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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


domenica 11 Gennaio 2009, 11:38

Genova per noi (e anche De André)

Ieri, approfittando del fatto che io avevo un appuntamento là nel tardo pomeriggio, siamo andati a visitare Genova.

Paradossalmente, è una delle città italiane che conosco di meno; a parte le stazioni, il mio unico giro risaliva a un tour notturno sulla macchina di .mau. oltre dieci anni fa, oltre a una toccata e fuga per l’Hackmeeting 2004. Ieri ho comunque avuto conferma della mia prima impressione, cioè che Genova è, urbanisticamente parlando, costruita con gli scarti di Torino: noi abbiamo tolto dai nostri progetti tutta l’irrazionalità e tutti gli angoli non retti e li abbiamo scaricati laggiù, dove tra Ottocento e Novecento hanno costruito una città in stile sabaudo – a parte le imposte verdi – però disponendo vie e palazzi nei modi e con le forme più assurde. In un certo senso, Genova è Torino vista attraverso uno specchio deformante che trasforma i rettilinei in curve e la pianura in pareti vertiginose; è come sarebbe Torino se l’avesse progettata Escher invece di Lagrange.

Per noi, l’effetto è preoccupante: in una città così, proprio non ci si raccapezza. Il percorso da Principe a piazza De Ferrari non ha né capo né coda: una strada stretta in discesa, un pezzo di stradone ingrigito, l’imbocco di una galleria da camionale, una via mezza curva, un rettilineo con dei palazzi tutti uguali, un’altra salita verso destra… non è certo come un bel viale dagli alberi maestosi che ti accoglie e ti indica chiaramente la via. Le cose sono leggermente migliorate quando, già avanti nel nostro giro, siamo risaliti da piazza Caricamento verso il centro: ecco, allora lì le cose cominciano ad avere un pelino più di logica, ad esempio ti trovi davanti il Duomo dalla facciata invece che dal retro.

Probabilmente se Genova avesse solo il porto e la parte antica sarebbe più bella, invece così è come se dietro la parte antica avessero costruito uno spazioporto pieno di astronavi ottocentesche, culminato da quel capolavoro dell’orrore che è la torre quadrata del teatro Carlo Felice, una specie di enorme autosilo di cemento che sarebbe deturpante persino a Los Angeles. Peraltro anche la parte antica è davvero inquietante: a Lisbona o a Barcellona le vie sono almeno un po’ più larghe, ma a Genova c’è una costante, orribile sensazione di soffocamento, di bassifondi e di marciume eterno da luoghi in cui non batte mai il sole, oltre al problema che disegnare il percorso ottimale dal punto A al punto B è praticamente impossibile; a un certo punto mi è venuta voglia di farmi largo tra le case con un bazooka.

Siamo anche andati a visitare la tanto pubblicizzata mostra su De André a Palazzo Ducale. In termini tecnici, la mostra è una fregatura, visto che per otto euro (sei esibendo un biglietto del treno) gli unici reperti esibiti sono una decina di foglietti autografi, il suo pianoforte, vecchie fotografie e un po’ dei vinili dei suoi dischi, per un totale di tre sale. Tuttavia, la mostra è molto coinvolgente dal punto di vista emotivo, e permette efficacemente di capire di più sulla storia personale e sul pensiero a tutto campo dell’artista.

Anche De André – che, ricordiamolo, era di genitori piemontesi, ed aveva passato l’infanzia per le colline di Asti – rappresenta uno dei vari elementi della tensione costante tra Torino e Genova; naturalmente De André ne costituisce l’orgoglio genovese, tanto che in uno dei pannelli gli si attribuisce come merito artistico quello di “aver dato finalmente una visione di Genova diversa da quella di fantasia per i contadini del basso Piemonte”, con tanti saluti al “contadino” Paolo Conte. In realtà, l’impegno sociale e politico di De André – che non a caso è sostanzialmente assente nei vari brunilauzi e ginipaoli – è tema tipicamente da intellettuale sabaudo, ma lo specchio deformante di Genova trasforma lo scritto in cantato, e l’ortodossia marxista delle fabbriche torinesi nell’anarchia cangiante dei vicoli e del mare.

