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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


lunedì 30 Marzo 2009, 23:03

Arte in lontananza

New York, a visitarla, inganna. E lo fa per un motivo molto semplice: noi siamo abituati a giudicare la distanza degli edifici in base a quanto essi svettano rispetto al terreno; più gli edifici sono vicini, e più la porzione di cielo che essi occupano verticalmente è elevata. Quello che il nostro occhio può vedere, tuttavia – specie quando gli edifici non sono immediatamente davanti a noi, ma vi sono alberi o edifici più bassi in mezzo – è soltanto l’angolazione con cui la cima dell’edificio si staglia rispetto all’orizzonte; per poter calcolare la distanza è necessario conoscere anche l’altezza dell’edificio, poiché a parità di angolo la distanza è proporzionale all’altezza stessa.

Il nostro cervello fa questi calcoli alla buona, utilizzando la propria esperienza; per questo, ipotizza che gli edifici “alti” abbiano l’altezza che hanno abitualmente nel proprio ambiente – a Torino, una decina di piani. Se improvvisamente venite trasportati in un luogo dove gli edifici “alti” sono mediamente dieci volte più alti, il risultato sarà che tutti i vostri istintivi calcoli di distanza (e quindi di tempo) relativi a quanto ci vuole per raggiungere “quel palazzo laggiù” saranno sottostimati mediamente di un fattore dieci. E quindi, pensare “ma sì, quelli sono gli edifici al fondo di Central Park, non sono tanto lontani: andiamo a piedi” è un errore mortale.

Io ero già incappato in questo errore cinque anni fa, in particolare con il Chrsyler Building, che essendo uno dei grattacieli più a sud di tutta Midtown vi attirerà come una sirena, sembrandovi ingannevolmente vicino ogni volta che sarete in Downtown. Oggi però la camminata per Central Park era talmente piacevole che mi sono fatto ingannare volentieri: e così abbiamo percorso tutto il parco due volte per praticamente tutta la sua lunghezza, che però è di quasi cinque chilometri in linea d’aria, e ovviamente di più se seguite i tortuosi vialetti all’interno.

Il piano era, sulla strada del ritorno, di fermarsi a visitare prima il Guggenheim (che si trova sulla Quinta Avenue di fronte al parco, circa a metà), e poi il MoMA (che è nella parte nord di Midtown, a pochi isolati dall’albergo). E così abbiamo fatto; eppure, partiti dall’albergo alle dieci e camminando di buona lena, siamo ritornati alle cinque e mezza avendo visto il MoMA piuttosto di corsa.

Ed è stato un peccato: infatti il Guggenheim è un pacco pazzesco. E’ vero, l’edificio è meraviglioso e la collezione Thannhauser contiene una manciata di bellissimi Picasso, Monet e Van Gogh; la collezione di arte contemporanea però è deprimente, a meno che voi non siate di quelli che pensano che Pasto Nudo sia un libro, Yoko Ono sia un’artista e un quadro nero su sfondo nero sia una forma d’arte sublime. Qualcosa si salvava, ma il resto era soprattutto una collezione dell’orrida arte concettuale o performante degli anni ’60, quando ogni peto era peto d’artista purché fosse certificato da un gallerista.

Il MoMA, in compenso, è pieno di opere davvero belle: e ciò include anche l’arte contemporanea dello stesso periodo, scelta però evidentemente con un criterio diverso. D’accordo, non sono sicuro che abbia senso vedere i quadrati di Mondrian dal vivo, ma il museo era pieno (oltre che dei soliti impressionisti francesi: pare che i loro quadri siano stati comprati tutti in massa da americani) di bellissimi quadri di praticamente qualsiasi maestro del Novecento europeo e americano, tra cui una intera stanza dei nostri futuristi (oltre a De Chirico e Pistoletto), e poi due bellissime esposizioni di fotografie, e la parte di design (e qui ad essere italiana era metà della collezione).

Purtroppo, però, la stanchezza derivante dalla lunga camminata e dall’indigestione di quadri aveva già avuto effetto, e così la parte conclusiva della visita si è trasformata in un blobbone di forme, colori e concetti tendente al delirio: l’arte ha preso vita e ha cominciato ad accerchiarmi cercando di abbattermi, o perlomeno di farmi vomitare l’hot-dog preso al baracchino per pranzo. Ho capito che la fine era vicina quando, osservando l’ennesima statua di Calder in mezzo al gelo ventoso del giardino scultoreo all’aperto, ho pensato “più che altro mi pare di Fredder”. Domani quindi promesso: niente più arte.

