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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


sabato 20 Giugno 2020, 16:03

Allora, com’è l’Istria?

Allora, com’è l’Istria? E’ bellissima: mare e montagna, isole e calette, paesaggi mozzafiato, vigne e ottimo cibo, monumenti e storia millenaria. E’ bellissima specialmente se si evitano come la peste le spiagge e le coste occidentali, che sono una infilata continua di villaggi vacanze, campeggi, ristoranti e porti turistici (ma questa è questione di gusti). Ma… per il turista italiano non balneare, c’è un ma.

Ecco, insomma, non ci hanno trattato male, anzi quasi tutti molto ospitali, ma.

Voglio dire, la storia è stata preservata, in diversi paesi (sempre meno) ci sono anche i nomi bilingui in italiano, ma.

Insomma… è come se in un sogno tu andassi a Venezia, ma per qualche motivo fossero spariti tutti i veneziani, sostituiti da messicani o cinesi travestiti da veneziani che cantano “O sole mio” su finte gondole per la gioia di turisti americani e tedeschi, come ho visto succedere a Las Vegas e a Macao.

Ecco, l’Istria è così: 50% Venezia, 50% Venetian. E non sai se la bellezza che vedi sia un’alba gloriosa, o piuttosto un tramonto struggente.

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martedì 21 Gennaio 2020, 21:19

Cinque cose da non fare a Pechino

Cinque cose da non fare per un turista occidentale che visita Pechino:

1. Quando si va ad omaggiare la salma del compagno Mao, passandogli vicino e notando il volto liscio e gommoso della mummia, esclamare a voce alta: “MA E’ BERLUSCONI!”.

2. Attraversando la grande porta che conduce dentro la Città Proibita, in mezzo a un flusso continuo di migliaia di persone, e notando che sopra di essa è costruito un vero palazzo di molte stanze e che molte persone si staccano dalla folla per salirci, chiedere all’addetto: “Schiusmi, is this the autogrill?”.

3. Visitando il meraviglioso tempio Yonghegong dei lama tibetani, di fronte al pannello della storia del tempio che in inglese rimarca come i monaci sin dal dopoguerra siano degli instancabili “baluardi del patriottismo e del socialismo”, fermare un monaco e chiedere “But if you monks are all socialist, who do you steal from?”.
(mai dimenticare)

4. Sempre nel tempio lama, fotografare con inquadrature tendenziose che sembrano far uscire l’incenso acceso dai fedeli direttamente dal culo dei leoni di bronzo.

5. E inoltre, quando un fedele gira la ruota della preghiera, intonare a gran voce la musichetta de Il pranzo è servito per poi, quando la ruota si ferma, gridare “IL FORMAGGIO!”.

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domenica 23 Settembre 2018, 11:23

A proposito della storia di Tokyo

Nel grande museo sulla storia cittadina situato oltre il fiume Sumida, nel quartiere in cui nacque e visse Hokusai, quest’anno c’è una mostra per celebrare il centocinquantesimo anniversario dalla fondazione di Tokyo. A questo punto dovreste stupirvi: davvero Tokyo, la più grande megalopoli del pianeta, è stata fondata solo nel 1868?

La realtà è che Tokyo è una città fondata tre volte. Nacque la prima volta nel 1457 come castello fortificato, vicino a un piccolo villaggio di pescatori, col nome di Edo e col ruolo di sede di un clan minore.

Nacque la seconda volta quando nel 1590 il castello abbandonato fu acquisito da Ieyasu Tokugawa, che ne fece la propria sede feudale e iniziò enormi lavori di fortificazione e risistemazione di tutta l’area, deviando fiumi e reclamando terra dal mare; nel frattempo, a forza di vittorie in battaglia, Tokugawa divenne il primo shogun del Giappone e Edo divenne la capitale di fatto del Paese, ma non di nome: anche se lo shogun come “taikun” era il vero regnante, formalmente l’imperatore restò in carica e continuò a risiedere a Kyoto.

Nacque per la terza volta quando nel 1868, dopo la guerra civile seguita all’apertura del Giappone all’estero dopo l’arrivo delle cannoniere americane, il restaurato imperatore Meiji decise di elevare la città anche formalmente al grado di capitale, cambiandole il nome in Tokyo, cioé “capitale orientale”. Se chiamare la capitale “capitale orientale” vi pare un po’ troppo descrittivo, ricordate comunque che anche Pechino e Nanchino vogliono dire semplicemente capitale del nord e capitale del sud.

Alla fine, la fondazione vera è probabilmente la seconda, che rappresenta un po’ quello che per Torino rappresentò il trasferimento della capitale del ducato di Savoia. Risale a quell’epoca la forma attuale del centro “storico” della città, con la sua rete di fiumi e canali concepiti originariamente come difese del castello, compreso il primo storico ponte che collegava il castello alle strade verso nord, il Nihonbashi (ponte del Giappone). Ed è proprio con la famosissima veduta del monte Fuji dal Nihonbashi, dipinta anche da Hokusai, che vi lascio andare: peccato che negli anni ’60 abbiano deciso di costruirci sopra una superstrada.

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domenica 18 Marzo 2018, 21:11

A qualcuno piace Londra

Ai turisti italiani piace Londra, nonostante non la conoscano, non la capiscano, non sappiano una mazza di niente della sua storia e della sua anima. Vivono in un territorio a scopettone che comprende la ferrovia da Stansted a Liverpool Street, la City e metà di Westminster. E pure di quello non sanno niente; per esempio, parlano del referendum sulla Brexit e si stupiscono del disastro senza sapere che la caduta di Londra era inevitabile sin da quando, un mese prima, la Pietra di Londra è stata tolta dal suo posto millenario in Cannon Street.