Personalmente, di De André ho da tempo eliminato tutti i grandi classici, i vari La guerra di Piero e Bocca di rosa, che pur se ricoperte di talento sono composizioni abbastanza banali e anche un po’ infantili nella loro semplificazione del mondo, cosa peraltro inevitabile visto che furono scritte a vent’anni o poco più. La parte veramente eccezionale della produzione di De André è quella adulta, quella che davvero riesce a cogliere la meraviglia e la povertà della vita e delle vite senza voler esprimere giudizi; inizia probabilmente con Rimini nel 1978 e passa attraverso canzoni meravigliose come Princesa o La domenica delle salme. Credo che la cosa migliore che si possa dire di De André è che c’è una sua canzone per ogni carattere e per ogni caso della vita, ed è sempre una bella canzone.

Per il resto, abbiamo soddisfacentemente mangiato alla Trattoria Vegia Zena, in un vicolo praticamente di fronte all’Acquario: 55 euro in tutto per due primi semplici ma ottimi (viva il sugo di noci ma peccato per il pesto microemulsionato, una scuola di pensiero che aborro), due secondi davvero buoni (seppie in umido e stoccafisso accomodato), un dolce e un caffé. E abbiamo visto il museo Chiossone, in un posto bellissimo ma che vi dovrete sudare per scale e salite varie, che contiene una selezione di oggetti antichi giapponesi non enorme ma davvero molto molto bella: vale sicuramente la pena.

E’ stata, insomma, una bella gita, nonostante il freddo assurdo portato dal vento: alla faccia del posto di mare!

[tags]viaggi, genova, de andré, museo chiossone, torino[/tags]

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martedì 6 Gennaio 2009, 15:43

Facebook e mafia

Ho cominciato ad usarlo da dieci giorni e già siamo in mezzo alle polemiche?

Comunque, a un italiano è chiaro che il “Bernardo Provenzano fan club” e simili, in un paese civile, non possono esistere; nemmeno su Facebook. Per gli americani di Facebook, in compenso, è chiaro che – come da primo emendamento alla Costituzione americana – tutto ciò che non passa all’azione e che non si qualifica come pornografia o razzismo è concesso: per cui via le foto delle mamme che allattano, ma i gruppi dei fan di Riina – ragazzotti della profonda Trinacria che usano il mezzo tecnologico per fare pubblicamente gli auguri di compleanno al boss dei boss e ricordare le sue eroiche gesta – non si toccano.

In realtà, il vero punto è che per Facebook, Youtube e compagnia bella il controllare i contenuti, perdipiù adattandosi alle molteplici idiosincrasie e legislazioni di un paio di centinaia di nazioni su cui sono sparsi i loro utenti, è una rottura di scatole non da poco: vuol dire costi, elevati rischi di errore, probabili grane legali. Meglio proclamarsi strenui difensori della libertà di espressione, e con questo schivare il problema.

Eppure, non ho il minimo dubbio che un applicativo online in italiano, usato da italiani per fare apologia della mafia – reato in Italia – verso altri italiani, sia soggetto alle leggi italiane sulla pubblica espressione, anche se è realizzato da una società americana su server americani; se non fosse così, saremmo veramente una colonia, priva di qualsiasi sovranità.

E’ vero che la neutralità della rete è importante, e che queste piattaforme non dovrebbero avere il diritto di censurare a proprio piacimento i contenuti che vi passano attraverso (vedi appunto il caso delle foto di allattamenti). E’ diverso, però, quando tale censura è prevista e anzi richiesta dalla legge: non applicarla, dopo ampie e numerose segnalazioni, significa volersi rendere apertamente complici di un atto perlomeno immorale, probabilmente criminale. E se proprio io, gestore di una piattaforma del genere, avessi il dubbio su quale sia il mio dovere tra rispettare un eventuale divieto di interferenza e rimuovere l’apologia dei mafiosi, preferirei errare contro i mafiosi piuttosto che a loro favore.