[tags]viaggi, stati uniti, new york, musei, arte contemporanea, guggenheim, moma[/tags]

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venerdì 27 Marzo 2009, 23:56

Hamburger

Venendo negli Stati Uniti – e intendo proprio Stati Uniti, mica la California rifatta e salutista – non si può non andare a mangiare dei veri hamburger; che sono tutt’altra cosa dal cartone scongelato e pressato che viene servito nei nostri McDonald’s o nei nostri supermercati. Io non vi consiglio la pizza prosciutto e ananas surgelata che vendono nei negozi di qui, ma proprio per questo posso dire che un hamburger serio come quello che ho mangiato stasera, cioè alto due centimetri, fatto alla griglia in modo che sia bruciato fuori e rosa dentro, e coperto di formaggio fuso e di bacon, ha un suo perché; e ora scusatemi, vado a bere l’idraulico liquido per digerire.

Proprio come hamburger sono le stampe di Shepard Fairey, il cui nome vi sarà sicuramente sconosciuto, ma che è l’artista che ha realizzato il poster colorato di Obama intitolato “HOPE” che ha contribuito a fargli vincere le elezioni, e che abbiamo visto in mostra a una personale all’Institute for Contemporary Art. In realtà, a impressionare è tutto il lavoro svolto dall’artista in vent’anni, basato sul prendere immagini e forme tipiche della propaganda politica per poi rovesciarle verso il nonsenso e la critica radicale al sistema e diffonderle tramite guerrilla marketing, a partire da adesivi, murales e file scaricabili da Internet. Come ogni volta in cui si prendono archetipi familiari e li si altera in modo sottile, il fruitore medio rimane completamente spiazzato; pensa che sia una pubblicità per non si capisce cosa, o una campagna sovversiva dell’ordine costituito (questa seconda cosa è già più vera). Il tutto viene poi centrato in modo ossessivo (proprio come una campagna pubblicitaria) sullo slogan “OBEY” e sulla figura di André The Giant, mitico wrestler degli anni ’80. Non si sa se il risultato sia arte, pubblicità, politica, sovversione o mero sfruttamento commerciale di finta arte e finta sovversione, ma di certo è qualcosa che fa pensare.

Pensando, comunque, abbiamo attraversato qualche strada (impresa non facile: qui i semafori pedonali sono totalmente disattesi non dalle auto ma dai pedoni, che si buttano tranquillamente col rosso in mezzo alle auto che sfrecciano; nemmeno al Cairo ho visto queste scene) e siamo andati a mangiare hamburger; e ora andiamo a dormire, che domani lasciamo Boston.

[tags]viaggi, stati uniti, boston, hamburger, shepard fairey, obama, arte contemporanea, traffico[/tags]

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giovedì 26 Marzo 2009, 23:43

Politecnici

Stamattina, avendo un paio d’ore libere, ho deciso di andare a visitare il Poli di Boston; ed è stato molto interessante.

Per certi versi è molto simile al nostro: anche loro hanno un corridoio lungo, ma non è lungo quanto il nostro e soprattutto è molto più stretto; però è orientato in modo che due volte l’anno il sole lo attraversi per intero, in modo da eccitare tutti i giovani ingegneri radunati in fondo. E anche i loro corridoi sono pieni di bacheche tappezzate di bigliettini con annunci di vario genere.

Però noi non abbiamo un edificio di Frank Gehry come sede di ingegneria informatica (con dentro gli uffici di Chomsky e di Stallman), né un centro sportivo con tanto di palestra e piscina olimpionica, per non parlare di un teatro interno e di undici dormitori per gli studenti all’interno del campus, di cui uno di Alvar Aalto (ma anche questo a me piace molto).

Andrò controcorrente, ma a me è sembrato che, fatte le debite proporzioni, il Politecnico di Torino non sfiguri poi così tanto rispetto a quello di Boston – anche se bisogna ammettere che non può competere col leggendario Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, MIT italiano fondato dalla Moratti in pompa magna quattro anni fa e che ha già rivoluzionato il mondo della scienza.

