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Archivio per la categoria 'Itaaaalia'


martedì 6 Luglio 2010, 18:21

La Padania che verrà

La Padania è sempre più spesso nei nostri discorsi; e questa è già una vittoria di Bossi. Su Lega sì, Lega no si è incentrata buona parte della passata campagna elettorale per le regionali piemontesi, e ancora di più la pletora di commenti usciti dopo il voto, per non parlare di un crescente “dialogo culturale” tra polentoni e neoborbonici, a colpi di insulti e di revisionismi su storie di 150 anni fa.

A me tutto questo fa arrabbiare; non tanto il fatto di dover discutere se abbiano rubato più soldi i piemontesi dalle casse napoletane o i napoletani dalle casse piemontesi (siamo in Italia, hanno rubato tutti), ma il fatto che in questo Paese non si riesca ad avere una civile e razionale discussione sul tema del federalismo.

Già, perché alzando un attimo il naso dal paiolo della polenta ci si potrebbe accorgere che l’Italia non è certo l’unico posto dove si discute di autonomie e di secessioni, e che il celodurismo da campanile non è affatto l’unico modo di discuterne.

Il Belgio, per esempio, è già di fatto un paese diviso in due nazioni e mezza, rotto da secoli di rivalità e da uno spettacolare ribaltone nella suddivisione della ricchezza economica tra Nord e Sud (purtroppo per i suoi abitanti, la Vallonia negli ultimi cento anni ha prodotto due cose soltanto: Magritte e la disoccupazione). Nessuno crede che il Belgio possa esistere ancora per molto, a meno che non si verifichi qualche miracolo economico.

La possibile frantumazione dell’Italia, dunque, non è affatto un tema di folklore, ma un problema oggettivo: del resto lo stesso Economist – pur di sinistra per quanto possa esserlo un giornale economico inglese – per gioco ma fino a un certo punto divide l’Italia in due, prevedendo una nazione separata al Sud, fuori dall’Unione Europea, cortesemente denominata Bordello.

Sono chiari a chiunque li voglia vedere i giochi di potere geopolitico e le tensioni economiche interne all’Unione Europea, e si parla apertamente di doppio euro e di possibile uscita dall’Unione di un blocco forte, dominato dai tedeschi – a cui interesserebbe ovviamente tenersi attaccato il Nord Italia e scaricare il Sud. Se scattasse una crisi globale di fiducia nei debiti pubblici, l’Italia rischierebbe davvero la bancarotta e il conseguente caos nelle strutture pubbliche; e a quel punto quanti di voi sono disposti a scommettere che le parti del Paese coi conti più in ordine sarebbero favorevoli a portarsi dietro i debiti delle altre?

Non sono certo le buffonate celtiche che spezzano i Paesi; le buffonate celtiche sono al massimo un metodo ben studiato per trasformare un concetto inizialmente innaturale in uno assolutamente familiare; provvisoriamente ancora respinto, ma familiare e dunque plausibile. Dopo, arriva il fattore scatenante per trasformarlo da plausibile a reale, che può essere un esercito o, più elegantemente, un disastro economico più o meno artificiale.

D’altra parte, siamo da decenni nel mezzo di un processo storico di “glocalizzazione”; da una parte i governi nazionali diventano impotenti di fronte a fenomeni socioeconomici globali, e dall’altra diventano troppo grossi e rigidi per gestire in maniera efficace una società che si evolve alla velocità della luce. Non è un caso che i migliori successi europei degli ultimi lustri vengano da Paesi di medie dimensioni (Irlanda, Danimarca) o da Paesi con una struttura fortemente federale (Spagna, Germania).

In fondo, nel momento in cui la mia economia e la mia vita sono governate da decisioni prese a Bruxelles e a Francoforte, che differenza fa che la scritta sul mio passaporto dica Italia, Padania, Piemonte, o Repubblica Popolare del Quartiere Parella? Non cambia praticamente niente, a parte il colore della maglia della nazionale e il rapporto costi/benefici legato alle prestazioni offerte da ciascun governo e alle tasse richieste in cambio. A questo punto, laicamente, tanto vale concepire lo Stato come un puro “centro servizi” e scegliere la dimensione di governo più efficiente.

Basta solo che se ne parli con serietà e con obiettività; e che nel farlo non si insulti chi, in tempi completamente diversi, per la nostra bandiera ha dato la vita. Altrimenti il rischio è che la secessione avvenga comunque, e che da una nazione da operetta si finisca in uno staterello di buffoni.

[tags]italia, padania, borboni, secessione, bossi, crisi, germania, belgio, unione europea, unità d’italia[/tags]

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venerdì 2 Luglio 2010, 14:29

L’Internazionale operaia non sta molto bene

Ho molto rispetto per Diego Novelli (purché non si parli di Toro) e per Nuova Società, ma raramente mi è capitato di incontrare un articolo politico che, a causa di uno sfortunato incidente, mi abbia fatto contemporaneamente ridere e pensare così.

