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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


sabato 20 Giugno 2009, 15:21

Pescara

Uscire dall’autostrada a Pescara Nord è come atterrare su Marte: si viene proiettati in un universo parallelo che assomiglia al nostro, ma si evolve secondo regole talmente misteriose da rassomigliare, ai nostri occhi di terrestri, all’assenza totale di logica.

Per esempio, la statale adriatica che porta dall’uscita al centro città è costellata di semafori; ma sono tutti spenti. Tutti! Non che servirebbero a qualcosa, perché il traffico è un caos calmo di auto, camion, motorini, pedoni, biciclette, carretti, animali e apipiaggio che scivola secondo la legge del più forte; le precedenze sono un optional, e questo potrebbe anche essere un bene, dato che ti costringe ad andare piano come ogni esploratore dell’ignoto. In parte sono spenti perché è arrivata anche qui la moda delle rotonde, e però non l’hanno ancora capita, e vedi macchine targate PE ferme all’infinito perché dalla via di destra ne arrivano altre, il tutto sotto lo sguardo del semaforo che c’era prima, che però, in questo caso di ormai palese inutilità, non è affatto spento, ma giallo lampeggiante; giallo lampeggiante per una corsia di svolta a sinistra che non esiste più, e la cui esecuzione provocherebbe l’imbocco contromano della rotonda, e ho il sospetto che non capiti di rado.

Anche l’albergo è così: sta sul lungomare vicino al centro, un lungomare che hanno appena ristrutturato per trasformarlo in un budello, con una corsia per senso di marcia ciascuna larga come un apepiaggio, in modo da permettere finalmente il parcheggio su entrambi i lati. L’idea di imporre un senso unico, di mettere la sosta a pagamento o anche solo il disco orario, non sfiora minimamente i locali; da noi la sosta è a pagamento pure nei paesini, ma qui finora non ho visto mezza striscia blu, nemmeno nelle piazze centrali. Del resto ieri, per andare a cenare, abbiamo dovuto attraversare il vialone principale su cui sfrecciano le auto; c’è un semaforo pedonale, che però non solo è ovviamente spento, ma è anche stato privato dei pulsanti per chiamare il verde: ci sono le scatole aperte, appese al palo con i fili penzolanti (probabilmente qualcuno s’è fottuto il pulsante). In mezzo, a dividere le due corsie, c’è un divisorio giallo continuo di quelli che si usano per delimitare le corsie preferenziali, che però serve a poco perché le auto si divertono a prenderlo come rampetta per fare la svolta a sinistra vietata pure col salto, tipo Hazzard.

Lo stesso albergo sembra fluire per regole misteriose, nel senso che nessuno di quelli che vi lavorano sembra essere mai stato in un albergo, nemmeno da cliente; la reception è generalmente deserta e si stupiscono se gli chiedi un caffelatte a colazione (“abbiamo solo il cappuccino”), e comunque il bar serve la colazione in ordine casuale, o più probabilmente secondo qualche implicita e non verbale raccomandazione. Sembrano tutti passanti che, entrati per un attimo, si sono messi la divisa per giocare a fare gli albergatori per mezz’oretta. Lo stesso albergo è in ristrutturazione pare perenne, per arrivare alle camere attraversi il cantiere il quale è aperto al vento sulla strada, e la camera è organizzata in modo casuale, il pulsante per accendere la luce in bagno è sistemato in un posto impossibile dietro la porta, la luce dello specchio non funziona, il water è posizionato nell’unico punto dove è praticamente impossibile sedervisi, e così via.

Ma il vero trionfo di questa città è la sua superstrada, pardon l’asse attrezzato. Sapete, sono anni che giro e sfotto le città americane, dove è normale tirare giù gli edifici storici in pieno centro per farci passare un’autostrada sopraelevata: ecco, è quello che hanno fatto qui. Hanno preso il fiume-porto-canale che costituisce il centro della città, e quarant’anni fa ci hanno costruito sopra una superstrada di cemento già sgretolato e cadente con tanto di ragnatela di svincoli a cavallo del fiume, una delle cose più squallide che abbia mai visto in vita mia, che porta Pescara al livello di città d’arte come Cincinnati e Minneapolis. E’ come se a Torino tirassimo su una autostrada a sei corsie nel mezzo del Po, e già che ci siamo facessimo una rotonda sopraelevata attorno alla cupola della Gran Madre e due begli svincoli per via Po all’altezza del secondo piano delle case di piazza Vittorio, con la possibilità di installare un McDrive sul balcone; e poi lasciassimo il tutto in uno stato di incuria totale. A piedi, anche solo trovare il modo di attraversare il fiume è stato complicato: abbiamo rischiato di immetterci da pedoni sulla A25 per Roma.

