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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


sabato 7 Ottobre 2006, 02:02

Notturno urbano

Stasera ero solo, erano le otto e mezza, ero fuori – avevo accompagnato Simone nella spesa preparatoria per la cena di domani – e non avevo proprio voglia di mangiare a casa. Così, nel buio appena sceso sul centro commerciale di corso Romania, mi sono infilato in macchina e sono andato a cena in birreria.

Oggi, a Torino, c’era un traffico assassino; non solo per la mezz’ora abbondante di coda in via Reiss Romoli, dovuta a due macchine dei vigili urbani infilatesi dentro una utilitaria che aveva tagliato loro la strada (roba da scena finale di Blues Brothers). Il problema peggiore per il traffico odierno è stata l’insolita abbondanza di guidatori piantati ai quaranta all’ora in mezzo ai corsi; presumo si tratti di gente che di norma non prende mai l’automobile e che a malapena distingue l’acceleratore dal freno. Oggi c’era sciopero degli autobus – ma anche degli edili, dei giornalisti, e dei precari comunali – e quindi sono usciti tutti dalle catacombe.

Tuttavia, il buio semplifica le cose, e rende tutto più immediato e sincero; ivi compresa la circolazione automobilistica, su cui il peso della massa indistinta e inscatolata che esce dal lavoro si allenta d’improvviso, e permette finalmente un po’ di sano movimento.

Il senso della serata, comunque, è il piacere della casa estesa che è la tua città, di quell’insieme limitato di posti che hai visto crescere con te, oppure restare immutato mentre tu crescevi, e che comunque conosci a menadito anche se non ci passi da mesi. Il Manhattan, ad esempio, è una birreria che ha visto passare tutte le stagioni; per ciascun tavolo potrei citare un episodio nell’arco di quindici anni, i festeggiamenti dopo Toro-Real di Coppa Uefa, l’attesa del concerto degli amici, la cena offerta prima del concerto tuo, le uscite con diversi gruppi, quelle con la fidanzata dove siete stati bene, e quelle con la fidanzata dove poi avete litigato.

E quelle da solo, una pizza e una birra, ad ascoltare con piacere del jazz strepitoso venire da una cassetta attraverso gli altoparlanti del locale, un jazz destrutturato eppure pieno di trama, caotico e coerente come la vita. Subito dopo, a tradimento sotto il salamino piccante, pezzi a cui sei legato per motivi diversi, With My Own Two Hands di Ben Harper, Are You Gonna Go My Way di Lenny Kravitz, persino l’eccezionale quanto rimossa Get On The Snake dei Soundgarden primo periodo, quelli che qui a Torino da perfetti sconosciuti vennero spediti sul palco del Delle Alpi, attaccati a un Marshall che sparava sì e no fino alla quinta fila, ad aprire i Faith No More che aprivano i Guns’n’Roses. E’ la giornata della musica che tesse e trama alle tue spalle e ti stabilizza e ti scuote insieme; avrei dovuto capirlo quando stamattina Radio Flash ha mandato Grace di Jeff Buckley.

Il Manhattan, peraltro, è un posto sozzo come non si può immaginare, dotato di musica eccellente che sul tardi diventa anche dal vivo, di un cesso che incoraggia il vomito, e di una cucina tanto semplice quanto eccezionale, con porzioni da rinsaldare l’amicizia. All’ora di cena è quasi vuoto, c’è solo qualche coppia giovane e un paio di famigliole, e sembra una cripta da vampiri, per quanto abbiano appena aperto una espansione in cortile. Come luogo letterario è perfetto, anche quando l’esperienza letteraria è uscire dal mio corpo, spostare la telecamera col joystick e guardarmi solo e pensieroso al tavolo numero tre.