E’ che un paio di settimane fa, nel momento clou della vicenda sindacale di Pomigliano, Nuova Società ha pubblicato una toccante lettera degli operai di Tychy (lo stabilimento in Polonia dove si fa la Panda) a quelli di Pomigliano, che si scusava per avergli portato via anni fa il lavoro accettando condizioni e retribuzioni peggiori rispetto agli italiani, e li incitava a continuare la lotta per il bene di tutti gli operai Fiat del mondo, in un classico e ortodosso afflato marxista di “proletari di tutto il mondo unitevi”.

E poi, a fine articolo, dopo tutto questo eloquio di aulica ideologia e queste toccanti parole di solidarietà antipadronale, è comparsa nei commenti la risposta di un operaio di Pomigliano, perfettamente in linea con le aspettative internazionaliste del settimanale di Novelli:

“Bastardi..polacchi di *** andate a farvi fottere….per causa vostra è successo tutto questo casino la colpa è solo vostra e ancora vostra……bastardi che non siete altro siete sottopagati..e lavorate come schiavi..e non vi siete mai ribbellati..adesso che le cose cambiano per voi vorreste ribbellarvi in alleanza con noi italiani ? vi dico ancora andate a farvi fottere bastardi schiavi di ***…dovete morire tutti se siamo ridotti a queste condizioni di schiavitu’ poste da fiat…la colpa è vostra e solo vostra….bastardi schiavi andate ancora a farvi fottere.”

Ecco, credo che sia impossibile descrivere meglio come i partiti di sinistra continuino a rivolgersi agli operai con gli stessi schemi astratti vecchi di 150 anni, e come gli operai da un pezzo rispondano mandandoli a cagare e votando Lega o Berlusconi.

[tags]sindacati, lavoro, operai, globalizzazione, pomigliano, tychy, fiat, nuova società, sinistra, lega, berlusconi[/tags]

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lunedì 28 Giugno 2010, 17:48

Cyberspazio e realtà

Oggi sono andato al Politecnico per assistere alla prima giornata della conferenza University and Cyberspace, organizzata dal progetto europeo Communia, in cui il centro Nexa del Poli ha un ruolo centrale. Questa è una delle poche vere eccellenze rimaste a Torino, su un tema cruciale come il rapporto ad ampio raggio tra Internet e società, con un particolare occhio per le tematiche relative ai contenuti; e anche la conferenza è di alto livello (qui il webcast).

In attesa che si palesi Joi Ito (se siete lettori da tempo di questo blog, ricorderete la foto ed il libro), stamattina c’è stato prima un interessante dialogo tra Juan Carlos De Martin e Charles Nesson del Berkman Center di Harvard, e poi il solito lucido discorso di Stefano Rodotà.

Rodotà è il miglior italiano che conosca e mi piacerebbe molto riuscire a concludere nella vita un centesimo di quello che ha fatto lui; nel frattempo cerco di trarne esempio. Abbiamo chiacchierato per buona parte del pranzo (gli ho portato i ringraziamenti per il suo impegno diretto sui referendum dell’acqua) e se da una parte mi ha fatto piacere constatare che la pensiamo allo stesso modo, dall’altra ne è uscita una visione della situazione italiana tutt’altro che rosea. Lui non si risparmia e gira l’Italia per le sue battaglie con energia invidiabile; io mi chiedo come recuperare un simile ottimismo, capito che il problema non è di sostituire un partito per un altro ma di cambiare la mentalità degli italiani, e che questa è una impresa davvero proibitiva.

[tags]politecnico, internet, pubblico dominio, communia, nexa, università, berkman center, de martin, nesson, rodotà[/tags]

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venerdì 25 Giugno 2010, 20:11

La solitudine del numero dieci

Quando io ero bambino, il calcio era un’altra cosa. Il calcio era una festa, perché si giocava di domenica pomeriggio, allo stadio in piedi sotto il sole, o attaccati alla radiolina di casa, o passeggiando al Valentino, fermando tutti i passanti ogni minuto per chiedere se per caso il Toro avesse già segnato. Il calcio era una festa perché era uno spettacolo, perché c’erano decine di migliaia di persone che sospiravano all’unisono, e magari non avevano la coca cola in braccio e il posto preassegnato col seggiolino ottimizzato a forma di culo, e nemmeno lo schermo piatto per rivedere a casa ogni scaracchio in super-slow-motion, ma avevano il sole, il cielo e la speranza di un gol e di qualcuno che costruisse per loro un mondo migliore.