Per fortuna che decine di migliaia di utenti di Facebook si sono già mossi (qui potete aderire). Certo, c’è sempre il rischio che questo genere di “campagna virale” sfoci nel qualunquismo o nella caccia alle streghe, sfogandosi contro minoranze di qualsiasi genere, ed è un rischio da tener presente; tuttavia, per ora preferisco gioire vedendo che in Italia, persino su una piattaforma che molti presentano come il trionfo del becero, ci sono ancora tante persone che si indignano.

[tags]facebook, mafia, censura, neutralità della rete, azione dal basso, internet[/tags]

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lunedì 5 Gennaio 2009, 17:58

Mangiare in Liguria

Tra ieri e oggi abbiamo provato un paio di posti dove mangiare nel circondario: infatti, causa freddo e febbre abbiamo passato tutte le vacanze rinchiusi nella nostra casetta, e solo con il venire del sole e delle buone condizioni siamo scesi a valle a cercare cibo.

Il primo posto è stato il Ristorante Bagni Restano a Cervo, uno dei posti più conosciuti in zona. E’ un locale proprio sulla spiaggia, nella zona delle vecchie rimesse che sta tra San Bartolomeo e la fantastica marina con ponte ferroviario di Cervo (quest’ultimo è un posto bellissimo, peccato che quando tra pochi mesi chiuderà la ferrovia ottocentesca finiranno certamente per piazzare delle auto sul ponte o per abbatterlo); ci si arriva dalla strada che si stacca dall’Aurelia verso il mare proprio in corrispondenza del sottopassaggio della ferrovia.

Siamo andati subito al sodo e abbiamo preso spaghetti allo scoglio e pappardelle con carciofi e gamberetti, e poi fritto misto per due: tutto ottimo, sia i primi (specialmente il mio, visto che è stagione di carciofi) che il fritto, che conteneva pesci anche di buone dimensioni che però non sapevano di fritto, ma di pesce appena cotto, rosa al punto giusto; anche i calamari non sapevano di gomma e onion rings come nella maggior parte dei fritti, ma di calamaro appena colto (macellato, potato, insomma comunque sia che i calamari diventino quella roba che lì però chiaramente non era un cilindrato Pirelli, ma aveva anche regolamentari punte e barbette). Senza antipasti, con un solo dolce e con mezzo litro di vino – ma siamo usciti piegati, sarà che era domenica sera e avevano il pesce da finire ma il fritto era davvero abbondante e ha messo in seria difficoltà anche me – e con un oste davvero gentile, abbiamo speso meno di 35 euro a testa: sommando il fattore pesce al fattore Liguria direi che è giusto così.

Oggi invece siamo andati in gita ad Albenga e, nonostante le indicazioni contrarie della guida delle Osterie d’Italia, abbiamo trovato aperta la farinateria Puppo, la principale istituzione culinaria del centro storico (peraltro pieno zeppo di ristorantini, che però erano tutti o chiusi o vuoti; qui invece c’era la coda fuori). Certo, all’arrivo ci siamo trovati davanti l’ennesimo pacco da Osterie d’Italia: come quasi sempre quando si segue questa guida, si riceve la promessa di un posto rustico dei tempi andati – qui addirittura doveva essere uno di quei buchi nei caruggi che fanno la farinata come nell’Ottocento – e ci si ritrova davanti un locale leccatissimo pieno di proposte fighette e arredi eleganti, e dai prezzi regolarmente rivisti all’insù.

Comunque, qui l’eleganza del locale è ancora tollerabile, limitandosi a dei bei mobili antichi di legno, dei bei tavoli rivestiti di marmo, e l’ormai obbligatoria carta ruvida color senape su cui piazzare i fritti accanto a un inutile contorno di rucola (mio dio, quanto odio il contorno di rucola); alla fine, il leccatismo si è rivelato davvero l’unico punto debole del locale, a parte forse l’orrida cassetta di hits di John Denver il cui suono usciva dalla cucina.

