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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


sabato 10 Marzo 2007, 12:40

E ti dirò chi sei

Dal blog di .mau., mi è arrivato uno di quei test su “chi sei” che ogni tanto si diffondono in rete come l’olio… ed ecco il risultato:

(per caricare l’oggetto embedded in WordPress è stato necessario metterci un frame e litigare all’infinito con l’editor… ah, il web 2.0!)

La cosa più interessante è la descrizione estesa delle mie abitudini e delle mie attitudini – quella che viene mostrata nelle varie pagine del libretto -, che ho trovato sorprendentemente calzante, e insieme piena di complimenti, anche se immagino che in questo genere di test tutto venga girato in positivo. (Più sottilmente, si potrebbe pensare che il fatto che a me sembri che tutto ciò che viene detto di me in un test psicoattitudinale sia positivo implichi che io sono soddisfatto di come sono.)

Allo stesso tempo, scrollando verso il basso della pagina, ho scoperto che tranne poche eccezioni le mie scelte sono regolarmente le meno frequenti di tutte, con percentuali di scelta attorno al 2-3%: insomma, sono un tipo molto diverso dalla media. Forse questo spiega perchè sia spesso difficile per me trovarmi bene con la maggior parte degli italiani contemporanei?

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giovedì 8 Marzo 2007, 19:14

Se non ci fossero

Se non ci fossero, bisognerebbe inventarle – e non solo per questioni meramente riproduttive.

Ci fanno soffrire, godere, divertire, piangere, incazzare, immaginare, sognare, annoiare, sperare, scappare e ridere. Ci fanno la spesa, la cena, il bucato, ma spesso anche le scarpe sul posto di lavoro, mentre noi ci facciamo la spesa, la cena e il bucato.

Sono delle ottime amiche, anche se raramente lo sono veramente; più spesso, vige un rapporto che è un mix tra un gioco di bambini, uno scontro armato, una caccia in cui sei preda e predatore insieme, una grande ed emozionante avventura, e poi talvolta anche una brutta telenovela, una sceneggiata napoletana o un vero e proprio dramma; e, più avanti nella vita, anche un club dagli interessi in comune, una piccola azienda in crescita, una assicurazione reciproca e una delle poche certezze che si hanno, naturalmente finchè non si smette di crederci e si lascia andar tutto in malora. Sono, insomma, la cosa più viva della nostra vita.

Continuano ad essere spesso incomprensibili e imprevedibili: abbiamo proprio il cervello fatto in modo diverso. Mi dissero che il grande dolore della vita è che per essere felici bisogna essere felici in due; più che un dolore, però, è una verità da prendere come guida. Per carità, è vero, da adulti si vive piuttosto bene anche da soli; però, che mondo sarebbe senza donne?

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sabato 3 Marzo 2007, 18:36

Succede a Torino

La cronaca di Torino, quelle rare volte che riesco a leggere La Stampa, è sempre una delle sezioni più interessanti; è proprio negli episodi spiccioli che si trovano pezzi di vita meritevoli di essere osservati.

Oggi, buona parte delle pagine di cronaca erano occupate dagli ultimi sviluppi di Tossic Park, dove i residenti hanno ormai costituito ronde stabili contro lo spaccio, e non passa giorno senza che qualche tossico (più raramente, qualche spacciatore) finisca all’ospedale pieno di mazzate.

In particolare, si parlava della dura presa di posizione del procuratore Marcello Maddalena, che promette dura repressione contro gli abitanti del quartiere. Certo, in teoria ha pienamente ragione, ma in pratica, quando tutte le sere ti trovi i tossici sotto casa, quel genere di dichiarazione, da parte di uno che vive con l’auto blu e la scorta in un bell’appartamento in zona centrale, suona davvero come Maria Antonietta e le sue brioche.

Nel frattempo, poco lontano da lì, è stato scoperto l’interessante caso di una donna rom che da anni fa figli senza interruzione da dieci anni, per evitare l’espulsione; la nostra legge dice che non si può espellere un membro di un nucleo famigliare dove vi sia una donna in gravidanza o che ha partorito da meno di sei mesi. La signora ha quarant’anni ed è già a quattordici figli, più undici abortiti; e ha dichiarato al giornalista che degli ultimi quattro o cinque avrebbe fatto volentieri a meno, e li ha partoriti proprio solo per permettere alla famiglia di restare in Italia.