E avevano il numero dieci: tutte le squadre che valessero qualcosa avevano un numero dieci, o se non era un dieci era un sette o un sei o un undici, ma era un giocatore diverso dagli altri. Uno che con la palla faceva le magie, uno che con la palla faceva sognare; uno che da solo valeva il prezzo del biglietto. Uno che faceva cose che nessun altro giocatore in campo, anzi nessuna altra persona al mondo era capace di fare, come, che so, ribaltare in un attimo il risultato di una guerra – una guerra vera, con morti e feriti – con un semplice pugno alzato verso il cielo nel secondo preciso del destino.

Il numero dieci era un artista e spesso giocava da solo; nei casi più estremi, i compagni si limitavano a passargli la palla e ad aspettare che facesse lui. Era un privilegiato, spesso antipatico come pochi; fuori dal campo, non di rado tagliava gli allenamenti, si faceva di coca e sparava ai giornalisti. Anche quando era più morigerato, era comunque un diverso; oggetto di ammirazione ma anche di invidia (dei compagni) e di odio (degli avversari). Del resto l’approccio italiano per marcare i numeri dieci era quello di spaccargli le gambe ad ogni occasione sin dal primo minuto: Gentile e Bergomi conquistarono la fama picchiando Maradona. E se un giocatore qualsiasi può sempre vivacchiare e passare la palla, il numero dieci era maledetto a fare miracoli per contratto: o stupiva o falliva.

Poi, vent’anni fa, nel calcio arrivarono Sacchi e Berlusconi, e condannarono i numeri dieci all’estinzione. Il genio divenne un optional, sostituito dagli steroidi, dagli schemi scientifici, dagli allenatori col portatile. Decenni di frustrazione del resto del mondo vennero alla luce: ma perché privilegiare uno più degli altri, ma perché dipendere da una persona sola. Dipendere dall’individuo è sbagliato, noi vogliamo il sistema, il calcio industriale, l’investimento a ritorno garantito; il giocatore dal rendimento mediocre ma costante, il gioco pianificato a tavolino e proprio per questo prevedibile ma certo. Il tifoso schedato e ridotto a numero, con la sua maglietta rigorosamente ufficiale e coperta da copyright, uguale a tutte le altre, che canta l’inno previsto dall’azienda di marketing, in vendita su CD al supermercato e pronto ad essere sostituito da una canzone nuova l’anno dopo, ché l’economia deve sempre girare.

Nel calcio e nella vita, i numeri dieci sono una specie ormai estinta. Non è che non ne nascano più, ma il genio gli viene sradicato a bastonate proprio come una volta si costringevano i mancini a usare la destra. A seconda degli investimenti nella pianificazione industriaale del giocatore e della forza aziendale di chi li possiede, o diventano dei bovini gonfiati come Del Piero, o diventano dei falliti come Pinga e Rosina. Se provano un dribbling, tutti si incazzano: “e passa quella palla!”.

C’è oggi, nel calcio e nella vita, la retorica della squadra. Il gioco di squadra, il collettivo, l’organizzazione, l’egualitarismo. Una volta erano valori che associavamo ai freddi paesi del Nord o ai formicai dell’Oriente, restando orgogliosi dell’inventiva e della creatività italiana, su cui si basavano le nostre fortune e le nostre glorie sin dai tempi di Dante e di Leonardo. Ma anche da noi, ora, l’individuo più dotato o più fortunato della media è visto con intrinseco fastidio.

La squadra è importante, da soli non si può fare tutto; ma neanche tutti possono fare tutto. Un italiano medio, preso a caso per strada, non può scrivere la Divina Commedia; è già tanto se sa scrivere un SMS. Nemmeno dieci italiani possono scrivere la Divina Commedia. E’ molto, molto improbabile che anche un milione di italiani, persino se ben organizzati in una struttura pianificata, possano scrivere la Divina Commedia. Dante, lui sì, poteva scrivere la Divina Commedia. Probabilmente come centravanti faceva cagare, e magari come persona era uno stronzo di prima categoria; ma nel suo briciolo di genialità poteva fare qualcosa che pochi altri, forse nessuno, avrebbero potuto fare, e con questo segnare il futuro della sua nazione a vantaggio di tutti.

In Italia, la retorica della squadra dà il peggio di sé; è diventata una esaltazione della mediocrità. I nostri numeri dieci, per salvarsi, sono tutti all’estero; a scoprire la cura del cancro in una Università americana o ad aprire gelaterie in Cina. L’Italia, un paese socialista intrappolato alla periferia del Vaticano, ha imparato velocemente a disfarsi del talento: perché conviene a molti. Conviene ai mediocri, ai raccomandati, ai piacioni e ai maneggioni, ai numeri due e cinque e quattordici e ventisette, che altrimenti sarebbero condannati ai margini dei riflettori. E’ molto più popolare promettere gloria per tutti e sostenere che anche Pepe e Marchisio possono giocare un mondiale da protagonisti; salvo poi tornare a casa al primo turno, umiliati dalla Slovacchia e dalla Nuova Zelanda.