E nonostante questo, sapete che vi dico? Che per qualche imperscrutabile motivo questa sembra una città interessante. Cioè, di monumentale non c’è niente, però ieri sera siamo andati a cena nelle due vie parallele della vita notturna, via delle Caserme e corso Manthonè, due stradine pedonali piene di localini. Avevamo prenotato all’Osteria La Lumaca, temendo di non trovare posto, e la risposta in sostanza è stata “ma se venite presto presto non c’è problema, va bene alle 20:30?”. In pratica il locale ha cominciato a riempirsi verso le 22, e così abbiamo capito perché il museo etnografico che si trova proprio lì il venerdì e il sabato apre dalle 22 alle 3 del mattino (attenzione, non in aggiunta all’orario diurno: è proprio il suo orario del venerdì e del sabato). E tra l’altro la cena è stata davvero eccellente: ok, abbiamo speso 83 euro in due (prendendo ognuno mezzo antipasto, un primo, un secondo e un dolce, più 20 euro di ottimo Montepulciano 2005 da 14 gradi e mezzo) ma è stata veramente una delle migliori cene della mia vita.

Sembra insomma che sia una città comunque viva, non solo per le ampie spiagge, ma anche in termini culturali; che per qualche motivo questo flusso creativo ed anarchico produca i vari D’Annunzio, Flaiano e Cascella e così via. E poi a sud del centro c’è una bellissima pineta, prontamente denominata “dannunziana” (ho visto almeno tre vie D’Annunzio, credo abbiano intitolato vie a tutti i suoi parenti fino al secondo grado), nella quale andrò presto a fare una passeggiata. E’ proprio di fronte allo stadio Adriatico: faccio prove per gli anni prossimi.

[tags]pescara, traffico, ristoranti, d’annunzio[/tags]

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giovedì 18 Giugno 2009, 22:13

Curiosità da Urbino

Urbino è una città universitaria: l’intera economia della città si regge sulle fotocopie. Ci sono più copisterie che bar per turisti!

Dietro l’agriturismo in cui stiamo, sul fianco di una collina, qualcuno ha scritto una enorme M con dei tratti di sassi bianchi. Non sono riuscito a controllare se sia visibile su Google Maps, per cui ci chiediamo dov’è che hanno poi scritto “USSOLINI”.

E’ apparentemente incomprensibile come mai abbiano deciso di costruire la grandiosa facciata del Palazzo Ducale, con tanto di torri e balconi, verso il nulla; al momento si affaccia sul teatro e poi su un parcheggio e un dirupo; sotto, l’inutile strada piena di curve che porta verso Sansepolcro, ma che nessuno fa più, perché conviene piuttosto tornare indietro e prendere la via della valle. In realtà, ho il sospetto che all’epoca dei duchi di lì arrivasse la strada per Roma.

A Urbino i locali ti prendono per il culo con la toponomastica: non solo ci sono da una parte via Balcone della Vita e dall’altra via Volta della Morte, ma quando riesci a farti la mostruosa salita che ti accoglie dal lato occidentale del centro, più o meno ripida come una pista da sci, la traversa che trovi in cima si chiama via Meta del Salire

Lo sport nazionale, da queste parti, è l’esibizione in cinquantino. L’altro giorno però ho visto una disciplina speciale: buttarsi giù su un cinquantino per una discesa ripida in mezzo agli alberi, verso uno strapiombo, senza casco, portando dietro la fidanzatina ancora senza casco. E’ chiaro che quelli che sopravvivono diventano Valentino Rossi!

[tags]urbino[/tags]

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mercoledì 17 Giugno 2009, 23:55

Spostamenti

Ieri mi sono seriamente preoccupato: ci ho messo meno tempo ad attraversare in macchina Milano dallo svincolo di viale Certosa fino a viale Argonne che a circumnavigare un quarto di Torino da casa mia fino all’imbocco dell’autostrada di corso Vercelli. E’ vero che a Torino erano le 19:15 mentre a Milano erano quasi le 21, però è preoccupante lo stesso: cosa succede al traffico torinese?

In compenso il viaggio fino a Urbino è stato relativamente privo di eventi, se si esclude il mistero di come – all’area di servizio Bevano Sud sull’A14 – io sia riuscito a mettere 47 litri di gasolio nel serbatoio quando non ero nemmeno ancora entrato in riserva: probabilmente ad alcuni benzinai si applicano leggi della fisica dei liquidi diverse da quelle comuni.

Siamo qui per una conferenza, ospitata dalla locale università, che è intitolata a un signore di cui si sa solo il nome (Carlo Boh). La conferenza inizia domani, così nel pomeriggio abbiamo visitato il Palazzo Ducale e la mostra su Raffaello (un tizio che dipingeva piuttosto bene) e poi ci siamo concentrati sul punto principale, ossia decidere dove cenare.

Il primo posto provato (dopo dieci minuti di curve) ci ha mandati via, e così siamo andati fino a Urbania, un paesone in mezzo alle colline misterioso ma pieno di storia. Abbiamo mangiato all’Osteria del Cucco, segnalata da Osterie d’Italia; in apparenza, se vi parlassi di un posto dove il servizio è lento e alla buona (tipo un bicchiere solo per acqua e vino, tovaglia di carta ecc.), dove siedi con altri allo stesso tavolo e dove spendi 35 euro a testa per giro di antipasti, assaggio di tre primi e dolce, potreste pensare che non è un granché; invece, la cucina era davvero ottima oltre che molto interessante, con pasta fatta a mano e ricette piene di verdure locali, per chiudere poi con gelato e visciole (le ciliegine del posto) e un buon liquore sempre di ciliegie. Siamo usciti più che soddisfatti; quanto al servizio, stasera erano evidentemente in sofferenza per casini loro, ma la signora è stata molto simpatica.

