eventi è un concerto di Toto Cutugno. Quale migliore occasione per visitare Tallinn?
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29 Agosto 2009, 08:48
Tallinn e’ indubbiamente affascinante: se scegli con cura l’angolazione, in uno stesso fotogramma puoi mettere insieme un grigio muro sovietico, una guglia medioevale ed un angolo di verde ancora incolto.
29 Agosto 2009, 12:20
C’è una cosa che mi conforta di questo post un po’ desolante.
Toto Cotugno farà solo tre concerti da qui alla fine dell’anno e tutti e tre all’estero.
Forse noi italiani non siamo poi messi così male! :)
P.S. Vittorio, “desolante” per l’immagine dell’architettura sovietica, non il post in sé, neeh! ;-) Anzi, i tuoi post on the road sono tra i miei preferiti
29 Agosto 2009, 17:45
Eh. Meno male che c’è la plastica. Una salvezza per l’umanità . Usa e getta e poi l’amico inceneritore la fa sparire…
29 Agosto 2009, 18:47
Io preferisco avere la tecnologia per produrre la plastica e poi decidere di non usarla salvo dove effettivamente necessario, piuttosto che non avere idea di cosa sia… :-)
31 Agosto 2009, 11:53
Certo che, ogni tanto, sei meglio di Wikipedia!