C’è ancora spazio per un gelato dall’altro lato della città: un inseguimento giocoso con un’altra 147 sulle nuove rotonde di via Livorno, le precedenze annurche di piazza Statuto, i centoventi sfiorati ma non raggiunti sui binari del tram in via Borsellino, e la fila di doppie file e quattro frecce davanti alla gelateria in via Monginevro, che da quando il 15 non è più un tram si lascia la macchina anche lì. Al ritorno, la radio spara un po’ di tutto, The baby di Morgan, persino J’aime l’amour a trois di Stereo Total (una chicca). E’ la serata delle luci di città, la serata della loro musica; che ci volete fare.

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domenica 1 Ottobre 2006, 21:47

Restringimenti

Come vi avevo detto, oggi sono andato dai miei parenti a Loano.

A Loano ho passato praticamente tutte le mie estati e molti dei miei weekend, fino ai vent’anni. Poi, piano piano, sono cresciuto e ho cominciato ad andare in vacanza da solo e ad avere i miei giri di amicizie altrove, e nel frattempo alcuni dei miei parenti sono mancati, altri sono invecchiati, e la casa dove andavamo d’estate è stata venduta. Insomma, adesso ci vado in media una o due volte l’anno, a Natale e a Pasqua, e nemmeno sempre.

Questa volta, comunque, è stata la prima dopo parecchio tempo, e anche la prima con la macchina nuova. Non so se sia dovuto a questo, ma i luoghi che pure riconosco ancora perfettamente mi hanno fatto una impressione molto strana: mi sono sembrati… più piccoli.

La Liguria è da sempre soffocata dal cemento, con stradine strettissime e case costruite ovunque. Eppure, stavolta mi è sembrata un budello persino l’autostrada, con quelle gallerie lunghissime intervallate da salite, discese e viadotti; e poi, nonostante ultimamente abbiano sfondato interi muretti per allargarla e fare delle nuove rotonde, mi è sembrata stretta e intasata di auto anche l’Aurelia; e poi tutte le altre vie del paese, strette e vecchie – forse anche perchè quelli del posto, da buoni liguri, in trent’anni non hanno nemmeno dato il bianco alle case, o cambiato le insegne dei negozi.

Forse è perchè ho memorizzato tutti questi luoghi con gli occhi di un bambino; ma quelli che una volta mi sembravano stradoni, oggi si rivelano a malapena capaci di far passare due macchine, fermandosi per riuscire a incrociarsi; e percorsi lunghissimi durano in realtà trenta secondi di macchina.

La sensazione è stata più forte quando, salendo verso la vecchia casa, ho affrontato quello che all’epoca era un temibile doppio curvone in salita, sulla cui rampa si rischiava la vita, e che ora è poco più di una chicane sulla stradina. Questo anche perchè hanno abbattuto la palazzina che stava sulla curva, per costruire nuove case; e a questo scopo hanno invaso anche il terreno retrostante. Subito dopo la curva, difatti, la strada era fiancheggiata da quello che nei miei ricordi era un lunghissimo campo di ulivi, sempre pieno di reti rosse distese sotto le fronde, per raccogliere i frutti senza che cadessero a terra.

Ora, al posto di quel campo, ci sono… due mucchi di ghiaia. Grandi, eh; ma pur sempre due mucchi di ghiaia, messi lì per preparare il terreno per il cantiere delle nuove case. In auto, ci abbiamo messo tre secondi a fare quello che, da bambino, era un mezzo viaggio in direzione del mare.

Non so bene che morale trarre da questa storia; forse, che sarebbe bene tenere i propri ricordi d’infanzia ben archiviati in un cassetto, e ben slegati dalla nuova realtà dei luoghi dove si sono svolti.

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venerdì 8 Settembre 2006, 21:51

Andare

Sapere che manca poco alla partenza, al momento in cui d’improvviso si dovrà lasciare un luogo e una forma familiari, e cominciare un cammino nell’ignoto.

La stanza è buia, c’è soltanto una piccola luce in un angolo, e un riverbero strano che sembra primordiale, antico, uguale a se stesso da mille e mille anni – come se questa scena, in fondo, fosse già avvenuta mille e mille volte.