[tags]italia, calcio, mondiali, maradona, berlusconi, socialismo, comunismo, società, egualitarismo, meritocrazia, competizione, talento[/tags]

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giovedì 10 Giugno 2010, 20:38

Bavagli selettivi

È interessante sapere che d’ora in poi l’Italia sarà il Paese in cui sarà vietato sia appurare che raccontare in pubblico che importanti personaggi politici o economici si telefonavano deridendo le vittime di un terremoto o accordandosi per regalare un appartamento a un ministro a sua insaputa, ma in cui si può tranquillamente pubblicare un servizio fotografico sui poveri resti di un cadavere lasciato per diciassette anni a putrefare nella soffitta di una chiesa.

In fondo, tutto ciò rispecchia perfettamente la cultura sociale degli italiani: ipocrita e guardona.

[tags]censura, legge bavaglio, informazione, giornalismo, italiani, ipocrisia[/tags]

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lunedì 7 Giugno 2010, 21:23

Quando la matematica è razzista

Negli ultimi giorni si propaga per la rete un’ondata di sdegno – una delle tante, ormai sembra che la rete serva più che altro a propagare sdegno – derivante da questo articolo di Repubblica, in cui il giornale di De Benedetti (ormai equivalente di sinistra di Libero) denuncia con vibrante protesta il fatto che alcune società di assicurazione auto praticherebbero tariffe appositamente differenziate tra italiani e immigrati extracomunitari.

A prima vista una cosa del genere può effettivamente sembrare scandalosa, ma in realtà essa lo sarebbe soltanto se fosse il risultato di una scelta politica, indipendente dalla realtà delle cose. E invece, è il frutto di pura osservazione statistica: non solo secondo le compagnie, ma addirittura secondo l’associazione di categoria della polizia stradale, gli extracomunitari sono coinvolti in una quantità di incidenti proporzionalmente molto superiore agli italiani.

Da sempre, le assicurazioni auto variano le proprie tariffe in funzione dei propri modelli statistici, sviluppati da un punto di osservazione privilegiato – quello di chi può avere in mano un database di tutti o quasi gli incidenti stradali che avvengono in Italia. Non conta dunque soltanto il livello nella scala bonus/malus, ma la provincia in cui si risiede, il sesso, l’età, e un numero sempre più ampio di fattori.

Tutte queste differenziazioni potrebbero essere considerate discriminatorie: perché la stessa assicurazione deve costare molto di più se si vive a Napoli invece che ad Aosta? Non è una forma di razzismo contro i napoletani? E il fatto che le polizze costino di più ai giovani maschi e di meno alle donne anziane è il risultato ideologico di gerontocrazia e femminismo? Addirittura, una assicurazione, fattasi i propri conti, propone “70 giorni gratis a chi è nato negli anni ’70”: non è una ingiusta discriminazione verso chi è nato il 31 dicembre 1969?

In seconda analisi, dunque, il caso montato da Repubblica si rivela come il classico sensazionalismo da giornale politicizzato: si prende una cosa tutto sommato normale e la si sovraccarica di significati ideologici per infiammare le folle. Se è vero che gli extracomunitari presentano tassi di incidentalità più elevati degli altri, è addirittura più equo che paghino tariffe più elevate; e se proprio c’è del razzismo, vorrà dire che ad essere razzista è la statistica.

E però, anche così la questione non è sufficientemente approfondita. Infatti, il principio di base delle assicurazioni è quello di condividere il rischio; tanti pagano mentre pochi ricevono, in base a un principio di solidarietà preventiva per cui ognuno preferisce pagare una piccola cifra che va a vantaggio di altri in caso non faccia incidenti, piuttosto che rischiare di doverne sborsare una grande in caso l’incidente tocchi a lui.

In teoria, perché un sistema assicurativo sia in equilibrio, la somma di tutti i premi pagati dovrebbe coincidere con il valore di tutti gli indennizzi da corrispondere a chi subisce un danno (in pratica la somma dei premi deve essere superiore, per permettere di coprire i costi operativi dell’assicurazione e il suo margine di guadagno). La cifra complessiva da raccogliere per pagare tutti gli indennizzi viene poi suddivisa cercando di far pagare di più chi rischia di più; e qui interviene la statistica, analizzando i tassi di incidentalità dei singoli gruppi di persone e la loro numerosità. Ed è assolutamente normale che gruppi diversi presentino valori diversi in questi due parametri, e portino dunque a tariffe diverse.

