Contrasti cinesi
Che questo sia un Paese di grandi contrasti lo sanno tutti; viverlo, però, è un’altra cosa.
All’ora di cena, seguendo il nostro collega e un suo appuntamento con un amico expat, ci siamo ritrovati di nuovo a Xintiandi, il centro commerciale elegante costruito attorno alla sede del primo congresso del PCC (per arrivarci, il taxi ha percorso un viale alberato circondato di edifici nuovissimi e tutti illuminati ognuno dei quali ospitava il negozio di un grande marchio di moda).
I vialetti pedonali all’aperto dei due isolati di Xintiandi erano pieni di gente; una certa percentuale di stranieri, ovviamente, ma in prevalenza cinesi ricchi. Nel centro commerciale ci sono una quarantina di ristoranti, tendenzialmente di lusso, che riproducono le cucine di vari Paesi. Consultando la guida e andando a vedere, abbiamo optato per Ding Tai Fung, una catena di ristoranti taiwanesi che ha a Xintiandi la sua sede pluripremiata (guida Michelin compresa). Al primo piano di un centro commerciale all’occidentale, salite le scale mobili, si trova l’ingresso del ristorante, dove un tabellone luminoso gestisce la coda: all’ingresso ti danno un numerino, inserendoti in una di quattro code separate a seconda della dimensione del tavolo. Nonostante ciò, il posto è elegante, anche se è uno dei meno eleganti della zona.
Il piatto principale del ristorante sono ravioli al vapore alla maniera di Taipei: e ovviamente non hanno nulla a che vedere con quelli che mangiamo in Italia. La pasta è un’ostia appiccicosa, morbida e sottilissima, e contiene un ripieno circondato da brodo a diciottomila gradi; con coraggio, se ne prende uno con le bacchette e lo si infila in gola intero, al massimo dopo averlo passato nella salsa di soia o in quella piccante. Il ripieno tipico, davvero eccezionale, è un misto di maiale e granchio; detto così vi sembrerà strano, ma il risultato è al livello dei migliori agnolotti di casa nostra.
Noi ne abbiamo ordinati di vari tipi e con vari ripieni, uscendo molto soddisfatti; il costo medio è di un euro a raviolo, e con venti euro a testa siamo usciti piuttosto sazi. Ora, potrà sembrarvi un prezzo normale, ma considerate che qui nei ristoranti eleganti per locali ci si strafoga, serviti e riveriti, con meno di dieci euro a testa; nei fast food cinesi e caffé all’occidentale si mangia un pasto completo per due o tre euro; nelle bettole si mangia con meno di un euro.
E’ che qui esistono chiaramente due economie: una per i ricchi e una per i poveri. Ma attenzione, nel resto del mondo (ad esempio in Africa, nel resto dell’Asia e, anche se meno, pure in Sud America) i ricchi sono per la maggior parte gli occidentali spediti in trasferta dalle multinazionali o venuti per turismo, completati da una parte minoritaria di ricchi del posto. Qui, invece, l’economia per ricchi è principalmente per locali; gli stranieri sono accolti con cortesia e interesse, ma non rappresentano (più) l’elemento vitale che fa girare l’economia del lusso e da essa, a cascata, l’economia locale.
Questo si vede ancora meglio se si gira un po’, uscendo dai recinti dorati delle zone all’occidentale. A fine cena abbiamo cercato un taxi per farci riportare indietro; non l’abbiamo trovato, perché è vero che ogni trenta secondi appariva un taxi libero, ma c’erano decine di persone in attesa. A quel punto, visto che era piuttosto tardi – le dieci e mezza, e qui è come dire mezzanotte – abbiamo deciso di prendere la metro (che chiude poco dopo le undici) per avvicinarci, e di cercare un taxi in una zona meno battuta e più vicina all’università che ci ospita, che – ricordo – sta a una decina di chilometri dal centro. Così abbiamo preso una metro e poi un’altra, e poco prima delle undici siamo scesi alla metro di Jiangwan Town, a un paio di chilometri abbondanti dall’albergo; la fermata più vicina, dal momento che la metro che prendiamo normalmente chiude alle otto di sera.