Guardarsi attorno e incontrare per caso con lo sguardo dettagli che si erano temporaneamente lasciati affondare, e scomparire sul fondo della memoria; tirarli fuori ed osservarli con occhi ormai così diversi, e con l’affetto con cui si osserva qualcosa che ci era tanto piaciuto, che era stato bello e importante, ma che appartiene senza ombra di dubbio ad un’epoca ormai chiusa.

Capire che si è rimasti fin troppo in questo luogo, senza voler vedere la realtà, come a cercare di rianimare un corpo ormai freddo e dai battiti sempre più lenti, piano, piano.

La dolcezza di ciò che è passato per un attimo mi assale; poi, riflessa nel vetro, sembra anche un fantasma cattivo, e persecutorio. Infine, sottilmente, un segnale immaginario ma solido risuona, ad indicare che il tempo concesso è terminato. Non ci si crede, non ci si vorrebbe credere, perchè non si è mai pronti per partire del tutto, sapendo che non si tornerà più indietro.

Ci sarebbero state ancora delle cose da fare, qui; potrei enumerarne a centinaia. Molte delle cose che lascio mi mancheranno, anzi, forse le lascio proprio perchè il dolore della loro mancanza è troppo grande, e va schiacciato e nascosto là dove si può fingere di non vederlo. Eppure, allo stesso tempo non c’è più niente da vedere, se non la nuda pietra che rimane quando ci si spoglia di ogni cosa, si chiudono le porte, e si rimane soli a guardare il tramonto, senza trovare più il coraggio di lasciar andare in pace il sole, e di concedersi infine alla notte.

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venerdì 8 Settembre 2006, 18:22

Religioni

Quest’anno ho passato le vacanze girando in lungo e in largo per un paese islamico. E’ uno dei più laici e moderati, dove, nonostante le fantasie occidentali, di chador se ne vedono pochi e sono quasi tutti di turiste arabe; ma è comunque un paese pienamente islamico.

E se da una parte sono stato stupito dalla laicità e dalla modernità del posto, dall’altra ho avuto modo di entrare nelle moschee, alcune anche poco turistiche, e di vedere l’attaccamento con cui la maggior parte delle persone approcciano la propria religione.

Succede poi di leggere una storia del genere: quella di un calciatore musulmano in un paese occidentale, la cui squadra, di primaria importanza, riceve un ricco contratto di sponsorizzazione da una società di scommesse online. E lui, gentilmente, dice che non ha nessuna intenzione di portare sulla maglia quella scritta, perchè il gioco d’azzardo contrasta con i principi dell’Islam.

Magari vi sembrerà un’idea balzana, ma a me affascina l’idea che esistano ancora culture dove esistono dei principi etici codificati più forti del denaro; e religioni con la R maiuscola, ossia non ridotte (come la nostra) a spettacolo mediatico della domenica mattina, a puro centro di potere, o alla lettera C nella sigla di questo o quel partito o club d’affari. Religioni che fanno il lavoro proprio di una religione, ossia quello di fornire dei precetti morali vincolanti a chi le sceglie.

A me dà sempre molto fastidio la supponenza con cui il mondo occidentale si accosta alle società diverse dalla propria, Islam in testa. Come tutti gli atti di arroganza intellettuale, mi irrita l’assunto che una società laica sia necessariamente migliore, più equa, più avanzata, più felice di una religiosa; che tutte queste noiose regole morali siano l’oscuro passato, e che lo splendido futuro risieda in un laicismo (ma anche in un cattolicesimo di pura forma, come quello della maggior parte degli italiani) in cui, in sostanza, l’unico precetto etico mediamente adottato è di soddisfare i propri desideri individuali e i propri istinti a proprio vantaggio, qui, ora e subito, senza guardare in faccia nessuno.

