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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


lunedì 17 Novembre 2008, 19:04

Aspettando l’inverno

Oggi, nel blog, volevo raccontare qualcosa. E le cose da raccontare non mancavano: abbiamo passato tre giorni in Toscana a girare, prima in Versilia, poi le mura di Lucca al crepuscolo, un giro notturno in piazza dei Miracoli, un intero sabato a Firenze con tanto di inattesa visita agli Uffizi, domenica a San Gimignano e poi una passeggiata a Viareggio, prima di tornare indietro.

Tutto ciò è molto bello, specialmente nel clima struggente dell’autunno, in cui tutti i colori della decadenza si lasciano accompagnare dal sole verso il freddo dell’inverno. Eppure, mi sono accorto che il mio istinto sarebbe stato quello di raccontare solo le cose che non funzionavano: l’allestimento tremendo degli Uffizi, per esempio, o quanto ormai la giungla che regna sulle nostre pessime autostrade la domenica pomeriggio sia un ottimo esempio del deterioramento della nostra convivenza civile.

Scivolando da una crisi all’altra, però, non si può far altro che incupirsi; e invece preferirei raccontarvi dell’inspiegabile ostinazione con cui la natura si adatta a resisterci, permettendo la sopravvivenza almeno temporanea delle colline e del mare. Ci sono, insomma, motivi per sperare; è un peccato che essi giacciano prevalentemente al di fuori delle azioni dell’uomo.

Ogni momento storico riflette gli umori delle persone che lo vivono, ed è probabilmente per questo che le cose vanno male; finché non sarà ognuno di noi a trovare una ragione di speranza e un progetto futuro, il risultato sarà soltanto una sottile disperazione rimossa, o una rabbia da scaricare come e dove capita – anche solo facendo a gara in autostrada.

Eppure, credo che ognuno di noi abbia un’idea di come il mondo potrebbe essere reso migliore. Quella che si è inceppata non è la capacità innata dell’uomo di progettare il futuro, bensì la cinghia sociale che permette di implementarlo. In una società così complessa, peraltro, anche questa cinghia è meno chiara e diretta del passato; eppure c’è.

Spesso sembra invece che alle persone di questo tempo non importi del futuro, o che abbiano già rinunciato a crearlo, limitandosi a volare basso, o più spesso a non volare proprio; e magari a risentirsi pure se qualcuno non si adegua, protesta, fa qualcosa.

Al contrario, per me senza futuro si è bloccati; non si può vivere senza guardarsi avanti. Mi chiedo, quindi, perché le persone sembrino così spesso rallentare la rotazione del pianeta; come se non spingessero più, aspettando che esso si fermi, esaurita l’inerzia.

[tags]toscana, stagioni, autunno, inverno, futuro, persone, storia, umanità[/tags]

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venerdì 14 Novembre 2008, 22:39

Tempo e cucina

Ci sono dei momenti in cui succede qualcosa di inatteso, che ti fa improvvisamente realizzare quanto lo scorrere del tempo sia dolorosamente reale.

Uno di questi momenti mi è capitato stasera, a Pisa, in giro con Elena per un weekend lungo per i fatti nostri, seguito alla riunione di consiglio di Società Internet. Avendo già fatto un’abbondante colazione e un pranzo di quattro portate, non avevamo intenzione di mangiare più di tanto; per questo, invece che verso un buon ristorante, avevamo deciso di puntare verso una banale pizzeria.

Ho quindi pensato di ritornare in un locale storico: la pizzeria La Tana, in via San Frediano. Lì, nell’autunno 1999, si tenne uno storico raduno di it.fan.culo; e ci ero tornato anche qualche anno dopo. Era un locale alla buona, con l’insegna gotica come un pub bavarese, con le pareti di legno e con una illuminazione scarsa; costava poco, aveva dei bei tavolacci densi e affollati, di antipasto ti davano lo gnocco fritto (o comunque si chiami qui) e mi rimandava a bei ricordi.

Bene, l’insegna gotica c’è ancora, ma il locale, dentro, è stato completamente rifatto: adesso è illuminato a giorno e ha le pareti di un elegante color salmone, come una qualsiasi pretenziosa pizzeria di periferia. Solo vederlo da fuori è stato uno shock; ho impiegato dieci minuti a riprendermi, e sono comunque rimasto con un orribile senso di vuoto.

Naturalmente non siamo nemmeno entrati, e ho riempito il senso di vuoto presso l’adiacente Osteria dei Cavalieri, che è il locale dove dovete andare se volete mangiar bene a Pisa, anche se può dare effetti collaterali. Abbiamo requisito uno degli ultimissimi tavoli e ci siamo sparati tutto, antipasto, primo, secondo e dolce; in particolare, erano eccezionali sia i tortelli al pecorino e pepe nero con sugo di pomodoro fresco e fagioli, sia le pappardelle all’arrosto di lepre (non un ragù, proprio scaglie di arrosto). Abbiamo mangiato benissimo, in un posto allegro e curato senza essere presuntuoso, spendendo 35 euro a testa, che è il prezzo giusto per quel genere di ristorante; non ci siamo abboffati ma non siamo usciti con la fame.

Resta, però, la preoccupante sensazione di quando la terra ti si apre sotto i piedi; non è come quando hanno raso al suolo il mio liceo, ma ci siamo vicini.