La questione di fondo, in questo caso, è cosa fare di queste famiglie di rom, che spesso vivono nei nostri campi nomadi da quarant’anni e sono composte in gran parte da persone nate qui, che hanno fatto le scuole qui, ma che non sono italiane e non hanno il permesso di soggiorno (vivendo di furti, non hanno un lavoro e quindi nemmeno il permesso).

A me però interessava di più il caso umano, ossia l’idea di mettere al mondo dei figli in modo strumentale, nel più totale disinteresse per il loro futuro e le condizioni in cui potranno crescere. Anche qui, a prima vista la reazione è orripilata, visto che l’amore non ricambiato dovrebbe essere la caratteristica fondante dell’essere genitori. Se però poi ci si guarda attorno, e si vede l’abbondanza – forse quasi la preponderanza – di bambini che, magari in modo meno esasperato, pagano l’incapacità o il disinteresse dei genitori con problemi psicologici o carenza di educazione, finendo poi a picchiare i professori a scuola o a fare gli eterni mammoni semidisoccupati, non si può che concludere che quello che ha fatto la signora, a ben vedere, fa ampiamente parte dei normali casi della vita umana.

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giovedì 15 Febbraio 2007, 10:31

Shine

Ieri sera, su Sky, ho rivisto dopo qualche anno Shine, il film sulla vita del pianista australiano David Helfgott. E’ un film che all’epoca (una decina di anni fa) mi aveva molto colpito, e mi aveva anche riconciliato con la musica, facendomi riscoprire un po’ dei miei antichi studi di piano classico (purtroppo molto limitati). Probabilmente mi ero anche sentito coinvolto, visti i punti di contatto con il genere di educazione che ho ricevuto io, magari meno autoritaria, ma tutta basata sulla necessità di competere da una parte e sui ricatti affettivi dall’altra.

Il film è, in parte, una astuta operazione commerciale che gioca sull’esposizione e conseguente simpatia verso la disabilità mentale del protagonista; tanto è vero che il vero Helfgott da allora gira per il mondo, impasticcato e al guinzaglio della moglie astrologa, per fare concerti da tutto esaurito che emozionano il popolino, ma che, stando ai critici, sono pianisticamente insignificanti, al livello di un buon professore di musica di una qualsiasi cittadina. Il punto, però, non è questo; è il rapporto profondo che c’è tra musica ed emozioni, tra musica e vita nella sua parte più insondabile.

Per molti individui, la musica è l’unico canale di comunicazione tra la propria sfera emotiva ed il mondo, l’unico sfogo per le proprie emozioni compresse e represse. Questo è in generale vero per le varie forme artistiche, ma, rispetto ad esempio alla pittura, la musica ha in più una componente fisica fortissima, una unione di intelletto e realtà; e porta quell’angoscia devastante del volo senza rete, di uno sforzo in cui un minimo errore è sufficiente per cadere, senza appello e davanti a tutti.

Suonare ad alti livelli tecnici ed emotivi è veramente un mostro che rischia di mangiarti, di ingoiarti nella paura, nella competizione, nella fatica, infine nella follia. In questo senso la storia di Helfgott, come quella di tantissimi artisti più o meno conosciuti, è un esempio di come il bello, il sublime, possa svuotare di ogni senso ed energia la vita di chi vi si dedica; e di come spesso la realizzazione della bellezza più perfetta richieda la sofferenza e il sacrificio estremo di chi se ne fa artefice.

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venerdì 26 Gennaio 2007, 11:02

Una sera in Versilia

Ieri ero a Pisa e non avevo voglia di restare, ma nemmeno di tornare. In verità, l’aria della Toscana è subito diversa, nel profumo, nella temperatura, nell’accento; è comunque dolce e tranquillizzante, e una volta ogni tanto fa piacere.

E poi, arrivarci in macchina è sempre una sfida, attraverso una sfilata di centinaia di gallerie che non finiscono mai, che scavano sempre più nel profondo, e insieme che mostrano i segni del tempo, nelle curve vetuste e nel cemento scrostato. All’andata ho trovato anche la neve, tra Sestri e La Spezia, e ho dovuto infilarmi nei curvoni in salita come una ballerina; il ritorno di sera è stato un’ipnosi di precisioni, centrando a centoquaranta gli stretti varchi tra un camion a destra e il muro a sinistra, per poi disegnare invece le pieghe più belle sulla semideserta salita di Voltri: dove le curve (tranne un paio) a centoquaranta si possono anche fare, prendendo lo spazio delle tre corsie e il rischio di uscire dalla galleria di Masone e trovare dall’altro lato il nevischio. E comunque, ci sono sempre quei chilometri di videonongioco, una finta finta prova speciale sui curvoni indecenti tirati da Mussolini sulle spalle di Sampierdarena – alcuni del livello di una svolta cittadina ad angolo retto tra due vie – e poi su tutta la tangenziale di Genova.