Per esempio, dalle finestre del ricevimento nell’albergone della conferenza, si vede la Westway intasata di macchine; un pezzo di Londra che è normale per chi ci abita, ma che nessun turista conosce. La Westway racconta di sogni anni ’60 della città dell’automobile, ma anche dei sogni anni ’90 dei Blur, e dall’anno scorso anche dei sogni di due ragazzi italiani emigrati a Londra come tanti. Quattro anni fa, stesso albergo e altra conferenza, la Westway non faceva tanta tristezza, ma era giugno e fuori la vita non sputava pezzi di ghiaccio in faccia.

Comunque, fatte le chiacchiere con le persone che dovevo trovare, alla fine esco; c’è troppa gente e troppa fame, perchè per qualche motivo sembra che, quando si tratta di buffet, la maggior parte dei nerd sia un pozzo senza fondo. Voglio comprarmi qualcosa per la colazione di domani, e così, nonostante la neve, allungo il giro prendendo la strada di Edgware verso il centro; se fossimo in due sarebbe un tentativo di marbolarci, ma anche se l’arco c’è non ci sei tu, e quindi si limita a essere un tentativo di raggiungere il Tesco Metro che sta a due terzi della strada.

Edgware Road, dal punto di vista architettonico, è una specie di Lorenteggio ai bordi del centro di Londra; specie sul lato di Bayswater, ci sono palazzoni anni ’70 che non sfigurerebbero in una prima cintura milanese. Dal punto di vista sociale, invece, è un territorio ufficialmente bilingue, inglese/ISIS; ma solo per qualche isolato, perché poi il Londonistan cede il passo al centro vero e proprio, in un rettangolo di confini invisibili che lo contengono nella via trafficata. Che poi, almeno stavolta non è così trafficata: quattro anni fa ero dovuto tornare in albergo a piedi, a causa della strada bloccata dai cortei di algerini che festeggiavano la qualificazione al Mondiale.

Peccato solo che il Tesco Metro sia chiuso: uno scandalo, pare che chiudano addirittura mezza giornata la settimana, la domenica dopo le cinque (gli Express, invece, sono in buona parte aperti 24 ore su 24). Sarebbe bello addentrarsi in Hyde Park nella tormenta di neve, ma è buio e potrei anche rimanerci congelato dentro, e così taglio dentro il labirinto georgiano dei palazzi ultrasignorili per tornare al mio albergo, che sta altrettanto signorilmente oltre Paddington. Attraverso uno scenario spettrale fatto di BMW X4 coperte di neve, aggiro la chiesa di Hyde Park Crescent dove bambini benissimo fanno non so cosa; non sono le mie zone, io di solito bazzico East London (anche se pure lì ormai bisogna sparare a vista alla gentrificazione), lì al massimo c’è la chiesa di San Botulfo fuori Aldgate, che tanto è sempre chiusa perchè vanno tutti alla non lontana moschea.

Alla fine, camminando, arrivo da Micky’s: che è il fish & chips del quartiere, naturalmente venti metri dopo aver superato un nuovo confine invisibile che porta verso Praed Street e la confusione umana della stazione di Paddington. Micky’s rocks, anche perché sta fisicamente sopra alla Circle Line, sul trincerone costruito centocinquant’anni fa, e quindi ogni due minuti trema tutto. Micky’s non è fighetto come Poppies, che non a caso sta nella parte gentrificata di East London o in alternativa a Camden (Camden! finti alternativi sin dagli anni ’80). Micky’s è un fish & chips grezzo, vero, operaio, originale e veracemente britannico, a partire dal fatto che è gestito da una famiglia di turchi.

E però entro, e per dieci sterline mi faccio dare un merluzzo fritto benissimo, competitivo con quello di Poppies: la pastella è più unta, ma il pesce è perfetto, ancora morbido dentro. Certo, il posto è scrauso, del resto siamo in Inghilterra e pure la regina ha la moquette nel cesso; son sottigliezze. Poi dietro di me entrano tre francesi che riescono a ordinare “chickén burgère” e Fanta. In un fish & chips. Volevo pisciargli io nel piatto, ma son sicuro che l’abbiano fatto i turchi giù in cucina.

Ma chi se ne importa! Adesso ho in corpo tutto l’olio del mare del Nord, a tenermi caldo nell’ultimo tratto a piedi fino all’albergo. Non so se avrò ancora tempo di fare un giretto, nei prossimi giorni; nel caso, potrei anche non raccontarvelo.

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giovedì 22 Febbraio 2018, 06:24

La regola del buffè

C’è una regola che dice che più fa schifo il cibo del buffè e più ne mangerai, preso da un istinto accaparratorio atavico acceso dalla scarsità. In questo caso, la serata sociale della conferenza ha lasciato a desiderare: non solo la sala era palesemente troppo piccola per tutti, non solo le due code erano troppo poche, ma delle sei opzioni in serie quattro erano impresentabili: un teorico panino di porco che dentro aveva solo insalata, un asparago bollito che mio dio non sono mica malato, riso bianco scondito che va giusto bene come padding per allineare gli spazi, e una roba di tofu e peperoni, mio Dio! tofu e peperoni, che solo in California possono essere così fighetti da mangiare sta roba, mentre nel resto degli Stati Uniti, e un po’ ovunque nel mondo civile, il tofu è cibo solo per mucche, comunisti e mucche comuniste (ma è un’ottima materia prima per la produzione degli pneumatici). Restavano i ravioli cinesi e il pollo, che infatti non facevano in tempo ad atterrare che venivano saccheggiati dalla folla. E non parliamo del bar! per avere una birra ho dovuto sgomitare che neanche un fantino al palio di Siena.

E comunque, l’albergo storico a cinque stelle proprio sulla cima di Snob Hill – è il posto dove hanno firmato lo statuto delle Nazioni Unite, per dire quanto è snob – offre solo la sala a tema isola polinesiana in cui ci troviamo. Per gli americani è una figata, ma boh: è talmente pigiata di gente che non si riesce a parlare, ti mettono al collo una ghirlanda di finti petali da cinque lire, e al centro c’è una piscina con una zattera su cui suona una band di cinesi – e penso che il batterista cinese che canta successi anni ’80, tipo Tutto Nylon di Laionel Ricci, o 666 di Mac & Jack, si stia comunque divertendo di più.