Peccato che la scelta di come suddividere le persone sia però totalmente arbitraria! Io potrei decidere di dividere quelli con gli occhi neri da quelli con gli occhi azzurri; verrebbe magari fuori che chi ha occhi azzurri fa mediamente più incidenti, e a questo punto potrei affibbiare loro una tariffa più elevata. Sarebbe equo? Statisticamente sì, perché chi ha gli occhi azzurri fa più incidenti; e per la matematica ciò è sufficiente a stabilire una correlazione tra le due variabili.

Una correlazione matematica non implica un rapporto di causa ed effetto – entrambi i fenomeni osservati potrebbero essere effetti di qualcos’altro – ma qualche influenza ci dovrà pur essere, se no risulterebbe che, su un numero sufficientemente grande di casi, l’incidentalità delle persone con occhi azzurri sarebbe uguale a quella delle persone con occhi neri. Per essere equo, dovrei dunque calcolare quanto costano gli incidenti provocati dagli occhi azzurri, dividere per il numero di persone e trovare così il giusto premio per assicurare gli occhi azzurri; analogamente, calcolerei un premio diverso per le persone con gli occhi neri.

Ma a quel punto si potrebbe andare oltre: tra le persone con gli occhi azzurri, potremmo distinguere quelle alte e quelle basse; e all’interno di ogni categoria, distinguere ancora delle sottocategorie sempre più piccole, ad esempio per fasce di altezza di un centimetro alla volta; e poi introdurre altri fattori. Anzi, man mano che suddividiamo il campione in gruppi sempre più piccoli, probabilmente le differenze aumenteranno, perché il numero di casi a disposizione per calcolare le statistiche sarà sempre più ridotto, e la casualità avrà un peso sempre maggiore.

Ma supponiamo comunque di poter sempre disporre di un grande numero di casi, tale da fornire dati statisticamente affidabili: a quel punto, possiamo portare il ragionamento all’estremo. Per raggiungere la massima equità, dovremmo avere gruppi di una persona sola, la quale dovrebbe pagare un premio equo pari al totale degli incidenti da sè provocati diviso il numero di persone nel gruppo (uno). In pratica, la massima equità si ha se ognuno si paga da solo i propri incidenti, abolendo le assicurazioni.

Peccato che in questo modo venga completamente meno il principio che sta alla base dell’idea stessa di assicurazione: la solidarietà reciproca, o, come si sarebbe detto nell’Ottocento, la mutua assicurazione.

Potremmo dunque pensare che tutta questa suddivisione in categorie, distruggendo la solidarietà, sia in realtà ingiusta: e andare all’estremo opposto, ovvero quello di abolire qualsiasi distinzione e far pagare a tutti gli italiani lo stesso premio assicurativo, indipendentemente da dove vivono, quanti anni hanno… e soprattutto, da come guidano. Così, però, sarebbe evidente un’altra ingiustizia: perché io, guidatore coscienzioso e prudente, devo pagare cifre elevate per coprire i risarcimenti degli incidenti provocati da persone che non sanno guidare o che guidano in maniera incosciente?

C’è, infatti, un problema alla base di quasi tutti i tipi di assicurazione: in ogni sinistro c’è una componente di disgrazia imprevedibile e inevitabile, ma c’è anche una componente di capacità e di volontà del danneggiato. Senza arrivare al problema degli incidenti-truffa, messi in piedi o gonfiati per arricchirsi con il risarcimento, l’assicurazione deve comunque coprire gli effetti di entrambi questi fattori: uno che, essendo slegato dalla volontà personale, porterebbe alla massima solidarietà e dunque a un premio uguale per tutti; un altro che, dipendendo direttamente dal danneggiato, porterebbe a diversificare il più possibile il premio per categorie o addirittura ad abolire l’assicurazione stessa.

Qual è dunque un sistema oggettivo, scientifico ed equo di determinare i premi dell’assicurazione auto? Beh, mi sembra chiaro che non esiste: qualsiasi scelta sarà sempre arbitraria e contestabile. Nell’arbitrarietà, ci sta anche che si decida che certi criteri non possono venire usati per diversificare i premi, forzando dunque la solidarietà dei più virtuosi verso i meno. Basta che si sia coscienti che sono tutte scelte politiche, e che comportano tutte un danno economico per alcuni e un vantaggio economico per altri, mettendo direttamente le mani nelle tasche degli italiani.

[tags]assicurazioni, statistica, matematica, rc auto, incidenti, razzismo[/tags]

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venerdì 21 Maggio 2010, 18:09

La zona rossa

Se in questa settimana non vi è ancora capitato di vedere le immagini di un gruppetto di studenti dell’Onda che entra al Salone del Libro, cerca di arrivare alla sala dove Giancarlo Caselli presenta un suo libro, i cui proventi vanno a favore di Libera e dell’azione antimafia di don Ciotti, e viene respinta con abbondante e gratuita violenza dalla polizia, con tanto di caccia al ragazzino isolato tra gli stand, vi consiglio di dedicarci dieci minuti.