Non so come sia finita la storia del calciatore di cui sopra, ma spero che non resti un episodio isolato; perchè, al di là degli specifici principi etici a cui uno si rifà, quello che ormai abbiamo completamente svalutato, e che è bene ci venga ricordato ogni tanto, è l’idea di etica in sè.

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mercoledì 6 Settembre 2006, 20:04

Gocce di pioggia su di me

Sono tornato in ufficio da questa settimana, sentendomi in colpa per la scarsa attività fisica di quest’estate (anche se il viaggio, a dire il vero, è stato molto movimentato). E così, visto che stamattina su Torino splendeva un bel sole, non ci ho pensato un attimo e ho preso la bici!

Ovviamente, come sempre accade in questi casi, nel pomeriggio il cielo si è oscurato di colpo, è diventato grigio e ha cominciato a minacciare pioggia. Avrei potuto uscire un po’ prima dall’ufficio, ma verso le cinque è scoppiato il solito caso di manager insoddisfatti e cazzinculo volanti a trecentosessanta gradi, per cui non sono riuscito ad uscire fino alle sei e venti.

E a quel punto, appena ho messo mano sulla bici, ha cominciato a piovere.

Mi sono affrettato, e all’inizio la pioggia era scarsa; ma poco dopo ha cominciato a intensificarsi. Ho provato ad attendere un po’ in un luogo asciutto, sotto un albero, ma visto che non smetteva, mi sono rassegnato e ho ricominciato a pedalare sotto il diluvio.

Non è stato così spiacevole, ma ho imparato alcune lezioni: ad esempio, evitare le strade in discesa e fare attenzione alle auto sgommanti. Ho maledetto ancora una volta quel vero scandalo che è la passerella ciclopedonale della Pellerina, sospesa tra il cortile di una casa e un percorso tortuoso, fangoso e pieno di voragini in mezzo al parco. Ho affrontato la salita di via Pietro Cossa senza nemmeno accorgermene, col rapporto da pianura, talmente avevo voglia di arrivare. E ho scoperto che comunque anche sotto la pioggia battente c’è tanta gente in giro a capo scoperto, massaie sorprese, ragazzi col pallone, persino corridori nel parco, e una spazzina africana che cammina tranquilla come se non ci fosse nulla di strano.

Anche perchè, in effetti, non c’è nulla di strano nel prendersi la pioggia; forse la nostra società, naturofobica e piena di tecnologia per tutto, se l’è un po’ dimenticato.

Però poi fa piacere arrivare a casa, strizzare i vestiti, e potersi dedicare alla preparazione dello spezzatino al curry…

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giovedì 17 Agosto 2006, 20:34

Parentesi

Tra parentesi, ieri mattina ero ancora nella mia casa in montagna; ho congedato gli amici, ho dato una pulita e una sistemata, ho chiuso tutto e sono venuto via.

La discesa dal colle di Joux verso Saint Vincent è uno dei percorsi più suggestivi di tutta la Val d’Aosta, con ampi tornanti spalancati sul vuoto della valle, e panorami mozzafiato; nonostante l’abbia già fatta decine di volte, mi emoziona lo stesso. Quasi sempre, però, la si fa col sole, la musica a tutto volume e il motore allegro, respirando l’aria dal finestrino e godendo della vista.

Ieri, però, c’era brutto tempo, e la montagna era avvolta dalle nuvole e da un’acquerugiola diffusa che non sapevi dire fosse pioggia o semplice umidità scivolata via dal bosco. Era bellissimo lo stesso, perchè da ogni anfratto di roccia si levavano batuffoli di fumo bianco, e si vedevano in trasparenza diversi strati verticali di nuvole sfilacciate. Sembrava la Scozia, in quelle mattine fredde e bagnate che ti accolgono nelle Highlands; e mi accompagnava con uguale stupore, ma anche con un po’ di prudenza.