Il cibo, infatti, era eccellente, a partire dalla farinata, che era davvero perfetta: una sottilissima crosta unta e non dura sotto, uno strato di consistenza papposa ma solida in mezzo, e sopra le isolette di parte cotta e rappresa come le rocce in mezzo a un mare di lava, solo che queste sprizzano olio d’oliva. Poi abbiamo preso una zuppa di pesce, una fetta di caciotta alla piastra con miele, fette sottilissime di pera e gherigli di noce (vi avevo detto che era un posto fighetto) e soprattutto delle eccellenti acciughe fritte, un altro piatto povero che è difficile trovare in giro ma che se fatto bene è ottimo. Anche i dolci erano buonissimi, in particolare il mio cestino di pasta sfoglia contenente una mousse alla fragola e panna guarnita con fragoline di bosco (vi avevo detto ecc.). Porzioni comunque buone, conto 39,80 euro in due rigorosamente senza scontrino.

In appendice, segnalerò che ad Albenga ci siamo andati per visitare il centro storico medievale, che è uno dei tesori nascosti della Liguria; non è enorme ma è bellissimo, una cosa che fosse in Toscana ci verrebbero i giapponesi, e invece è in Liguria quindi i locali lo tengono nascosto perché sono troppo intenti a costruire palazzoni e parcheggi sul mare. Abbiamo provato anche un’altra esperienza bellissima, l’antica strada romana che tuttora è percorribile a piedi su per i colli verso Alassio, e che corre tra gli ulivi fiancheggiata da sette o otto edifici funerari romani ancora ben visibili; peccato che i liguri ci abbiano subito costruito sopra delle ville (con indirizzo “passeggiata Archeologica 4”!), spezzando i muri del I secolo d.C. per farci il vialetto d’accesso, e riempiendo le pietre del selciato romano con cemento anni ’60 per passarci più comodi con le macchine. E trovare questa strada è praticamente impossibile, sopravvive a malapena qualche cartello giallo anni ’70 arrugginito e crollato per terra! Certo che lo scempio che hanno fatto della Liguria è davvero tremendo: non stupisce che ormai attragga solo più i pensionati di Torino e Milano.

[tags]ristoranti, recensioni, liguria, albenga, cervo, turismo, osterie d’italia[/tags]

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venerdì 2 Gennaio 2009, 14:08

Film di Natale

Ma perché nelle vacanze di Natale le televisioni devono ritrasmettere solo ed esclusivamente i peggiori film della storia del cinema? Al massimo ne capita qualcuno di bello ma consumato dalle troppe visioni (tipo l’intera serie della Pallottola Spuntata), ma per il resto, bloccato davanti alla TV per la scarsa voglia di accendere il cervello e pure per qualche linea di febbre, mi sono toccati titoli come Un poliziotto alle elementari (da allora hanno vietato a Schwarzenegger di girare commedie) e Il libro della giungla versione Disney anni ’50, un capolavoro per l’abilità del regista nel girare un intero film sugli animali feroci della giungla senza mai mettere il protagonista umano e un singolo animale feroce nella stessa inquadratura.

In pratica il film funziona così, inquadrano Mowgli da solo in mezzo ad alberi di cartone che dice “Come dici Bagheera? Sei arrabbiata?”, poi si stacca sulle immagini sbiadite di una pantera nera che si rotola al sole estratte da un documentario di dieci anni prima, poi reinquadrano Mowgli che dice “Sì, hai proprio ragione!”, e si stacca su altre immagini di una pantera nera, talvolta diversa dalla precedente o ripresa in un luogo completamente differente. Alla fine c’è una scena in cui si vede una porta, inquadrata a tutto schermo, chiusa e ferma, e si sente la voce di Mowgli che dice: “Elefante! Dai, abbatti la porta! Così! Tira su la proboscide!”, insomma fa tutta la radiocronaca finché non si vede la porta che cade e Mowgli che entra…

