La mia foto dell’anno per il 2020 è sicuramente quella qui sotto. Era il 6 marzo e io stavo rientrando in ufficio dopo una misteriosa febbriciattola. L’Italia era in subbuglio, ma ufficialmente poco era successo; la parola “lockdown” era ancora sconosciuta, ed esisteva soltanto la “zona rossa di Codogno”.
Non so dove avessi preso quella febbre; forse – proprio mentre l’Italia scopriva per la prima volta la presenza del virus – sabato 22 febbraio, di ritorno da San Francisco su uno dei miei tanti voli da Monaco a Torino, su uno di quegli aerei che da anni facevano ogni giorno su e giù senza sosta tra l’hub bavarese e gli aeroporti di Piemonte, Lombardia e Veneto. O forse lunedì 24, quando ero andato – in auto, vista l’improvvisa paura per i treni lombardi – fino a Milano, al consolato russo, per chiedere un visto per una conferenza a Mosca in aprile che poi non si svolse mai.
Martedì 25 e mercoledì 26 ero andato in ufficio, e così, per caso, il mio collega alla scrivania di fronte mi aveva fatto notare che mi era venuta una tosse secca e insistente, sempre più frequente; e fece anche qualche battuta sul fatto che a metà gennaio ero stato in Cina, “non porterai mica il covid?”. Ma no, era impossibile: il covid, si diceva allora, emerge in 14 giorni e ormai erano passati da un pezzo; anche a San Francisco, per farmi imbarcare sul volo di ritorno, mi avevano chiesto se fossi stato in Cina negli ultimi 14 giorni, e io gli avevo detto di no, che era passato almeno un mese.
Comunque, dato che ero stato in giro per il mondo senza sosta sin dalla fine delle vacanze di Natale, decisi di cambiare ambiente, e mercoledì sera partimmo per la montagna, con l’idea di lavorare da lì e magari prendere un giorno di riposo extra, per compensare il fatto che domenica alle 13:15 avrei avuto un altro volo, da Caselle per Londra, e poi il martedì da lì in Germania.
Eppure giovedì 27, man mano che lavoravo, mi vennero degli strani brividini; ma niente di che, e il massimo di temperatura fu di 37 gradi precisi a fine pomeriggio. Ero preoccupato per un solo motivo: se avessi avuto più di 37,5 di febbre, domenica non mi avrebbero lasciato salire sul volo e sarebbe stato un disastro. Venerdì 28 la storia fu circa uguale; al mattino avevo 36,5, ma verso fine giornata arrivai addirittura a 37,3.
Non ero quindi preparato a una serata particolare. Dopo cena, ci mettemmo nel letto a guardare la televisione. Erano già le dieci passate quando mi accorsi che facevo sempre più fatica a respirare, e che non riuscivo affatto a rilassarmi. Cominciai ad andare in bagno ripetutamente, con la sensazione di affanno e di dover vomitare, ma senza che venisse fuori niente. All’ennesimo giro, ed era quasi mezzanotte, dopo diversi minuti a guardare la tazza del WC stando malissimo senza riuscire a vomitare decisi di tornare in camera, e… non ci arrivai: i quattro metri dal bagno alla camera divennero infiniti, ero in apnea, mi girava la testa, non vedevo niente, e ansimavo cercando di respirare, senza molto successo; alla fine, mi appoggiai ai mobili per non cadere, cercando di gridare per attirare l’attenzione di Elena. Lei venne di corsa, mi trascinò nel letto, mi mise orizzontale, e per qualche motivo, di botto, la crisi finì; ricominciai a respirare un po’ meglio, ma ci volle fino alle due di notte perché riuscissi a rilassarmi e poi a dormire. Naturalmente ci chiedemmo se chiamare il 118, ma eravamo in mezzo ai monti, a un’ora di curve dall’ospedale di Aosta, e se fosse stata una vera emergenza nessuno sarebbe mai giunto in tempo. Sperammo in bene, e così andò.