Come d’abitudine, mi sono fermato a mangiare alla stazione del Turchino, che come autogrill fa piuttosto schifo – non è nemmeno un Autogrill di marca, e nei cessi ci sono grandi cartelli in cui le autostrade si scusano per quanto fanno schifo, e promettono ristrutturazioni a venire – però è in una posizione straordinaria, con il vento che tira inarrestabile e le stelle proprio lì sopra; e mi ha regalato degli gnocchetti al falso pesto sotto un televisore col Grande Fratello, ma anche una scatola di pandolcini Preti che, in spregio alla globalizzazione, già dopo Novi Ligure non si trovano più.

Prima di tutto questo, però, la mia voglia di tornare e non tornare si è concretizzata in un avvio lento e costellato di ricordi, incerto se andare verso Lucca a comprare il buccellato, o fermarmi a Sarzana in un posto dove avevamo mangiato tanti anni fa. Alla fine ho optato per una passeggiata sul lungomare liberty di Viareggio, che è sempre una vista dall’anima caratteristica. Se non si prende l’autostrada, ci vanno quaranta minuti ad attraversare Pisa, l’Aurelia e Viareggio; ma ho parcheggiato proprio al bordo dei giardinetti.

La passeggiata di Viareggio, persino in una sera piovosa d’inverno, è piena di luci; la serie dei vecchi cinema in stile floreale è intervallata da ristoranti vuoti, negozi di vestiti alla moda (170 euro un piumino Moncler per quattrenni, se v’interessa) e un numero spropositato di negozi di audio, video e console (Panariello ovunque). C’era comunque gente, principalmente ragazzotti che paiono scimmiottare il Cipollini (non il pittore che lì ha lo studio, il ciclista) e il Pieropelù (credo che anche a lui, come al fu Battista Farina detto Pinin, daranno il permesso di fondere il nome col cognome e tramandare il tutto ai figli).

Comunque, dopo un po’ trovo quel che stavo cercando, cioè uno spazio finalmente libero da edifici, che mi permetta di svoltare verso il mare. Piovicchia, e la rena è bagnata, il che mi permette di camminarci sopra senza inzaccherarmi troppo le scarpe. Percorro alcune decine di metri entrando man mano nel buio e nel silenzio, rotto appena dalla risacca e dalle onde che salgono e scendono il declivio compatto e impercettibile che si inabissa man mano. Sono solo col tutto e le stelle.

A mare, il mondo è superfluo (la frase funziona anche rimuovendo un po’ di punteggiatura). Da una parte, resta una lunga, lunghissima curva di puntini luminosi, che unendosi tracciano la linea costiera che si perde per chilometri verso Massa. Dall’altra, una specie di castello Disney di alberi di barche e di gru di cantieri si specchia nell’acqua, disegnando un doppio patchwork indefinibile che cattura lo sguardo. Vorrei scattare una foto, ma non ne ho i mezzi, e non riuscirei certo a fermare la sensazione.

Alla fine, dopo aver scherzato un po’ con le dita nell’acqua, e a saltelli per evitare le onde, decido di rientrare nel mondo e mi volgo. La passeggiata illuminata è davvero lontana, con le auto e i pedoni che passano indifferenti, evitando di guardare il buco nero tra le quinte che apre la prospettiva infinita dell’orizzonte del Tirreno, smascherando il rassicurante contenimento delle case in muratura. Torno indietro tra le pozzanghere. Piove più forte.

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martedì 16 Gennaio 2007, 16:44

Il comune senso della spudoratezza (2)

Non c’è nulla di particolare, nella notizia della quattordicenne che, cercando di conquistare un compagno, gli invia il filmato del proprio corpo nudo fatto col telefonino nel bagno della scuola; al che lui, come tipicamente accade, se ne vanta con gli amici e sparge copie a destra e a manca finchè l’intera scuola non possiede il filmato e non comincia a prendersi gioco della malcapitata. (Certo, lui dice che il filmato gli è stato rubato via Bluetooth, ma la credibilità della scusa è piuttosto bassa, per quanto Bluetooth sia attualmente usato nei modi più insicuri possibili.)

