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venerdì 6 Marzo 2015, 17:43

Di nomadi, cani e immondizia

Ancora una volta in questi giorni si è parlato molto di via Germagnano, per le difficoltà di convivenza tra il canile e i nomadi. Mi sono però reso conto che su questa realtà tutti hanno un’opinione, ma pochi la conoscono veramente; per questo ho deciso di usare il materiale reperito in vari sopralluoghi per accompagnarvi in un giro virtuale.

Per prima cosa, via Germagnano è una traversa al fondo di corso Vercelli; appena superato il ponte sulla Stura in direzione autostrada, c’è un semaforo e sulla sinistra inizia la via, con una ripida discesa che finisce in una curva secca che si infila in un sottopasso sotto la ferrovia. Questa è una caratteristica molto importante, perché quello stretto sottopasso è l’unico accesso da Torino a tutta l’area, che risulta così praticamente chiusa e abbandonata a se stessa, anche se la strada, dopo il lungo rettilineo della baraccopoli, diviso in due dal ponte della superstrada per Caselle, gira poi verso nord e raggiunge il Molino del Villaretto. Qui sotto vedete l’area su Google Maps, secondo cui (non l’ho aggiunto io con Photoshop!) il nome ufficiale del quartiere da indicare sulla mappa è Baraccopoli di via Germagnano.

In via Germagnano – a parte alcuni bassi palazzi all’angolo di corso Vercelli – ci sono solo tre cose: nomadi, cani e immondizia. Per farvi capire, ho preso la foto dal satellite e ho evidenziato le diverse zone attorno al rettilineo della via, che scorre da sinistra a destra inclinata verso il basso (corso Vercelli è nell’angolo in basso a destra).

Nella zona, storicamente agricola, la prima ad arrivare fu l’immondizia: già nel dopoguerra si cominciò ad accumularla lungo la Stura, in un’area oltre la fine della via, e poi, dagli anni ’80, in un’altra enorme area subito a nord, tra la vecchia discarica e la tangenziale: la famosa discarica Basse di Stura, chiusa nel 2009. Le discariche sono fuori da questa visuale, ma in verde chiaro vedete evidenziata l’area occupata dagli uffici e dagli impianti dell’Amiat, nonché dal centro sportivo antistante.

Dopodiché, arrivarono i canili. Già, perché in via Germagnano ci sono ben tre canili, indicati in giallo; quello identificato col numero 1 (nella foto qui sotto) è di proprietà del Comune, che lo utilizza come canile sanitario, ovvero per il ricovero di animali malati o aggressivi e dunque bisognosi di cure mediche e difficilmente adottabili. Il numero 2 è della Lega Difesa del Cane, mentre il numero 3 è quello dell’ENPA; entrambi sono privati, usati dalle associazioni per le proprie attività.

L’ENPA, in particolare, costruì il canile numero 3 negli anni ’60, in sostituzione del loro precedente canile che fu sfrattato per realizzarci sopra il laghetto di Italia ’61. L’ENPA, essendosi aggiudicata un appalto da quattro milioni di euro in tre anni, gestisce anche per conto del Comune il canile numero 1 e l’altro canile comunale, ossia il canile e gattile rifugio di strada Cuorgné alla Falchera, dove vengono tenuti e/o dati in adozione gli animali smarriti.

Gli ultimi arrivati sono i nomadi, nelle aree indicate in rosso. Nel 2004 venne inaugurato il campo regolare di via Germagnano, quello indicato dalla lettera A; fu creato per ospitare le famiglie sgomberate dal campo di strada dell’Arrivore, che così potè venire chiuso; si trattava di bosniaci che vivevano a Torino sin dagli anni ’70, per cui, tranne gli anziani, sono nati e cresciuti a Torino. Si tratta di un’area con 30 piazzole, ognuna delle quale contiene una o due casette in muratura dotate di tutti gli impianti; purtroppo però, tra incidenti, faide interne al campo e saccheggi, molte sono bruciate e inagibili.

A fianco di questo, sono nati via via altri insediamenti (B, C e D), che a differenza del campo A sono tutti abusivi; si tratta prevalentemente di rom romeni, arrivati qui da alcuni anni. (Qui sotto il campo B, oltre la strada, visto uscendo dal canile comunale in un giorno di pioggia.)

Queste sono baraccopoli vere e proprie, realizzate con mezzi di fortuna; sono costruite sulla terra, che diventa un mare di fango appena piove; sono per gran parte in aree alluvionabili dalla Stura; sono prive di acqua, e l’unico modo per averla è andarsela a prendere con le taniche fino alla fontanella, che sta presso il puntino azzurro sulla mappa.