[tags]ricordi, ristoranti, pisa, cavalieri, osterie, tempo[/tags]

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domenica 19 Ottobre 2008, 21:43

Le nuvole d’autunno

Passare un fine settimana in montagna, d’autunno, è meglio ancora che farlo d’estate o d’inverno. D’autunno la natura è bellissima: gli alberi hanno qualsiasi colore, dal giallo al beige all’arancione al rosso, oltre naturalmente al verde e al marrone. L’aria è piena di profumi di pini e umidità, mentre gli animali si godono l’ultimo sole prima di prepararsi per l’inverno o di scendere a valle. E poi, fuori non c’è nessuno: chissà perché, le torme urbane hanno deciso che la montagna merita una visita soltanto d’estate o d’inverno. E invece, questo è uno dei periodi migliori.

Eravamo così da soli, gli unici di un intero villaggio di un centinaio di appartamenti, insieme alla vecchia Panda scassata del custode. O meglio, ieri pomeriggio c’è stata una apparizione: di colpo, nel piazzale davanti al bar, sono comparse delle Porsche Carrera. Ma non una, non due, almeno una dozzina; va a sapere cosa ci facessero lì, probabilmente un raduno. Sono sparite presto, ad ogni modo. Non appartenevano al luogo.

E così, si rimane soli, dentro il caldo della casa, a guardar salire le nuvole. Ci sono intere giornate, d’autunno, in cui la casa è immersa nelle nuvole, tanto da parer quasi il finale di Solaris. Invece, si è semplicemente isolati in una coltre di vapore che sale dalla valle, persi nel grigio e nel nulla, e quindi di fronte soltanto alla luce emessa da se stessi. Non c’è Internet, non c’è rumore di auto o di aerei, non c’è nessuna traccia di civiltà; soltanto, finalmente, natura.

E’ difficile, al giorno d’oggi, mantenere il senso della propria naturalità; allontanarsi dalla città aiuta. Anche rapportarsi con gli animali aiuta, purché non siano i cani e i gatti cittadini, nevrotici persi, che di naturale hanno ben poco; preferisco piuttosto le mucche o gli stambecchi. Entrare nel bosco è ancora meglio: si capiscono secoli di favole apparentemente inspiegabili; si capisce la magia che genera quel dedalo di alberi, dove perdersi è non solo facilissimo, ma doveroso.

Eppure, il fatto che in questo sabato d’autunno fossimo soli, là, in mezzo alle nuvole, dimostra che pochi apprezzano l’idea di trovarsi faccia a faccia con la (propria) natura. Ho come il sospetto che molti, anzi, ne abbiano paura.

[tags]montagna, bosco, autunno, natura, nuvole[/tags]

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sabato 20 Settembre 2008, 12:16

Le leggende erotiche della provincia di Biella

Devo aver mangiato troppo, quest’estate; non mi si chiudono più le camicie. Eppure anche questo sarà un weekend mangereccio; in attesa dell’odierna Sagra della pizza di Pratrivero (BI), iersera ci siamo trovati con un gruppo di amici gaudenti all’Agriturismo Il Molino di Cavaglià (BI) (però questo è un BI stentato, proprio all’incrocio con VC e TO; uscita A4 Santhià). E’ un posto simpatico dove per venticinque euro ti danno qualche antipastino, un po’ di formaggi, un dolcetto, il caffé; e una bella costata al sangue. Si sente un po’ la mancanza dei carboidrati, ma ciò è comunque reso secondario dal fatto che nella cifra di cui sopra sono comprese anche quattro bottiglie di vino in cinque. E uno dei cinque praticamente non beveva. E non ero io.

Si diceva appunto che tantissimi anni fa la paglia odorava di paglia, e l’erba sapeva di erba. Per i bambini di campagna c’era ogni scusa per perdersi, e per estrinsecare la propria natura incipiente in un’estate calda; una espressione di sperma così tanto per fare, felici di una felicità normale come le mucche e i conigli. Oggi non è così, e per perdere la verginità ci vogliono una laurea e l’autorizzazione del Papa; la vita è inutilmente complicata.

La stradina dell’agriturismo è un ottovolante sgommoso, ma finisce subito; la radio invece attacca “bello, bello e impossibile, con gli occhi neri e il tuo sapor mediorientale”. Grazie grazie, prima di scoprire che su qualsiasi canale io giri ci sono sempre i redivivi Verve, la cui canzone fa oh-oh oh-oh oh-oh oh-oh (eco ad libitum); e al massimo un finto reggae appena passabile che a naso attribuirei ai Maroon 5 (il secondo disco è sempre il più difficile nella carriera di un artista). Musicalmente omologati nella notte d’autunno; vorrei imboccare l’autostrada ma c’è un furgone fermo sulla tangente della seconda rotonda, e mi tocca inchiodare in piena piega. Lui è indiano e non sa dove prendere per Genova, e per fortuna che lo indirizzo. Il resto è tutto dritto, anche se sulla strada ci sono altri incerti e zigzaganti; è un venerdì notte qualsiasi, mai una pattuglia della stradale a toglierti la patente. Arrivi al punto che le macchine ti sfrecciano accanto in direzione retro, prima ancora che tu le abbia coscientemente vedute.