Ma non è un problema, che fuori c’è la città: l’unica vera città della California (San Francisco è una città, Los Angeles è una distesa di case). Ogni angolo è un panorama, ogni momento è un respiro di vento, ogni casa è una storia epica di frontiera e conquista e disastro e ricostruzione, e oggi anche di cinesi con QI > 150 che lavorano per Google. Basta mettere fuori il naso ed è subito meraviglia, specie su California Street, col tram a cavo che passa e anche quando non passa fa un casino tale che tiene sveglio il vicinato, ma è comunque un pezzo di Ottocento pionieristico proiettato verso il mare del Duemila.

Chissà se san Ginepro Serra, fondando la missione di San Francesco d’Assisi, avrebbe mai pensato che sarebbe finita così.

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lunedì 30 Ottobre 2017, 19:43

Kaori, sei araba

È domenica mattina, ho sonno. L’aereo di Etihad non è proprio nuovissimo, lo schermino ha una presa Ethernet (per i millennial, è quella roba fatta a pezzo di Tetris in cui si poteva infilare un cavo wi-fi), e uno di quei telecomandi a filo che si staccano e su un lato hanno anche un lettore di carta di credito per telefonare (per i millennial, è quella roba in cui si facevano delle lunghe stringhe di numeri che tutti imparavano a memoria per arrivare a parlare con qualcuno sul suo telefono senza usare Whatsapp). Le decorazioni dei sedili sono a righine alternate di gusto improbabile, un po’ color cammello e un po’ color vomito di cammello. Ma la hostess parla italiano ed è gentile, e il cibo è buono (tranne la cheesecake, la cheesecake fa schifo, sa di formaggino dimmerda, non la mangerebbe nemmeno Kaori sfiancata da sei ore di doppiaggio di Phineas & Ferb).

Nel frattempo, mentre Etihad mi ringrazia per la pubblicità non richiesta, noi ci libriamo nell’aria leggeri come un Boeing 787 Dreamliner pilotato da Antonino Cannavacciuolo. La popolazione è varia, davanti a me ho due signore arabe che a giudicare da quanto sono coperte hanno appena scalato il Monte Bianco, mentre a destra ho due colf filippine un po’ anzianotte che ritornano al paesello, e che aiuto volentieri a sollevare un bagaglio a mano che, pur stando nei limiti, è grande il doppio di loro.

(A fianco invece ho un tizio italiano, non sembra antipatico, ma è il genere di passeggero che si siede e diventa immediatamente una statua di cera per tutte le sei ore di volo. Non fa niente, non dorme, è al finestrino ma non guarda fuori, fissa lo schermo ma lo schermo è spento e non guarda né ascolta alcunché. Ha le mani intrecciate strette sulle ginocchia e non le allenta per nessun motivo. Gli danno il vassoio col cibo, lui lo posa lì e reintreccia le mani e non tocca niente, e lo restituisce gelido e intonso un’ora dopo. Ogni tanto controllo che sia vivo osservando se la pancia si muove almeno un po’.)

Mentre mi rilasso o mi rincoglionisco ulteriormente, guardo che film ci sono, ma non c’è nulla che mi attiri particolarmente. (Cioè, hanno fatto un film su Tupac Shakur: a questo punto facciamo pure un musical su Totò Riina che canta con l’autotune, dai.) Provo a guardare se BBC News apre con le dimissioni di Paolo Giordana: purtroppo becco il notiziario a metà, ma sono sicuro che pure loro ne hanno parlato in apertura. Poi mi dò alla musica.

E’ tanto tempo che non ascolto musica, se non video sciolti su Youtube. Però c’è Blackstar di David Bowie e quello sì che vale la pena.

Lazarus. Quante volte si può resuscitare nella vita? Si può morire o rischiare di farlo in molti modi, non solo fisici: umani, personali, professionali. Mi viene in mente padre Giordana che precipita in un abisso gridando “fuggite, sciocchi”, ma niente, quelli vanno avanti imperterriti, arroganti e pasticcioni come prima, e alla fine Sauron si mangia tutta la città. E comunque Sauron è incazzato con Giordana perché alla fine la multa non gliel’hanno tolta, anche se lui giura che aveva bippato appena salito, è solo che la macchinetta non funzionava.

Ma no, seriamente: i voli a lungo raggio sono il non-luogo per eccellenza, un teletrasporto alla moviola in cui la tua anima si disfa a pezzettini e rimane sospesa nel nulla a pensare, chiusa in un cubicolo immaginario ordinatamente incastrato tra quelli di altri esseri umani che probabilmente non vedrai mai più nella tua vita – ma anche se li rivedessi non li sapresti riconoscere. Oggi potrebbe essere cinque anni fa, dieci anni fa, quindici anni fa, e ogni volta sarebbe un me stesso diverso, risorto a nuova vita una volta di meno. E se stupefacente è la capacità di ogni essere umano di risorgere – almeno per quelli che vivono, che c’è chi fa tutta la vita la stessa cosa senza mai bruciarsi per ricominciare – ciò nondimeno esisterà una volta, chissà quando, in cui non risorgeremo più. E’ forse una beffa che in una esistenza umana che, alla fine, ha sempre in serbo qualcosa di bello per chi sa vedere la bellezza, succeda però che l’unica vera certezza sia triste. A meno che davvero non esistano gli zombi, nel qual caso anche quell’unica certezza va a farsi benedire.

E’ per questo che passo agli Iron Maiden.

(Una bambina nella fila davanti alla mia guarda un film animato. C’è un omino di Lego alto cinque centimetri vestito da Batman che batte i pugni sul tavolo. Sembra un comizio recente di Berlusconi.)

