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Archivio per il mese di Novembre 2013


venerdì 15 Novembre 2013, 17:03

Una visita al CIE

Ieri ho avuto la possibilità di visitare il CIE (Centro Identificazione ed Espulsione) di corso Brunelleschi a Torino. Credo che sia quindi utile portarvi con me in un rapido giro e raccontarvi le cose che ho appreso, di modo che ognuno possa formarsi una opinione più informata sul senso di questi centri.

Il CIE nasce nel 1998, a seguito di una direttiva europea; al quartiere fu promesso che sarebbe stato lì solo un paio d’anni, ma quindici anni dopo è ancora lì. A un costo iniziale di 18 milioni di euro si è aggiunta una ristrutturazione, completata tre anni fa, per altri 14 milioni di euro, che lo portò ad essere il più grande d’Italia. Il CIE non è un carcere, e non è costruito coi criteri di sicurezza di un carcere, ma è comunque un luogo in cui risiedono dei “trattenuti”, persone straniere clandestine e/o dall’identità sconosciuta in attesa di essere identificate ed espulse: per questo ci sono gabbie e barriere.

L’identificazione non consiste solo nel dare un nome alle persone, ma soprattutto nell’ottenere che il loro Paese se li riprenda, emettendo un lasciapassare che gli permetta di affrontare il rimpatrio (il 95% delle persone difatti arriva al CIE senza documenti, dunque anche senza un passaporto per poter passare la frontiera). In diversi Paesi europei non vi è limite al tempo di trattenimento delle persone nei CIE, ma in Italia il limite è di 18 mesi; di norma, comunque, se lo Stato non riesce a rimpatriare qualcuno entro sei mesi lo lascia libero, perché a quel punto si presume che non esista la possibilità concreta di rimpatriarlo. Esistono diversi altri motivi per cui non si può essere trattenuti nel CIE; se si è minore o donna incinta, se si è diabetici, persino se si hanno fratture che richiedono l’ingessamento (ci si può far male da soli per uscire). Alla fine, mediamente solo il 50% delle persone che entrano nel CIE viene effettivamente espulso e rimpatriato; gli altri tornano liberi con un foglio che gli ordina di andarsene dall’Italia, cosa che ovviamente non fanno, a meno di non riuscire ad andare a nord.

I “trattenuti” hanno a disposizione degli avvocati, che spesso vengono ringraziati con disegni, lettere e in un caso addirittura con un murale dipinto nella loro stanza; e dei medici, che ne controllano lo stato di salute. Spesso partono scioperi della fame con implorazione “fatemi uscire sto morendo” che poi risultano finti, perché le persone rifiutano il cibo ma poi trovano il modo di mangiare altra roba giunta dall’esterno; anche noi siamo stati fermati da un detenuto che lamentava di avere l’epatite, con immediata mobilitazione di alcune consigliere, a cui il medico ha risposto che non era il caso.

La cosa che colpisce in realtà è quanto è piccolo il CIE, pur essendo il più grande d’Italia. Tre anni fa aveva 210 posti, divisi in sei aree separate di cui una femminile, ma adesso ne ha soltanto 98, di cui soltanto 85 sono occupati (il 60% da persone fermate a Torino e provincia, il resto da fuori). In ogni area potrebbero vivere 35 persone, divise in cinque camerate da sette, ma di solito ce ne sono al massimo una ventina.

Ogni camerata è dotata dei letti, di alcune caselle di legno, di un bagno e di un televisore; non ci sono armadi, perché, ci hanno spiegato, venivano spaccati e usati come armi. Il risultato è ovviamente quello di una scarsa intimità, a cui i “trattenuti” rimediano come possono.

Ogni area ha poi una casetta separata utilizzata come mensa e luogo di ritrovo, nella quale vi sono anche un lavandino (studiato per non poter essere divelto) e un telefono.