Naturalmente si potrebbe partire con le generalizzazioni: e “polizia fascista polizia assassina” di qua, e “studenti fancazzisti andate a lavorare” di là. Non è questo l’interessante; a me interessa soprattutto notare una situazione che mi ha molto ricordato i racconti letti sul ’68, e forse più ancora sul ’77.

Caselli e don Ciotti sono due simboli del bene e della sinistra, giusto? Lo sono almeno per quelle persone che identificano il bene con la sinistra e non ammettono su questo discussioni; persone come Michele Dalai, editore del libro suddetto, che su La Stampa si scandalizza per l’accaduto e pianta un pippone moralista contro i giovani contestatori. Si tratta di persone talmente convinte di essere il bene, di essere nel giusto, che non riescono a concepire di poter subire una contestazione e che tale contestazione possa avere una qualsiasi ragione non dico condivisibile, non dico comprensibile, ma anche solo degna di qualcosa di più che una risposta scandalizzata.

Persone che non riescono ad accorgersi di essere invece chiuse in una torre d’avorio, in una sala pagata coi soldi degli operai e della fu classe media di cui loro non hanno mai fatto parte, dentro una ex fabbrica che la famiglia Agnelli si tolse dal groppone grazie al provvido aiuto di abbondanti fondi pubblici da loro destinati, promosse, presentate e montate in prima pagina dal giornale della famiglia suddetta, in una fiera organizzata e presieduta da un piduista (Rolando Picchioni, tessera P2 numero 2095) sempre grazie ad abbondanti fondi pubblici, protette dai manganelli della polizia al loro servizio, a presentare il libro di un “giovane uomo di legge”, tal Carlo Dalla Chiesa; uno che si è assolutamente fatto da sè, come potete leggere sul blog di suo padre, che si vanta di aver visto l’editore del libro del figlio quando stava in culla “all’Elba nel ’73”, cosa peraltro non strana dato che anche l’editore lo è in quanto “figlio di”, e precisamente dell’altro editore Alessandro Dalai, da cui lo divide profondamente la scelta della corrente PD in cui militare.

E’ questa la zona rossa dell’Italia di oggi: l’area protetta militarmente – con la forza pubblica, con l’occupazione dei media, con le auto blu e i giochi di partito, con l’uso comodo delle casse pubbliche – in cui vive l’establishment della sinistra italiana, sempre più solo, sempre più isolato, sempre più lontano dal mondo e sempre più sorpreso – anzi no, indignato – ogni volta che qualcuno osa indicare col dito la sua nudità.

Le accuse mosse da Caselli agli studenti dell’Onda, viste da fuori, sembrano davvero poco sostenibili, tanto è vero che Dalai si guarda bene dal menzionarle. Gli studenti sono stati accusati di “concorso morale” negli scontri per il G8 Universitario – altro evento da zona rossa militare costruito solo per l’orgoglio dei gerarchi della città, di cui feci al tempo un ampio reportage con tanto di foto – non per aver partecipato agli scontri stessi (cosa che andrebbe giustamente punita), ma semplicemente per avere organizzato o fatto parte del corteo.

Eppure la loro protesta scenografica ma pacifica, secondo Dalai, non ha diritto di esistere, anzi deve essere sconfitta da una silenziosa “marcia dei 400” – in realtà è stata bloccata a manganellate dalla Digos e poi dalla Celere in assetto anti-sommossa, ma anche questo Dalai non lo dice, parlando eufemisticamente di “contatto” – che, con il chiaro parallelismo con la marcia dei quarantamila, dimostra l’ormai totale riconversione mentale della dirigenza PD al ruolo del padrone d’antan, com’era l’Avvocato: un caso da manuale di invidia del pene quarant’anni troppo tardi.

E allora, che possiamo concludere? Noi che su Facebook siamo fan dei bulloni addosso a Luciano Lama non possiamo che solidarizzare con gli studenti; di cui non ci sta simpatica l’attitudine da centro sociale, ma che rappresentano la vita che reclama il suo spazio sociale, di fronte a questa congrega di anime morte che pretende di essere sempre nel giusto per diritto divino e di occupare per sempre il centro della scena con il proprio inutile bla bla.

Tanto, di bulloni ormai (e per fortuna) ne volano pochi; volano però le schede con la croce sul simbolo della Lega. La sinistra nelle piazze dovrebbe starci, non dovrebbe temerle esattamente o peggio di come le teme la destra; che girare per strada sia più facile per Borghezio che per Caselli dovrebbe farli riflettere. E invece no; e allora, che dire? Buon Formentini a tutti vent’anni fa, buon Cota a tutti al giorno d’oggi; buon Renzo Bossi a tutti fra vent’an… vabbe’, scusate, vado a vomitare.