Anni fa, ricordo di aver dormito in coppia con la faccia su un tavolino, incurante delle ucraine seminude che popolavano il Con-Tatto di Oldenico (VC, ma è di quel VC che sarebbe passabile come basso BI), uno di quei posti che io, con il mio ingegnerismo di ortodossia nerdica, mai avrei immaginato che esistessero; peraltro, anche dopo che gli amici allupati mi ci portarono, la mia risposta fu la faccia sul tavolino, fino a che qualche polacca strafiga non venne a svegliarci a tettate, giacché dormendo abbassavamo il tono del locale. Gli amici erano già spariti a botte di cinquantaeuri nel privé, che poi io conclusi che il privé era una tortura perché di scopare non se ne parlava, e allora – se avessi mai deciso nella mia vita di andare a puttane – almeno avrei pagato per concludere e non per farmelo tirare. Love, children, is just a kiss away.

L’undicesima edizione dell’Enciclopedia Britannica (1911) è a tutt’oggi considerata come il punto più alto della sistematizzazione del sapere anglosassone. Certo, su alcune cose è ovviamente un po’ antiquata: non è più corretto definire Trieste come “the principal seaport of Austria, 367 m. S.W. of Vienna by rail”, e nemmeno dedicare qualche pagina a discutere se la teoria che la materia sia fatta di atomi sia credibile o meno, concludendo che “it has more than once happened in the history of science that a hypothesis, after having been useful in the discovery and the co-ordination of knowledge, has been abandoned and replaced by one more in harmony with later discoveries. Some distinguished chemists have thought that this fate may be awaiting the atomic theory”. Inoltre, non credo che piacerebbe ai nostri storici sentire che il Ku Klux Klan è l’equivalente americano della Giovine Italia di Mazzini; e pare che alla voce “negro” non si possa più dire che “the arrest or even deterioration of mental development [after adolescence] is no doubt very largely due to the fact that after puberty sexual matters take the first place in the negro’s life and thoughts.” Teorie più moderne dimostrano infatti che gli affari sessuali occupano un posto centrale nel pensiero di qualsiasi essere umano in età riproduttiva (posso confermarlo su base statistica per i maschi; le femmine tirino una riga nei commenti), e che la differenza, al massimo, sta in quanto ci si concede di esserne consapevoli ed esplicarli.

Ci sono un sacco di posti dove da sempre i ragazzi usavano fare sesso; solo l’arrivo della civiltà dell’automobile, negli anni Sessanta, li ha mandati progressivamente in disuso, a favore dell’imboscarsi quieto nelle stradine di campagna e in tutti i piazzali cittadini (per Torino si spazia dal Monte dei Cappuccini al Castello di Rivoli, anzi su quest’ultimo ci troverete pure la Fernanda Lessa con la gomma bucata). Prima era diverso; e se in campagna era uno spasso, in città la situazione non era così semplice. Fonti del periodo confermano che, in fin dei conti, c’era un solo luogo sempre aperto, gratuito, buio e per la maggior parte del tempo totalmente vuoto; e così sono tante le verginità perdute per passare il tempo, negli anfratti e nei confessionali dei templi della Beata Vergine.

Cosa dunque possiamo concludere sulle leggende erotiche della provincia di Biella, nel momento in cui la vita si risveglia dopo il lungo letargo della notte, all’alba delle undici e trenta di un sabato mattina? Innanzi tutto che sono tutte vere; e questo può essere certificato da un grande numero di testimoni. Inoltre, possiamo dire che sono assolutamente naturali, e se qualcuno vi ha trovato elementi di stupore o di sdegno è persona che ha seri problemi con la propria anima animale. Talvolta c’è negli uomini contrapposizione tra lo spirito e la carne, ma, come potete vedere, ciò che la società separa l’etimologia riattacca. E quindi, “if in doubt, follow your instinct”: è giunto indubbiamente il momento per lasciare che la natura faccia il suo corso.

[tags]uh… vediamo… biella, pizza, agriturismo il molino, santhià, vita, morte, sesso, riproduzione, chiesa, prati, verginità, madonna, uh la madonna, vino, enciclopedia britannica, fernanda lessa, torino, negri, animali, istinto, mazzini, papa, oldenico, gianna nannini, verve, maroon 5, rolling stones, natura, anima, tutto si tiene[/tags]

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martedì 16 Settembre 2008, 13:34

Moderazioni accidentali

Stamattina Specchio dei Tempi pubblica uno “speciale via Monte Ortigara”: ben due delle lettere odierne si lamentano del tratto di strada di fronte alla biblioteca civica.

Nella prima, una signora si lamenta di essere stata molestata da due ciclisti che percorrevano il marciapiede e le hanno chiesto di spostarsi; nella seconda, la lamentela è che durante le partite giovanili domenicali sui campi di calcio ci sono numerose auto parcheggiate in doppia fila e bisogna andare sulle tribune a chiedere di spostarle, e nonostante questo un vigile presente non è intervenuto.

E io ho pensato che in entrambi i casi le persone che si lamentano hanno formalmente ragione, ma che la cosa si sarebbe risolta molto più semplicemente con un po’ di cortesia e tolleranza reciproca; in fondo alla signora sarebbe costato poco fare un passo più in là e far passare le bici, invece di piazzarsi in mezzo al marciapiede come una giustiziera, e anche il dover perdere un minuto a farsi spostare una macchina può essere compensato da quando toccherà a noi scendere un attimo per una commissione veloce, e lasciare la macchina in doppia fila sarà magari l’unica alternativa allo spuzzettare in giro per venti minuti cercando un posto che non c’è. Certo questo non giustifica lo sfrecciare in bici sotto i portici o il mollare la macchina in mezzo alla strada per mezz’ora senza curarsene; ma, appunto, est modus in rebus.

