La mia prima alla Scala
Ieri sono stato a Milano per un motivo ben preciso: nell’entusiasmo prenatalizio, in cui tutti dobbiamo essere più buoni, ho accettato uno scambio che da tempo dovevo fare con la mia consorte. Io sarei andato a sentire l’opera alla Scala, e in cambio lei sarebbe venuta a vedere il Toro all’Olimpico.
Che questo spirito di cooperazione fosse destinato al disastro dovevo capirlo subito, quando ieri mattina sono andato alla biglietteria dello stadio e ho scoperto che per Toro-Udinese la Maratona era già esaurita, facendo saltare la seconda parte dello scambio (si recupererà con l’Empoli dopo le feste).
Tuttavia, ogni promessa è debito e quindi ho onorato la mia parte, accettando di andare nel loggione della Scala – un investimento da ben quindici euro a testa – in occasione della rappresentazione della Giovanna d’Arco di Verdi (il compositore, non il centrocampista ex Milan).
Bene, è stata una scoperta: non pensavo che fosse possibile, ma a quarant’anni ho infine trovato qualcosa che fa abbioccare più dei Gran Premi di Formula 1.
Certamente a ciò ha contribuito il fatto che l’unica cosa che potessi vedere dal posto a me assegnato fosse il lampadario appeso al soffitto del teatro; però va detto che se mi alzavo e mi sporgevo sopra quelli della fila davanti riuscivo a vedere l’angolo sinistro della scena, purtroppo sempre vuoto perché il regista dev’essere un borghese reazionario e ha concentrato sempre tutto sul lato destro.
Comunque, a uso della vostra cultura, vi riassumerò brevemente l’opera in questione.
In pratica, l’intera opera di due ore e mezza ha solo tre personaggi: Carlo re di Francia, Giovanna d’Arco e suo padre. La prima parte è centrata sul fatto che Carlo ci prova con Giovanna, la quale è donzella purissima e affidata alla Vergine (ci sono un sacco di invocazioni di Cristi e Vergini in quest’opera, e dopo un po’ comincerete a invocarli anche voi sperando che facciano finire presto il tutto).
Per questo motivo Giovanna non gliela vuole dare, però a un certo punto pensa che sì, insomma, magari, una trombatina col re non ci starebbe male. Bene, solo per averlo pensato parte una mezz’ora di reprimende da parte del Verdi e del suo librettista Temistocle Solera, con tanto di esibizioni di diavoli e dannati e di disperazione del padre di lei, devastato dal dolore di aver messo al mondo una tale puttana, una che pensa prima o poi pure di fare del sesso, la svergognata. O almeno così credo, visto che Temistocle è uno a cui piace usare tutte le parole difficili del vocabolario e anche alcune inventate apposta per non farsi capire, prendendo di peso parole dal latino e italianizzandole come capita.
Comunque, a questo punto dormivo già da mezz’oretta e mi sono svegliato con le luci dell’intervallo, durante il quale sono spariti metà degli spettatori, a partire dal tizio russo seduto accanto a me che dopo un quarto d’ora dall’avvio dello spettacolo aveva già estratto il cellulare e stava chattando su whatsapp per scambiare foto di stangone russe seminude.
La seconda parte è a dire il vero più interessante, anche musicalmente, tanto è vero che non mi sono più addormentato del tutto.
Comincia col padre che, in ossequio alle nostre tradizioni cristiane, cerca di far ammazzare la figlia per punirla di aver pensato di poter prima o poi perdere la verginità (qui si dimostra come le nostre tradizioni cristiane siano in realtà indistinguibili dalle tradizioni pakistane del burqa). Lei peraltro è d’accordo, e autosvergognandosi desidera solo bere un calice di amaro Averno.
In qualche modo Giovanna finisce sul meritato rogo, ma lì, straziata dal senso di colpa e anche un po’ dall’incipiente profumo di arrosto, si prostra in penitenza nel tormento e giura al padre che mai più concepirà di utilizzare la sua vagina, anzi, piuttosto se la sigilla col Bostik.
A questo punto, ripristinata la moralità cristiana, parte una radiocronaca cantata (costava meno che mettere in scena una battaglia) che ci spiega che Giovanna viene liberata, sbaraglia gli inglesi e poi muore, perché comunque lei ci aveva pensato, al sesso, e quindi va bene redimersi ma neanche il Bostik può rimettere insieme la moralità di una donna. Però la Francia è salva e quindi chi se ne frega di Giovanna, son tutti contenti e l’opera finisce.
Ora, come può reagire una persona normale che al giorno d’oggi si trovi di fronte a questa overdose di Dio, Patria e Famiglia, e a un’opera che, secondo Wikipedia, lo storico critico verdiano Carlo Gatti definì pacatamente “un cumulo d’incongruenze e un’offesa continua al buon gusto artistico e alla verità storica”?
Beh, uno può dormire, oppure può sperare che le continue invocazioni “Oh Franchi!” presenti nel libretto preludano all’ingresso in scena perlomeno di Franco Franchi o di Pippo Franco o di qualche altro Franco che salvi un po’ la serata, oppure può chiedersi se, invece di investire una montagna di soldi in questo evento, non potessero semplicemente mettere regista e direttore di fronte a una replica di 16 anni e incinta su MTV, che sostanzialmente è la stessa cosa ma in cinque minuti anziché due ore e mezza, e senza tanti gorgheggi e marcette di ottoni in stile Oktoberfest.
L’importante è solo non farsi trascinare invece dall’entusiasmo, perché se vi piace questa roba finirete per auspicare il ritorno dello Stato Pontificio e pure quello dei Savoia, e non solo a Ballando sotto le stelle.
Però ok, i cantanti erano bravi!