Stamattina, comunque, mi è capitato il peggio del peggio: un film intitolato Il maestro cambiafaccia, con Dana Carvey (l’ex spalla senza talento di Mike Myers). In pratica, il film gira attorno a Carvey che interpreta un idiota (o è un idiota, almeno questo è ciò che penso dopo aver visto il film) che impara a travestirsi perfettamente da altre persone. L’intero film è una serie infinita di gag in cui Carvey si traveste da personaggi che dovrebbero essere divertenti, ma che non farebbero ridere nemmeno un bambino di quattro anni. Per il resto, la trama è inesistente, e il copione fa acqua da tutte le parti – come quando la protagonista si presenta al cattivo (interpretato da Brent Spiner, e qui si capisce perché la sua carriera non sia mai andata oltre Star Trek) come “Barbara”, e cinque minuti dopo lui la saluta come “Jennifer”. E proprio quando pensi che il film, raggiunta la lunghezza minima sindacale, sia finalmente finito, Carvey ci aggiunge la peggior imitazione di George W. Bush mai fatta da alcuno, e poi minuti e minuti e minuti di blooper non divertenti sui titoli di coda, e poi, quando finiscono i titoli di coda, ci aggiunge anche ulteriori scene non divertenti in cui lui scherza con un nano. Non meraviglia che dopo questo film, del 2002, Carvey non abbia più fatto nemmeno un film!

Per fortuna che ieri sera almeno c’era lo spettacolo di Paolini

[tags]film, televisione, disney, cinema, il libro della giungla, carvey[/tags]

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domenica 21 Dicembre 2008, 14:29

Qualità DVD

Ieri sera eravamo in casa, e per trascorrere la serata abbiamo deciso di guardare un DVD; così ho tirato fuori il DVD originale, acquistato mesi fa al supermercato a prezzo stracciato, di 8 Mile (un film grandemente sottovalutato, probabilmente per l’idea snob di molti che un film sull’hip-hop con Eminem non possa essere bello; in realtà, raramente ho visto immagini così ben fatte sul degrado abissale delle periferie americane e sulla difficile scelta tra i propri sogni e lo squallore della realtà).

Bene, naturalmente dopo aver inserito il DVD ho dovuto subirmi le immancabili scritte antipirateria; poi dieci secondi di logo animato della Universal; poi loghi e presentazioni degli altri produttori del film; poi quindici secondi di menu animato, prima che potessi arrivare a fare qualcosa. Ho selezionato la lingua del menu tra “inglese” e “italiano”, al che è partita una ulteriore animazione, consistente in una fotografia che lentamente veniva spostata per lo schermo; dal menu che è infine apparso ho selezionato l’opzione per la configurazione audio; ho aspettato un altro cambio di menu; ho selezionato “DTS”; è comparsa una lunga schermata scritta da un avvocato che mi spiegava cos’è il DTS e mi chiedeva conferma, rifiutando esplicitamente ogni responsabilità nel caso in cui avessi attivato il DTS senza avere un amplificatore compatibile. Dopo aver confermato, è partito un filmato di trenta secondi, con immagini di pianoforte e altri strumenti, per mostrarmi il logo DTS e specificare che è un marchio registrato. Dopodiché è ripartito il menu animato di prima, e ho dovuto aspettare altri quindici secondi, per poi rivedere i loghi dei produttori e finalmente arrivare al film.

In pratica, da quando ho messo il lettore nel DVD a quando sono riuscito a vedere le prime immagini saranno passati tre o quattro minuti di immagini inutili e impossibili da saltare, in quanto il pulsante “avanti” era stato disabilitato. Ah, e alla fine del film è ricomparso il messaggio antipirateria, però in cecoslovacco; si sa mai, avessi avuto un ospite ceco in casa che voleva copiare il DVD…

Conclusione: la prossima volta lo scarico dal peer-to-peer, oltre ad essere gratis funziona pure meglio.

