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Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


martedì 4 Settembre 2007, 16:20

Conferenze spagnole

Anche oggi, alla fine, ho i miei cinque minuti di Internet cafe’ per dispensare pillole di saggezza.

Quella di oggi e’ che non bisogna far organizzare le conferenze agli spagnoli, specie se letterati. Non solo litigheranno continuamente con qualsiasi computer, rinunciando poi a mostrare le slide, peraltro orride e piene di testo; non solo si rifiuteranno pervicacemente di parlare in inglese, facendo infuriare la truppa tedesca che costituisce il nerbo dei partecipanti; non solo si lanceranno in eloquentissimi indirizzi di saluto a presenti, organizzatori, autorita’ e cittadinanza tutta, che porteranno via venti dei trenta minuti loro allocati, per poi sforare di altri quaranta.

Ma il secondo giorno, nel pomeriggio, costringeranno tutti a inerpicarsi su per la collina ripida, per tenere la sessione in un meraviglioso edificio-museo cinquecentesco, dove le seggiole sono scomode, non ci sono tavolini, non c’e’ interpretazione, non si puo’ avere il caffe’ al coffee break (coffeeless break?), e si deve subire un indirizzo di saluto del tipo sopra descritto da parte del direttore del museo; e si giustificheranno dicendo che si’, si rendono conto che in questo modo la mezza giornata di conferenza andra’ sostanzialmente sprecata, pero’ il museo era tanto bello e volevano assolutamente spacciarsi con te portandotici dentro.

(Comunque anche noi dovremmo tacere, che un dotto professore nordico a pranzo ci ha raccontato di come resto’ allibito quando, a una conferenza internazionale di linguistica da lui presieduta, professori del Nord Italia e professori del Sud Italia si presero a male parole davanti a tutti, in mezzo alla sala, al grido di “razzisti!” e “comunisti!”, sulla questione “il lombardo, il veneto e il piemontese sono lingue o dialetti?”. Non temete, comunque, lui concordava con me che sono lingue!)

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lunedì 3 Settembre 2007, 18:58

Toledo in breve

Avendo ancora soltanto cinque minuti di Internet cafe’, ecco Toledo in breve:

Una citta’ bellissima.

35 gradi all’ombra stabili quattro mesi l’anno.

La miglior cipolla cruda che abbia mai mangiato.

Viso +, tette ++, culo +++.

E soprattutto, la totale invasione di negozi che vendono i prodotti millenari dell’artigianato locale: i piatti di ceramica, e la spada del Signore degli Anelli.

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domenica 26 Agosto 2007, 09:49

Los Angeles (4)

(Segue dalla terza puntata…)

Comunque, l’esperienza migliore l’ho fatta decidendo di fare qualcosa che i miei contatti locali hanno descritto come “follia”: trasferirmi da Hollywood a Marina del Rey – la sede di ICANN, sul mare vicino a Santa Monica, a una trentina di chilometri dal centro – con i mezzi pubblici, portandomi dietro valigia, computer e tutto il resto.

Si inizia bene, prendendo la linea rossa della metro, che è una vera metropolitana, con treni veloci – anche se radi, uno ogni 10-12 minuti – e tutta in galleria. Arrivati in centro, si passa sulla linea blu, che va meno bene: in pratica, è un tram che collega il centro con Long Beach, quaranta chilometri più a sud. In galleria c’è solo il capolinea; dopodichè, il tram percorre sferragliando le vie alla periferia meridionale del centro, fermandosi bellamente ai semafori. La cosa migliora un po’ quando, dopo un quarto d’ora, si gira su Long Beach Avenue, dove il tram percorre una vecchia ferrovia, sempre a raso, ma con un’ampia sede dedicata a centro strada, e precedenza sulle vie laterali. Poi, dopo un po’ di fermate, improvvisamente la ferrovia si alza, e passa su un altissimo cavalcavia. Proprio lì, nel mezzo dell’aria, si ferma, e quella è la fermata di Slauson Avenue: la mia.