Pensavo a queste cose quando, poco fa, stavo guidando su corso Ferrucci per tornare in ufficio. Sono arrivato all’incrocio con via Monginevro, dove volevo girare a sinistra per prendere da mangiare nella piazzetta. Mi sono accodato a una lunga fila di auto in attesa di svoltare; in cima c’era una macchinetta, che poi ho scoperto guidata da un vecchietto, cosa peraltro intuibile perché si era fermata per storto proprio all’inizio dell’incrocio, costringendo il furgone e le auto che la seguivano a restare molto indietro.

Il vecchietto pareva del tutto addormentato: non ha girato anche quando dall’altra parte non è arrivato più nessuno, e non ha accennato a muoversi nemmeno quando il semaforo è diventato giallo. A quel punto ho capito che non ce l’avrei mai fatta a girare; per cui, sfruttando l’assenza di auto in arrivo, mi sono spostato e ho cominciato a superare sulla destra la fila di veicoli fermi, per poi girare più avanti e parallelamente a loro.

Peccato che il furgone che stava un paio di auto davanti a me, spazientito dall’abulia del primo della fila, abbia avuto la stessa idea e abbia cercato di spostarsi sulla destra esattamente mentre io lo sorpassavo. Andavamo entrambi piuttosto piano, io ho suonato il clacson e il furgone ha subito inchiodato; ma ci siamo toccati.

A questo punto abbiamo accostato, siamo scesi, e il signore del furgone si è subito scusato. La situazione era dubbia; tecnicamente io avevo ragione, ma fino a un certo punto, visto che stavo sorpassando a destra la fila di auto in svolta (cosa permessa) ma anche che il semaforo era già diventato rosso e che io comunque volevo poi svoltare a sinistra davanti a loro. Il signore però non ha provato né a scaricare la colpa, né a lamentarsi; abbiamo guardato il danno, che consiste in un rotondo incavo nella carrozzeria all’altezza della ruota, dal lato del guidatore, tra la fine della porta davanti e la ruota stessa. L’incavo è visibile e innegabile, ma non più di questo; se non lo si va a cercare, probabilmente non lo si nota.

Insomma, il signore mi ha detto che se volevo mi dava i dati e facevamo la denuncia. Io ci ho pensato; avendo ragione, avrei potuto rifarmi gratis la parte bassa del davanti, compreso il paraurti che già ha graffi e sbugnature. Però il danno era davvero minimo, e io ho ripensato alle considerazioni della mattina. Una città è un luogo sovraffollato, dove siamo tutti di corsa; di manovre così ne facciamo a bizzeffe; sarebbe potuto succedere anche a me. Quindi mi sono limitato a prendere i dati, in caso di necessità, ma poi ho lasciato perdere.

E’ un periodo in cui c’è una evidente e sempre più folle tendenza a giudicare per categorie e per preconcetti, attribuendo ragione e torto con tanta prontezza quanta approssimazione. Questo vale per episodi clamorosi come il ragazzo nero ucciso a Milano, dove pare che la vittima avesse prima rubato nel negozio degli uccisori e che la rissa sia iniziata per questo, e dove alcune testimonianze suggeriscono persino che sia stato lui il primo a menare le mani, o che sia morto per un singolo colpo sferrato durante la colluttazione, e insomma non si capisce ancora bene chi abbia fatto cosa e perché, ma per mezza Italia è già diventato un episodio di razzismo e di “caccia di gruppo al nero con le spranghe”. Ma vale anche per piccoli casi di cronaca come questo, intitolato “Ventenne travolto da ubriaco”, dove come al solito i parenti della vittima parlano di “giustizia”, e però poi nel testo dell’articolo si scopre che l’“investitore” era sì ubriaco, ma fermo in attesa di girare a sinistra, e il “ventenne travolto” gli è arrivato dentro da dietro ad alta velocità.

Alla fine, persino quando c’è una ragione e c’è un torto, sono pochi i casi in cui chi ha torto ha anche mostrato cattiveria, supponenza, cattiva fede. Eppure, in un clima di frustrazione generale, è più facile per tutti se al torto si associa automaticamente la dannazione assoluta. Purtroppo, però, questo non facilita la convivenza.

[tags]torino, incidenti, giustizia[/tags]

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lunedì 15 Settembre 2008, 11:56

Incontro con l’Africa

Partiamo dalla piazza centrale di Maputo, davanti alla fortezza portoghese e al centro politico del Mozambico.

La prima strada è larga e piena di automobili; alcune sono scassate in modo incredibile, ma sono molti di più i SUV e i pickup nuovi di zecca. Qui, almeno, avere un fuoristrada ha senso; questo perché le strade sono piene di buche gigantesche, anche in piena città. Tranne qualche isolata innovazione realizzata dagli stranieri, le infrastrutture – le strade, i palazzi, l’illuminazione, i marciapiedi – sono quelle realizzate dai portoghesi fino al 1975.

I mozambicani, preso il potere, si sono limitati ad usarle; per molti versi sembra di vivere in uno di quei film apocalittici in cui il mondo è stato distrutto, e i sopravvissuti cercano di riutilizzare le rovine e le poche infrastrutture rimaste, senza più sapere come costruirle o mantenerle. Per esempio, il meraviglioso giardino botanico in pieno centro ha ormai i vialetti sconnessi, i mosaici spaccati, i canali intasati e le serre con le porte sfondate e il tetto rotto; loro, però, non lo notano nemmeno e lo usano con grande piacere, senza nemmeno tappare le buche… in fondo, basta scavalcarle. Su molti palazzi ci sono addirittura ancora le insegne delle compagnie o delle istituzioni portoghesi che li occupavano prima della Rivoluzione.