Non avevo mai sentito l’ultimo disco degli Iron, anche se è di un paio d’anni fa. Avete presente quelle band storiche degli anni ’70-’80 che sono ormai a fine carriera, ma che hanno conservato l’energia e la voglia di fare, inventandosi ogni volta un disco che, pur non essendo più brillante come ai tempi d’oro, sa ancora stupirti e trascinarti con qualcosa di nuovo? Ecco, no: gli Iron Maiden non sono così. Settant’anni per gamba e ancora gli stessi assolini, quelli che iniziano con una chitarra sola e poi dopo quattro battute entra la seconda e raddoppia una terza sopra. Ma basta, dai, ma godetevi i miliardi e fatemi rimettere su A Piece Of Mind, che però Etihad nella sua selezione stranamente non offre.

Così mi tocca il disco dei Muse. Ma non che mi piacciano troppo, eh; solo, è curioso come i testi sembrino scritti da una assemblea di attivisti del Movimento 5 Stelle. E il complotto intergalattico, e la rivoluzione da fare, e i militari cattivi, e i droni e i cyborg tanto tristi al largo dei bastioni di Orione. E che cazzo Bellamy, pure tu, fatti venire un’idea nuova, dai. Che so, fai un pezzo sul sangue di San Gennaro.

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giovedì 3 Agosto 2017, 14:06

Palestina (8) – Nella moschea dei patriarchi

Mohamed è un ragazzone ben vestito, dalla maglietta viola. Avrà venticinque anni e parla un inglese perfetto; potrebbe essere un qualsiasi studente arabo di una università di Londra, e invece è qui a Hebron, nella sua città, a fare (anche) la guida ai turisti. Dà subito l’impressione di uno che ne ha viste molte, e che comunque è perfettamente in controllo della situazione; del resto, di turisti a Hebron non ce ne sono molti, e gli unici due gruppi che vedremo durante la mattinata saranno il nostro e un gruppetto di altri tre turisti affidato al suo amico del cuore, anch’egli di nome Mohamed; ed entrambi i gruppetti saranno osservati con interesse durante tutto il giro.

Mohamed appare nella veranda di un negozietto di souvenir sulla piazza della Tomba dei Patriarchi, l’unico aperto. Dall’altra parte c’è una specie di stazione dei pullman israeliana, con cibo self service e libri in ebraico; da questa c’è il negozietto degli arabi. Non c’è nessuna protezione, nessuna separazione; eppure per qualche motivo il confine tra la luce abbacinante che allaga la piazza deserta e l’ombra scura della veranda del negozio segna il salto da un mondo all’altro. La nostra guida israeliana non entra nella veranda, ci lascia a mezzo metro da lì; e da lì, varcando la soglia, siamo nelle mani dei palestinesi.

Mohamed ci tiene a mettere subito le cose in chiaro, e per prima cosa tira fuori la stampa A3 di una cartina, in inglese, impaginata in modo professionale e perfettamente plastificata. La cartina mostra il centro storico di Hebron, ed evidenzia tutte le restrizioni a cui sono sottoposti i palestinesi.

Noi ci troviamo vicino alla scritta “Bab al-Khan”, al checkpoint all’incrocio tra tre strade: quella rossa (riservata agli israeliani) che arriva da est, dove ci ha lasciati l’autobus; quella viola verso nord (dove il passaggio dei palestinesi è vietato salvo una autorizzazione specifica, come quella che ha Mohamed), che sale verso l’ingresso della moschea; e quella tratteggiata verso ovest, che porta agli insediamenti ebraici, e che è una terra di nessuno: una volta era piena di negozi, ma sono stati tutti chiusi per ordine dell’esercito israeliano, per motivi di sicurezza.

Il checkpoint in quel punto è in realtà semplicemente una transenna, dietro la quale stanno in piedi un paio di soldati; hanno solo chiesto conferma alla nostra guida israeliana che non ci fossero musulmani nel gruppo, visto che altrimenti avrebbero dovuto avere l’autorizzazione speciale. Più serio è il checkpoint in cima alla salita, a cui ci porta Mohamed, per passare dall’area H2 ebraica all’area H2 islamica: qui ci guardano dentro le borse, prima di farci passare verso l’ingresso della moschea.

Nel vicolo che porta alla moschea si vede un altro checkpoint, che praticamente è solo un tornello; oltre, una non meglio precisata opera di beneficenza islamica, legata al governo palestinese, sta distribuendo cibo alle famiglie arabe di Hebron. A giudicare dalla coda, una metà abbondante della popolazione di Hebron sono bambini…

Seguo Mohamed sulla scalinata che porta dentro la moschea; da vicino, sembra ancora più grosso. Ci confermerà poi che una delle sue varie attività è il pugilato, e che sono molti i giovani palestinesi che lo praticano, come forma di autodifesa verso i soldati israeliani.

Arriviamo all’ingresso della moschea dei patriarchi. Siamo tutti vestiti, come si dice in inglese arabo, “modestamente”; già il giorno prima ci avevano avvertiti di indossare pantaloni lunghi e, per le donne, coprire bene spalle e corpo. Nonostante questo, a Elena e alle altre donne del gruppo viene imposto una specie di cappuccio del Ku Klux Klan, per non offendere l’Islam e i fedeli presenti nella moschea.

La moschea è quasi completamente vuota, sia perché non è ora di preghiera, sia perché per arrivarci ci sono i checkpoint, ma è ben tenuta ed estremamente affascinante; davanti alle tombe dei patriarchi, protette da una inferriata, i fedeli lanciano monete e oggetti portafortuna.

Arriviamo proprio mentre un gruppo di persone si accinge a calare delle candele per illuminare la sottostante grotta di Macpela, quella in cui i resti dei patriarchi, secondo la leggenda biblica, sono effettivamente stati sepolti.

A un certo punto, un corridoio vicino alle tombe finisce contro una paratia di legno. Di là, ci spiegano, è la parte degli ebrei, la sinagoga. Le stanze di alcune tombe hanno una finestra che dà da un lato e un’altra che dà dall’altro, in modo da permettere a entrambi i gruppi di vederle. Ma per evitare che da una finestra possano tirare qualcosa contro i fedeli di diversa religione che stanno dietro l’altra, tra le due, in mezzo alla stanza chiusa, è stata collocata una protezione trasparente.