[tags]dvd, pirateria, film, download, eminem, 8 mile[/tags]

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venerdì 19 Dicembre 2008, 15:03

New economy

Ne ho saltati alcuni, perché insomma, ormai il sito lo conoscete e non devo mica imboccarvi sempre io. Questo video, però, lo bloggo e mi tiro giù il cappello: a questi concetti – alla necessità di una società regolata stocasticamente anziché deterministicamente, all’insostenibilità del nostro modello economico, all’insopportabile avanzata dell’autismo digitale – ci siamo arrivati in molti, ma non è facile riuscire a parlarne su Youtube con un linguaggio visivo innovativo, sperimentale e postmoderno. Se tutti i nostri festival di cinema non fossero impegnati a premiare i cugini degli amici, magari qualcuno se ne accorgerebbe anche.

[tags]economia, società, crisi[/tags]

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giovedì 18 Dicembre 2008, 12:58

Carriera

Una delle cose più divertenti dell’ascoltare regolarmente Radio Flash è il fatto che, ogni tot di tempo, passano le notizie e le pubblicità del circuito Radio Popolare.

Radio Flash, infatti, è la radio della sinistra torinese, quella riformista e moderna (pure troppo, visto che la casa madre Hiroshima Mon Amour è in pole position tra gli ammanicati per ricevere fondi pubblici quando ci sono da organizzare eventi musicali, e che la costruzione del loro nuovo fiore all’occhiello, il Teatro della Concordia di Venaria, fu bellamente appaltata alla famosa e onnipresente De-Ga). Su Radio Popolare, invece, circolano ancora le idee e gli slogan della sinistra tosta di un tempo: anticapitalista, antiamericana, antiberlusconiana talvolta al limite del ridicolo.

E così, sospesi da un pezzo i mitici spot dei Comunisti Italiani con Diliberto che parlava sopra un assolo di chitarra (si sa, bisogna attirare i giovani), circolano però con frequenza da mesi gli spot animalisti contro le pellicce, la caccia, la vivisezione e il consumo di carne. Di base, il rispetto degli animali è una pratica fondamentale su cui l’uomo ha ancora molto da fare; l’estremismo di questi spot, però, è da manuale, e, accompagnato a musiche drammatiche, testi lirici e richieste complicate (tipo “non scrivere sul modulo Unico il codice fiscale di un ente di ricerca che usa animali”), finisce spesso per generare risvolti involontariamente comici.

Quello che circola ora è relativo alla vivisezione degli animali, una pratica orribile che sarebbe da vietare completamente, salvo al massimo qualche caso estremo in cui è provatamente insostituibile a scopi sanitari. Lo spot, in un crescendo drammatico, arriva all’accusa più forte: queste ricerche (che “non sono scienza, ma vivisezione”) sono condotte “per interessi economici e di carriera”.

Che per la sinistra ortodossa l’economia sia il male è noto: in Italia, poi, si somma la doppia influenza dell’anticapitalismo marxista e della Chiesa Cattolica, per cui notoriamente il denaro è lo sterco del diavolo (il che spiega la discreta presenza al suo interno, oltre che di pedofili, anche di coprofili).

Qualche tempo fa, per esempio, ho conosciuto una persona di questo genere; spendendo la sua vita, con encomiabile impegno, tra un presidio anti-inceneritore e un gruppo d’acquisto solidale, mi disse che secondo lui bisogna smetterla di far lavorare la gente per le cattive multinazionali, nelle fabbriche, nei trasporti e in generale in attività economiche inquinanti, e farle invece lavorare per lo Stato, nella sanità, nell’assistenza agli anziani e ai lavori socialmente utili. Io, allora, ho provato ad obiettare che, a meno di grandi rivoluzioni nella nostra struttura sociale, magari necessarie ma non in vista a breve, i posti di lavoro pubblici esistono soltanto in quanto esiste una economia privata che genera utili, che possono essere tassati e rimpinguare le casse pubbliche; bene, questo discorso proprio non veniva capito. Si dava per scontato che esistesse da qualche parte una miniera di ricchi da tassare, naturalmente ladri perché nessuno può essersi arricchito onestamente e comunque la proprietà è un furto, e che tutti i problemi della società si potessero risolvere aumentando le tasse.