Lasciando il centro, si percorre il lungomare: una bella passeggiata pavimentata come nelle città di mare mediterranee, che però ogni tanto si interrompe e finisce nel vuoto, con pezzi di pietra penzolanti, là dove l’acqua l’ha portata via. La spiaggia è libera, e ogni tanto spuntano alberi e baretti.

A un certo punto spunta una novità: una serie di villette a schiera davanti al mare, costruite dai sudafricani come case di vacanza per ricchi locali e borghesi di Johannesburg. A fianco, un casinò e un costruendo centro commerciale, con i ristoranti e i negozi. Il tutto è ovviamente chiuso e circondato dal filo spinato elettrificato, come le riserve degli elefanti.

Dopo un po’, si svolta verso l’interno; le case sono ancora belle, ma più modeste, come villette di mare nostrane. Qui le vie non hanno nomi ma numeri: via 1523, via 4287… La strada è sterrata e piena di ragazzini in divisa che tornano da scuola; la scuola è carina, con un ampio cortile, e piena di murales che proclamano “sì alla lotta all’AIDS”.

Si attraversa una laguna paludosa, e la strada ha sempre più buche; c’è un prato che potrebbe anche essere un campo, e in fondo si vede un insediamento, un bairro come tanti altri. Si attraversa per qualche centinaio di metri una zona di nessuno, e poi comincia il bairro.

Qui le vie non hanno più niente, né nomi, né numeri, né un percorso definito; sono delle tracce sterrate in mezzo alle quali cresce l’erba, che seguono un percorso tortuoso aggirandosi tra le case. Già, perché la pianura sabbiosa, da cui si alza una nuvola di polvere mentre passiamo con il fuoristrada, è coperta di casupole. Sono regolari, nel senso che anche loro, come tutte le case, sono state costruite e comprate a prezzo di mutui e sacrifici; su alcune c’è addirittura scritto “Vende-se”. Solo che sono casupole di una decina di metri quadri al massimo, molte anche di meno, costruite sovrapponendo mattoni grigi di cemento preformato, con un tetto di lamiera, talvolta anche di paglia.

Ognuna ha un cortile che in realtà è un’aia, perché non è delimitato in alcun modo, nemmeno rispetto alla strada; del resto, ci sono torme di bambini che scorrazzano ovunque, strada compresa, visto che non ci sono veicoli. L’unico mezzo di trasporto per gli abitanti del quartiere è mezz’ora a piedi verso la strada principale, dove passano gli chapa, i furgoncini privati condivisi, pigiati fino all’inverosimile, che svolgono il trasporto pubblico in Africa, come zanzare impazzite che passano a intervalli irregolari e imprevedibili.

Il nostro autista si ferma, abbranca un bimbo che avrà cinque anni, lo manda a preavvertire che sta arrivando; il bimbo sparisce tagliando per il nugolo di casette. Noi seguiamo le tracce, piano piano, perché ovviamente più di dieci all’ora non si può fare; a un certo punto, davanti a una casa uguale e diversa (sono tutte fatte allo stesso modo, ma essendo autocostruite sono anche tutte un po’ diverse) ci fermiamo e scendiamo. E’ la casa del nostro autista. Da tutte le case all’intorno, le persone escono sull’aia; ci guardano come se venissimo da Marte. Entriamo.

La casa è buia e fatta di due stanzette (il buio è voluto, per resistere al calore). Il pavimento è di terra battuta, uguale all’esterno; e ogni angolo è buono per tenerci qualcosa. Più ancora che la casa in sé, colpisce ciò che c’è dentro: non è che non ci sia niente, ma sono quasi tutte cose che per noi hanno ormai poco senso, dalla bacinella per lavare a mano i vestiti al parallelepipedo di metallo che fa da cucina, con una pentola d’acqua sopra e la brace sotto. Nella camera da letto, per terra, sovrastate da un filo tirato tra le pareti che regge i panni stesi, ci sono le stuoie su cui si dorme; su una di esse c’è un bimbo di un anno che dorme tranquillo, avvolto in qualche panno. Ce lo mostrano, perché è l’orgoglio della famiglia.

C’è qualcosa di antico in tutto questo; in parte è come entrare in un museo, e vedere dal vivo immagini osservate tante volte in fotografia, ma mai di persona. Gli oggetti sono poveri e disparati, accumulati su qualche scaffale di legno. Non c’è acqua corrente – c’è un pozzo più in là nel quartiere – ma, cosa già rara per il Mozambico, arriva l’elettricità, anche se (credo) tramite un generatore da attivare alla bisogna. In tutta la casa, ci sono soltanto due cose del nostro mondo occidentale:
1) Un televisore, di tipo tradizionale e di marca sconosciuta, ma neanche troppo scarso;
2) Varie scatole di latte in polvere Nestlé.

Salutiamo, ripartiamo. Il nostro autista si mette a piangere d’orgoglio: deve avere tipo venticinque anni, e ci racconta di come è riuscito piano piano a trovare un lavoro, a risparmiare, a comprare il terreno, a costruire la casa, e nel frattempo sposarsi e avere dei figli. (Omette di dirci che ha numerose altre amanti e figli sparsi un po’ ovunque, cosa che per i mozambicani è del tutto normale, ma si sa che i bianchi hanno questo incomprensibile concetto della fedeltà coniugale.) Adesso, a forza di risparmiare, ha addirittura potuto comprarsi un Ipod tarocco cinese, l’oggetto più cool del momento, anche se poi ha bisogno che qualcuno gli carichi la musica.

