Una giornata in Grecia
Gli economisti discutono senza frutto da decenni su quali siano i parametri giusti per misurare il livello di sviluppo delle nazioni del mondo. Eppure, quando si arriva per la prima volta in un nuovo Paese, bastano poche ore, talvolta pochi minuti, per capire al volo in che tipo di progresso si è capitati; basta uscire dall’aeroporto e guardare le auto che circolano, la pulizia delle strade, i materiali utilizzati, e si ha subito una sensazione a pelle.
Se poi, come è successo a me oggi per la Grecia (a dire il vero è la seconda volta che ci vengo, ero già stato dieci anni fa ad Atene, ma dopo tutto questo tempo la sensazione si resetta), ci si capita anche in una giornata grigia di inizio febbraio, nonché di sciopero generale, si conclude immediatamente di essere finiti in un posto non lontano da noi, anzi piuttosto simile per geni e per cultura; ma inevitabilmente indietro nel tempo.
E così stamattina, osservando le persone sull’autobus che mi portava in centro a Salonicco, e poi osservando i palazzi, le insegne, le strade, ho riprovato la stessa sensazione che già mi era capitata al primo impatto con l’America Latina, nel 2001 a Montevideo: quella di essere più o meno in Italia, ma nell’Italia di quarant’anni fa.
“Benvenuto nel 1976”, mi diceva il cervello, osservando come su un pullman carico di gente fossi l’unico che picchiettava su uno smartphone, in mezzo ad anziani vestiti con giacche di velluto e a studenti universitari diversi dei quali, in compenso, portavano sottobraccio un giornale di carta (un giornale di carta!!).
Peggio ancora è andata quando nel mio giro ho cominciato a incrociare le manifestazioni. All’inizio son partito dai musei; quello bizantino, piuttosto carino, era aperto e illuminato e pieno di dipendenti, che però, regolarmente seduti al bancone d’ingresso, non facevano entrare nessuno: aperghìa. Quello archeologico, che contiene meraviglie ma è contenuto in un orripilante fabbricato anni ’50, era proprio sbarrato: aperghìa persino le serrande.
Poi sono arrivato all’Arco di Galerio, che ho scoperto essere il ritrovo degli universitari: ecco, lì gli anni ’70 strabordavano. In mezzo a palazzoni in stile Bucarest, sotto questo impressionante arco romano di mattoni ancora in parte coperti da fregi e bassorilievi di marmo, stavano un duecento studenti, tutti coi cappottoni e con cartelli di protesta rigorosamente scritti a mano (gli striscioni stampati qui sono ancora una tecnologia di punta).
Avevano delle casse che emettevano canti di protesta di quelli che possono stare solo su un vinile, che già la cassetta è troppo modernamente capitalista; quei canti strazianti di quando esistevano ancora le fabbriche, gli operai, i padroni (quelli con una faccia ed un nome, non quelli con un ISIN e un ticker), quelle robe pesanti come un loden che parlavano dei compagni dai campi e dalle officine che giravano con falci e martelli d’ordinanza. Quelle robe che c’è una chitarra acustica che suona, e poi se non parte il flauto (ok, Inti Illimani) parte comunque una tizia che cerca di imitare Joan Baez (chi avesse meno di quarant’anni per favore prenda Wikipedia per sapere di chi sto parlando).
Insomma, nel campionato della ricchezza delle nazioni la Grecia certamente non sta in serie A con Germania e Inghilterra, e non sta nemmeno in serie B con Italia e Spagna; si gioca una onorevole Lega Pro con la Turchia e il Nord Africa, e pure lì rischia di retrocedere, perché comunque il dinamismo che ho visto a Istanbul non l’ho visto da queste parti, pur considerando l’enorme diversità di dimensione; là in questi dieci anni hanno fatto diverse linee di metro e il tunnel sotto il Bosforo, qui hanno la prima linea di metropolitana in costruzione dal pleistocene, coi cantieri aperti da tempo immemore sul corso principale.