Per questo capisco che la frase “interessi economici” abbia una connotazione negativa così diffusa; ma perché devono essere negativi anche gli “interessi di carriera”?

E’ ovvio che ci siano nella nostra società fenomeni eticamente sbagliati, di persone che violano la legge o la morale pur di guadagnare di più, o che trascurano i propri cari per i propri obiettivi professionali (di solito queste ultime persone sono ampiamente punite dalla vita, anche quando riescono effettivamente a fare carriera). Ma perché deve essere sbagliato, tout court, il desiderio di fare carriera?

In pratica, siamo giunti in questi ambienti antagonisti al rifiuto puro e semplice del fare, del partecipare all’economia: il cittadino ideale è presumibilmente uno che sta seduto in un angolo a non far niente, anzi, a disprezzare quelli che pensano a sbattersi per migliorare la propria posizione, e di riflesso anche quella degli altri. Vive, immagino, grazie al “reddito di cittadinanza” o ad altri modi di ricevere del denaro grazie alla ricchezza prodotta da altri e senza doversi sporcare le mani.

Al di là della questione economica, però, è il rifiuto dell’aspirazione a una condizione personale migliore che fa spavento: perché è vero che questa aspirazione genera competizione, lotta, spesso infelicità e talvolta anche atti spregevoli, ma essa è da sempre il motore dell’evoluzione umana. Un sistema economico più umano, rovesciando le priorità collettive tra produzione e qualità della vita, è certamente necessario, ma non si può nemmeno pensare che la nostra società, con il suo livello di vita materiale così elevato, possa sopravvivere senza fatica e senza sbattimento.

[tags]economia, animalismo, sinistra, radio, pubblicità, vivisezione[/tags]

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martedì 16 Dicembre 2008, 11:47

Freesouls

Da qualche giorno è uscito Freesouls, il libro di ritratti fotografici di Joi Ito. Joi è ormai universalmente noto come uno dei massimi guru internazionali di Internet: inventore, investitore in praticamente qualsiasi startup di successo degli ultimi anni (che so, Flickr, Twitter, aziendine così) e promotore di molte delle grandi iniziative della rete, a partire da Creative Commons.

Quello che il mondo non sa – ma che voi affezionati lettori dovreste sapere, visto che ne avevamo già parlato – è che Joi è anche un ottimo fotografo: per questo ha pubblicato un libro con i ritratti di circa 250 grandi e piccoli personaggi della rete che ha incontrato in questi anni. Nel libro ci sono un po’ tutti, da Larry Lessig a Vint Cerf, da George Lucas a Gilberto Gil, da Jimbo Wales a Shawn Fanning. Ma non è tanto la fama dei personaggi ritratti (nonché gli annessi saggi da parte del gotha dei pensatori della rete) a rendere il libro interessante: è che sono proprio delle belle fotografie.

Poi bon, comunque la mia foto che c’è nel libro l’avete già vista, nel libro (credo – l’ho ordinato ma non l’ho ancora visto) è giustamente stampata in un angolino formato francobollo. Una parte di me, comunque, vorrebbe tirarsela; ma è prevalente la tristezza nel notare che gli italiani del libro sono solo tre – io, De Martin e Gaetano, che peraltro vive all’estero da decenni -, e questo dovrebbe far riflettere tutto quel circo di personaggi che sulla nostra rete si atteggiano a grandi guru dell’innovazione digitale, senza però aver mai avuto l’umiltà di andare a vedere cosa succede davvero nel mondo, né le capacità per avere un riconoscimento internazionale di qualche genere.

Io sarei solo contento se tanti altri dei nostri very important blogger, invece di chiacchierare all’infinito sui propri blog, si rimboccassero le maniche, venissero alle conferenze internazionali e riuscissero ad esporre qualche idea o qualche progetto innovativo e di valore assoluto, anziché una semplice ripetizione alla buona degli slogan che circolano in giro, talvolta senza averli nemmeno capiti. Ma è abitudine dell’Italia parlarsi addosso a lungo, spesso in modo interessato, e poi sparire quando i nodi vengono al pettine e c’è da dimostrar qualcosa.