C’è però un mistero; tornando indietro per curve e statali, ho visto un distributore automatico presso un benzinaio; mi sono fermato sperando che vendesse da bere, e invece vendeva profilattici e DVD porno. Dopo qualche chilometro, altro distributore e stessa cosa. Eppure non è una strada da camionisti: boh?

[tags]milano, torino, traffico, turismo, urbino, urbania, osterie, ristoranti[/tags]

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mercoledì 1 Aprile 2009, 16:03

Pure il ponte

Oggi siamo in partenza: abbiamo chiuso le valigie e lasciato tutto in albergo, e passeremo l’ultima giornata girando il Metropolitan, almeno se le gambe ci reggono.

Infatti, ieri è stato il giorno del grande giro a piedi: siamo partiti dal nostro albergo che sta quasi a Central Park, abbiamo attraversato tutta Midtown fino al Chrysler Building e alle Nazioni Unite, poi siamo tornati indietro e siamo scesi per la Quinta Avenue e per Broadway, siamo andati a salutare Garibaldi all’università e poi giù attraverso Little Italy e Chinatown, poi la zona del municipio, Ground Zero, la riva bassa dell’Hudson, Battery, Wall Street, il Pier 17 e infine l’infinita rampa che porta sul ponte di Brooklyn, il ponte stesso (uno spettacolo) e la discesa dall’altra parte fino alla stazione della metro presso il Politecnico di New York.

Questa è una versione piuttosto approssimativa e per difetto, perché Google Maps non permette ancora di far passare i percorsi pedonali all’interno delle aree soltanto pedonali, come i parchi e l’Esplanade (la passeggiata sulla riva del fiume). Direi che fanno una ventina di chilometri, camminando dalle 10 alle 18 con molte foto ma poche soste; e poi, tornando con la metro C, siamo ancora scesi alla 34a Strada per andare da Macy’s a fare shopping.

Ieri sera infatti eravamo devastati e ci siamo accasciati sul letto: eppure stamattina siamo di nuovo pronti a fare chilometri. Poi però, quando sarò tornato a casa, non mi muoverò per un po’.

[tags]viaggi, stati uniti, new york, manhattan, brooklyn[/tags]

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martedì 31 Marzo 2009, 23:40

Andoma al Chrysler Building

Avvertenza: questo episodio potrebbe non essere avvenuto esattamente così come riportato.

Se devo scegliere un edificio che più di tutti simboleggia Manhattan, non ho dubbi e scelgo il Chrysler Building. Nonostante fosse abbastanza fuori mano rispetto al percorso previsto, oggi abbiamo deciso di deviare per andarlo a vedere: infatti avevamo un motivo speciale.

Dal Chrysler Building si rimane impressionati: l’eleganza della sua famosa punta d’acciaio si impone su tutta la città, e da vicino si possono scorgere anche le gargoyle d’acciaio in stile anni ’30 che sporgono dal sessantesimo piano. L’interno è ancora più impressionante; nonostante la base dell’edificio sia incredibilmente piccola, almeno rispetto al medio grattacielo di New York, l’atrio è tappezzato di marmi rossi e decorazioni metalliche in stile, mentre le guardie in uniforme bloccano l’accesso ai blocchi di ascensori, otto per ogni gruppo di piani, di cui il più guardato è il blocco centrale, quello che porta fino al settanta-e-rottesimo piano. Ma noi, oggi, sapevamo che non c’era più motivo di farsi intimidire.

Già, perché i giornali e i telegiornali qui riportano pudicamente che persino Obama dice che la Chrysler non può sopravvivere come compagnia a se stante, e in fondo in fondo, dopo le paginate sullo scandalo GM, informano che è stato concluso “un accordo di lunga durata” con “Fiat SpA, an Italian carmaker”. Ma noi sappiamo la verità, ce l’ha detta La Stampa: è la Fiat che ha comprato la Chrysler, vincendo un complesso di inferiorità durato un secolo.

E così, oggi sono andato a riscuotere: sono entrato nell’atrio senza bussare, con piglio marziale, e mi sono avvicinato all’ascensore presidenziale. La guardia – un nero gigantesco che aveva l’aria di chi in una vita precedente faceva lo sparring partner di Mike Tyson – mi ha guardato male, ma io gli ho subito fatto capire chi è il padrone adesso: “Piantla lì!” gli ho gridato, squadrandolo dall’alto in basso (operazione per la quale è stato necessario uno sgabello utilmente reperito in loco).

Lui sul momento non ha capito – probabilmente non aveva ancora letto La Stampa – e quindi ho provveduto a informarlo: “I l’oma catà nojauti, tuta sta ròba sì!”. Lui è rimasto un attimo sbigottito, come se non fosse sicuro di cosa intendessi dire, e allora – indicando col dito – ho specificato con maggiore precisione: “Tuta, tuta! Ij mòbil, le lampe, le pòrte, j’assenseur, ij tapirolan…” A quel punto ho visto la disperazione nei suoi occhi: passi per i mobili, ma quello no! Con un accento ancora incerto, come di chi ha studiato il piemontese tutto in una notte, mi ha risposto: “‘dcò ij tapirolan?”. Non ho avuto cuore di insistere, e ho preferito lasciargli la speranza di salvare almeno quelli.