Comunque, è vero che il concetto di campus aiuta tantissimo, sia per attirare i migliori studenti da mezzo continente, sia per creare un senso di attaccamento e condivisione di un progetto: mi ha molto colpito come la guida laureanda volontaria del nostro tour (principalmente rivolto agli aspiranti studenti del prossimo anno, ma aperto anche ai turisti) continuasse a parlare dell’istituzione come “we”: “we moved into this campus in 1916”. E’ tutta un’altra idea di istruzione superiore, rispetto ai nostri esamifici dove volendo ci si può presentare tre volte l’anno per dare l’esame, restando iscritti per decenni, e non partecipando ad alcuna “vita culturale” dell’istituzione.

Nell’oretta e mezza spesa a girare per il campus mi è successo quel che già era accaduto visitando il complesso di Google a Mountain View: c’è nell’aria un senso di eccitazione, di eccellenza, di scoperta, di possibilità sconosciute da trasformare in realtà, che stimola la mente invece di legarla. E’ triste da dire, ma, in un mondo dove talento e conoscenza sono le merci più preziose e dove l’interconnessione globale elimina le distanze, c’è un premio naturale per l’aggregazione delle idee nel punto della rete dove esse vengono meglio sfruttate e ricompensate: e chiaramente non è l’Italia. Per dirla più prosaicamente, la giornata di oggi – nonché le chiacchiere di questi giorni con la nutrita colonia di emigranti sabaudi di alto livello che si è installata a Harvard e dintorni – ha riportato alla luce l’inevitabile domanda: “ma cosa cavolo ci sto a fare, io, ancora in Italia?”

[tags]viaggi, stati uniti, boston, università, emigrazione, ingegneria, architettura, politecnico, torino, mit, harvard[/tags]

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lunedì 23 Marzo 2009, 03:38

Nuovo cinema Lufthansa (3)

Ci sarebbero molte cose da raccontare su questo viaggio a Boston: per esempio, com’è che siamo invece finiti a New York, in un albergo (peraltro piuttosto carino) dove un divano appena un po’ allargato viene spacciato per un letto matrimoniale; e a cenare da un coreano troppo impegnato a scacciare gli ubriaconi a fucilate, un po’ come Apu nei Simpson.

E invece, siccome sono stanco ed è tardissimo in qualsiasi sistema orario, mi limito a segnalare che in volo ci hanno deliziato con Australia, che non avevo ancora visto. Non è completamente da buttar via, soprattutto se si scopre il gioco, peraltro abbastanza esplicito, che è quello di rifare un film anni ’40 con sessant’anni di ritardo. Interpretato in quel senso – cioè partendo dall’idea di andare a vedere una specie di Via col vento – Australia diventa un polpettone quasi accettabile, anche se viene costantemente schiacciato da tonnellate di antica retorica cinematografica e politicamente corretta. Si salva un po’ di più la seconda parte, quella della guerra, e secondo me Hugh Jackman è un buon attore, ma molto del film si regge sulla performance del chirurgo plastico di Nicole Kidman.

E’ stato così davvero rinfrescante vedere subito dopo The Rocker, una allegra commedia rocchettara su un quarantenne che, con vent’anni di ritardo, ha finalmente l’occasione giusta per roccheggiare. E sì, si vede pure Rock Band. Ma soprattutto, finalmente un film con un messaggio sensato: ave al glam rock degli anni ’80, e più in generale a quella meravigliosa esperienza che è fare del rock per locali con un gruppo di amici.

P.S. Giusto per non dimenticare, Watchmen merda.

[tags]cinema, recensioni, lufthansa, australia, jackman, kidman, the rocker, rock’n’roll!!!!![/tags]

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giovedì 19 Marzo 2009, 23:59

Watchmen

Stasera avevo proprio voglia di staccare e uscire; e così, all’ultimo momento, mi sono unito a una combriccola di amici che andavano al cinema a vedere Watchmen.

Premetto che il film è tratto da un fumetto americano di supereroi, e che quelli che l’hanno letto dicono che sia molto bello; presumo quindi che per queste persone il film possa essere visto sotto tutta un’altra luce. Io, però, sono andato completamente impreparato e il risultato è stato tremendo.

Cinematograficamente parlando, il film è orrendo; gli sarebbe giovato aggiungere alcuni elementi trascurabili come degli attori, degli sceneggiatori e un regista. Lo spettatore è costretto a destreggiarsi attraverso due ore e quarantacinque minuti di recitazione monocorde, dialoghi improbabili, trama incomprensibile e pestaggi a schema base (un colpo a destra, uno a sinistra, uno in alto e uno in basso, quindi ripetere all’infinito), per arrivare nel finale a un paio di colpi di scena uno più insostenibile dell’altro, mescolati a banalità buoniste sui destini dell’umanità. Nel frattempo, per far passare il tempo, il regista si dedica a tutti i trucchi di chi non sa come far scorrere un film, inclusi flashback a cazzetto (alcuni ripetuti almeno tre o quattro volte) e momenti videoclip (per esempio quattro minuti di The sound of silence con sotto un funerale, ovviamente sotto una pioggia battente e ovviamente con l’effetto speciale delle gocce di pioggia che cadono viste dall’alto; credevo fosse impossibile superare l’inutilità del momento videoclip che sta a metà di Matrix II, e invece qui ci potremmo essere riusciti).