[tags]sinistra, caselli, dalla chiesa, dalai, libera, don ciotti, salone del libro, picchioni, torino, pd, lega, borghezio, formentini, cota, bossi, intellettuali, luciano lama, marcia dei quarantamila, invidia del pene[/tags]

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martedì 18 Maggio 2010, 15:19

Oscurata RaiNews24

Oggi alla Rai è il giorno del grande salto: non solo Rai2 passa sul digitale terrestre per una decina di milioni di persone – Lombardia, Piemonte orientale ed Emilia occidentale – ma con l’occasione cambiano i loghi dei canali e in parte anche l’offerta. E però, zitti zitti, c’è anche una inquietante novità: è sparita RaiNews (ex RaiNews24).

Accendendo il televisore, infatti, dove prima c’era RaiNews compare ora Rai4; su Sky, al canale 506 – tra una CNN e una BBC World – compare un nuovo canale di sport, RaiSport2 (effettivamente sulle reti Rai c’era un po’ poco sport: domenica pomeriggio in contemporanea trasmettevano su Rai1 il gran premio di Monaco, su Rai2 il campionato di calcio e su Rai3 il Giro d’Italia).

Subito si è scatenata la polemica: giornalisti in sciopero, interrogazioni parlamentari e così via. Infatti, nell’epoca del Minzolini, RaiNews è rimasta l’isola marginale dell’informazione non allineata; diretta dall’ex TG3 Corradino Mineo, è stata ad esempio l’unica rete che ha trasmesso la manifestazione del popolo viola.

Naturalmente la Rai ha risposto che è stato tutto un equivoco; che sul digitale terrestre RaiNews è stata spostata per migliorarne la ricezione e basta risintonizzare i canali (sarà tipo la ventesima volta che bisogna risintonizzare i canali negli ultimi due anni). E sul satellite? Lì non c’è alcuna spiegazione plausibile, ma comunque secondo la Rai è colpa di Sky che ha incrociato i flussi per far notare quanto la Rai faccia casino.

Anche io, più che un grande piano di censura berlusconiana, penso a tre tecnici scazzati di Saxa Rubra che non avevano voglia di fare le cose per bene e che hanno gestito la migrazione in maniera superficiale, magari sapendo che nell’attuale situazione Rai, dovendo scontentare qualcuno, Mineo è chiaramente il vaso di coccio. E’ interessante anche notare come – con la crescita dell’offerta – anche in TV, come già su Internet, il problema non sia tanto il riuscire a trasmettere ma il venire indicizzati in posizioni visibili all’interno del “portale” di accesso, sia esso la numerazione sul telecomando o il risultato di un motore di ricerca. Sta di fatto che nessuno trova più RaiNews.

[tags]rai, rainews, digitale terrestre, sky, mineo, minzolini, censura[/tags]

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venerdì 14 Maggio 2010, 12:12

Mi raccomando

La raccomandata da me inviata dall’ufficio postale di via Marsigli, nel pomeriggio del 5 maggio, a Vodafone N.V. (la filiale di Vodafone che incassa i miliardi degli italiani ma paga le tasse in Olanda, tutto ciò nell’indifferenza generale del nostro ministero dell’Economia dato che c’è la libera concorrenza europea ecc. ecc.), casella postale 190, Ivrea, è stata ricevuta (timbro e firma) già il 6 maggio: ottimo.

Peccato che la ricevuta di ritorno, quando già davo la spedizione per persa, mi sia arrivata solo stamattina: 8 giorni per fare 40 km. Considerato che ho pagato il disturbo cinque euro e trentacinque centesimi, ossia quasi quello che avrei speso di treno o di bus per portarla di persona e tornare indietro, non mi sembra un gran livello di servizio.

[tags]poste italiane, raccomandate, vodafone, ivrea, tasse[/tags]

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mercoledì 12 Maggio 2010, 16:24

Formazione a tenaglia

Giusto ieri mattina, Specchio dei Tempi apriva con la lettera di una ragazza venticinquenne che esprimeva “sdegno”. Barbara, questo il suo nome, finite cinque anni fa le scuole superiori ha scelto il suo mestiere, e ha seguito un corso di formazione pubblico (per lei gratuito, e interamente pagato dalla Regione Piemonte) per diventare “Tecnico Marketing e Promotore Enogastronomico”. Bene, parrà strano, ma a cinque anni dal conseguimento di cotal qualifica la povera Barbara (alla quale, sia chiaro, va tutta la mia solidarietà) ancora non ha trovato lavoro. E allora si indigna: come mai la Regione non “chiama mai a lavorare” alle fiere del salsiccione e della tinca gobba il personale qualificato come lei, che si vede rubare il lavoro da altri ragazzi, assolutamente non preparati e non competenti nel settore della tecnica del marketing per la promozione enogastronomica?