Eppure i segnali sono ormai evidenti: nel cuore di Manhattan, nell’edificio simbolo dell’industria americana, il chioschetto non vende più hamburger, ma panini con le acciughe al verde; e il carrello degli hot-dog all’angolo è già stato sostituito da un carrello dei bolliti. Per fraternizzare, le guardie mi hanno offerto una scodella della nuova bagna caoda di Starbucks: sta in un contenitore di plastica con un tappo sintetico che mantiene caldo il contenuto, e che in cima ha un buco a forma di ciapinabò, per facilitare la puccia.

E questo è soltanto l’inizio! Stasera, soddisfatto, già mi vedevo le grandi aziende americane piemontesizzarsi: alla Piassa dij Temp le insegne luminose dicevano “Ernèst e Giovin”, “Citemòl”, “Café dla ròcia dura” e “Gran negòssi dla vérgin” (quest’ultimo però sta chiudendo). Ma forse era la bagna caoda di Starbucks che aveva troppo aglio.

[tags]viaggi, stati uniti, new york, chrysler, torino, fiat, piemontese, bagna caoda[/tags]

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lunedì 30 Marzo 2009, 23:03

Arte in lontananza

New York, a visitarla, inganna. E lo fa per un motivo molto semplice: noi siamo abituati a giudicare la distanza degli edifici in base a quanto essi svettano rispetto al terreno; più gli edifici sono vicini, e più la porzione di cielo che essi occupano verticalmente è elevata. Quello che il nostro occhio può vedere, tuttavia – specie quando gli edifici non sono immediatamente davanti a noi, ma vi sono alberi o edifici più bassi in mezzo – è soltanto l’angolazione con cui la cima dell’edificio si staglia rispetto all’orizzonte; per poter calcolare la distanza è necessario conoscere anche l’altezza dell’edificio, poiché a parità di angolo la distanza è proporzionale all’altezza stessa.

Il nostro cervello fa questi calcoli alla buona, utilizzando la propria esperienza; per questo, ipotizza che gli edifici “alti” abbiano l’altezza che hanno abitualmente nel proprio ambiente – a Torino, una decina di piani. Se improvvisamente venite trasportati in un luogo dove gli edifici “alti” sono mediamente dieci volte più alti, il risultato sarà che tutti i vostri istintivi calcoli di distanza (e quindi di tempo) relativi a quanto ci vuole per raggiungere “quel palazzo laggiù” saranno sottostimati mediamente di un fattore dieci. E quindi, pensare “ma sì, quelli sono gli edifici al fondo di Central Park, non sono tanto lontani: andiamo a piedi” è un errore mortale.

Io ero già incappato in questo errore cinque anni fa, in particolare con il Chrsyler Building, che essendo uno dei grattacieli più a sud di tutta Midtown vi attirerà come una sirena, sembrandovi ingannevolmente vicino ogni volta che sarete in Downtown. Oggi però la camminata per Central Park era talmente piacevole che mi sono fatto ingannare volentieri: e così abbiamo percorso tutto il parco due volte per praticamente tutta la sua lunghezza, che però è di quasi cinque chilometri in linea d’aria, e ovviamente di più se seguite i tortuosi vialetti all’interno.

Il piano era, sulla strada del ritorno, di fermarsi a visitare prima il Guggenheim (che si trova sulla Quinta Avenue di fronte al parco, circa a metà), e poi il MoMA (che è nella parte nord di Midtown, a pochi isolati dall’albergo). E così abbiamo fatto; eppure, partiti dall’albergo alle dieci e camminando di buona lena, siamo ritornati alle cinque e mezza avendo visto il MoMA piuttosto di corsa.

Ed è stato un peccato: infatti il Guggenheim è un pacco pazzesco. E’ vero, l’edificio è meraviglioso e la collezione Thannhauser contiene una manciata di bellissimi Picasso, Monet e Van Gogh; la collezione di arte contemporanea però è deprimente, a meno che voi non siate di quelli che pensano che Pasto Nudo sia un libro, Yoko Ono sia un’artista e un quadro nero su sfondo nero sia una forma d’arte sublime. Qualcosa si salvava, ma il resto era soprattutto una collezione dell’orrida arte concettuale o performante degli anni ’60, quando ogni peto era peto d’artista purché fosse certificato da un gallerista.

Il MoMA, in compenso, è pieno di opere davvero belle: e ciò include anche l’arte contemporanea dello stesso periodo, scelta però evidentemente con un criterio diverso. D’accordo, non sono sicuro che abbia senso vedere i quadrati di Mondrian dal vivo, ma il museo era pieno (oltre che dei soliti impressionisti francesi: pare che i loro quadri siano stati comprati tutti in massa da americani) di bellissimi quadri di praticamente qualsiasi maestro del Novecento europeo e americano, tra cui una intera stanza dei nostri futuristi (oltre a De Chirico e Pistoletto), e poi due bellissime esposizioni di fotografie, e la parte di design (e qui ad essere italiana era metà della collezione).