Se non che, giunto a due terzi della discesa, all’improvviso mi sono trovato tre o quattro macchine ferme in coda coi lampeggianti accesi, subito prima di una piega a destra verso l’interno della montagna. Io venivo giù davvero piano, e mi sono fermato senza problemi; poi sono sceso per capire cosa succedesse.

Fuori c’erano un paio di persone, un signore che parlava animatamente al cellulare, e una mamma con bambine sedute sul guard-rail; eppure, non si vedeva nulla di strano. Dietro di me si è fermato un furgone guidato da un marocchino, che è sceso e mi ha chiesto, “Incidente?”. Io gli ho risposto che ero appena arrivato, e nel frattempo sono arrivati e scesi altri, e insieme abbiamo fatto quei venti metri in discesa per arrivare alla curva e guardare.

Dietro la curva c’erano due macchine incidentate ma nemmeno troppo. Quella ferma ordinatamente nella sua corsia in salita, più in fondo nella scena, era una utilitaria blu elettrico, tipo una Yaris, vuota, con la parte davanti discretamente sbrecciata dal lato dell’interno strada. Più vicino a me, invece, c’era una Punto verde vecchio modello, con il davanti anch’esso mal ridotto, e un po’ di traverso, diciamo a quarantacinque gradi verso la corsia opposta, ferma bloccando la strada. Dal mio lato, al posto di guida, c’era seduto un signore calvo, con la corona di capelli bianca e grigia, riverso con la testa sul volante; ci siamo avvicinati leggermente, giusto il necessario per capire che il signore era, come dire… morto.

Nel senso che c’era un bel segno circolare sul parabrezza in corrispondenza della sua testa, e una serie di altre tracce che preferirei non descrivere nel dettaglio. E difatti ci siamo guardati un po’ tutti, finchè una signora non ha detto: “Ma il signore è…?”. “E'”, gli ha risposto un altro; nessuno se l’è sentita di pronunciare la parola.

Ho già visto dei morti, ma era la prima volta che vedevo una persona morire fuori da un letto, in un modo del genere. Ecco, la cosa è stata sorprendentemente… difficile. Non mi sono nemmeno avvicinato più di tanto, sono tornato indietro, e mi sono reso conto di essere sostanzialmente inutile, visto come ero scosso. Peraltro, c’era già parecchia gente in giro; il signore al cellulare ci ha detto che stavano venendo su i carabinieri e anche un’ambulanza, caso mai ci fosse qualcosa da tentare; la donna e le bambine nel frattempo erano salite, in lacrime, su un fuoristrada fermo in fila, dove una signora cercava di confortarle un po’.

E così, abbiamo fatto dietrofront e abbiamo risalito le nuvole, per un giro di venti chilometri di curve che rappresentava l’unica alternativa alla strada bloccata. Ho sperimentato la strada del colle Tzecore, che conoscevo solo sulla carta; e salendo, e salendo, non ero molto in pace con me stesso, e così la strada ha cominciato a restringersi e la nuvola a soffocarmi.

Alla fine, non vedevo nulla; ma proprio nulla, nel senso che era difficile distinguere tra la strada, il prato e la scarpata, con una visibilità di pochissimi metri e la pioggia incessante. Al colle, il nulla ha abbracciato tutta la macchina, mentre l’amministrazione comunale di Challand-Saint-Anselme mi ha regalato un beffardo doppio segnale di pericolo: “Strada sprovvista di protezioni a valle” e “Ostacoli laterali invisibili”; lì ho avuto veramente paura e ho seriamente pensato di tornare indietro, se non fosse che, quando sei salito fino in cima e ti sei perso nella nebbia, qualsiasi strada tu prenda ti condurrà a una discesa pericolosa. Su un tornante più giù, qualcuno aveva messo un jersey di cemento e ci aveva scritto su con una bomboletta nera, “OCCHIO!”. E a metà strada ho incrociato l’immancabile mandria di mucche che saliva in senso opposto; essendo la strada larga come una macchina e una mucca, mi sono fermato e ho aspettato che passassero tutte. Era mezzogiorno, ma avrebbe potuto essere un momento qualsiasi nel bel mezzo del pianeta Solaris.