Esco, e immediatamente penso: sono nei guai. Difatti, mentre il tram si allontana sferragliando, io mi guardo attorno e vedo un panorama talmente lunare che non mi sono osato tirar fuori la macchina fotografica per immortalarlo. Intorno, guardando nella piana di South Los Angeles per chilometri, non c’è un albero o un filo d’erba: soltanto terra polverosa, come in mezzo a un deserto. Sotto di me, passa una via trafficata, oltre la quale, parallela ad essa, si stende una vecchia ferrovia arrugginita, a raso, che sembra abbandonata. La traversa più vicina è a un duecento metri – c’è anche la freccia, perchè le fermate degli autobus sono là. Intorno, ci sono antiche fabbriche cadenti, magazzini di vario genere, casupole misere, vecchie auto sfondate e lasciate là a morire. Cammino fino all’incrocio, attraverso, e trovo la fermata del bus 108. E’ un palo, piantato nella sabbia sul ciglio impolverato della strada. Per aspettare, ci si può sedere sui vecchi binari, evitando il riporto dei camion. Nello spiazzo dietro di me, un vecchio messicano spinge un carrello pieno di ferraglia, mentre, davanti a una vecchia roulotte con cartelli soltanto in spagnolo, tre signori chiacchierano seduti sulle sedie da campeggio. Puro Quentin Tarantino, ma ci sono proprio in mezzo.

E sono nei guai anche per un altro motivo: ecco, a me piace fare i miei piani e seguirli. Il bus 108 percorre tutta la Slauson Avenue, una trentina di chilometri da est a ovest fino al mare e ritorno, passando circa una volta ogni quarto d’ora. Tuttavia, solo un autobus su quattro va fino a Marina del Rey, posto fighetto dove l’idea di prendere i mezzi pubblici viene solo a qualche cameriera messicana. Stando al pidieffone dell’orario sul sito, c’era un 108 per Marina del Rey entro un quarto d’ora dal mio arrivo. Però, stando al trip planner, non ce ne sarebbero stati per un paio d’ore.

Potete quindi capire il mio sollievo quando dopo una attesa guardinga, passata a controllare i messicani alle mie spalle, ho visto emergere dal riverbero caldo sull’asfalto lontano uno scassone con il numero 108 e la scritta Marina del Rey. E vai! Salgo e allungo il dollaro e venticinque: come vi dissi, qui i trasporti pubblici sono gestiti da innumerevoli compagnie private, per cui non esiste il concetto di biglietto a tempo: si ripaga ogni volta che si sale su un mezzo.

Il pullman è scassato, ma mi sorprenderà in positivo per due cose. La prima, è una piattaforma automatica per invalidi che si apre su richiesta, e tira su la carrozzina per la porta davanti: un vecchio meticcio in carrozzina riesce a prendere l’autobus completamente da solo. La seconda, è uno schermo LCD che riporta in un angolo la mappina satellitare di Windows Live, con la posizione del pullman, per capire a che punto sei dell’infinita avenue; nel grosso dello schermo scorre pubblicità, è per quello che può esistere.

Il viaggio è affascinante. All’inizio, sono l’unico non messicano; dopo un quarto d’ora, mi accorgo di essere diventato l’unico bianco. La zona è povera, sempre caratterizzata da vecchie fabbriche e magazzini di cianfrusaglie, con la ferrovia ad affiancarle tutte; a un certo punto scopro che non è abbandonata, c’è addirittura un vagone merci rugginoso che deve avere sessant’anni, e che arranca da solo, più lento di noi, attraversando le traverse ad ogni incrocio. Insomma, degrado totale; di notte deve essere certamente parecchio pericolosa. Me ne accorgo perché ho già visto, in Argentina o in Sud Africa, interi quartieri borghesi recintati dal filo spinato, e protetti dalle guardie all’ingresso. Ma non avevo mai visto, come qui, casupole cadenti, poverissime, quasi baracche, però circondate da lamiere e filo spinato. Ho come il sospetto che qui anche due dollari siano una ricchezza, e che ci si ammazzi per niente.

Poi, dopo quasi mezz’ora, finalmente lo scenario cambia: la ferrovia gira e sparisce nei meandri, e cominciano a comparire casette più dignitose, e anche qualche filo d’erba. Poi, di colpo, la strada sale; le case si fanno belline, curate, nuove, con il prato davanti, e agli angoli riappaiono negozi e servizi. Dopo questa collina c’è un parco, e lì vedo un’altra cosa che non mi aspettavo: in un angolo, ben cintate, tre pompe di petrolio, di quelle antiche, a becco, che vanno su e giù, perfettamente in funzione.