Purtroppo, però, la stanchezza derivante dalla lunga camminata e dall’indigestione di quadri aveva già avuto effetto, e così la parte conclusiva della visita si è trasformata in un blobbone di forme, colori e concetti tendente al delirio: l’arte ha preso vita e ha cominciato ad accerchiarmi cercando di abbattermi, o perlomeno di farmi vomitare l’hot-dog preso al baracchino per pranzo. Ho capito che la fine era vicina quando, osservando l’ennesima statua di Calder in mezzo al gelo ventoso del giardino scultoreo all’aperto, ho pensato “più che altro mi pare di Fredder”. Domani quindi promesso: niente più arte.

[tags]viaggi, stati uniti, new york, musei, arte contemporanea, guggenheim, moma[/tags]

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domenica 29 Marzo 2009, 23:22

The American way

Dunque, nel fine settimana ho guidato per 441 miglia, che poi sarebbero 709 chilometri o 417041,194 smoot (una unità di misura usata solo negli Stati Uniti e derivante da quando una fraternità dell’MIT nel 1958 usò lo studente Oliver R. Smoot come unità di riferimento per misurare la lunghezza del ponte che collega l’università a Boston; alla visita dell’MIT ci hanno detto che è stata infine riconosciuta ufficialmente dall’ANSI e probabilmente lo sarà anche dall’ISO, e a ciò non sarebbe estraneo il fatto che lo studente Oliver R. Smoot, molto dopo la laurea, è diventato il chairman di entrambe le organizzazioni).

Premetto una cosa che non vi ho detto ieri: che ovviamente io all’Avis di Cambridge ho chiesto la macchina più piccola che avevano, e che ovviamente loro hanno ottemperato, dandomi un Chrysler PT Cruiser, che per loro è una utilitaria. Per noi è una specie di camion travestito da limousine, anzi l’unica altra volta che ne avevo visto uno era stato a un matrimonio in Sicilia: la macchina per portare in chiesa lo sposo. Certo che il concetto di auto qui è proprio diverso.

Se sabato la distanza è stata agevole, trattandosi del tratto turistico e con varie soste da Boston a Provincetown, oggi mi è toccata la parte più lunga: trecento miglia da Provincetown a New York, di cui la maggior parte in autostrada attraverso quattro stati diversi (naturalmente molti americani sostengono che il Rhode Island non possa essere considerato un vero stato, ma al momento è ancora indipendente).

Siamo partiti verso le undici sotto una pioggia battente, che non ci ha impedito un minimo tentativo di vedere da dentro le dune sabbiose della punta di Cape Cod, uno spettacolo che non ho visto da alcuna altra parte e che meritava comunque il viaggio. Alle undici e mezza eravamo in strada; la contea di Stallabaracca è molto più lunga di quel che si può pensare, ed è servita soltanto da una statale che diventa ogni tanto superstrada a singola corsia, e solo verso la fine raddoppia. In pratica, l’autostrada comincia solo dopo che si è passato il gigantesco Sagamore Bridge, si è girato verso ovest e si è arrivati sul continente vero e proprio (infatti, a partire dal 1914, Cape Cod è di fatto un’isola, dopo la costruzione dell’enorme canale che ne taglia l’istmo iniziale).

Verso l’una e mezza abbiamo fatto una pausa per visitare New Bedford, che soppiantò Nantucket come capitale dell’industria baleniera nella seconda metà dell’Ottocento, per finire poi semiabbandonata come solo le città americane ex industriali possono essere. Il museo è stato interessante, ma intorno (nel fu centro cittadino) era il deserto; il fatto che fosse una domenica di pioggerella invernale non aiutava.

Siamo ripartiti alle tre e ci siamo fermati ad una delle prime uscite dell’autostrada (dato che non c’è pedaggio, in genere non ci sono aree sull’autostrada, ma indicazioni sui benzinai, fast food e centri commerciali disponibili accanto a ogni uscita) per mangiare qualcosa e fare benzina; questa è un’operazione che negli Stati Uniti mi causa sempre qualche complicazione, perché il sistema è tutto opposto al nostro. Bisogna parcheggiare a una delle pompe, entrare, allungare dei soldi alla cassa, uscire, fare benzina, ritornare dentro e prendere l’eventuale resto: in altre parole, prima pagare e poi tu vedere carburante. Io però ho mandato a male il sistema in vari modi; l’altra volta a Los Angeles avevo preso una pompa dal lato opposto a quello dove avevo il serbatoio, contando di estrarre il tubo per aggirare la macchina come faccio spesso da noi, e invece le pompe americane non si allungano e sono cortissime. Qui, invece, per non occupare la piazzola avevo parcheggiato nel piazzale, dato che dovevamo entrare e comprare anche del cibo; il fatto che io volessi della benzina per un’auto che non era già parcheggiata alla pompa ha mandato in confusione il cassiere della Shell di North Swansea, MA.

Appena abbiamo messo piede in Rhode Island, la pioggerella si è trasformata in una specie di tifone; per fortuna è bastato attraversare Providence (città che sta apparentemente venendo rasa al suolo per costruirci un maxi-raccordo autostradale nel centro) e poi entrare in Connecticut perché la pioggia smettesse. In compenso, il Connecticut è uno stato serio: a un certo punto siamo entrati in una autostrada dall’aspetto vecchissimo, probabilmente deliberata da Eisenhower in persona, tanto che sono comparsi pure gli autogrill (solo che ovviamente erano enormi McDonald’s). A un certo punto il traffico ha cominciato ad addensarsi in un serpentone; eravamo a 150 chilometri da New York e temevo che il mio incubo – un mega-ingorgo del ritorno in città della domenica sera – si materializzasse da lontano; invece poi le cose sono migliorate.