La moschea dei patriarchi è davvero un’oasi di pace, anche se fa specie sapere che anche lì dentro si sono sparati e massacrati; durante la visita, ci è stata ampiamente descritta più volte tutta la scena della strage di Hebron “palestinese”. Non dimenticare, non perdonare mai, punire tutti per le colpe di uno, sostenere sempre di avere un diritto in più e una vittima in più degli altri, è l’approccio tipico delle guerre etniche come questa. Questo lo abbiamo visto meglio subito dopo, quando Mohamed ci ha fatti uscire dalla moschea e portati nel cuore del conflitto: dentro l’antico mercato di Hebron.

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venerdì 14 Luglio 2017, 09:22

Palestina (7) – Il colono e la pistola

Andare a Hebron da Gerusalemme non è affatto difficile; ci si può andare con un normale bus di linea interurbano, il numero 383, che parte dalla stazione centrale dei pullman.

Anche per motivi di sicurezza, gli autobus partono dall’interno di un grosso edificio, al cui ingresso c’è un “normale” controllo con il metal detector, come quello che in Israele c’è in ogni ufficio pubblico o centro commerciale. Ci si trova quindi ad aspettare di fronte a un gate numerato, fin che l’autobus non arriva e carica i passeggeri. Il bus per Hebron è piuttosto frequente e ha un pubblico misto: metà sono i cosiddetti “coloni”, persone che abitano negli insediamenti ebraici nei territori occupati, o altri civili israeliani che si recano da loro; l’altra metà sono militari, generalmente ventenni o poco più, ragazzi e ragazze in ugual misura, vestiti mimetici e con grossi borsoni – e con i mitra.

La nostra guida, che per il viaggio iniziale è un ebreo di una associazione pacifista per il dialogo interetnico, cerca di rassicurarci spiegandoci che il bus è antiproiettile, vetri compresi; ma non è che questo ci rassicuri molto. Eppure, per il resto la situazione è sorprendentemente normale; saliamo, paghiamo il biglietto all’autista (meno di due euro), ci sediamo davanti, nel sedile panoramico; soltanto dopo mi viene in mente che, se mai qualcuno sparasse contro o dentro il bus, quella è probabilmente la posizione più esposta di tutte.

Il primo ostacolo, comunque, è riuscire a uscire dal garage dell’edificio, nel traffico impazzito di Gerusalemme ovest. Superato l’ingorgo, il pullman comincia tranquillamente a fare le sue fermate per strada, fino ad arrivare nella periferia sud, in quello spazio che teoricamente è oltre il confine del 1949 ma che è ormai annesso a Gerusalemme da un pezzo.

Qui sale un signore sulla cinquantina, vestito all’americana. Ha la kippah in testa, una camicia a quadrettoni, dei pantaloni Dockers con la cintura di pelle nera; è solo che si ferma a pagare il biglietto proprio davanti a me, e lì noto che ha una pistola infilata nella cintura. Avete presente quegli incubi in cui tutto sembra perfettamente normale, ma poi a un certo punto noti un dettaglio che ti fa capire che tutto è orrendamente sbagliato, e quindi è per forza un sogno? Ecco, ho provato la stessa sensazione, solo che era la realtà.

Il bus percorre in senso opposto la strada veloce che abbiamo percorso il giorno prima al ritorno, che con un viadotto e un paio di gallerie permette di superare Betlemme senza attraversarla; è una circonvallazione per velocizzare il traffico diretto in Giudea, ma è anche un modo per evitare agli israeliani diretti più a sud l’attraversamento della città araba; e infatti la strada è protetta dalla città soprastante con il suo bravo tratto del muro di Betlemme.

Superiamo il checkpoint, che è solo in senso opposto; non c’è nessun controllo per chi da Gerusalemme entra in Giudea. Di qui in poi, siamo nel cuore dei territori occupati, sulla principale arteria di comunicazione, che serve sia gli insediamenti ebraici che la popolazione palestinese. Qui, auto israeliane e auto palestinesi sfrecciano tranquillamente fianco a fianco; a giudicare dalle targhe, la proporzione è abbastanza paritaria.

Dopo una mezz’oretta, arriviamo a un grosso incrocio, alla cui fermata scendono diverse persone, sia civili che militari. In pratica, è un piccolo centro commerciale all’americana piantato sulla highway, e usato indistintamente da ebrei e musulmani. La nostra guida lo sottolinea con piacere, come per dire che non tutta la Cisgiordania è come Hebron, e non sempre la convivenza è impossibile.

In effetti, io mi aspettavo che tutta la strada fosse circondata da muri, barriere, posti di blocco; invece anche il viaggio è sorprendentemente normale. La strada si srotola tra colline piuttosto brulle ma sempre più coltivate, spesso coperte di piccoli e stentati filari di viti. Sono molto frequenti gli insediamenti, alcuni ebraici (la guida ci spiega che si riconoscono dai tetti rossi a punta), ma per la maggior parte arabi. Alla fine, il tutto ricorda abbastanza il Sud Italia, però più brullo.

Certo, anche sulla strada ci sono tracce del conflitto; per esempio le fermate dell’autobus in cemento, con protezioni di ulteriore cemento per evitare attentati con veicoli scagliati sulle persone in attesa, che qui sono già “normali” da decenni, e con tentativi poco riusciti di ingentilire il mezzo bunker con disegni per i bambini che ogni mattina lì aspettano lo scuolabus.