Dopo un po’, sono in una zona decisamente borghese: Fox Hills, dove l’autobus gira e si infila per viali alberati affiancati da condomini carini e da gente che fa jogging. Il pullman ormai è vuoto, a parte una enorme signora nera che prende il bus con l’abbonamento per fare un tragitto che, a piedi, sarebbe di cento metri scarsi: signora, un po’ di moto le farebbe bene. A questo punto sale un ragazzo bianco in tuta da ginnastica, con l’iPod: sono definitivamente nella civiltà, ma lui mi fa l’effetto di un alieno. Chiede se l’autobus va veramente a Marina del Rey, che non l’ha mai preso in vita sua. Gli si sarà rotta la macchina.

Dopo un’ora di bus, ci siamo; anticipo la fermata con precisione, tiro la corda che si usa per segnalare, scendo, a venti metri dal portone del palazzone in cui sta ICANN, sulla passeggiata davanti al porto. Dopo il mio meeting, avrò anche un’oretta per passeggiare e vedere questo enorme porto turistico, pieno di barche e yacht, di ristorantini di mare e finti villaggetti di pescatori per i turisti. Un altro pianeta. Ma, per due dollari e cinquanta, il mio giro di due ore sui mezzi pubblici di Los Angeles, con vista sulla vita, è stato il miglior investimento dell’estate.

E mi ha fatto anche un po’ ricredere su questa città, dove non c’è niente da vedere, ma molto da sperimentare. Sono contento di esserci stato.

(Fine!)

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sabato 25 Agosto 2007, 10:37

Los Angeles (3)

(Segue dalla seconda puntata…)

Come dicevo, l’unica parte un po’ interessante di Downtown Los Angeles è il centro antico, all’angolo tra Main Street e l’autostrada 101 (qui le autostrade le costruiscono scavando al posto dei vecchi corsi, un po’ come se per fare la Torino-Milano avessero cominciato abbattendo le case per trasformare via Roma in un trincerone a otto corsie: mica vorrai farti i semafori per arrivare in centro dalla tangenziale?). Sorprendentemente, ci sono alcuni edifici di inizio Ottocento, quando Los Angeles era messicana, e la originale missione dei frati francescani che fondarono il posto come El Pueblo de Nuestra Senora La Reina de Los Angeles del Rìo Porciuncula (quello di Assisi); abbreviato L.A., va per la maggior contrazione toponomastica della storia. Soprattutto, qui è pieno di messicani e finalmente ci si sente un po’ a casa, anche se a fianco della missione c’è un parcheggio (ma ci sono parcheggi ovunque: l’idea è che in un isolato si fanno case e in quello a fianco si fa un parcheggio sopraelevato a pagamento).

C’è una bella piazza, e c’è Olvera Street, un mercatino pieno di bancarelle di chincaglierie messicane fatte in Cina. E c’è la Union Station, la stazione dei treni, uno dei peggiori investimenti pubblici della storia americana – fu costruita nel 1939, dal 1940 cominciarono a smantellare le ferrovie e sostituirle con auto, bus e aerei. E’ grandiosa, scura e austera all’interno, allagata dal sole nei chiostri e nei cortili esterni; è ancora usata, ma solo in parte, per i pochi treni rimasti, e per farla fruttare un po’ ci hanno persino girato Blade Runner (la sede della polizia). Certo, prima di capire dove si prende la metro e dove si comprano i biglietti ci vorrà un po’, perché ogni servizio pubblico è gestito da una azienda separata, e il concetto di integrazione è inesistente. Ma vale la pena arrivare fin qui.

A questo punto dovreste aver capito che, a differenza delle città a cui siamo abituati, a Los Angeles non ci sono zone storiche da vedere, e zone non storiche da ignorare; il punto della visita è l’esperienza di vita. Per questo sono stato ben contento, quando pagavo io, di spostarmi in un motel: un classico Travelodge, che è il tipico albergo degli americani medi, per affari o per vacanza che sia. A parte Las Vegas, solo i ricchi vanno negli alberghi “all’europea”; gli altri si muovono in auto e usano i motel.