L’intero centro, pur sorvegliato da ragazzi dell’esercito in tuta mimetica, è gestito dalla Croce Rossa, che ha vinto il relativo appalto. Tra le cose che fanno c’è la gestione dei pasti, che vengono preparati e distribuiti caldi ma impacchettati (non ci sono fuochi, gas o attrezzi per scaldare dentro le gabbie).

Loro cercano di soddisfare i “trattenuti” almeno in questo, per cui ognuno può indicare le proprie preferenze (su 85 ospiti vi sono 81 menu diversi) e il numero di pasti è sovrabbondante, per cui chi vuole può fare il bis e anche essere un po’ schizzinoso: ad esempio abbiamo visto un ospite prendere il riso attraverso l’apposita feritoia, non gradirlo, scaraventare fuori tutto il pacchetto e chiedere un’altra cosa.

Ogni “trattenuto” riceve dalla Croce Rossa 3,50 euro al giorno, che può utilizzare per ricariche telefoniche, per comprare le sigarette o per poco altro; comunque, spesso parenti e amici inviano vaglia postali, oltre ai soldi (spesso non pochi) che ognuno di loro aveva in tasca quando è stato fermato. Oltre alla televisione, sono disponibili un campo da calcio e dei canestri da basket: non c’è molto con cui ingannare il tempo.

Forse vi starete chiedendo come mai, su 210 posti originari, ce ne sono ora soltanto 98. Il motivo è che gli altri posti sono stati devastati nelle periodiche rivolte, e così molte delle camerate – e anche una intera area – sono chiuse, mentre gli altri vivono tra le tracce degli incendi passati: qui, ad esempio, sono in uso solo due camerate su cinque.

Vi sono diversi motivi per cui le rivolte sono così frequenti. Innanzi tutto, a differenza di ciò che avveniva molti anni fa, oggi quasi mai chi entra in un CIE è un clandestino appena sbarcato; la popolazione è “paracarceraria”, ovvero quasi tutti sono in Italia da molto tempo e sono già stati per molti anni in carcere, uscendone senza permesso di soggiorno e quindi venendo poi ri-fermati e inviati al CIE. L’assurdità, difatti, è che per legge non possono essere avviate le procedure di identificazione e rimpatrio mentre sono in carcere, dunque devono scontare la pena, uscire, finire in un CIE e poi aspettare mesi lì dentro per lo svolgimento delle procedure. E loro stessi dicono: almeno in carcere sapevo perché ero dentro, ma qui? E perché non avete svolto le procedure mentre ero in carcere? Aggiungete che il livello di sicurezza è molto più basso e che fuggire è possibile – qui sotto vedete l’angolo da cui, arrampicandosi, tutti provano a scappare, e che non si può bloccare meglio per evitare il rischio che si ammazzino scappando, con conseguenti responsabilità penali e polemiche politiche – e capirete perché due volte al mese c’è una rivolta.

Inoltre, nel CIE di Torino (non dappertutto è così) ai “trattenuti” viene lasciato un telefonino, purché privo di fotocamera (se no gli chiedono di spaccarsela). Molti di loro sono in diretto contatto con l’esterno, dove sia i parenti che i centri sociali li aiutano a ribellarsi. Tempo fa, per esempio, fu lanciato dall’esterno un seghetto col quale furono tagliate le gabbie per poi cercare di uscire (qui vedete la riparazione).

In più, grazie al telefonino e alla televisione, loro sono informati di ciò che succede negli altri CIE e in Italia, e dunque a ogni episodio di razzismo che finisce sui giornali o che gli viene raccontato (vero o falso che sia, spesso vengono messe in giro voci ad hoc) o a ogni rivolta in altri CIE parte una rivolta anche a Torino.