Sono riemerso al mondo – ma sempre sotto il cielo grigio e la pioggia cattiva – e poi, imboccando l’autostrada, ho sentito il giornale radio regionale segnalare che la strada del colle di Joux era interrotta per un incidente “dalle conseguenze ancora ignote”.

A Torino, non pioveva più e non faceva nemmeno freddo.

Chiusa parentesi.

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lunedì 24 Luglio 2006, 22:55

Catarsi

Sapevo che non sarebbe stato facile; ma, con tutta l’incoscienza di una sera d’estate, e ulteriormente motivato dal ridotto numero di gradi di separazione verso il regista, stasera su Sky ho guardato I giorni dell’abbandono, di Roberto Faenza.

In breve, è la storia di qualsiasi abbandono tra persone adulte e conviventi, dell’avere investito anni della tua vita e di emozioni profonde su una persona che d’improvviso, per un meccanismo inevitabile ma inconoscibile, si nega e ti rinnega, tradendo la tua fiducia, insegnandoti che non potrai mai, per nessuna ragione, capire veramente la testa di un altro; e distruggendo contemporaneamente la tua fiducia in te stesso e quella nel mondo. Ci sono passato, in questi due anni.

Ma, più ancora di questo, per me è soprattutto la storia della mia infanzia, precisa precisa fino nei minimi dettagli, le scenate in casa, quelle per strada, l’ossessione di sapere, le stanze vuote, il non capire, le colpe, tante colpe dappertutto, per tutti, a piene mani, sempre. Non è nemmeno odio, è soltanto… freddo, un freddo che congela le vite e fa urlare i muri, lasciandoti prigioniero di una scia di maledizione disperata, tanto più orribile perchè priva di un vero motivo; come un cancro che ti tocca, ma che non puoi afferrare.

Quest’anno tra poco sono vent’anni che i miei genitori si sono lasciati, e ancora non ho capito, non ho parlato, non ho perdonato (nessuno dei due). Beh, forse, un po’; ma è un lavoro lungo e difficile, così come è difficile, molto difficile, superare la promessa fatta da bambino davanti allo specchio, di non fidarsi mai più di nessuno. Piano piano, ci si può lasciare andare, spezzare la catena, cominciare finalmente una vita libera, migliore, per te e per le persone che ti stanno attorno. E, alla fine, soffrire moltissimo guardando un film così, ma poterlo fare come semplice catarsi, sapendo di esserne finalmente usciti, e di potersi guardare indietro con serenità.

Ah, il film è ovviamente bellissimo, anche se non so se per chi non l’ha vissuto direttamente possa avere lo stesso significato. Se vi capita, e non avete paura, guardatelo senz’altro.

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lunedì 5 Giugno 2006, 22:48

Attimi fuggenti, mezzi bicchieri

Salve, sono appena tornato! Avrò modo, spero, di raccontare con calma qualche particolare di Manchester; per il momento, volevo fotografare una strana serata in solitario, a casa, a riprendere contatto con situazioni che in quattro giorni di altrove erano già diventate piuttosto lontane, e che a maggior ragione mi sembrano vecchie, superate.

Allo stesso tempo, pensando alle infinite cose che potrei fare di me stesso per riprendere un po’ il cammino verso altre fasi e altre mete della vita, mi sovviene l’importanza di condividere sempre le mie meditazioni con coloro che vorranno passare di qui ogni tanto, sperando che possano essere utili anche a quelli di voi – tutti, in realtà – che sono, coscientemente o meno, in cerca di un migliore equilibrio e di uno stadio successivo della propria evoluzione; o anche, come scrisse Walt Whitman, di decidere quale sarà il proprio verso (qui per gli amanti della cultura popolare).