E’ evidente una serie di ingenuità tutte italiane: quella di credere che per lavorare conti il pezzo di carta, anzi che il pezzo di carta conferisca una precedenza inconfutabile nell’accesso al lavoro; quella di immaginare che il lavoro non si ottenga con lo sbattimento dal proprio lato, ma si riceva per chiamata dalla mamma-Stato (o dalla mamma-azienda), ragion per cui il modo di ottenere un’occupazione sia quello di lamentarsi con gli enti pubblici; e quella di pensare che sia il pezzo di carta e il relativo corso di formazione a creare i posti di lavoro, anziché le esigenze del mercato.

Detto questo, Barbara ha ragione a lamentarsi; perché non ha alcun senso che gli enti pubblici spendano ogni anno palate di miliardi per organizzare corsi di formazione per qualifiche assolutamente strambe. Le fiere si sono sempre fatte, e non credo che si sentisse un problema di sottoqualificazione delle signorine messe lì a vendere barbera o salami nostrani. Ma se è l’ente pubblico ad autorizzare speranze poco sensate nei ventenni di turno, a cui spesso non viene data altra alternativa che continuare a studiare perché il lavoro non si trova, la responsabilità è innanzi tutto dell’ente pubblico stesso.

La verità, peraltro, è nota a tutti: il settore della formazione pubblica, che in sè avrebbe ampio merito, negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura proprio per consentire un travaso ottimo e abbondante di fondi dalle casse pubbliche a quelle di cooperative, aziende e gruppi vari ma invariabilmente vicini alla politica; e così altri settori contigui e ricchi di appaltatori pubblici, come quelli sociali, quelli culturali, quelli di vigilanza. In città il caso più noto è quello di Mauro Laus, la cui carriera politica va di pari passo con quella della sua Rear, che insegue o vince o perde appalti proprio mentre lui passa dalla Margherita al PD e poi ai Moderati e poi di nuovo al PD, naturalmente e sempre per motivazioni strettamente politiche.

Non dev’essere nemmeno tanto piacevole gestire un’azienda così, sapendo che al primo cambio di vento rischi di dover mandare a casa la gente. D’altra parte c’è il vantaggio che questi settori ben si prestano all’uso di forme giuridiche defiscalizzate come la cooperativa o l’associazione senza fine di lucro; tanto lo scopo non è pagare dividendi, è sufficiente pagare bei stipendi e bonus a chi li dirige o anche solo far girare i soldi verso sub-fornitori. E in tutto questo è essenziale che i corsi siano gratuiti o addirittura prevedano qualche lira per chi li frequenta, in modo da essere certi che si presentino degli studenti a giustificare lo stanziamento pubblico.

Esistono però anche altri “modelli di business”: ad esempio, il corso può non essere pagato dalle casse pubbliche, ma dagli studenti, costretti mediante l’istituzione di albi professionali dal dubbio significato a mettere mano al portafoglio nella speranza di poter poi lavorare. In questo caso, il ruolo della politica non è quello di finanziare direttamente le aziende incassatarie, ma quello di creare regole pensate essenzialmente per imporre alle famiglie una “tassa sull’aspirazione a lavorare”, nel contempo mantenendo comunque il controllo sui beneficiari dell’affare e creando l’ennesima castina all’italiana che, oltre a diventare un organizzato bacino elettorale, distingue chi può lavorare da chi no (salvo amicizie che permettano di chiudere un occhio).

In questa categoria ricade l’ennesima chicca che mi hanno segnalato oggi: la Regione Piemonte ha pronto un nuovo imprescindibile corso di formazione. Non ho idea di chi sia la fortunata azienda appaltatrice che dovrà farsi in quattro per fornire adeguata istruzione; so solo che si chiama Formont (ossia “formazione per la montagna”) ed è un “consorzio di enti pubblici e privati” non meglio specificato (immagino serissimo, eh; mica è tutto da buttare). Sono tuttavia curioso di sapere chi saranno gli insegnanti, dato che il corso intende formare i ventenni torinesi per una attività di grande valore aggiunto che richiede senz’altro altissima specializzazione: quella di buttafuori.

Ora siete liberi di ipotizzare in cosa consisteranno le 51 ore di corso, divise tra 24 “giuridiche” (come pestare un passante e non finire in galera), 9 “tecniche” (le migliori posizioni spaccaossa) e 18 “psicologico-sociali” (il dramma interiore del buttafuori moderno), che permetteranno poi di iscriversi all’agognato “albo dei buttafuori”. Sono certissimo che l’istituzione di questo pezzo di carta a pagamento permetterà di ridurre quegli incresciosi episodi di accoltellamenti e risse tra buttafuori e clienti: un po’ come l’ordine dei giornalisti garantisce in Italia una grande libertà di stampa.

[tags]formazione, regione piemonte, laus, moderati, pd, fondi pubblici, buttafuori, lavoro[/tags]

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