Qual è la conclusione? Sicuramente questo è un luogo spiacevole; vedere delle persone dentro delle gabbie non fa piacere a nessuno, e il luogo – pur con tutto l’impegno della Croce Rossa – è comunque grigio, piuttosto sporco, degradato, con l’aspetto da campo profughi e in più le gabbie. L’impressione però è che il problema di fondo sia l’inconcludenza italica, per cui si decide di espellere delle persone “ma non troppo”, e dunque poi metà non vengono espulse e l’altra metà si perde in mesi di burocrazia che forse si potrebbe evitare, e tutte le due metà stanno per troppo tempo in condizioni comunque poco umane. Chi ha in gestione il CIE fa quello che può, ma è il modo in cui si approccia l’immigrazione in Italia che non funziona.

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venerdì 8 Novembre 2013, 13:29

Vittorie e battaglie sui rifiuti

Nelle scorse settimane sono state approvate definitivamente le tariffe Tares, di cui vi avevo già parlato. Sono state approvate senza modifiche, e anzi alle opposizioni non sono nemmeno stati forniti i dati minimi necessari per fare proposte di modifica. Sono tariffe che concederanno anche qualche sconto ad alcuni, ma che su alcune categorie, dalle famiglie numerose ai ristoranti e ai banchi di alimentari del mercato, peseranno come un macigno.

In uno scenario del genere, noi abbiamo comunque studiato approfonditamente il tema e presentato numerose proposte concrete, strappando anche alcune vittorie. Queste sono le cose che abbiamo proposto e che il consiglio comunale ha approvato:

  1. L’impegno a stanziare ogni anno i soldi necessari per far crescere la raccolta differenziata in città dell’1,5%, mediante l’estensione della raccolta porta a porta (mozione 1, punto 1).
  2. L’impegno a studiare modi per migliorare la raccolta e aumentare il ricavo dalla vendita dei rifiuti differenziati, abbassando così le tariffe (mozione 1, punto 2).
  3. L’impegno a valutare metodi per misurare quanta immondizia produce ciascun utente e a farlo pagare in proporzione (mozione 1, punto 3; la maggioranza tuttavia non è del tutto convinta e ha reso il testo più vago parlando anche di “aree omogenee”).
  4. L’impegno a chiedere ad Amiat una “spending review” che faccia ridurre i costi e di conseguenza le tariffe (mozione 2; noi avevamo chiesto il 10% di taglio in tre anni, ma il sindaco ha risposto “così poi devono licenziare qualcuno”; l’impegno è a ridurre anche solo di un euro, ma se già per tre anni i costi non aumentassero ancora sarebbe una grande vittoria).
  5. L’impegno a rivedere gli studi, vecchi di un decennio, che determinano le tariffe delle varie categorie commerciali (mozione 3, punto 1).
  6. L’impegno a promuovere forme di autogestione della raccolta rifiuti nei mercati, per abbassarne il costo e permetterne il controllo diretto agli operatori (mozione 3, punto 2).
  7. L’impegno a prevedere sgravi sulla Tares per i “negozi leggeri” che vendono solo prodotti senza imballaggi (nostro emendamento accolto nella mozione 4).

Insomma, ci siamo dati da fare seriamente e costruttivamente, come potete sentire anche nel lungo intervento contenuto nel video. Peccato che, come vedete alla fine, poi arrivino altri gruppi politici che si mettono semplicemente a tirare fuori un bidone ed agitarlo in aula, attirando i fotografi come le mosche; noi siamo comunque convinti che il nostro approccio sia quello che alla fine produce più risultati per i cittadini.

Comunque, il problema della Tares resta ed è grave, e sicuramente avete saputo della manifestazione dei mercatali che martedì ha bloccato Porta Susa. Ognuno si può fare l’opinione che crede, ma queste sono famiglie che rischiano il posto di lavoro, a fronte dell’aumento delle tasse e della contemporanea politica di continua apertura di nuovi supermercati adottata da Fassino; martedì noi siamo gli unici che sono andati ad ascoltarli, e ora vi lasciamo con un testo che uno di loro ci ha mandato, con preghiera di pubblicazione, per far sapere che le cose non sono proprio come le raccontano i giornali.