Nel frattempo, la mia parte che pensa positivo (sì, esiste) vi lascia con questa citazione di Terry Pratchett che ho trovato nel libro comprato ieri in Inghilterra: meditateci, perchè solo in apparenza è arrogante, mentre in realtà è un invito a non aver paura; il che è la chiave per avere infine tutto ciò che veramente si vuole.

“There are, it has been said, two types of people in the world. There are those who, when presented with a glass that is exactly half full, say: ‘This glass is half full.’ And then there are those who say: ‘This glass is half empty.’ The world belongs, however, to those who can look at the glass and say: ‘What’s up with this glass? Excuse me? Excuse me? This is my glass? I don’t think so. My glass was full! And it was a bigger glass.’ “

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domenica 28 Maggio 2006, 12:10

Francoforte

Stasera (ieri sera per chi legge, visto che non c’è il wi-fi in camera e manderò il post in differita) sono a Francoforte, per un meeting domenicale dell’At Large europea, che è stato appositamente convocato in un giorno festivo e in un luogo più o meno centrale, e ben connesso via aerea, del continente.

Sono partito di corsa al pomeriggio, dopo una mattinata in cui dieci persone volevano dieci cose da me tutte allo stesso momento, e un pranzo finalmente piacevole ma devastante per il mio stomaco (perchè se non mi stendo di vino potrò almeno stendermi di cibo?). E poi, una corsa selvaggia a 180 all’ora in tangenziale per essere a Caselle per tempo (13 minuti netti da casa, di cui uno e mezzo perso all’unico semaforo del percorso), solo per scoprire poi che oggi pomeriggio l’aeroporto era insolitamente deserto. E così, eccomi qui.

Certo, è sempre strano essere in un posto di cui non si parla la lingua. Io ho cominciato a imparare il tedesco da bambino, ai tempi del C=64, quando ottenni per vie traverse il mio primo compilatore Pascal, e con orrore scoprii che era completamente e solo in tedesco. Lì scoprii le basi minime per orientarmi, tipo la sottile ma fondamentale differenza tra ein, kein e nein; e col tempo ho imparato a cavarmela almeno con la lettura. Il tedesco non è troppo difficile da interpretare, magari con un po’ di orecchio per la derivazione inglese – e qui va una nota di merito alla semplicità anglosassone, prendendo ad esempio termini come next e nächst che si pronunciano allo stesso modo e vogliono dire la stessa cosa, ma per cui il tedesco richiede una ortografia annurca. Ma capirlo sentendolo parlare è un’altra cosa.

E così, anche stasera sono un po’ dentro il solito effetto Lost in Translation: in cui è come se improvvisamente il mondo fosse cifrato in ROT13, e tutto intorno a te divenisse poco e difficilmente comprensibile, lasciandoti solo e insieme egualmente vicino a tutti quelli che passano. Solo che negli alberghi dove vado io non c’è mai Scarlet Johansson, ma solo gruppi di giapponesi e un pullman di russi, che vorrei diplomaticamente salutare al grido di “Oh Dimitri, ne hai fatta cento litri” ma sono da solo e il coro non verrebbe bene.

L’effetto è comunque raddoppiato nel mio giro alla stazione, dove cerco qualcosa per cena. A dire il vero pensavo di mangiare il piatto tipico tedesco, il döner kebab, ma non ho saputo resistere a un bratwürst + brötchen (il panino con il wurstelone che scappa da ambo i lati). E poi, il supermercato aveva l’ottima birra Köstritzer, la versione tedesca della Guinness, solo più acquosa e più amara, scoperta alle Olimpiadi a casa Turingia. E’ stata comunque intensa la sensazione di attraversare con un wurstel in mano l’umanità varia che popola una grande stazione, in più con una vista da scena finale di film, con il tramonto arancione e lontano in fondo ai binari già illuminati ma quasi interamente vuoti, e con i tabelloni luminosi a sottintendere il ricordo di qualcosa che è partito, o l’attesa per qualcosa che forse prima o poi arriverà.