Il mattino dopo, sabato 29 febbraio, chiamai subito la mia dottoressa, che mi chiese: negli ultimi 14 giorni sei stato in Cina? No. Sei stato a Codogno? No. Allora, mi disse, non è covid, e anche se avessimo il dubbio, non mi è comunque permesso di farti fare un tampone; così erano le linee guida di quel momento. Mi disse comunque di comprarmi un saturimetro e di chiamare subito il 118 se avessi avuto una nuova crisi. Non essendo covid, e continuando io a non avere febbre, non ero nemmeno soggetto a quarantena; e così, per sicurezza, decisi di mettermi in macchina e tornare fino a Torino, più vicino a un qualunque ospedale.
Nel frattempo, sia gli inglesi che i tedeschi che dovevo incontrare mi avevano scritto chiedendomi di stare a casa, perché quella era la settimana in cui gli italiani erano pericolosi untori e il resto d’Europa pensava di potersi salvare. Quindi tornai a casa senza uscire mai dalla macchina, e per sicurezza mandai Elena da sola a fare la spesa, aspettandola fuori dal supermercato; il medico mi aveva detto che certamente non era covid, e comunque all’epoca non si sapeva ancora che ci fossero così tanti asintomatici e nemmeno che gli asintomatici fossero potenzialmente infettivi.
Domenica fu un giorno altrettanto straordinario; cominciò a colarmi il naso. Ma non normalmente; continuamente, a fiotti. Non la pubblicherò, ma fui così impressionato da fare la foto alla grossa scatola di cartone del Lidl che tenevo vicino al letto, completamente piena di pezzi di carta igienica usati per soffiarmi il naso. Dopo di quello, bon: non ebbi più febbre né brividi, e anche la tosse andò rapidamente scemando; ricominciai a stare bene.
Lunedì 2 marzo decisi da solo di mettermi in smart working; non era un obbligo (se ricordate, la maggior parte delle aziende italiane continuò a tenere anche gli impiegati in ufficio fino a fine marzo) ma mi chiesi perché, pur non avendo il covid, avrei dovuto rischiare di contagiare qualche collega. Lunedì pomeriggio, tre giorni dopo la crisi, mi arrivò anche il saturimetro da Amazon: alla prima prova segnava 93.
C’era però un problema: a febbraio avevo viaggiato e accumulato spese per quasi mille euro, che avrei dovuto rendicontare appena possibile, con tanto di allegati cartacei. E così, arriviamo alla foto: venerdì 6 marzo verso le sei del pomeriggio, contando di non incontrare nessuno, mi presentai in ufficio per fare la mia pratica. In realtà incontrai un collega, ma ci tenemmo ben alla larga (all’epoca non esistevano mascherine, ma si diceva che bastassero due metri di distanza per evitare il contagio anche al chiuso) e lui andò via praticamente subito. In più, io mi portai da casa il disinfettante, e disinfettai attentamente tutto quello che avevo toccato: la stampante, le buste, le scrivanie, le maniglie. Anche se non avevo il covid, anche se il venerdì pomeriggio era stato scelto apposta per far passare più tempo possibile fino al nuovo riempimento dell’ufficio, anche se mi sembrava talmente assurdo da farmi fare la foto da Elena, sono contento di averlo fatto lo stesso.
Alla fine, nessuno nel nostro ufficio ha mai avuto il covid. Più tardi, verso l’estate, diventò possibile fare i test sierologici per capire se lo si aveva avuto, ma il governo dispose che i positivi dovessero mettersi in quarantena in attesa di un tampone, e a quel punto mi sembrò stupido rischiare settimane di quarantena solo per capire che cosa avessi davvero avuto. Non lo saprò mai: resterà uno dei misteri della mia vita.
So solo che spero di non provare mai più quella sensazione di non riuscire a respirare, mentre gli occhi si spengono, e ti sembra proprio di stare per morire; e spero che il 2021, almeno da un certo punto in poi, non la regali più a nessuno.