Il ragazzo e l’airone
Essendo notoriamente un cultore di Miyazaki, sono andato subito a vedere Il ragazzo e l’airone. Per quel che valgono, vi lascio le mie prime impressioni, incoraggiandovi comunque ad andarlo a vedere.
***ATTENZIONE CONTIENE SPOILER***
Cominciamo da questo: alla fine della prima metà , quando appare l’isola dei morti, ero entusiasta. Ho pensato: caspita, mi aspettavo un film di maniera e invece il maestro è riuscito ad andare ancora oltre, sia come estetica che come racconto. Il concetto è interessante, con richiami occidentali espliciti (ok Alice, ma qualcuno vuole sette nane?). Il disegno è ovviamente nel suo stile, ma già dopo trenta secondi vedi la corsa nell’incendio e capisci che ha trovato ancora qualcosa di nuovo e bellissimo.
La costruzione del protagonista e della storia prende il suo tempo; certo non è un film a ritmo di TikTok. Però, funziona: l’ambientazione rurale è magica e il dolore di Mahito è sincero. Soprattutto, il rapporto con la natura non è scontato: sono sicuro che siamo tutti entrati in sala aspettandoci scene d’amore interspecie tra il ragazzo e l’airone, tipo “salta, Willy, salta!”, e invece… no. È come se il maestro si fosse rotto di sentirsi dire che è un gran pittore delle meraviglie della natura e avesse voluto sovvertire il suo stesso trope.
E però, la seconda parte secondo me è un pasticcio, di sceneggiatura soprattutto. Già subito, lui ritrova quella che è evidentemente la madre e nessuno sembra farne cenno o anche solo intuirlo, salvo che poi alla fine lei dice “Luke, cioè, Mahito, sono tua madre”; e a un certo punto invece lui comincia a chiamare mamma la zia, d’amblé, e si dice che così lui potrà tornare nel mondo come figlio della zia, però alla fine boh, non succede. E poi, i pellicani: ma che senso hanno? Appaiono dal nulla, c’è una scena drammatica improvvisa che ci dice che non sono cattivi come sembrano, poi spariscono di nuovo per quasi un’ora, poi riappaiono nell’ultima scena. Eh?
E poi, improvvisamente appare la popolazione dei pappagallini carnivori, certamente carinissima e funzionale alle classiche scene di massa miyazakiane, ma anche lì, non particolarmente motivata. Andrebbe tutto bene se non fosse che a cinque minuti dalla fine, dal nulla, senza preavviso, si scopre che i pappagalli hanno un re cattivissimo che viene letteralmente imbucato nella scena finale, ma tipo seguendo i protagonisti alle spalle a un metro di distanza per mezz’ora senza che loro mai se ne accorgano, solo per provocare la catarsi finale con la distruzione di tutto e l’apparizione di un gigantesco cervo ah no scusa quello è Mononoke. Insomma, un classico deus ex machina che però, ecco, nelle sceneggiature moderne non si fa così, insomma.
Infine: sappiamo che non sempre nei film di Miyazaki l’importante è la premessa drammaturgica, o “il messaggio” che dir si voglia. Però, ecco, se qualcuno ha capito cosa ci vuol dire il maestro, me lo può spiegare? Alla fine, con la scusa del cattivo, salta fuori qualcosa tipo “siamo noi che con i nostri comportamenti decidiamo se il mondo è bello o brutto”, ma mi sembra banalotto. Mereghetti sostiene che sia un messaggio su come l’equilibrio della natura è entrato in crisi partorendo mostri che ci aggrediscono, e potrebbe anche essere, se non fosse che i mostri sono nel mondo interiore e non in quello esterno; comunque, pure questa non è proprio una breaking news.
Morale: resta lo stesso un bel film, sia da guardare che da seguire; è possibile che a una seconda visione mi entri più nel profondo; però, credo che resterò più affezionato a Mononoke, a Cagliostro, a Si alza il vento, insomma ad altre pietre miliari della carriera di quello che resta il più grande regista giapponese di animazione della storia.