“Per dare una risposta a Passoni, assessore al Bilancio, e al sindaco Fassino è doveroso chiarire alcuni punti: a Torino la situazione del commercio e quindi degli ambulanti sta precipitando per due principali motivi, oltre che per la solita storia della crisi:

  • una politica favorevole ai centri commerciali e di disinteresse e ostacolo verso i mercati.
  • una pressione fiscale da parte del Comune che non ha nulla a che vedere con gli scontrini ma che colpisce l’ambulante soltanto perché “esiste”.

Stiamo parlando di circa 3000 euro per 10 mq (nel 2004 si pagava euro 1320) per gli alimentari e 800 euro per non alimentari che fanno 1-2 kg di carta al giorno. Ed è riconosciuto che facciamo molti meno rifiuti di alcuni anni addietro. Strano: meno rifiuti si fanno negli anni, più si paga… Torino – Amiat (azienda raccolta e smaltimento) è proprio strana.

Chi ha superfici maggiori paga proporzionalmente, quindi ci sono ambulanti che pagano anche 5000-6000 euro/anno e anche più. La tassa dei rifiuti per gli ambulanti torinesi è la più alta d’Italia, più del doppio di Milano e il triplo di Bologna, e gli aumenti proseguiranno. Non è più sostenibile: e il motivo che adduce Passoni che circa il 40% non paga la tassa non giustifica che bisogna caricare tutto su chi paga: è una risposta ben misera.

Questo fuoco che sta divampando tra i commercianti, anche i negozianti, è da circa un anno che lo facciamo presente. Ma lo stesso Fassino non ci ha mai incontrato, e tutte le volte che lo abbiamo cercato lui non c’era mai. Un sindaco che di fronte al grido di grande disagio di molti suoi cittadini non c’è mai. Probabilmente pensa che sono tutte storie, che i commercianti sono pieni di soldi… e via così. A Torino in gennaio e febbraio hanno chiuso circa 240 negozi, 6400 in tutta Italia in due mesi. Quindi sono tutte storie? Stiamo andando sempre peggio.

Molti mercati torinesi si sono desertificati perché gli ambulanti non li frequentano più, non rendono più niente e le licenze si stanno restituendo al Comune perché non si riescono a vendere da diversi anni. Ci sono un mucchio di ambulanti che incassano meno di 100 euro al giorno e devono decidere se mangiare o pagare le tasse comunali, compresa l’occupazione del suolo pubblico, minimo 1250 euro per 10 mq. Le organizzazioni sindacali Anva – Fiva – Confcommercio latitano e portano avanti il loro compito principale: fare da commercialisti agli ambulanti e negozianti.

Invece di ridurci queste tasse il Comune non interviene su Amiat, il cui amministratore delegato ha pensato bene di creare l’incarico di direttore commerciale e di farsene carico con il relativo stipendio. 2 incarichi = 2 stipendi.

Un fuoco probabilmente destinato a divampare!”

Aggiungo un’ultima cosa talmente assurda che non me ne capacito: nella tabella delle tariffe voi trovate dei valori a metro quadro e anno da cui apparentemente quella dei mercati sembra ragionevole: per esempio i ristoranti e simili pagano 41 €/mq/anno mentre gli ambulanti alimentari ne pagano 52. Il problema è che il Comune di Torino, unico in Italia, ha adottato questo metodo di calcolo: mentre un pizza al taglio di 20 mq aperto sei giorni a settimana paga 41 * 20 = 820 €/anno, un banco del mercato di 20 mq che fa ogni settimana sei mercati in sei giorni diversi paga sei volte, ovvero paga 52 * 20 * 6 = 6240 €/anno. Ma che senso ha, a parte quello di nascondere al cittadino medio l’esosità delle tariffe applicate ai mercati?

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