A noi, la povertà materiale colpisce. Siamo talmente attaccati alle nostre cose che ci sembra impossibile poter vivere senza un divano, senza uno stereo, senza una lavatrice o un forno a microonde; la casa al mare o in montagna, la macchina, il vino e la coca-cola. Eppure, gli africani lo fanno; e poiché non sono stati (non ancora e non completamente) educati al ciclo del desiderio materiale da appagare ad ogni costo, non sono più infelici di noi. Anzi, la sensazione è che, tutto sommato, almeno fino a che questo livello di ricchezza materiale non diventa un problema per sopravvivere, per aver da mangiare, per le malattie, vivano come e meglio di noi.

[tags]viaggi, africa, mozambico, maputo, televisore, nestlé, ricchezza[/tags]

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venerdì 15 Agosto 2008, 10:51

Ferragosto

Oggi è Ferragosto, e volevo rivolgere un pensiero a come sono cambiate le nostre vacanze estive. Quando eravamo ragazzi – meno di vent’anni fa – quasi tutte le famiglie passavano in vacanza un mese o più, al mare o in montagna; magari dai parenti o in campeggio per ridurre i costi, ma quasi tutti cercavano di lasciare la città per parecchie settimane, lasciando magari solo il capofamiglia a fare un po’ di su e giù se proprio non poteva prendere tutte le ferie.

Al mare in Liguria, la folla di torinesi era tale che spesso ritrovavi qualche vicino di cortile o di scuola; sembrava un po’ una succursale della città. La vacanza passava tra spiaggia, letto, giochi di vario genere e giusto qualche gitarella ogni tanto; da ragazzi ogni tanto si aveva da studiare, ma il grosso del tempo era riposo.

La sera, poi, si usciva e si andava a prendere il gelato – generalmente confezionato, dal tabaccaio – seguendo gli ultimi trend pubblicizzati su Topolino: ogni anno uscivano mirabolanti invenzioni, come il Calippo o il gelato di biscotto rotondo coi pezzetti di cioccolato, che per l’Italia degli anni ’80 era un lusso inimmaginabile. E poi si andava a fare la coda alla cabina telefonica, per chiamare i parenti; la coda alla cabina era un altro momento di socializzazione, mentre si cercavano di mettere insieme i gettoni telefonici: un oggetto oscuro e anche economicamente misterioso, visto che ogni tanto ne raddoppiavano di botto il valore e ognuno di noi si ritrovava per magia più ricco di qualche centinaio di lire, mentre l’azienda telefonica faceva fortune, solo che allora si chiamava SIP ed era dello Stato, quindi non faceva differenza.

Oggi, le vacanze sono diventate un altro lavoro; si sono accorciate e addensate. Si sta via otto giorni, nei quali però la spiaggia vietatissima è, a meno che non sia in un altro continente e non venga accompagnata da discoteche fino alle tre di notte e giornate di “sport” inventati da un australiano ubriaco, tipo il windsurf appesi coi denti a un cavo trainato da quattro bufali di mare in calore. In alternativa, bisogna salire su un aereo low-cost per poi affittare un’auto e vedere un intero Paese a tappe forzate, duecento chilometri al giorno con pause foto contingentate di dieci minuti ogni ora, esattamente come i turisti giapponesi che da ragazzi prendevamo in giro. Naturalmente, l’organizzazione di questo tour de force richiede ulteriore lavoro, per cui i mesi precedenti la vacanza si riempiono di ulteriori attività preparatorie; si arriva in vacanza stanchi e si torna più stanchi di prima.

Le cabine telefoniche non esistono quasi più, se non in qualche frazione sfigata e dimenticata da Dio; ormai c’è il cellulare, grazie al quale – dopo soli dieci minuti di danze voodoo per trovare campo – siamo sempre reperibili per qualsiasi rottura di scatole, anche dall’altro capo del mondo. In compenso, la SIP è diventata Telecom e fa arricchire alle nostre spalle, a turno, tutti i capitalisti raccomandati d’Italia. I gelati sono preparati a mano secondo le “antiche ricette di una volta” (il che, a rigor di logica, dovrebbe voler dire che hanno riaperto gli stabilimenti Sanson ed Eldorado, e invece non è così), costano tre euro a cono e quando te li vendono te li fanno pesare come a dirti “ringrazia che, per ora, puoi ancora permetterti un gelato”.

In effetti, anche io sono arrivato in montagna pensando che avrei comunque, ogni tanto, fatto qualche lavoretto, di quelli che durante l’anno proprio non ci stanno. Invece sto passando le giornate a dormire e guardare la televisione, e ne sono proprio fiero.

[tags]italia, vacanze, ferragosto, telecom, gelato[/tags]

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martedì 29 Luglio 2008, 01:49

Nouvelle cuisine

Irrici! Che caso d’ubriachezza molesta
mi féste diventare per la cena,
e già io vi arrivai in ritardo
per via del compleanno di Salvofan, e non importa
e poi anche perché su Google Maps
lo stesso sito del ristorante Le Chiuse
la bandierina segnaposto segna nel posto sbagliato.

E poi è un ristorante lento lento,
lento, lento lento, leeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
anche se il cibo era buono.

Finisce così all’una di notte
quando il taxi del mattino è prenotato alle cinque e quindici
(i locali volevano le cinque e dieci, ma i tedeschi si sono imposti)
(avevano sonno e li capisco)
insomma dormirò quattro ore
ché ora devo ancora fare la valigia.
Però, che pieghe dritte alla camicia!