E così, vi troverete in mezzo a tre ore pallosissime che vorreste aver speso altrimenti; ma il peggio non è nemmeno questo. Il peggio è che il film è intriso di violenza completamente gratuita: e non parliamo solo di laghi di sangue ovunque, ma di una bambina di sei anni data in pasto ai cani, con tanto di gamba penzolante dalla bocca dei cani stessi; di un tizio a cui vengono tagliate le mani con la sega elettrica; di numerose scene di uomini sbrindellati, spiaccicati sul soffitto, esplosi dall’interno, ammazzati o torturati dai “supereroi”, spesso per puro divertimento; di una donna incinta ammazzata a pistolettate nel pancione dal suo uomo così perché non rompesse le scatole; di un pestaggio su una donna, fino a tumefarle il volto, seguito da stupro mostrato piuttosto in dettaglio; insomma di decine e decine di scene di questo genere. Il tutto davvero senza alcun motivo plausibile – la storia avrebbe funzionato perfettamente anche senza mostrare tutto questo sangue, e quanto al messaggio del film, comunque non ce n’è nessuno – se non quello di permettere al regista di cercare di coprire la sua totale mediocrità riempiendo il suo nulla di effettacci.

La cosa terrificante è il fatto che nessun altro in sala (è la prima settimana quindi grande affluenza: circa dodici persone su 750 posti nella sala 1 dell’Ideal) sembrava minimamente turbato da questo spettacolo, anzi ci sono state due o tre persone che hanno ridacchiato alla scena di uno ammazzato immergendogli la faccia nell’olio bollente e poi lasciandolo lì a soffrire tra atroci tormenti mostrati fin nel minimo particolare, e mi chiedo quanto devi essere nerd per ridere di una cosa del genere invece di provare disgusto.

Insomma, Watchmen è il miglior argomento a favore della censura che abbia sentito da vent’anni a questa parte, nonché una prova tangibile del degrado della civiltà occidentale; persino io sono uscito con un desiderio impellente di prendere la tessera del Moige, e dispiacendomi di non aver vomitato sul pavimento del cinema (cosa che mi è visceralmente venuto di fare a più riprese) lasciando poi accuratamente il vomito lì e anzi spargendone anche un po’ sullo schermo.

Credo che il regista Zack Snyder dovrebbe essere costretto non solo a rivedere questa immondizia all’infinito, ma a dare sua figlia in pasto ai cani dopo averle tagliato le mani con una sega elettrica, così poi vedremmo cosa ne pensa veramente. Per fortuna non ho ancora visto il DVD del suo film precedente, 300, che mi regalarono con la Playstation: da oggi ho un sottobicchiere in più.

[tags]cinema, recensioni, watchmen, snyder, 300, censura, immondizia[/tags]

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venerdì 27 Febbraio 2009, 05:07

Arrivo in Messico

La prima cosa che ho scoperto del Messico è che lontanissimo. Lo so che non ci crederete ma, causa curvatura terrestre, è stato il volo più lungo che abbia fatto (dodici ore pulite da decollo ad atterraggio) ad esclusione del viaggio in Nuova Zelanda: persino la California, persino il Giappone, persino il Sudafrica sono più vicini… o almeno mi sono sembrati tali.

Il volo è stato un po’ così: non fanno più i film di una volta, e mi sono toccati una inesistente commedia al femminile con Meg Ryan (sì, è ancora viva) e un improbabile film di spionaggio con Rosario Dawson e Billy Bob Thornton (il protagonista era tal… aspe’ che me lo sono scritto… Shia LaBoeuf: vabbe’ che negli Stati Uniti qualsiasi stringa di caratteri è legale come nome o come cognome, ma questo si posiziona ben in alto nelle classifiche dei nomi assurdi).