Si tratta di storie sempre più frequenti, che in buona misura rientrano in quelle ingenuità che si fanno durante l’adolescenza; non c’è poi nulla di così grave.

A me, però, colpisce quella che è una evidente perdita del senso collettivo del pudore. In particolare col sesso, a partire dal fatto che ormai milioni di italiani, compresi bambini e vecchi, vanno in giro esibendo il disegnino stilizzato di due che si inchiappettano, come se fosse terribilmente cool.

Il senso del pudore, invece, è una delle cose che da sempre distinguono gli adulti dai bambini – i quali godono moltissimo nello svestirsi appena possibile – e gli esseri umani dagli animali. E’ chiaramente una sovrastruttura culturale, ma è anche una conseguenza dei valori aggiuntivi, puramente intellettuali, che l’umanità attribuisce al rapporto sessuale e al contatto fisico, rispetto alla pura funzione biologica e meccanica della riproduzione; e alla necessità degli umani, in quanto animali sociali, di vivere in coppia ed in gruppo. Se fosse soltanto questione di propagare i propri geni, non ci sarebbe da far tante storie; invece, il fatto di giungere al contatto fisico ed all’esibizione reciproca del corpo solo dopo un lungo ed incerto rito di corteggiamento costituisce un piacere aggiuntivo, inventato per appagare non soltanto le terminazioni nervose del nostro corpo, ma anche le misteriose contorsioni del nostro cervello.

E’ questa la cosa più preoccupante della fine del senso del pudore: il corpo nudo diventa un oggetto come gli altri, a cui ci si assuefa per sovraesposizione e che si può dare per scontato, perdendo quindi di fascino e di valore; e che si può usare come un qualsiasi strumento, ad esempio per fare carriera in televisione. La libertà finalmente conquistata dalle regole opprimenti, piene di inibizioni, che la società aveva in merito fino a quarant’anni fa, finisce per fagocitare l’oggetto stesso della liberazione: e proprio quando siamo perfettamente liberi di fare del nostro corpo ciò che vogliamo, alle volte non sappiamo più a che cosa serve e lo sprechiamo, come se non fosse qualcosa di meravigliosamente speciale.

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mercoledì 10 Gennaio 2007, 15:14

Deserto

Anni fa se ne parlava molto di più. Poi, col tempo, la popolarità di questa gara è un po’ calata; eppure, continua ad attirare sponsor e iscrizioni da tutto il mondo, con una lunga lista d’attesa per poter partecipare. Sui giornali non specializzati, però, finisce soltanto quando – come regolarmente accade, l’ultima volta ieri – muore qualcuno (54 morti in 28 edizioni).

Stiamo parlando della Dakar (un tempo Parigi-Dakar, poi rinominata da quando il punto di partenza ha cominciato a spostarsi in giro per l’Europa, fino alla sede attuale di Lisbona). Per i pochi che non la conoscono, è una corsa di rally per automobili e motocicli, che attraverso il deserto del Sahara, con tutte le relative insidie, raggiunge la capitale del Senegal.

Nata dall’idea di un pazzo francese che poi vi morì nel 1986, è stata oggetto negli anni di critiche continue. Persino l’Osservatore Romano la definì “una volgare esibizione di ricchezza e potere”, non solo per i dubbi sulla moralità di attraversare con fuoristrada da centomila euro in su, appositamente costruiti per l’evento, alcuni dei territori più poveri del pianeta, ma per le continue vittime tra i corridori e tra la popolazione locale (fece scalpore, negli anni ’80, la bambina maliana di dieci anni investita da un corridore). Sono critiche comunque sensate, perfettamente razionali. Eppure…

Io ho visto il Sahara solo dal bordo e dall’aereo, quest’estate a Marrakech. E’ stato sufficiente per capire che il deserto non è una entità razionale; è invece uno specchio infinito e sfaccettato del microcosmo infinito e sfaccettato che ognuno di noi si porta dentro. In una distesa di nulla, deprivati di punti di riferimento e di molte delle nostre sensazioni abituali, in continuo pericolo di perdersi e morire, ci si trova privi di protezioni fisiche e mentali, soli con se stessi, con la vita, con l’immutabilità di una distesa inospitale apparentemente senza confini nello spazio e nel tempo. Il fascino di tutto questo confina con la follia; tuttavia non ho dubbi, persino senza avere avuto la possibilità di entrarvi, che si tratti di una follia speciale.