Saluti di qui all’amico Lauri
l’uomo che inventò il Nokia Padellone
(quella roba grigia che si usava a fine anni ’90)
e poi inventò anche il Nokia Forum
che noi usammo in abbondanza per chiedere dettagli delle midlet
perché Java in pratica è un pacco e non funziona mai.

Chiedete a chiunque se funziona Java: non funziona!

Ho visto però in atto un Nokia nuovo
che fa da computer con Linux sopra
e insomma, il mio HTC fa anche le foto
ma non è la stessa cosa
affatto.

Devo piegare la cravatta? E che succede
se la cravatta poi è spiegazzata
già oggi sono stato zitto tutto il tempo
e non avrò certo impressionato
e bon, però la sorpresa di festa c’è stata
anche se ero due ore e mezza in ritardo. Càpita!

C’è solo più una cosa da ridire
mentre estraggo il nastro da pacchi per chiuder la valigia:

basta nouvelle cuisine, e che cavolo!

[tags]dublino, viaggi, ristoranti, quell’espressione un po’ così[/tags]

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mercoledì 23 Luglio 2008, 09:43

Racconto di via Cuneo

All’imbocco di via Cuneo sembra quasi un quartiere per bene, con un fiume per bene e dei palazzi che lo guardano attraverso gli alberi, cercando di non diventare abbastanza alti da vedere gli spacciatori dall’altra parte del fiume.

All’incrocio di via Cuneo con via Cecchi bisogna schivare le macchine abbandonate ovunque, ferme di fronte a un phone center qualsiasi, cercando di non ostruire troppo il passaggio dell’11.

Poi via Cuneo sfocia in una piazza rotonda in salita che sembrerebbe un angolo remoto di Parigi, se non fosse che il suo solo scopo è coprire una ferrovia che non esiste più, il cui trincerone però resiste cocciuto per testimoniare che, sì, una volta si usavano i treni.

Di lì, prosegui per via Cuneo e ti sembra di esserti sbagliato un attimo, perché improvvisamente compaiono un rialzo nuovo, un vialetto nuovo, un giardino nuovo che sembra preso di peso dalla periferia dell’estrema cintura, teletrasportato fino lì dagli ultimi suburbi di Settimo o di Nichelino; ed è l’unica cosa nuova che sia stata fatta a via Cuneo negli ultimi cento anni.

Poi in via Cuneo inizia una maestosa alberata, una striscia di Champs-Élysées che messa lì in una viuzza qualsiasi non ha veramente alcun senso, se non quello di ricordarci che una volta chi costruiva le fabbriche aveva anche l’orgoglio di metterci una alberata davanti. Le fabbriche sono andate da tempo, e guardando attraverso un cancello arrugginito si vede un enorme cortile di cemento bordato di arbusti fioriti, con un unico prepotente cespuglio che ha spaccato il cemento e svetta solitario proprio al centro; un unico fiore su una gigantesca lapide all’industria che fu. Vorresti fermarti e fargli una foto, ma non puoi, perché seduti tra gli alberi ci sono due messicani stanchi che parlano di gringos e ti guardano storto, o forse sono solo due pusher appartati.

Di lì a poco via Cuneo attraversa corso Vercelli, una specie di Valle della Morte larghissima e fatta solo d’asfalto e macchine che sfrecciano da nulla a nulla, senza neanche un filo d’erba; per un corso torinese è un evento troppo raro per non essere voluto.

E’ solo dopo corso Vercelli che inizia via Cuneo, quella vera: un solo isolato di antiche case basse, in pratica cascine il cui progetto fu a malapena ritoccato per trasformarle in case di ringhiera, uso operai con tanta prole e pochi soldi. Ora sono anonime e silenziose, al momento è giorno e nessuno sta ancora litigando, ma per l’epoca dovevano essere palazzoni traboccanti di vita.

Nell’unico isolato di via Cuneo, fai lo slalom tra i neri; se vedi qualche italiano è lì che corre via, per non farsi pisciare addosso. Tre neri di un paese africano qualsiasi sono addossati a una vecchia Ritmo; schiamazzano, e si vede benissimo che per loro il primo Novecento non è mai esistito. Proprio lì, al numero sei di via Cuneo, è nato Gipo Farassino; dev’essere per quello che, praticamente di fronte, gli resiste un insensato negozietto di chitarre elettriche.

Via Cuneo finisce contro un passaggio pedonale, un modesto tentativo di buco nella corsia muragliata a centro strada che permette al 4 di scorrere per corso Giulio. Anche il 4 scorre piano, non solo perché è il tram più lento della storia della tramvieria, ma perché cerca di non farsi troppo notare dagli extracomunitari della zona, per non essere preso a bottigliate. Prima o poi, come nel terzo mondo, tireranno su delle pareti di cemento e faranno scorrere il tram in un tunnel, per evitare anche solo l’affaccio su via Cuneo, il nuovo Bronx di Torino.

Eppure, vista così, via Cuneo è una meraviglia, un liofilizzato di storia umana 1900-2008, dove i poveri di ogni epoca e di ogni generazione hanno preso il posto dei poveri dell’epoca e della generazione precedente, partendo dal piemontese stretto e arrivando all’igbo e allo yoruba.

Ma è più facile dirlo quando uno non ci deve abitare.