Se volete avere un’idea delle dinamiche di rom e sinti, vi consiglio di leggere almeno le prime pagine di questa tesi; oltre a raccontare nel dettaglio alcune delle attività per cui le istituzioni stanziano ogni anno centinaia di migliaia di euro, spiega tra le altre cose perché alla fine “zingaro” sia il termine più corretto da usare. Tra i punti importanti da ricordare, il fatto che l’80% degli zingari non vivono nei campi ma in normali abitazioni sparse per la città; quello che gli zingari, pur culturalmente portati a viaggiare, non sono più nomadi da un pezzo, per cui il campo è semplicemente la loro abitazione; quello per cui non vivono nei campi perché gli piace (in Jugoslavia o in Romania generalmente avevano una casa), ma perché lo Stato italiano ha creato i campi nomadi come unica risposta all’immigrazione di zingari dall’Est europeo, e con essi li ha ghettizzati impedendo di distinguere tra buoni e cattivi, e rendendo praticamente impossibile uscirne (se nel campo uno ruba, tutto il campo è di ladri; e chi di noi affiderebbe a uno zingaro del campo una casa o un lavoro?); che gli zingari sono sporchi anche perché provate voi a vivere in una baracca nel fango senza acqua corrente e a rimanere sempre puliti.

Sia il campo ufficiale che quelli abusivi sono pieni di immondizia in ogni dove, così come la strada stessa. Questo è legato al fatto che gli zingari, se non vivono di elemosina o di furti, vivono di una economia dell’immondizia: recuperano tutto quello che possono – in origine metalli, dato che quella del fabbro è una delle loro professioni secolari, ma oggi qualsiasi cosa – e lo rivendono o riciclano per quanto possibile, o lo usano per realizzare le proprie abitazioni.

Il resto, però, viene abbandonato dove capita; e se è vero che generalmente non hanno a disposizione i cassonetti, è anche vero che anche quando vengono messi vengono in gran parte ignorati. Si creano così aree miste, dove ci sono baracche, panni stesi, distese di immondizia e anche i luoghi predisposti per i roghi con cui si cerca di liberarsi di un po’ dei rifiuti, ma anche di liberare dalla plastica i metalli recuperati o rubati (foto dal campo D).

I campi, comunque, sono relativamente stabili; il turn-over è limitato e legato all’approvazione delle famiglie “capo” del campo. Anche il livello di baraccamento è vario; ci sono baracche poverissime e cadenti, ma anche casette relativamente solide e comode, col generatore per la corrente elettrica che alimenta il televisore, e magari un’auto nuova o un camper costoso a fianco. Generalizzare è l’ultima cosa che si dovrebbe fare; bisognerebbe conoscere ogni famiglia, distinguere chi vive onestamente da chi non lo fa, capire quali sistemazioni sono possibili (i guai spesso iniziano da gruppi di origine diversa che si trovano troppo vicini).

I problemi di convivenza tra gli zingari e gli altri sono molteplici. Nella prima parte della via, il problema principale è la vicinanza del canile privato dell’ENPA (numero 3) col campo regolare (A). Come vedete dalla mappa, per accedere al canile è necessario percorrere una stretta strada sterrata, chiusa tra il campo e il terrapieno della ferrovia; su questa strada si apre uno degli ingressi laterali del campo ufficiale, che è recintato.

Purtroppo, lo sport preferito dei ragazzini rom per passare i pomeriggi è il tiro al bersaglio con le pietre, o in alternativa con rottami e immondizia; per cui il Comune ha realizzato una seconda recinzione, che vedete al centro della foto sotto (a sinistra vedete gli edifici comuni, semibruciati, che costituiscono il bordo esterno del campo, e i cassonetti messi a disposizione del campo, con immondizia tutta attorno). La recinzione divide la strada in due; a destra si va al canile, a sinistra all’ingresso laterale del campo, creando così uno spazio cuscinetto. Gli abitanti del campo, tuttavia, hanno progressivamente spinto in avanti la recinzione, riducendo l’accesso al canile a un viottolo impercorribile dai mezzi più grandi, compresi quelli di soccorso.

Sempre per creare un cuscinetto, ENPA è stata costretta ad affittare dal Comune il terreno situato tra il canile e il campo, salvo poi doverci pagare sopra la tassa rifiuti e subire le ordinanze di sgombero dei rifiuti buttati lì dal campo. E poi, c’è il problema dei furti e dei vandalismi, che peraltro si ripetono continuamente da anni. Nessuno può dire con certezza che siano stati fatti da abitanti del campo, ma se vedete la via d’accesso capite che non è facilissimo arrivarci di notte da fuori.

Ora, una possibilità sta nel fatto che il Comune ha ricevuto da un benefattore animalista una eredità di 350.000 euro destinata alla costruzione di un nuovo canile sanitario, probabilmente in strada Cuorgné, abbandonando il vecchio, che, pur anch’esso soggetto a furti e minacce, stando dall’altra parte della strada è decisamente più protetto. Una possibilità dunque è che ENPA vinca il bando per la concessione del canile comunale e abbandoni il suo; tuttavia, abbandonare completamente un edificio di proprietà su cui si sono investiti molti soldi non è né giusto, né indolore. D’altra parte, il Comune non può certo rifondere danni fatti da privati (nemmeno identificati) ad altri privati.