Non è poi così bello viaggiare all’estero per lavoro, se uno lo fa troppo spesso (e ci sono peraltro molte persone che lo fanno ancora più spesso di me). Ma non è nemmeno così male, dopo una bella doccia, stare disteso sul letto in pigiama a guardare l’amichevole Francia-Messico, con Rudi Völler che parla misteriosamente in tedesco anzichè in romano. Solo, mi manca avere qualcuno a cui raccontarlo, a cui mandare un messaggio per dire come va; e mi manca, in fondo, la persona con cui mi piaceva viaggiare.

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venerdì 26 Maggio 2006, 09:49

Miracoli

Ieri ho fatto un giro a Pisa in giornata, per partecipare al Consiglio e all’Assemblea di Società Internet, e alla cena conclusiva con ospiti d’onore Vint Cerf e Bob Kahn. E’ stata una bella giornata, perchè in questo genere di occasioni si incontrano tante persone interessanti, ci si aggiorna su cosa sta succedendo in rete dai vari punti di vista (politico, economico, tecnico…), si discute di possibili iniziative; e in più, molte di queste persone ormai sono diventate amiche, visto anche che nei corridoi alcuni di questi professori, tecnologi e capitani d’impresa mi hanno intimato a forza di pacche sulle spalle di non andar più ai matrimoni.

Di tutti questi input politico-tecnici parlerò con calma nei giorni futuri; come al solito, prima vorrei condividere la sensazione particolare che ho provato in un’oretta in solitaria subito prima di cena, preso tra le ombre lunghe di un cielo azzurro e di un tramonto solare, mentre il resto del gruppo si recava in albergo a prepararsi. Cosa si può fare per un’oretta da soli nel centro di Pisa? Naturalmente, si può andare in piazza dei Miracoli.

Credo che la piazza dei Miracoli sia un luogo speciale soprattutto perchè è uno dei punti più noti del mondo; è relativamente difficile trovare qualcuno – in Italia ma anche in Europa, e in buona misura anche negli Stati Uniti – che non sia mai stato a vedere la Torre di Pisa, o che perlomeno non ne conosca l’aspetto.

E così, nel mio caso, mi è venuto naturale ripensare a tutte le volte che sono passato di lì, tutte così diverse tra loro. Per la prima volta, da bambino, in vacanza con i miei genitori; poi da ragazzo in gita scolastica; poi una notte nel 1997, guardandola di sfuggita dal pullman che faceva Lucca-Firenze via Pisa, dopo il mio primo raduno di IAC; e poi la sera in cui parlai con Elena per la prima volta, per un raduno di IFQ; e una sera a due, da fidanzati, in un viaggio che avevo organizzato per lei. E poi ieri, da solo, di sfuggita, sperso anonimamente in mezzo a turisti e turiste e coppie di turisti e turiste.

Credo che vedrò quella piazza ancora varie volte nella mia vita, sempre in situazioni diverse; ma non ho ancora capito se la differenza nelle scale di tempo, tra le mutazioni degli uomini e quelle delle pietre, sia inquietante o rassicurante. La passeggiata successiva, per quelle vie dove la folla di turisti non sciama, e Pisa diventa un paesone quasi marittimo, con negozietti di alimentari accatastati e le vecchiette affacciate sotto le serrande semichiuse per il sole, non ha risolto i miei dubbi.

La cena poi ha dissipato subito tutto, è stata davvero piacevole, ho bevuto pochissimo tanto che ho poi guidato tranquillamente per due ore e quaranta per tornare a Torino, senza grandi problemi (anche se ho frenato un po’ lungo aVillanova :-P ). Resto con la conclusione provvisoria che, forse, l’unica cosa che potrei chiedere alla piazza dei Miracoli è il miracolo di rendermi normale.

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