[tags]torino, via cuneo, immigrazione, storia, farassino[/tags]

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lunedì 21 Luglio 2008, 14:50

Il bruto pieno della vita

Ci sono poche cose che, nella nostra società, ti qualificano come un bruto. Puoi fare ministro le tue amanti o possedere tutta la discografia di Franco Califano, e nessuno solleverà un sopracciglio; ma non parlare male degli animali, specie quelli domestici, o finirai coperto di pece nella pubblica piazza.

Questo, comunque, non vale per tutti gli animali. Certo, cani e gatti sono sacri; per mucche e galline vale una certa ipocrisia, nel senso che fa tanto piacere vederli pascolare o razzolare nell’aia, ma fa anche tanto piacere mangiarli. Altri animali, invece, non godono degli stessi diritti civili; fino a giungere alle zanzare e ai ragni, per i quali invece si ritiene giusto il genocidio a priori.

Alle persone sensibili, la sofferenza animale fa effetto; e così, mentre l’altra sera maneggiavo un pollo senza testa per ungerlo ben bene in mezzo alle patate, provavo comunque una sensazione di sottile ma evidente disagio. Le persone sensibili, però, hanno già capito il punto fondamentale: la nascita, la vita e la morte sono tutte parti ugualmente degne e necessarie del ciclo vitale del mondo. Un mondo senza morte non avrebbe senso; vale per gli uomini e vale per gli animali. Ogni essere vivente ha quindi un ruolo di collegamento tra una nascita e una morte, la quale è necessaria per permettere lo sviluppo di ulteriore vita; ad esempio, la digestione di un bel pollo arrosto.

Purtroppo, sempre meno persone sembrano capire questo semplice fatto. Probabilmente, noi umani postmoderni e urbanizzati siamo talmente alienati, lontani dalla semplicità delle basi esistenziali della natura, da finire per attaccarci a suoi brandelli in modo ossessivo, credendo che chiudere un alano in 60 metri quadri significhi volergli molto bene, e sentendoci tutti parte di un grande spot dell’Amaro Montenegro. E così, un cane o un gatto diventano intoccabili; non un altro essere con cui avere un rapporto – pur nella propria diversità di ruoli – volontario e alla pari, ma un feticcio di qualche proprio distorto bisogno psicologico.

Oddio, ad alcuni succede persino coi topi: in questi giorni su Radio Flash circola uno spot antivivisezione che sembra una caricatura del peggior animalismo, ma è tristemente vero. In un crescendo di motivazioni contro la vivisezione (che è ovviamente una pratica barbarica, ma che talvolta può pur essere il male minore) si arriva a una perla di logica secondo cui all’immaginaria obiezione “Meglio sperimentare sui topi che sui bambini!” la risposta era “Dillo alle mamme i cui bambini si sono ammalati per via dei farmaci sperimentati sui topi!”. Ora, ci ho pensato un po’, ma la conseguenza non regge, a meno che ciò che la LAV intenda dire è che i farmaci, invece che sui topi, andrebbero piuttosto sperimentati sui bambini (aspettiamo chiarimenti).

Ecco, proprio questo viene spesso dibattuto come il punto chiave: esiste o no un diritto di supremazia dell’uomo rispetto all’animale, che giustifica l’uccidere migliaia di topi per trovare un farmaco che potrebbe salvare la vita a un uomo? (O peggio ancora per testare profumi e creme solari: ecco, quello sì che lo trovo barbaro.) Questo principio di supremazia è scritto più o meno chiaramente nella dottrina della Chiesa; da decenni è contestato insieme a tutto il resto delle nostre “radici cattoliche”.

Il dubbio viene anche in altri casi: per esempio, leggendo questo articolo sulla drammatica situazione del canile di Moncalieri, invaso dagli animali abbandonati per le vacanze. Ora, io continuo a pensare che basterebbe tatuare i cani alla nascita o alla prima visita da un veterinario e denunciarne i passaggi di possesso, perché chi prende un cane deve risponderne; l’abbandono è una pratica che va combattuta. Però alla fine si legge un appello disperato: i fondi (per metà da donazioni private, per metà da fondi pubblici) non bastano perché le cure sono costose; per esempio, hanno dovuto spendere un sacco di soldi per operare di cancro un barboncino di 13 anni.

E io mi chiedo: ma – senza scomodare l’Africa – in una società in cui tuttora molte persone vivono in baracche e faticano a mangiare, ha senso che collettività e privati spendano denaro per operare di cancro un barboncino? E anzi, che questa cosa ti venga presentata come una necessità urgente e pressante, un appello alla bontà umana contro la brutalità, invece che come un caso di lucida follia, che di naturale non ha proprio niente?

Io non credo che l’uomo sia superiore agli animali, e non sono nemmeno contento, in linea di principio, di farmeli uccidere per mangiarne i cadaveri. Credo però che non si debba perdere la misura rispetto al principio fondamentale della natura, che, piaccia o no, è “mors tua vita mea”; il che comprende anche lo sfruttare gli altri esseri dell’ecosistema per nutrirci e sopravvivere, con rispetto e dispiacere per la loro sofferenza, ma sapendo che così è l’ordine delle cose. Può darsi che questo faccia di me un bruto; eppure, saper accettare il fatto che la nostra vita non solo prevede la sofferenza, ma inevitabilmente finisce talvolta per causarne agli altri e per trarne giovamento, permette di rapportarsi con la morte in modo molto più sano.

[tags]natura, animali, vivisezione, canile, cibo, sofferenza, morte, amaro montenegro[/tags]

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