Però il viaggio mi si è riscattato quando, nei venti minuti di coda all’immigrazione messicana, mi sono trovato dietro a due coppie di una certa età che, dall’accento, venivano da qualche parte tra Brescia e Verona. Quando il poliziotto messicano ha fatto tagliare la coda a una mamma con un bambino di sei mesi (persino in Messico ci arrivano…), loro hanno esordito commentando con garbo “uè, i soliti culattoni”; poi i due signori hanno cominciato a far casino perché secondo loro quelli in cima alla fila non erano abbastanza veloci nell’avvicinarsi agli sportelli man mano che si liberavano: e giù di “impedito!”, “deficiente!”, “baluba!” a voce altissima verso gente di tutte le nazionalità. Quindi se la sono presa con due ragazzi tedeschi che non avevano compilato i moduli sul volo, e appena possibile li hanno superati nella fila approfittando del loro rallentamento. Naturalmente, arrivati praticamente alla fine, al pre-controllo dei moduli gli hanno fatto notare che (nonostante fosse scritto e spiegato chiaramente sia in spagnolo che in inglese) non avevano compilato tutta la parte bassa dei moduli, e loro che fanno? Si fermano a compilare, ma nel contempo si allargano strategicamente a ventaglio in modo che nessuno possa superarli. Ah, la furbizia lombardo-veneta!

Comunque, ho scoperto ancora una volta che prepararsi vale: la prima regola per non farsi fregare da turista sperduto all’estero è scoprire in anticipo quanto devono costare le cose. Così sono arrivato allo sportello dei taxi prepagati (come si usa in tutto il Sudamerica, per evitare che il tassista possa ricattarti sul prezzo a corsa finita) e ho chiesto il taxi per il centro; e mi hanno chiesto 250 pesos (20 pesos = 1 euro). Io ho fatto tanto d’occhi e ho detto: scusate, mi hanno detto che ne costa 130! La risposta è stata: “Ah, ma lei signore vuole il biglietto singolo perché è da solo, poteva dirlo subito! Allora fanno 152 pesos.” Deciso che la contrattazione era soddisfacente, ho accettato e anzi ho dato pure altri 20 pesos di mancia al povero autista, che era gentile e d’aspetto simpatico.

Certo, ho capito molte cose già solo nel viaggio dall’aeroporto a qui: non solo che il posto forse non è poi così insicuro, visto che – a differenza del Brasile – i vetri del taxi non erano oscurati, l’autista non si è chiuso dentro con la sicura e la strada dall’aeroporto era a livello terra e non sopraelevata per evitare che dalla favela sottostante assaltino le auto dei turisti.

Per esempio, ho intuito che qui il tempo è irrilevante, tanto è vero che io ho lasciato l’aeroporto alle 19:30 ora locale sotto un tabellone luminoso che segnava le 21:13, e poco dopo in strada ne ho incrociato un altro che diceva “6:27”. Insomma, tutto è relativo, e si fa come si può: quando il tassista è arrivato e ha scoperto che per arrivare davanti alla porta dell’albergo doveva fare il giro dell’isolato, non ha avuto voglia: è andato avanti, poi ha messo la retro e ha percorso un centinaio di metri all’indietro a velocità folle perché così faceva prima.

Del resto, è la prima volta che arrivo in un business hotel e non solo non vengo inseguito dai fattorini che vogliono assolutamente portarmi la valigia, ma non trovo nemmeno nessuno alla reception; devi suonare un po’ di volte e poi compare qualcuno. Il collegamento inalambrico funziona, ma ti devono avvertire che nel modulo di login devi scrivere il cognome tutto maiuscolo e il numero di stanza con uno zero davanti, perché aggiungere una riga di codice al programma che lo faccia era faticoso. E poi vai a cena nel centro commerciale sottostante e in un invitante griglieria ci sono tre inservienti lì, ma chiedi se ti possono servire e ti rispondono di no, che in quel momento non hanno voglia di cucinare.

Però al gabbiotto di fianco mi hanno dato tacos del pastor e un misto di carne grigliata e jalapeños tritati con tortillas che era davvero buonissimo, il tutto per tre euro compresa la bibita. La parte culinaria promette bene; e adesso che qui sono le dieci, posso andare finalmente a dormire.

[tags]viaggi, messico, città del messico, cucina, aerei, cinema, nomi, brescia, verona, italiani all’estero[/tags]

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lunedì 9 Febbraio 2009, 17:47

Drogati di audience

È difficile giudicare le persone da lontano, senza conoscerle. Ciò nonostante, la signora Daniela Martani, hostess dell’Alitalia ed ex concorrente del Grande Fratello, è diventata un personaggio degno di commento anche per chi, come me, piuttosto che guardare il Grande Fratello si rivedrebbe persino le infami partite del Toro di quest’annata storta.