Ho il sospetto che per molti dei partecipanti – certamente per quelli che non riescono a smettere di farla, fino a morirci, magari dopo averla vinta due volte come Fabrizio Meoni – la Dakar come ogni altro attraversamento del deserto sia un viaggio esistenziale, una di quelle sfide che, invece di essere uno spreco della propria vita, rappresentano l’incarnazione della ricerca di se stessi: una ricerca che è per definizione folle, che è per definizione solitaria, ma che alla fine costituisce una delle necessità fondamentali degli esseri umani.

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sabato 6 Gennaio 2007, 16:30

Storie

Oggi Torino offre due storie di cronaca piuttosto interessanti.

La prima è quella del trentenne ex tossico con fidanzata ex tossica (conosciutisi in comunità) che va ad ammazzare la madre di lei su commissione. Lui, che è pure sieropositivo e handicappato mentale, è uscito dalla droga e ha trovato un lavoro, che inizierà tra pochi giorni; lei vive a metadone ed è senza soldi, e in più i suoi genitori hanno ottenuto di portarle via la figlia avuta a ventidue anni da una delle storie precedenti: a questo punto, uccidere i genitori è l’unico modo per avere sia l’eredità che la figlia. Per convincerlo, gli dice di essere incinta, e che senza i soldi dei genitori sarà costretta ad abortire. Lo spedisce a casa dei genitori, indicandogli pure dove trovare un paio di forbici adatte allo scopo. Lui uccide la madre di lei, la chiama, e a quel punto lei riattacca e chiama i carabinieri, dicendo di aver ricevuto una telefonata da sua madre che chiedeva aiuto, e spedendoli sul posto, dove trovano il fidanzato in un lago di sangue: colto sul fatto, incastrato, in galera per omicidio. Lui però racconta tutto, e (pare) l’analisi delle telefonate conferma la sua versione: durante l’omicidio non ci sono state chiamate dalla madre alla figlia, ma solo tra i due fidanzati. Lei, ovviamente, nega; i carabinieri però l’hanno arrestata, propendendo per l’idea che nel piano ci fosse un terzo obiettivo, liberarsi del fidanzato.

La seconda storia è l’altro lato della medaglia: i giornalisti seguono l’assessore a Tossic Park, il giardinetto sulle rive della Stura assurto a notorietà nazionale per lo spaccio di droga, dove il Comune annuncia grandi provvedimenti di risanamento. Nel frattempo, notano un’auto parcheggiata lì davanti, giorno dopo giorno, con un signore anziano dentro. Alla fine vanno a chiedere, e scoprono un sessantacinquenne che fa da cavaliere a una ragazza di ventotto anni; la porta in macchina, lei entra nel parco, compra la droga, si fa, e poi torna indietro. Viene fuori che lui è stato il suo amante molti anni prima; poi la storia è finita, e lei si è persa tra i tossici. Ritrovatisi, lui, solo, vedovo e con figli grandi, ha deciso di prendersi cura di lei, un po’ per amore residuo, un po’ per senso di paternità. E così, non riuscendo a farla uscire dal tunnel, almeno la accompagna, le sta dietro quando va in crisi, si assicura che non la stuprino e non la accoltellino.

E’ difficile definire la grande varietà di sentimenti che possono intercorrere tra un uomo e una donna quando condividono pezzi di strada sul cammino della propria vita; spesso non li si capisce dall’interno, figuriamoci dall’esterno. A seconda del punto di vista, queste possono sembrare storie d’amore romantico, in cui lui farebbe qualsiasi cosa per lei, o storie di sfruttamento cinico, da parte del lato più forte della coppia. Forse, sono entrambe le cose e molto altro.

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domenica 31 Dicembre 2006, 23:59

L’oroscopo dell’anno nuovo

Care lettrici e cari lettori,

questo è l’ultimo post dell’anno e naturalmente, come tutti gli ultimi post dell’anno, viene preparato per apparire all’ultimo momento e festeggiare un anno che se ne va e un altro che arriva. Credo che la cosa migliore che si possa dire è che, senza ipocrisia e di cuore, spero che sia un anno in cui tutti voi potrete realizzare il più possibile dei vostri desideri.

Ma siccome l’uomo ha bisogno di certezze (che non può avere) e a questo scopo si è dotato dei più moderni sistemi di preveggenza, ho assoldato una consulente, nelle vesti di Raffaella Carrà, che ha scoperto per voi cosa vi riserverà il 2007. Pensate, ho persino deciso di sfidare tutte le case discografiche del mondo per farvi eccezionalmente ascoltare la previsione: se poi non avete l’audio, è trascritta più sotto.