A un certo punto, parte una nuova circonvallazione; la strada storica si infila in una cittadina araba, ma anche qui gli israeliani, per poter raggiungere gli insediamenti di Hebron senza rischiare l’agguato, hanno costruito una variante che piega e serpeggia in mezzo al nulla, evitando tutti i villaggi fino a raggiungere l’ingresso di Kiryat Arba. Su questo bivio gli arabi hanno invano messo un grosso cartello che indica che Hebron “quella vera” è dalla loro parte. Io ho uno strano deja vu: l’andamento della strada e delle colline mi fa venire in mente la strada statale che da Alba porta a Torino, là dove hanno costruito la nuova circonvallazione di Canale e Montà. Il paragone palestinesi-cuneesi e israeliani-torinesi non ha molto senso, ma il cervello fa di questi scherzi.

Comunque, finalmente entriamo in questa famosa “colonia”. Kiryat Arba è un insieme di poche strade linde ma tortuose che seguono il profilo della collina, su cui sono state costruite villette e piccoli condomini.

A una fermata scende un gruppo di ragazze in vestiti civili, alte e dai capelli lunghi; sono le nove del mattino e mi sembrano una classe scolastica, ma se così è, è decisamente una scuola per modelle. Poi arriviamo in fondo, e finalmente sulla collina di fronte vediamo apparire la periferia di Hebron: qui non c’è muro, c’è solo una recinzione di rete metallica.

Infine, usciamo dalla colonia dal lato opposto rispetto a quello da cui siamo arrivati. Qui c’è un altro checkpoint, ma è soltanto una strettoia con una sbarra (la foto è rivolta all’indietro, dall’esterno verso l’interno di Kiryat Arba).

E’ a quel punto che le cose precipitano. Ma precipitano fisicamente: improvvisamente non ci sono più strade linde e fermate dell’autobus in vialetti alberati, ma una serie di case tutte coperte di scritte, in parte in ebraico e in parte in arabo, che sembrano abbandonate – le finestre chiuse, i negozi sbarrati. Il pullman comincia ad andare giù, sempre più giù, lungo una discesa tortuosa che si fa sempre più ripida, accelerando continuamente. E’ un percorso spettrale che probabilmente dura un paio di minuti, ma che sembra lungo come una discesa all’inferno; e che non sia un posto per gli umani si capisce proprio dal fatto che gli umani per strada improvvisamente non ci sono più.

E poi, senza preavviso, il pullman frena e accosta davanti a un giardinetto. E’ la fine della corsa, il capolinea; la piazza di ingresso al lato israeliano di Hebron, su cui incombe la Tomba dei patriarchi.

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lunedì 10 Luglio 2017, 14:03

Palestina (6) – Verso Hebron

Come vi ho raccontato, il nostro primo giorno per i territori palestinesi è stato, oltre che interessante, sorprendentemente tranquillo; pensavamo di andare in una zona di guerra, e invece non s’è visto niente di particolare, a parte un confine più fortificato del solito ma che abbiamo attraversato praticamente senza alcun controllo. Per questo, il secondo giorno abbiamo deciso di passare al livello successivo e di andare direttamente a Hebron. Prima di riprendere il racconto e di pubblicare le foto, però, è bene che conosciate un po’ meglio la storia e la situazione della città; altrimenti non capirete niente.

Se chiedessi di indicare Hebron su una cartina pochissimi lo saprebbero fare, eppure chiunque in Occidente ha sentito quel nome: è uno dei posti dove israeliani e arabi si ammazzano tra loro con maggiore frequenza. E’ una città talmente contesa che non fu possibile includerla negli Accordi di Oslo, ed è invece regolata da vent’anni da un successivo accordo speciale firmato tra Netanyahu e Arafat, e nemmeno ratificato formalmente. Basta una virgola di troppo in un documento, una parola sconsiderata o provocatoria che faccia immaginare la possibile attribuzione della città a una sola parte o solo all’altra, per scatenare reazioni furibonde, nuove crisi, nuova violenza a parole e anche nei fatti (per l’ultimo esempio, citofonare a quei fenomeni dell’Unesco).

Hebron è, innanzi tutto, la capitale della Giudea, la zona collinosa a sud di Gerusalemme che è la madrepatria storica del popolo ebraico, al punto che in tutte le lingue del centro e nord Europa gli ebrei vengono chiamati direttamente “giudei”. Essa ospita uno dei luoghi più sacri per tutte le religioni del libro, ossia la Tomba dei patriarchi, in cui (per chi ci crede) sono sepolti diversi personaggi biblici tra cui Abramo, progenitore di tutti gli ebrei, cristiani e musulmani.

Durante tutti i secoli di dominazione ottomana, a Hebron ha sempre vissuto anche una comunità ebraica; fu lì fino al 1929, quando sotto il dominio britannico, in un quadro di tensioni crescenti tra ebrei e musulmani, gli arabi cacciarono gli ebrei di Hebron con un terribile pogrom che provocò 67 morti (per gli israeliani, questa è la “strage di Hebron”).

Gli inglesi, da bravi colonialisti, prima fecero finta di niente e poi preferirono evacuare tutti gli ebrei sopravvissuti (alcune centinaia) e vietare loro di tornare nelle loro case. Anche quando, dopo il 1947, Hebron passò sotto controllo arabo e fu annessa alla Giordania, gli ebrei ne restarono banditi; in segno di buona volontà, gli arabi usarono le rovine dell’antica sinagoga cinquecentesca come stalla per le pecore.

Quando nel 1967 Israele riconquistò militarmente la Cisgiordania, un misto di eredi degli espulsi e di integralisti ebraici reclamò il diritto di rientrare nelle ex proprietà ebraiche di Hebron, nel frattempo distrutte o confiscate dagli arabi per loro uso, e ricostruire le case per ristabilire nella città una comunità ebraica. La cosa avvenne contro il volere dello stesso governo israeliano, che accettò infine la mediazione di costruire un po’ più in là la colonia di Kiryat Arba, su una collina (ex base militare) che guarda la città ma ne rimane all’esterno, e di permettere al massimo una visita scortata ogni tanto. Queste visite non vennero certo accolte tranquillamente dai palestinesi; tuttavia, la separazione fisica rendeva le cose ancora gestibili.