La situazione peraltro è resa ancora più paradossale dal fatto che qui la sinistra-sinistra ha davvero preso il potere, da sola, senza compromessi con il centro; e ora è lei il bersaglio di tutte queste proteste, avendo dimostrato di non potere o non volere fare niente di diverso. A forza di paradossi, la Grecia dimostra la futilità della resistenza all’eurocapitalismo; tutti protestano, ma non si sa nemmeno bene contro chi, perché il popolo ha già rovesciato i cattivi e corrotti governanti di prima mettendo al loro posto chi li aveva combattuti in nome della gente, e non è cambiato proprio niente, anzi le cose sono ancora peggiorate; perché chi comanda davvero non sta nemmeno più in Grecia, non sono nemmeno più i ricchi greci, che pure certamente ancora esistono, e non si sa nemmeno più chi sia.
Ma scendere in piazza quando l’economia è già tutta in mano straniera, quando il governo prende ordini dall’estero altrimenti il Paese resta senza soldi e senza mezzi di sussistenza, è totalmente inutile; è troppo tardi, serve solo a sfogare la rabbia, e solo per un momento; è un beccarsi tra capponi che, già castrati da un pezzo, restano tutti saldamente nelle mani di chi li sta portando al definitivo massacro. Però non so che ve lo dico a fare, tanto in Italia nessuno si sta più preoccupando di non finire come la Grecia, dato che il problema fondamentale e definitivo per il futuro del Paese, quello su cui tutte le forze politiche si concentrano e lottano duramente in un senso o nell’altro, è se un omosessuale possa o meno adottare il figlio biologico del proprio compagno.
Comunque, non vorrei che il mio racconto risultasse troppo drammatico. Per essere un giorno di sciopero generale, è stato molto ordinato; nonostante le mie paure di rimanere a piedi, sono riuscito lo stesso a prendere il pullman per visitare la città (il datore di lavoro della mia compagna, organizzatore del viaggio, ci ha comodamente sistemati in un ameno sobborgo collinare a dieci chilometri dal centro); a differenza che da noi, quando c’è sciopero tutto il giorno viene garantita dall’alba alla sera una corsa all’ora su ogni linea, per cui basta presentarsi alla fermata al momento giusto; c’è addirittura l’app che ti mostra in tempo reale la posizione dei mezzi sulla linea.
Lo sciopero ha avuto un’adesione generale; qui non è che ogni categoria vada per i fatti propri, ma chiude tutto insieme; dipendenti pubblici e privati, negozi, benzinai, musei, tutto o quasi tutto chiuso. Tuttavia, in centro c’era anche parecchia gente che faceva come nulla fosse, affollando i caffé rimasti aperti; ci sono tuttora ampi strati sociali che non sono affatto alla fame, che vivono più che bene, in un Paese comunque ospitale e più organizzato di quel che si potrebbe pensare. Girando per i quartieri alti di Salonicco si trovano catapecchie, ruderi, capanne che sembrano quasi di fango; ma si trovano anche, proprio a fianco, tante casette appena ristrutturate e ridipinte, spesso con un Mercedes parcheggiato davanti.
Ieri siamo stati in un ristorante piuttosto raffinato vicino all’albergo, dove per 25 euro a testa abbiamo ottimamente cenato con pesce; oggi in città ho mangiato souvlaki (spiedo), non il gyros (il gyros sarebbe il kebab ma non ditelo ai greci, sono convinti che il gyros sia un fantastico piatto greco mentre il kebab sia una schifezza di quei porci dei turchi(*) ) ma uno spiedino di maiale vero e proprio, marinato in origano e peperoncino e accompagnato da cipolla cruda che reagendo con la marinatura mi ha regalato un bruciore muriatico nella gola e anche nel naso, però veramente ottimo.
Resta, però, l’impressione di una società che farà molta fatica a rimanere agganciata a quelle più avanzate, evolvendo se mai verso il Sudamerica, verso società non totalmente povere ma molto più diseguali di quelle europee; una società che in gran parte un po’ si incazza e agita i pugni nell’aria e poi però si rassegna, si affloscia a guardare il vuoto su uno spartitraffico come i tanti cani randagi senza più un padrone che affollano questa città . E’ solo l’impressione di un giorno, ma forse è vivida perché anche noi italiani ci possiamo ritrovare in essa; con la sgradevole sensazione che probabilmente saremo noi i prossimi.
(*) Su un muro di una casa stava scritto “PAOK 4 – Tourkòi bastardòi”, ma purtroppo non parlo il greco, non ho idea di cosa voglia dire…