Compare oggi infatti un lancio stampa che presenta la sua ultima intervista, rilasciata all’amico Giletti (ok, avere amici di Trivero (BI) è un punto a favore, ma non è sufficiente ad assolverla); esso viene prontamente ripreso da tutti i giornali, visto che di questi giorni non hanno nulla di importante da scrivere.

Bene, ecco cosa dice (o più probabilmente le fa dire il suo ufficio stampa) la signora Martani, con modestia e senso del ridicolo: per prima cosa specifica che “sono nata cantante e attrice”, nonostante, ricordiamolo, fino a tre mesi fa passasse le giornate a chiedere “biscotti o salatini?” sugli scassoni Alitaglia. Alla luce di questo, essendo ormai unanimemente considerato un diritto di tutti vivere senza fare un cazzfacendo il bufl’artista televisivo, ella denuncia a gran voce su tutti i giornali il sopruso operato dalla sua azienda nel chiederle, a fronte dello stipendio che percepisce, di fare anche il relativo lavoro; e, in generale, di non permetterle di regalare alla popolazione italiana ulteriori prove del suo sfavillante talento.

Sempre nel pieno rispetto delle proprie capacità, la signora prosegue criticando il capo dell’azienda per cui lavora, per poi aggiungere però che, se lui la invitasse a cena, lei si degnerebbe di accettare.

Infine, in tre righe, il capolavoro: la Martani afferma che Berlusconi, in questi giorni, ha avuto grande paura di lei. Sissignore: altro che Vaticano, Eluana o decreto sicurezza, Silvio ha passato le giornate a sperare che la signora lo risparmiasse, perché sarebbe bastata una sola parola critica della Daniela a far sì che le masse berlusconizzate si risvegliassero e smettessero di votare per lui (magari…). Sistemato Silvio, ne ha anche per l’altra parte: dice che Veltroni è un debole (e qui persino lei ci arriva) e lo esautora, indicando al PD di fare segretario tal Concita Di Gregorio (non ho idea di chi sia, dunque deduco che siamo giunti alla fase dell’“anche mio cugino sarebbe meglio di Veltroni”).

Naturalmente si può almeno sperare che queste sparate siano calcolate, e siano l’estremo tentativo della signora per non ritornare a chiedere “biscotti o salatini?” sugli scassoni Caìcaì. Ma temo davvero che invece non lo siano, e che ci sia nell’italiano medio qualcosa di profondamente malato: qualcosa che gli fa credere, una volta comparso per più di dieci minuti davanti a una telecamera, di essere ormai per questo diventato dio.

[tags]grande fratello, daniela, alitalia, cai, lavoro, televisione, berlusconi, veltroni[/tags]

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venerdì 30 Gennaio 2009, 22:33

Rottura morale

La signora Sung è il mio nuovo idolo.

Seriamente: non ho ancora capito se questo siparietto in realtà fosse preordinato o meno. Ma l’idea di saltare sul palco, fregandosene di telecamere e contratti, vestita da sciura anni ’50 al mercato, brandendo un immaginario mattarello contro quel povero vecchietto del marito Milingo che cerca di calmarla, per difendere l’idea che far vedere una ballerina seminuda (nella parte precedente di trasmissione) insieme a un monsignore è una mancanza di rispetto alla religione, mi sembra un atto – oltre che di amore – di rottura morale dirompente: altro che Papachannel su Youtube, altro che negazionismi e calcoli politici.

Anzi, correggo l’affermazione iniziale: la signora Sung è il mio nuovo Papa.

[tags]religione, morale, chiambretti, milingo, sung, chiesa, papa, ratzinger, modernità[/tags]

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domenica 25 Gennaio 2009, 14:37

Cose così

Alle volte nella vita succedono combinazioni ben strane.

Per esempio, ieri all’ora di pranzo stavo andando in auto da mia mamma e ho imboccato l’ultimo tratto di via Bardonecchia, verso corso Brunelleschi. Mi sono trovato davanti un blocco: nella chiesa si svolgeva un funerale, e c’era così tanta gente che la massa strabordava e bloccava anche la via. Ho anche bestemmiato un po’, pensando “ma questi non potrebbero starsene sul marciapiede invece di bloccare il traffico”? Poi, tornato a casa, ho scoperto da un forum che era il funerale di uno dei quattro alpinisti morti sul Bianco.