Peraltro, il carattere del traffico è cambiato visibilmente lungo il percorso. Viaggiare in autostrada negli Stati Uniti è noiosissimo: le strade sono larghe e tutti viaggiano per file parallele alla stessa velocità, cioé quella imposta dal limite di velocità più 5-10 miglia di bonus. Il limite però è fissato tra 50 e 65 miglia orarie, ossia 80-100 chilometri all’ora: più o meno la velocità che noi teniamo sui viali urbani e sulle stradine di campagna. Insomma, io proprio non ce la facevo, e in cinquecento chilometri penso di non essere mai rimasto sotto il limite di velocità per più di trenta secondi, anche se ovviamente non ho esagerato per evitare guai. In effetti sono stato frequentemente superato da auto locali, anche se nessuno esagerava con la velocità; l’impressione è che 70-75 miglia orarie siano tollerate senza problemi, almeno sui tratti da 65, ma che se cominciassi ad andare a 80 o 90 miglia orarie (le velocità normali sulle nostre autostrade) ti troveresti presto lo sceriffo alle calcagna.

Comunque, mentre nelle campagne del Massachusetts andavano tutti lenti e paciosi sui loro SUV da sei metri, in Connecticut c’era già molto più traffico. Avvicinandosi a New York sono comparsi i primi camionisti, tutti caratterizzati da manovre assurde e nessun desiderio di dare strada: del resto, con limiti così bassi anche i camion vanno alla stessa velocità di tutti gli altri. Verso la grande mela è stato il disastro: ok, abbiamo evitato il pedaggio – qui i pedaggi si pagano solo per ponti, tunnel e poche grandi strade, e dato che in media chi esce dalla città prima o poi vi torna e viceversa, in genere si pagano in una sola direzione; nel nostro caso si pagava solo in uscita dalla città – ma le macchine, più che addensarsi, hanno cominciato a fare a portellate per reclamare il diritto di via; le strade invece hanno iniziato ad annodarsi.

Alla fine ci siamo trovati sulla Cross-Bronx Expressway, un nastro d’asfalto scavato o sopraelevato in mezzo al Bronx, pieno di curve e controcurve; a un certo punto è passata direttamente sotto un palazzo. Io dovevo beccare l’ultima uscita, la 1A, mancando la quale saremmo finiti sul George Washington Bridge, cioé direttamente nel New Jersey: non una bella prospettiva. Purtroppo però all’avvicinarsi del ponte l’autostrada impazziva: cominciavano a mettere frecce per chiederti se volevi prendere il ponte sul piano di sopra o su quello di sotto, mentre la carreggiata veniva inghiottita tra le fondamenta di strade e palazzi, con tanto di colonne in mezzo a fare da spartitraffico.

Per fortuna, proprio all’ultimo, in mezzo alla nebbia e tra le fondamenta del mondo superiore è apparsa l’uscita a doppio cavatappi che ci ha portato sulla Henry Hudson Parkway, il corso Unità d’Italia di Manhattan: un vialone a tre corsie per direzione costruito in riva al fiume, anzi a un certo punto proprio in mezzo al fiume, o così sembrava. Incredibilmente, non c’era praticamente traffico; e così verso le sette e un quarto siamo arrivati in città, e in pochi isolati sono arrivato davanti al nostro albergo, sull’angolo di Ottava Avenue & Cinquantunesima Strada.

E lì, incredibilmente, proprio all’angolo, c’era parcheggio. In piena Midtown Manhattan, a pochi isolati da Times Square. E non si pagava nemmeno: la domenica è gratis (per dire, l’autosilo all’angolo costa 25 dollari per mezza giornata). E mi son preso il gusto di fare il mio bel parcheggio parallelo a Manhattan. E son soddisfazioni.

Meno soddisfacente è stato pagare la benzina 2,50 dollari al gallone, in un Mobil sull’Undicesima Avenue, per riempire il serbatoio prima di riconsegnare l’auto all’Avis. Voglio dire, a North Swansea costava 1,93: capisco che siamo a Manhattan, però… Comunque abbiamo fatto 700 chilometri su quel bidone di auto con meno di 37 dollari di benzina: certo che è facile atteggiarsi a civiltà dell’auto con la benzina che costa così poco; peraltro l’estate scorsa erano arrivati sopra i 4 dollari al gallone…

In conclusione, è stata una esperienza interessante, soprattutto per osservare il nulla cosmico di cui è piena l’America: centinaia di chilometri di boschi tutti uguali, e poi centinaia di chilometri di aree urbane tutte uguali e prive di qualsiasi attrattiva. Per fortuna che qui ci sono delle radio decenti, che trasmettono del sano rock americano anni ’70, ’80 e ’90 a ciclo continuo, che in queste condizioni fa la sua porca figura… voglio dire, anche due settimane fa, andando in montagna, la radio aveva mandato Living On A Prayer di Bon Jovi; ma sentita sulla discesa di Ivrea non fa affatto lo stesso effetto che sentita sulla I-95 dalle parti di Stratford, CT. Ciò detto, che non vi venga mai in mente di fare l’attraversamento coast-to-coast degli Stati Uniti in auto, specialmente guidando voi: faccio fatica a immaginarmi qualcosa di più noioso sulla faccia della Terra.