Il passo successivo dell’escalation avvenne nel 1979, quando un gruppo di coloni occupò direttamente l’ex ospedale ebraico nel centro storico di Hebron, accanto all’antica sinagoga, e fondò l’insediamento di Abraham Avinu; dopo diversi mesi di battaglie legali, la Corte Suprema di Israele diede ragione ai coloni, e il governo riconobbe l’insediamento.

Questo portò alla nascita delle cosiddette “colonie israeliane” di Hebron, che però secondo chi ci vive non sono “colonie”; loro dicono di essere semplicemente rientrati in proprietà che erano loro prima del 1929 o che sono state regolarmente acquistate dai legittimi proprietari, e in cui avrebbero diritto di vivere anche se si trovassero sotto piena sovranità palestinese.

La reazione violenta degli arabi palestinesi aumentò, culminando quando, nel maggio 1980, quattro membri di Al-Fatah si appostarono sul tetto di un palazzo di fronte al nuovo insediamento e spararono sugli ebrei che uscivano dalla sinagoga, uccidendo sei persone. (Sempre in segno di buona volontà, uno dei quattro terroristi qualche mese fa è stato eletto sindaco di Hebron dalla popolazione palestinese.)

Di lì in poi, ci furono successivi cicli di aggressioni reciproche tra israeliani e palestinesi, con provocazioni, morti e feriti da entrambe le parti, e una crescente militarizzazione dell’area degli insediamenti che rese la vita impossibile agli arabi che vi abitavano vicino. Particolarmente sanguinoso fu l’inverno del 1993-94, che si chiuse quando a febbraio uno stimato medico ebreo newyorchese, Baruch Goldstein, prese un fucile mitragliatore, entrò nella moschea delle tombe dei patriarchi all’ora della preghiera e sparò ad alzo zero, compiendo una strage di 29 persone – più altri 26 musulmani e 5 ebrei uccisi nei tumulti cittadini che ne seguirono. Per i palestinesi, è invece questa la “strage di Hebron”; da ambo le parti, ognuno rivendica la propria strage come colpa irredimibile degli altri e giustificazione per qualsiasi reazione.

Non stupisce quindi che presto il governo israeliano e quello palestinese abbiano deciso che l’unico modo per ridurre la violenza fosse separare fisicamente il più possibile le due comunità. L’accordo Netanyahu-Arafat, tuttora in vigore, prevede infatti la divisione della città in due aree: il 3% per gli ebrei israeliani e il 97% per gli arabi palestinesi. Tuttavia, non fidandosi della capacità della polizia palestinese di difendere gli ebrei israeliani, in realtà le aree sono tre.

La cosiddetta Area H1 (80% della città) è sotto il controllo dell’Autorità Palestinese ed è vietata agli ebrei. La restante Area H2 (20% della città) è sotto il controllo dell’esercito israeliano, ed è a sua volta divisa tra l’area centrale degli insediamenti, ossia il 3% abitato dagli ebrei e vietato agli arabi, e il rimanente 17% che è un’area “cuscinetto” abitata da arabi e in cui gli ebrei possono soltanto transitare.

Dato che le proprietà storiche degli ebrei ora ripopolate sono nel centro antico di Hebron, esso si trova in H2; e in H2 ricade anche la striscia attorno alla strada che collega il centro con Kiryat Arba e di lì con la strada per Gerusalemme, permettendo agli ebrei di entrare e uscire dalla città. La Tomba dei Patriarchi, pur trovandosi interamente sotto controllo israeliano nell’area mista di H2, è stata divisa in due, tirando un muro a metà edificio: da un lato è moschea, dall’altro sinagoga. Per passare da un’area di Hebron all’altra, ci sono i famosi checkpoint.

Questa divisione rigida è probabilmente il meno peggio che si potesse fare in una situazione del genere, ma realizzarla in pratica in una città antica e densamente popolata, tra due fazioni che cercano solo l’occasione buona per attaccarsi a vicenda, è piuttosto complicato; e nei prossimi post vi racconterò dei problemi e delle situazioni assurde che questa soluzione ha creato.

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giovedì 22 Giugno 2017, 14:13

Palestina (5) – Betlemme dalla mangiatoia al muro

A Betlemme ci sono essenzialmente due cose da vedere: il luogo di nascita di Gesù e i murales di Banksy. Questo, ad esempio, si trova sul muro di un autolavaggio dietro un campo di zucchini striminziti a Beit Sahour:

Il Flower Thrower è talmente famoso che l’altro giorno in televisione c’era la Camusso che protestava contro i voucher e aveva una maglietta con questo disegno; tutti lo interpretano a proprio uso e consumo, ma il senso del murale non è sostenere una causa o un lato di un conflitto, quanto piuttosto chiedere a chi combatte di agire per la pace invece che per la guerra.

Proseguendo, si capisce di essere arrivati nella zona centrale di Betlemme perché compaiono le classiche trappole per turisti; ammetto che mi sarebbe piaciuto fare check-in al KFC di Betlemme solo per poter dire di averlo fatto.

Betlemme è la città palestinese che è stata più danneggiata dall’intifada. In vista del Giubileo del 2000, infatti, era stato lanciato dall’Unesco un grande progetto di cooperazione per costruire infrastrutture e attrattive per i turisti religiosi cristiani, con la collaborazione di innumerevoli entità in gran parte italiane. La partecipazione di Leoluca Orlando deve avergli portato sfiga, perché nel settembre 2000, in risposta a una provocatoria passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee, Arafat chiese al mondo arabo di fermare la dissacrazione dei luoghi santi islamici di Gerusalemme, e la seconda intifada cominciò.

Il risultato fu che i turisti sparirono e tutta l’economia di Betlemme fu azzerata per anni; e tuttora i negozi della via della Stella, la tradizionale salita dei pellegrini fino alla chiesa della Natività, restano interamente chiusi per mancanza di passaggio.