Comunque, ieri ho usato LinkedIn per chiedere una introduzione a un mio conoscente americano, un ex manager di ICANN. Così ho visto il suo profilo, e ho cominciato a leggere per capire cosa avesse fatto dopo aver lasciato ICANN: bene, oltre a lavorare per Al Jazeera, è stato un “field coordinator” per la Universal, cioè un cercatore di luoghi e situazioni, per i due lungometraggi seguenti: 1) Borat; 2) Bruno. Così ieri sera ho finalmente visto Borat, ed effettivamente il suo nome compare nei titoli di coda…

Naturalmente non ho nessuna intenzione di chiedergli aneddoti sulla lavorazione dei film, visto che gliel’avranno già chiesti tutti. Però mi sono infine guardato il DVD, e devo dire che il film è migliore di quello che sembrava, cioè meno razzista e meno malvagio di quel che temevo. La parte migliore, comunque, sono le scene extra…

[tags]torino, coincidenze, funerale, borat[/tags]

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mercoledì 14 Gennaio 2009, 14:14

Delirio

Ieri sera sono andato a vedere Delirio, lo spettacolo di Beppe Grillo, e non posso quindi che offrirvene prontamente una recensione.

Nonostante la neve, il Mazdapalace era pieno in ogni ordine di posti, completamente esaurito: infatti noi, che avevamo preso i biglietti abbastanza tardi, eravamo relegati quasi in cima e praticamente contro le pareti laterali. Nonostante questo, lo spettacolo è godibile lo stesso: Grillo gira per la parte bassa della platea, viene comunque ripreso anche dai maxischermi, e non si perde nulla.

Mentre aspettavo fuori per consegnare i biglietti ai ritardatari del gruppo, si è formata una codona epica che ha assorbito e travolto i banchetti più vari: infatti chiunque abbia una causa più o meno meritevole si presenta davanti agli spettacoli di Grillo in caccia del suo pubblico. Ieri c’erano persino quelli di Sinistra Critica“ecologista comunista femminista”, come recita il loro motto – che raccoglievano firme per aumentare i salari per legge: credo che fosse possibile soltanto grazie all’abbondante ghiaccio che permetteva loro di essere lì pur continuando a rimanere congelati negli anni ’70.

Lo spettacolo, comunque, è stato molto divertente: la cosa più importante da dire è che merita assolutamente di essere visto come spettacolo teatrale comico, al di là di quel che potete pensare di Grillo. Temevo infatti di trovarmi di fronte a un comizio a pagamento, e invece l’esperienza è stata decisamente migliore di quanto temessi.

Certo, c’è stato qualche momento un po’ pesantuccio, come qualche minuto dedicato a difendersi dalle accuse di essere ricco o di insultare il Presidente Napolitano, o a raccontare – in modo peraltro molto divertente – la scena del giudice Carnevale che lo accoglie in Cassazione per comunicare l’esito della verifica delle firme del referendum (che Grillo, sarcasticamente, spiega così: “quando le ho contate le firme erano 1.650.000, loro ne hanno trovate 1.250.000, evidentemente mi saranno caduti degli scatoloni sull’autostrada”). Per il resto, però, lo spettacolo – pur essendo centrato sulla critica alla politica e all’economia – è assolutamente la cosa più divertente a cui abbia assistito negli ultimi anni.

Grillo, in particolare, ha una capacità assolutamente eccezionale: quella di fermarsi nel bel mezzo del testo preparato, anche a metà di una frase, e di improvvisare gag assurde con il pubblico, che viene strapazzato in ogni modo. Trova una pozza d’acqua per terra mentre cammina? Interrompe la frase e comincia a chiedersi che razza di pubblico ha, che piscia per terra. Sbatte una porta in cima all’impianto? Si ferma e dice “Ecco, c’è qualcuno che a sentire queste cose si è appena suicidato”. Saranno anche improvvisazioni preparate, visto che in trent’anni di carriera le avrà già viste tutte, però sono sempre perfette nei tempi e fanno ridere.