Il piano era quello di fermare un taxi, e in effetti lì ce n’erano in abbondanza; se non che, scesi dalla metro, abbiamo esitato un attimo davanti al tabellone con la mappa del circondario, e subito un ragazzo del posto si è fermato e ha chiesto, in un inglese passabile (già una rarità ), se avessimo bisogno di aiuto. Gli ho spiegato dove andavamo, e ci ha detto che erano solo dieci-quindici minuti a piedi; e si è offerto di accompagnarci fino all’angolo della via, perché se avessimo sbagliato strada ci saremmo persi senz’altro. E nel frattempo ha entusiasticamente cercato di fare conversazione, spiegandoci che era un dipendente della Aurora (una mega-ditta con grattacielo sul fiume) che tornava a casa dopo essere uscito dal lavoro “come tutte le sere†(ricordo che erano le undici); e alla fine ci ha lasciati sull’angolo giusto e ci ha pure dato il suo biglietto da visita per chiamarlo in caso di problemi.
(Nelle periferie delle città cinesi, le vie sono molto più rare che da noi; ci sono poche strade che delimitano isolati immensi, occupati da un dedalo di vicoli e viuzze senza nome che collegano i vari palazzi; sbagliando strada, si rischia di camminare tranquillamente per un quarto d’ora prima di trovare l’incrocio successivo e accorgersene.)
Io sapevo, avendo visto la cartina, che la sua stima dei tempi era molto ottimistica; ma la temperatura era finalmente accettabile, c’era un bel venticello, e così abbiamo fatto una passeggiata. E abbiamo fatto bene, perché nei tre isolati che componevano il percorso di 2,5 chilometri abbiamo visto di tutto: basse case anni ’60 con negozietti ancora aperti; poi un gigantesco palazzo di una multinazionale, in stile americano; poi un incrocio con un vialone; una scuola; un blocco di poche casette con negozi poverissimi; una serie di palazzi eleganti di dieci piani l’uno.
Soprattutto, la contraddizione tipica sta nel trovare per trecento metri dei grossi palazzi modernissimi, costruiti da non più di cinque anni, ampi, spaziosi e rigidi nel silenzio della notte; e poi un gruppo di vecchie case in cui ogni buco di due metri per due è un negozio, pieno strabordante di oggetti o merce alla rinfusa, illuminato alla meglio, cadente, con il proprietario piazzato su una sedia sulla via a fumare mentre chiacchiera con qualcuno, davanti a un tavolino su cui oltre al posacenere si trova un piattino con cibo indefinito, a fianco del quale sta, seduto a gambe incrociate sul marciapiede, un riparabiciclette ambulante, con i ferri del mestiere sparsi per terra su uno straccio, che in attesa di clienti mastica un pezzo di anguria comprato dal verduriere accanto, il quale ha decine e decine di angurie verdine sbattute lì per la strada, e nonostante sia quasi mezzanotte è ancora aperto e non ha nessuna intenzione di chiudere e andare a dormire, che tanto fa caldo e comunque è meglio stare lì a chiacchierare che salire di sopra, dove i tre o quattro o massimo sei piani del basso palazzo anni ’60 (qui sei piani è basso) brulicano di stanzette, ognuna col suo condizionatore, nel quale dorme una intera famiglia; e con l’intero condominio, entro sei o dodici o massimo ventiquattro mesi, non ci faranno la hall del nuovo palazzo di marmo vetro e acciaio che occuperà la zona, spazzando via questa gente e scaraventandola più lontano, dove le case valgono meno.
In auto, queste parentesi vive in mezzo a una Los Angeles d’Oriente non si noterebbero proprio; a piedi ci finisci dentro. Come quando passi davanti al cancello di quello che sembra uno studentato, dietro l’università , e lo trovi occupato da un improvvisato mercatino notturno, formato da carretti di metallo arrugginito attaccati dietro una bicicletta. Ogni carretto vende cibo diverso, e in particolare un paio hanno la brace, grigliano spiedini di carne o di pesce di animali sconosciuti e li vendono a prezzo ridicolo, uno yuan a spiedino; e il marciapiede brulica di giovani scesi a soddisfare la fame di mezzanotte. Dev’essere l’equivalente locale del paninaro notturno, ma molto low tech, e però molto efficace, anzi mi sa che una di queste sere ne provo uno: prima che tutto questo sparisca, e che la Cina diventi completamente l’America del ventunesimo secolo.
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