Ora premete “play”, e auguri!

Audio clip: Adobe Flash Player (version 9 or above) is required to play this audio clip. Download the latest version here. You also need to have JavaScript enabled in your browser.

P.S. Io, il mio oroscopo, me lo tengo stretto e ci conto!

Maga Maghella, Maga Maghella
Se ti va brutta, se ti va bella
Nel tuo futuro leggerà
Maga Maghella Maga Magà
Con la bacchetta Maga Maghella
Dal firmamento prende una stella
Un micro-oroscopo ti farà
E subitosto te lo dirà

Se sei dei Gemelli tre giorni belli
Stasera esci se sei dei Pesci
Per la Bilancia che mal di pancia
Toro, lavoro ti arriverà

Maga Maghella, Maga Maghella
Se ti va brutta, se ti va bella
Nel tuo futuro leggerà
Maga Maghella Maga Magà
Maga Maghella Maga Magà

Tanta dolcezza per gli Scorpioni
E per la Vergine, baci a vagoni
L’Ariete posta riceverà
Al Sagittario, felicità!
Se sei dell’Acquario è straordinario
Un gran bel giorno al Capricorno
Per il Leone fuoco e passione
Cancro sei stanco, non lavorar

Maga Maghella, Maga Maghella
Se ti va brutta, se ti va bella
Nel tuo futuro leggerà
Maga Maghella Maga Magà
Maga Maghella Maga Magà

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lunedì 25 Dicembre 2006, 21:28

Il senso del Natale

Del Natale noi finiamo spesso per vedere soltanto più gli aspetti consumistici, o al massimo quelli sociali; la celebrazione si riduce allo slogan “A Natale siamo tutti più buoni”, importante certo, ma che dimentica una parte importante dell’evento. Per questo motivo, vorrei concludere i festeggiamenti con un richiamo al senso più profondo ed antico di questa festa, quello più strettamente sacro.

Non ho idea di quanti dei miei lettori siano cattolici praticanti, quanti siano cattolici per default, e quanti siano convintamente atei o pratichino altre religioni. Per tutti gli esseri umani, tuttavia, il sacro è un elemento fondamentale della propria esistenza interiore; essere atei non vuol dire non percepire il mistero della vita e tutti i misteri minori che ne derivano, e non interrogarsi su di essi. Anzi, se per qualcuno è così, ho pietà per lui, perchè una vita puramente scientifica e materialista, priva di senso del sacro e di un’etica superiore, finisce per degenerare nell’individualismo e nel cinismo: basta guardarsi attorno.

Comunque, il mito del Natale è tutt’altro che cattolico; affonda le proprie radici nell’inconscio e nell’esistenza stessa degli esseri umani. Per la civiltà umana, sviluppatasi nell’emisfero settentrionale, il Natale è il solstizio d’inverno, il momento in cui la natura rinasce e comincia a riportare la vita; festa che viene celebrata in quasi tutte le religioni e le civiltà, da ben prima che esistesse il cristianesimo.

Ho sentito l’altro giorno in radio il filosofo Umberto Galimberti esporre una tesi affascinante, quella secondo cui le religioni – termine che deriva non a caso dal verbo relegare – sono nate per contenere il solipsismo e la follia interiore dell’essere umano, e costruire un quadro di riferimento che, offrendo un senso all’esistenza e un insieme di precetti per darle forma, permettesse la convivenza tra gli esseri umani. Insomma, lo scopo della religione è relegare (contenere) il folle demone che ci portiamo dentro e che, se liberato, potrebbe generare disastri.

Il significato antropologico e sociale delle religioni è cosa assodata; mi interessa però osservare come tutte le religioni condividano il legame con la natura e con la natura dell’uomo, rappresentato nel mito della nascita, della crescita, della crisi e della lotta interiore tra il bene e il male, della morte e della resurrezione. E’ il mito di Cristo, ma anche quello di Dante nella Divina Commedia, o di Gandalf nel Signore degli Anelli; la lotta che ogni essere umano, divenuto adulto, deve compiere contro il proprio demone interiore, per uscirne pienamente realizzato (o soccombere diventando un Giuda o un Gollum).

Nel porgere i miei auguri a tutti voi, spero che il Natale, oltre che una occasione per cenoni e per regali, possa essere anche un momento di riflessione sul senso della vita. Specialmente della propria.

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