Secondo la nostra guida, c’è stata negli ultimi anni una certa ripresa del turismo, anche se non è mai tornato ai livelli precedenti all’intifada. Tuttavia, adesso i turisti viaggiano praticamente sempre scortati nei pullman fino alla piazza, senza più fare il tratto a piedi; e così, i negozi si sono spostati e si sono concentrati subito attorno alla piazza.

La piazza della Natività, tuttavia, proprio perché richiama ospiti internazionali, è diventata anche il palcoscenico per le proteste politiche dei palestinesi, al punto che Trump, nella sua visita di un mesetto fa, ha evitato di andarci per non farcisi fotografare in mezzo. E così, un intero palazzo è coperto dalla bandiera con la scritta “Free Palestine” e le foto dei due leader storici del popolo palestinese, Yasser Arafat e Bruno Gambarotta (o qualcuno che gli somiglia molto):

Dall’altro lato, c’è una infografica in stile giornalistico sui numeri dei detenuti politici palestinesi – basta un copia e incolla et voilà le reportage:

La Chiesa in sé, come per il Santo Sepolcro, è costruita attorno a un luogo sacro rigidamente diviso, dopo secoli di scazzi incrociati, tra le principali marche di cristianesimo. E’ interessante notare come ai cattolici sia toccato anche qui lo scarto degli altri, perché mentre il punto esatto in cui è nato Gesù Cristo (esatto esatto eh! l’hanno misurato col GPS durante le doglie), marcato da una stella d’argento in cui puoi infilare le mani per toccare la pietra su cui venne al mondo il figlio di Dio, è metà di proprietà dei greci ortodossi e metà di proprietà degli armeni, al Vaticano tocca soltanto l’angolino tre metri più in là in cui si trovava la mangiatoia.

In compenso, l’intera piazza si chiama Manger Square, ovvero piazza della Mangiatoia; la nostra guida palestinese cercava di spiegare a una insopportabile turista americana (che ha passato tutto il tempo a lamentarsi di Trump) che “manger” è una parola che indica appunto il posto in cui mangiano gli animali, in cui Gesù fu messo subito dopo il parto, e lei rispondeva: “ok, nursery!”. E lui: “no nursery, where animals eat, eat, and Christ was put there”, e lei: “ok, got it, manger means nursery!”. Niente, non ci arrivava, probabilmente era una dei sedici milioni di americani che credono che il latte al cioccolato sia quello prodotto dalle mucche marroni.

Comunque, la Chiesa Cattolica si è rifatta dell’emarginazione costruendo un secolo fa una seconda chiesa tutta sua accanto a quella storica, la Chiesa di Santa Caterina, che era piena di veneti con cappellini bianchi e gialli che pregavano, ciò. Diciamo che uscendo di lì avevo una gran voglia di rivedere Brian di Nazareth.

Tuttavia, non è finita qui; c’è ancora una cosa da vedere a Betlemme. No, non sono le umili autovetture tra cui devi fare lo slalom a piedi come in una qualsiasi strada pedonale di Torino:

e no, non è nemmeno il monumento collocato al centro di piazza Azione Cattolica:

e nemmeno il panorama digradante di Betlemme verso il Grand Park Hotel:

e nemmeno l’ottima pasticceria in cui abbiamo mangiato il fantastico dolce palestinese fatto da una crepe ripiena di formaggio e ricoperta di miele:

Lo so, voi siete qui per questo, volete vedere sangue e guerra e quindi ve lo mostro: il muro di Betlemme in tutto il suo splendore.

Questo muro marca il confine di fatto tra Palestina e Israele. Qui è particolarmente alto e difeso, perché subito dietro la parete c’è un luogo sacro agli ebrei, la tomba di Rachele (che dev’essere un personaggio biblico famoso, ma non chiedete a me; in termini di epiche, io mi sono fermato al Signore degli Anelli). Betlemme si trova subito a sud di Gerusalemme e il confine normalmente segue la separazione amministrativa tra le due città, ma in questo caso gli israeliani hanno costruito un “dito” di circa 400 metri per annettersi il luogo santo e uno stretto corridoio attorno alla strada per arrivarci.

Il muro è coperto di graffiti, alcuni molto belli, altri boh, altri ancora frutto del vandalismo di occidentali in fregola; questo è uno dei miei preferiti, che ricorda anche come i musulmani di Betlemme, pur abitando a una decina di chilometri dalla Cupola della Roccia ossia uno dei luoghi più sacri dell’Islam, non hanno né la possibilità di vederla né di visitarla, a meno di non ottenere un complicato permesso speciale; e non possono nemmeno visitare i propri parenti e conoscenti dall’altra parte del muro.

Sul muro sono affissi manifesti stampati dai palestinesi per raccontare tutte le difficoltà e i maltrattamenti subiti per recarsi a Gerusalemme, dalle lunghe attese per i controlli al trattamento sprezzante o minaccioso dei soldati israeliani al confine. Proprio di fronte, inoltre, c’è l’ultima trovata di Banksy, un albergo con “la peggior vista del mondo”.

In effetti, la sensazione è doppiamente straniante. Da una parte, un muro di cemento per separare a forza due comunità è orrendo; non esiste rappresentazione migliore della bruttezza innanzi tutto estetica della guerra etnica che si trascina da cent’anni in Medio Oriente; parla di sofferenza, di incomunicabilità, di violenza, di storie terribili, di diritti negati. Dall’altra, basta girarsi dall’altra parte per vedere una strada col traffico (una BMW e un’Audi… me ne sono accorto solo ora riguardando la foto), i negozi, la pubblicità della birra Bavaria, la vita che scorre tranquilla come in un posto qualsiasi. E in mezzo, a collegare le due parti, gli occidentali, che sfruttano la tranquillità e le infrastrutture della parte normale, alle loro spalle, per guardare e fotografare soltanto la parte conflittuale.

E’ per questo che penso che una foto obiettiva della Palestina di oggi debba comprendere tutte e due queste facce, anche se ovviamente ciascuna delle due parti in causa cerca in ogni modo di farne vedere una soltanto.

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