[tags]fotografia, joi ito, freesouls, creative commons, internet, innovazione, blogger[/tags]

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martedì 9 Dicembre 2008, 19:49

Scrivere a sproposito

Ci siamo divertiti per anni con l’engrish come se fosse poi questo segno di grande ignoranza; ma non dubito che quando noi occidentali, come da moda crescente, cominciamo a disegnare ideogrammi, il risultato per gli orientali sia altrettanto ridicolo.

Senza arrivare al caso clamoroso del maggior istituto di ricerca tedesco che decora la copertina della propria rivista ufficiale con la pubblicità di un bordello, basta pensare alle migliaia di truzzi che vanno in giro con tatuati sul corpo caratteri orientali completamente sbagliati…

[tags]lingue, errori divertenti, engrish, tatuaggi[/tags]

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venerdì 5 Dicembre 2008, 18:40

Nuovi musei

Stamattina, approfittando di un paio d’ore libere, abbiamo provato per voi il nuovo Museo d’Arte Orientale di Torino, inaugurato proprio oggi, con ingresso gratuito fino a lunedì compreso. Abbiamo pensato che nel ponte ci sarebbe stata folla, per cui abbiamo preferito il primo giorno: c’era un po’ di gente ma il museo era decisamente vivibile.

La sede è in via San Domenico 11, ma, in pieno understatement torinese, è impossibile trovarla: praticamente tutti si lamentavano del fatto che fuori del seicentesco palazzo Mazzonis che ospita il museo non ci sia nemmeno una targa. Comunque, per darvi riferimenti da torinese, è praticamente davanti al Kilometro Cinco.

Il museo è dedicato alle collezioni di arte orientale della Città, della Regione Piemonte e della Compagnia di San Paolo, suddivise in cinque sezioni: India, Cina, Giappone, Himalaya e mondo arabo (Himalaya è un modo elegante per non scrivere Tibet, il che avrebbe fatto protestare l’ambasciata cinese: scommetto che il testo murale che introduce la sezione, nonostante ci sia tuttora scritto “Inghilterrra” con tre “r”, è stato rivisto da almeno tre diversi corpi diplomatici).

L’allestimento è ovviamente moderno, colorato, bilingue italiano-inglese, con tanto di audioguide; e questo è positivo. In compenso, il palazzo seicentesco è labirintico, e almeno in tre o quattro punti non sei sicuro di quale sia la direzione da prendere per non perdersi un pezzo della visita; ci vorrebbero delle belle freccione “prima di qua poi di là”.

La collezione, beh, è quel che è: secondo me la parte migliore è quella giapponese, piccola ma piena di opere bellissime, tra cui una magnifica, gigantesca statua di legno di un Kongo Rikishi, e delle stampe meravigliose. Interessante anche la parte cinese, che risale addirittura al Neolitico, ma che però ha il difetto di terminare con il “medioevo cinese”, e di mancare completamente di tutta quella parte che noi più comunemente associamo alla Cina, a partire dai vasi Ming. Il resto, secondo me è paccottiglia: naturalmente non sono qualificato ad esprimere giudizi artistici, ma le statue dei Buddha indiani e tibetani sono troppe e troppo poco inconsuete per interessare, e la parte araba, nonostante alcuni interessanti reperti calligrafici, è relegata in soffitta non a caso: c’è perché non si poteva non metterne una, ma andate a fare un weekend a Istanbul e fate prima.

Comunque, fin che è gratis – o se proprio non avete mai messo naso a est del casello di Villanova – può valer la pena, ma secondo me i 7,50 euro del biglietto sono eccessivi, almeno per il momento. E’ però comunque meritorio che ci sia un nuovo museo a Torino, e spero che col tempo la collezione possa espandersi.

[tags]mao, arte orientale, india, cina, giappone, islam, musei, arte, torino[/tags]

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