[tags]viaggi, stati uniti, massachusetts, cape cod, provincetown, new bedford, new york, manhattan, auto, autostrade[/tags]

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sabato 28 Marzo 2009, 23:06

La sottile linea rosa

Avendo il weekend da passare qui e la necessità di spostarsi da Boston a New York, mi è venuto naturale pensare di affittare una macchina e sfruttare l’occasione per vedere un po’ di New England, al di fuori delle città. Il problema è che, per gli standard turistici europei, nel New England non c’è molto da vedere; e così la scelta sul dove trascorrere il sabato notte si è ridotta alle sole tre zone veramente turistiche del Massachusetts, cioè Martha’s Vineyard, Nantucket e Cape Cod.

E dato che siamo in inverno, che la temperatura notturna è sotto zero e che i traghetti sono quasi tutti fermi, abbiamo eliminato le due isole. Quindi la scelta più logica è stata una sola: Provincetown, il capoluogo turistico di Cape Cod, situata proprio all’estremità del lungo arco peninsulare; il primo posto dove i padri pellegrini della Mayflower toccarono terra, prima di ripartire per stabilirsi a Plymouth.

Avrei dovuto però capire che c’era qualcosa di sbagliato in questo ragionamento, se non altro quando ho scoperto che nessun albergo permetteva la prenotazione online, perché erano tutti chiusi; non demordendo, sono passato alle guest house, ossia la versione americana dei bed & breakfast. E lì proprio avrei dovuto capire, dato che scorrendo i vari siti comparivano le facce sorridenti dei padroni di casa: Tim & Luis, Peter & Chuck, Rainer, Jürgen & Hans.

Ma, pur cominciando a sospettare, ancora non avevo ben realizzato l’estensione del problema. Mi sono fidato di TripAdvisor, per cui la migliore di 89 guest house era l’Oxford: e così ho prenotato da Trevor & Stephen, non dando particolare peso al fatto che il secondo sito da cui sono caldamente raccomandati, oltre a TripAdvisor, è PinkChoice.

Così siamo arrivati, siamo stati accolti benissimo, ci siamo sistemati in una stanza meravigliosa (d’accordo, 130 dollari a notte prezzo di bassa stagione, ma la casa è davvero splendida), siamo andati a fare un giro… Insomma, P-Town, come la chiamano qui, è una tranquilla cittadina di mare del New England (ma sembra la Scozia, con quella bella nebbiolina grigia che copre tutto e l’acqua del mare sciolta nell’aria e sparata dal vento) con la particolarità di essere abitata quasi esclusivamente da coppie gay di ambo i sessi. Sulla strada principale, ad elegantissime gallerie d’arte si alternano pornoshop assurdi, e quasi tutte le case espongono la bandiera arcobaleno invece di quella americana. Ed è un posto bellissimo, dove si respira libertà ad ogni angolo, tanto è vero che da tutto il mondo ci sono persone che mollano tutto e vengono a vivere qui.

Eppure, mi sono anche reso conto di come il venire da un paese omofobico e integralista cattolico come l’Italia ti segni in profondità: infatti, quando a cena siamo finiti in un caffé-ristorante che suonava disco music a manetta, dove i camerieri erano giovanotti del tipo ultra-macho e dove le coppie etero erano in netta minoranza – a fianco a noi c’erano due lesbiche di mezza età, lei genere camionista con i piedi appoggiati sulla panca dall’altra parte, intente a chiacchierare e ogni tanto a sbaciucchiarsi – mi sono comunque sentito sottilmente a disagio.

Non ci siamo abituati, perché da noi comunque i gay vivono abbastanza sotto traccia, ritrovandosi mediante segni chiari ma poco visibili al mondo degli etero (oddio, qualcosa sto imparando, visto che quando sulla strada ho visto l’insegna Ursie’s Restaurant ho subito capito di cosa si trattasse). Ogni buon bambino italiano cresce giocando a pallone ai giardinetti in mezzo a coetanei che usano “frocio” come un insulto, e queste cose, anche quando vanno via dalla testa, ti restano nei riflessi; ed è ben diverso provare, come succede da noi, la piacevole sensazione di essere aperti di mente nei confronti della rara coppia gay che incontri per strada o a una cena, rispetto alla sensazione naturalmente meno piacevole di essere tu la minoranza che deve farsi tollerare.

Come unico incidente, sulla spiaggia abbiamo avuto un piccolo incidente con una checca in vestaglia: insomma, alle volte il mix di aggressività maschile e suscettibilità femminile genera davvero dei comportamenti da caricatura. Ma sono appunto caricature: la realtà è ben diversa, ed è quella di un posto dove davvero si può vivere la propria sessualità senza problemi. Fa piacere quindi essere in uno di quei paesi più civili del nostro, dove i matrimoni tra omosessuali sono permessi ed equiparati a quelli tra eterosessuali.