Lo spettacolo dura due ore e mezza, e ha davvero pochi momenti di stanca, quasi sempre dovuti agli ospiti, che difatti Grillo cerca di limitare in ogni modo. Fa vedere il video di Rivoli che già vi mostrai io, ma lo sfuma per non allungare troppo il brodo. Presenta i ragazzi del Meetup (il 13, quello storico di Torino), ma quando una di questi si lancia in un discorso senza capo né coda sulla propria condizione di insegnante (e vabbe’, mica tutti hanno la presenza scenica) la argina appena possibile. Sfodera comunque ospiti interessanti: non il prevedibile Travaglio, che viene appena salutato insieme a Caselli, ma un architetto che racconta come con pochi accorgimenti sarebbe possibile costruire case che consumano un decimo dell’energia delle nostre; e Luca Mercalli che spiega come la presunta notizia dei ghiacci che non si sarebbero più sciogliendo e sarebbero tornati ai livelli di oltre trenta anni fa sia una bufala completa, dovuta al fatto che a fine anni ’70 hanno cambiato il sistema di misurazione introducendo una discontinuità nei dati (Grillo lo saluta ringraziandolo ma invitandolo a cambiare trasmissione e a mandare affanculo Fabio Fazio da parte sua).

Dal punto di vista politico, dunque, lo spettacolo non dice quasi nulla: Grillo presenta di sfuggita il simbolo delle sue liste civiche, ma l’intero progetto è ancora abbastanza allo stato di farsa, senza chiarezza, senza alcun piano d’azione e insomma senza alcuna sostanza, e non è chiaro se decollerà mai. In compenso, lo spettacolo dice molto dal punto di vista dell’informazione, intesa come il proporre dati e messaggi che altrove non trovate (dopodiché, ognuno decide cosa farne).

C’è la Biowashball, sulla quale Grillo – che pure fa un vero lavaggio durante lo spettacolo, chiamando le signore del pubblico a controllare il risultato – conclude dicendo “boh, io la uso e per me funziona, se voi non ci credete andate affanculo”. C’è il giochino matematico per far capire quanto gli interessi composti su venti o trent’anni portino i debiti della gente a cifre astronomiche. Ci sono le questioni locali, non solo quelle scontate come la Tav e il grattacielo di Banca Intesa (“le banche ormai sono numeri, sono un algoritmo, cosa ci devono mettere in un grattacielo? è solo speculazione edilizia”), ma la storiella sulla nevicata, con la scenetta di Chiamparino e Moratti che si rimpallano il sale da una città all’altra, e la conclusione che “Chiamparino ha stanziato sei milioni di euro per sciogliere la neve, e l’unica cosa che si è sciolta sono i sei milioni di euro”. C’è il racconto tristemente preciso della storia dei mutui subprime, con le banche americane che cagano lo stronzo prestando i soldi a chi non potrà mai restituirli, i fondi internazionali che nascondono lo stronzo in una bella torta decorata con lo zucchero a velo, le banche italiane che ne tagliano una fetta e la vendono a te che dici “mah, puzza un po’ di merda ma vabbe’”. C’è la storia dei distributori di latte crudo, che costano meno e tagliano fuori sia le Parmalat (private o municipali che siano) che le Tetrapak del pianeta: da quando hanno cominciato a diffondersi anche da noi, i nostri giornali scientifici e non hanno cominciato a riempirsi di allarmi e storie su bambini infettati dal latte crudo.

Ecco, questo è un esempio illuminante: si parla improvvisamente male del latte crudo perché prima non era più diffuso e non c’erano casi di infezione, oppure si parla improvvisamente male del latte crudo per difendere gli interessi economici che ruotano attorno al latte industriale? Su queste cose il pubblico si frattura: o credi alla verità ufficiale – quella dei telegiornali, dei quotidiani, dei baroni accademici, dei politici – o credi alla verità alternativa, quella che circola sotterraneamente grazie alla rete, ai blog grandi e piccoli, ai filoni di pensiero scientifici e politici innovativi che da noi non vengono nemmeno pubblicati (Grillo mostra anche interviste a Rifkin e a Lester Brown).

Alla fine, molti di coloro che denigrano Grillo – spesso senza mai averlo sentito parlare per più di venti secondi – sembrano farlo per quella implicita ma grande paura che ti prende quando ti viene richiesto di considerare l’idea che molto di ciò che hai sempre pensato e conosciuto potrebbe non essere vero o perlomeno potrebbe non essere la soluzione ottimale ai problemi del mondo: è la paura della pillola rossa. E tra pillola rossa e pillola blu non c’è dialogo, non c’è intersezione: o scegli una, o scegli l’altra.

Tuttavia, anche se non siete ancora pronti per la pillola rossa, lo spettacolo è divertente lo stesso; a meno che non andiate là già prevenuti.

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