Analoghi problemi di convivenza si verificano dall’altra parte, tra i campi C (nella foto qui sopra) e D e i lavoratori Amiat. Nonostante le discariche siano ormai chiuse, lì lavorano ancora 400 persone, tra la gestione della discarica (che produce tuttora biogas), il call center e la raccolta dei rifiuti di Torino nord, che vengono concentrati lì per essere poi inviati tramite camion all’inceneritore del Gerbido o ai consorzi di riciclaggio.

Gli episodi non si contano: macchine danneggiate da lanci di pietre, addirittura con fionde; aggressioni a lavoratrici che tornano alla macchina, con richieste di soldi e/o sputi a raffica; dipendenti degli uffici intossicati dai fumi dei roghi che entrano dalle finestre; assalti ai camion di rifiuti quando si fermano per la pesa, prima di entrare nell’impianto; furti (in pieno giorno) di materiale riutilizzabile, ad esempio rifiuti elettronici. Anche qui, spesso queste attività sono svolte da bambini e ragazzini, che vivono nel fango allo stato brado.

La presenza di un presidio fisso di vigili dalle 7 alle 20, o nella palazzina Amiat o in giro per la zona, ha un po’ migliorato le cose. Tuttavia, il problema di fondo resta.

Purtroppo, difatti, le baraccopoli esistono e, con la crisi, sono in costante crescita. L’unico modo di evitare le baraccopoli, una volta rimossi quelli che ci vivono non per povertà ma per necessità di un territorio franco per attività criminali, è di sussidiare le persone che ci vivono, cosa che però non è compatibile con la scarsità di fondi per il welfare e soprattutto, specialmente se si parla di zingari, vede contraria tutta la popolazione. Altrimenti, si può fare quello che si sta facendo, ossia cercare di mettere in piedi progetti per mandare i bambini a scuola e aiutare gli adulti a trovare un lavoro e uscire dal campo, cosa che però non risolve immediatamente il problema, né gestisce il continuo arrivo di nuovi ospiti (anche perché i rom si sposano da giovanissimi e fanno molti figli).

Gli sgomberi, tanto richiesti, non risolvono il problema; servono a evitare di avere un campo in un determinato punto, sapendo che le persone rimaste senza baracca andranno a farsene una nuova poco più in là, perché da qualche parte devono pur vivere; e non è possibile pattugliare con l’esercito qualsiasi anfratto di Torino e cintura. E’ giusto sgomberare subito quando nascono nuovi insediamenti, per non far degenerare la situazione, ma sgomberare centinaia di persone in una volta sola, come in teoria si potrebbe fare in via Germagnano, provocherebbe solo la nascita di parecchi nuovi accampamenti in altri punti della città.

(Tra l’altro, gira voce che per gli ultimi sgomberi di lungo Stura Lazio, pur residuali rispetto a tanta gente accomodata volontariamente in altro modo, il Comune sia stato appena denunciato dalle associazioni pro diritti umani dei rom, con tanto di richiesta dei danni materiali per le baracche demolite e di quelli per il trauma psicologico subito dagli sgomberati.)

E allora, sapete che c’è? Che un’area defilata, chiusa e poco visibile, in cui concentrare i poveri, i cani e l’immondizia, fa comodo a tutti. Piano piano, anzi, succederà che andranno via i cani e l’immondizia, e resterà soltanto la baraccopoli, un pezzo di favela brasiliana in una città del nord Italia. A questo proposito aggiungo ancora un’immagine, la foto dall’alto di una zona molto più grande, di cui quella di cui abbiamo parlato finora è solo l’angolino in basso a destra.

Vedete quanto sono enormi le due discariche, che si estendono per chilometri: pensate a quanti rifiuti abbiamo prodotto… Comunque, mentre la discarica Basse di Stura sarà ancora in gestione Amiat per quasi trent’anni, in quanto instabile e fonte di gas, quella più vecchia è ormai stabilizzata ed è diventata un parco, il parco della Marmorina. Erano anche stati spesi dei soldi per realizzare un accesso indipendente per il pubblico, senza dover passare dentro l’Amiat, ma l’accesso è ormai inglobato nel campo D e il parco è inaccessibile.

Vedete però quella zona indicata con E? E’ grande come tutti gli altri campi messi assieme e anche più, si trova tra il parco e le rive della Stura, e dall’alto è già punteggiata di baracche, completamente a rischio alluvione. Una volta erano orti urbani abusivi, ma io non ho idea di chi ci viva adesso e perché. Anche penetrare nel parco chiuso al pubblico non sarà così difficile; per la nostra favela appartata, lontano dagli occhi e dal cuore, lo spazio non mancherà di certo.

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Un commento a “Di nomadi, cani e immondizia”

  1. lucano:

    Una bella relazione sui rom , manca però la conclusione : come fare per evitare il degrado e dare dignità ai nomadi.
    Se ho capito bene cerchi nella rete le idee , ma pare che nessuno ne proponga.

 
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