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venerdì 27 Marzo 2009, 23:56

Hamburger

Venendo negli Stati Uniti – e intendo proprio Stati Uniti, mica la California rifatta e salutista – non si può non andare a mangiare dei veri hamburger; che sono tutt’altra cosa dal cartone scongelato e pressato che viene servito nei nostri McDonald’s o nei nostri supermercati. Io non vi consiglio la pizza prosciutto e ananas surgelata che vendono nei negozi di qui, ma proprio per questo posso dire che un hamburger serio come quello che ho mangiato stasera, cioè alto due centimetri, fatto alla griglia in modo che sia bruciato fuori e rosa dentro, e coperto di formaggio fuso e di bacon, ha un suo perché; e ora scusatemi, vado a bere l’idraulico liquido per digerire.

Proprio come hamburger sono le stampe di Shepard Fairey, il cui nome vi sarà sicuramente sconosciuto, ma che è l’artista che ha realizzato il poster colorato di Obama intitolato “HOPE” che ha contribuito a fargli vincere le elezioni, e che abbiamo visto in mostra a una personale all’Institute for Contemporary Art. In realtà, a impressionare è tutto il lavoro svolto dall’artista in vent’anni, basato sul prendere immagini e forme tipiche della propaganda politica per poi rovesciarle verso il nonsenso e la critica radicale al sistema e diffonderle tramite guerrilla marketing, a partire da adesivi, murales e file scaricabili da Internet. Come ogni volta in cui si prendono archetipi familiari e li si altera in modo sottile, il fruitore medio rimane completamente spiazzato; pensa che sia una pubblicità per non si capisce cosa, o una campagna sovversiva dell’ordine costituito (questa seconda cosa è già più vera). Il tutto viene poi centrato in modo ossessivo (proprio come una campagna pubblicitaria) sullo slogan “OBEY” e sulla figura di André The Giant, mitico wrestler degli anni ’80. Non si sa se il risultato sia arte, pubblicità, politica, sovversione o mero sfruttamento commerciale di finta arte e finta sovversione, ma di certo è qualcosa che fa pensare.

Pensando, comunque, abbiamo attraversato qualche strada (impresa non facile: qui i semafori pedonali sono totalmente disattesi non dalle auto ma dai pedoni, che si buttano tranquillamente col rosso in mezzo alle auto che sfrecciano; nemmeno al Cairo ho visto queste scene) e siamo andati a mangiare hamburger; e ora andiamo a dormire, che domani lasciamo Boston.

[tags]viaggi, stati uniti, boston, hamburger, shepard fairey, obama, arte contemporanea, traffico[/tags]

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giovedì 26 Marzo 2009, 23:43

Politecnici

Stamattina, avendo un paio d’ore libere, ho deciso di andare a visitare il Poli di Boston; ed è stato molto interessante.

Per certi versi è molto simile al nostro: anche loro hanno un corridoio lungo, ma non è lungo quanto il nostro e soprattutto è molto più stretto; però è orientato in modo che due volte l’anno il sole lo attraversi per intero, in modo da eccitare tutti i giovani ingegneri radunati in fondo. E anche i loro corridoi sono pieni di bacheche tappezzate di bigliettini con annunci di vario genere.

Però noi non abbiamo un edificio di Frank Gehry come sede di ingegneria informatica (con dentro gli uffici di Chomsky e di Stallman), né un centro sportivo con tanto di palestra e piscina olimpionica, per non parlare di un teatro interno e di undici dormitori per gli studenti all’interno del campus, di cui uno di Alvar Aalto (ma anche questo a me piace molto).

Andrò controcorrente, ma a me è sembrato che, fatte le debite proporzioni, il Politecnico di Torino non sfiguri poi così tanto rispetto a quello di Boston – anche se bisogna ammettere che non può competere col leggendario Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, MIT italiano fondato dalla Moratti in pompa magna quattro anni fa e che ha già rivoluzionato il mondo della scienza.

Comunque, è vero che il concetto di campus aiuta tantissimo, sia per attirare i migliori studenti da mezzo continente, sia per creare un senso di attaccamento e condivisione di un progetto: mi ha molto colpito come la guida laureanda volontaria del nostro tour (principalmente rivolto agli aspiranti studenti del prossimo anno, ma aperto anche ai turisti) continuasse a parlare dell’istituzione come “we”: “we moved into this campus in 1916”. E’ tutta un’altra idea di istruzione superiore, rispetto ai nostri esamifici dove volendo ci si può presentare tre volte l’anno per dare l’esame, restando iscritti per decenni, e non partecipando ad alcuna “vita culturale” dell’istituzione.

Nell’oretta e mezza spesa a girare per il campus mi è successo quel che già era accaduto visitando il complesso di Google a Mountain View: c’è nell’aria un senso di eccitazione, di eccellenza, di scoperta, di possibilità sconosciute da trasformare in realtà, che stimola la mente invece di legarla. E’ triste da dire, ma, in un mondo dove talento e conoscenza sono le merci più preziose e dove l’interconnessione globale elimina le distanze, c’è un premio naturale per l’aggregazione delle idee nel punto della rete dove esse vengono meglio sfruttate e ricompensate: e chiaramente non è l’Italia. Per dirla più prosaicamente, la giornata di oggi – nonché le chiacchiere di questi giorni con la nutrita colonia di emigranti sabaudi di alto livello che si è installata a Harvard e dintorni – ha riportato alla luce l’inevitabile domanda: “ma cosa cavolo ci sto a fare, io, ancora in Italia?”

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