I Travelodge sono tutti uguali da un capo all’altro dell’America: c’è un ingresso dalla strada, vicino alla reception, che controlla cosa succede; poi c’è una specie di lunga casa di ringhiera su due piani, a L, che dà sul cortile interno, che è un parcheggio a pettine. Se siete al pianterreno, potete parcheggiare col muso a mezzo metro dalla porta della camera: difatti le camere danno sul passaggio coperto a pianterreno, o sul balcone al primo piano. Ogni camera ha un bel letto matrimoniale, un televisore con la TV via cavo, un frigo vuoto per le vostre cose, un forno a microonde, un vecchio condizionatore elettrico, una cassaforte, un ripostiglio, e un bagno più che discreto, che di solito funziona bene. In mezzo al parcheggio, c’è anche una piscinetta, nemmeno troppo piccola (non fosse che di solito è monopolizzata da qualche famigliola). Insomma, ci si può vivere per una settimana con vari comfort, e in occasioni passate il forno a microonde mi venne piuttosto utile per risparmiare sui pasti.

Qui io ho dormito per 95 dollari a notte tasse incluse, che per un motel è tanto, ma per un albergo di Los Angeles a “due fermate della metro” sia da Downtown che da Hollywood non è molto. In più, esso stava di fronte alla fermata della metro di Sunset/Vermont, abbastanza vicino alle uscite dell’autostrada, in una zona con vari servizi: tre o quattro fast food tra cui un simil-Starbucks, un paio di benzinai con negozietto di cibarie aperto 24 ore su 24, un bank-in – cioè un bancomat che funziona come un drive-in, senza scendere dall’auto; sembra ridicolo, ma lo rivalutate parecchio se dovete prelevare col buio… e capite nel contempo perchè la Focus americana abbia un dispositivo che abbassa automaticamente la sicura delle porte dopo dieci secondi che la guidate – e poi, un paio di ospedali – tra cui il già citato Ospedale Infantile Haim Saban – e la sede mondiale della chiesa di Scientology, caso mai abbiate una crisi esistenziale nel cuore della notte.

Del resto, in America le città vanno a zone. Può capitarvi come a me, di essere a Hollywood, dover riconsegnare a breve l’auto nell’ufficio Avis del centro città, e nel contempo aver finito i contanti. La periferia di Hollywood, però, è una zona di casette, quindi niente banche, ma un sacco di negozi, e di benzinai. Alla fine, dopo venti minuti, trovate una banca e prelevate, ma siete già quasi in centro. Così andate fino all’ufficio di noleggio, sperando di trovare un benzinaio in centro per fare l’obbligatorio pieno prima di riconsegnare l’auto. Sperate male: perché il terreno in centro serve per i grattacieli, e non ho visto un singolo benzinaio in tutta la zona. I benzinai sono rigorosamente collocati fuori dal centro e sulle avenue più frequentate, meglio se all’incrocio di due di loro; e così dovrete uscire fuori lungo Wilshire per un paio di chilometri, per trovarne uno.

Peraltro, i problemi di muoversi in un ambiente sconosciuto non si limitano al cercare banche in un quartiere di benzinai, e poi benzinai in un quartiere di banche. Fare benzina non è così facile: perchè in America nessuno mai si fiderebbe a lasciarti fare ciò che fai qui, cioè prima mettere benzina e poi andare a pagare (e nemmeno si fiderebbe a metterti benzina lui, almeno nelle città). Tutti i benzinai sono self-serve, pre-pay: metti la macchina davanti alla pompa, scendi, lasci una certa cifra alla cassa, che ti autorizza a far benzina per quell’importo. Torni alla pompa, metti la benzina, e se ne hai avanzata torni indietro a farti dare il resto. Poi, può succederti come a me, di aver messo la macchina con il serbatoio dal lato sbagliato, contando sull’estensibilità della pompa, e di scoprire che in America le pompe non sono estensibili; e così, devi improvvisare una inversione in mezzo al piazzale pieno di gente, mentre un coreano cerca di fregarti il posto e tendenzialmente anche la benzina che hai già pagato. E’ appena normale che, in tutto questo, tu faccia la manovra col serbatoio aperto e il tappo penzolante!

(continua…)

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venerdì 24 Agosto 2007, 20:37

Los Angeles (2)

(segue dalla prima puntata…)

Mulholland Drive è la strada che si snoda, in modo estremamente tortuoso, proprio sul crinale delle colline che separano Los Angeles dalla Los Angeles aggiuntiva che si è sviluppata sull’altro lato, che comprende posti come Van Nuys, Glendale e Burbank, oltre agli Universal Studios. E’ giustamente famosa non solo come posto per imboscarsi, ma anche perché la vista è magnifica, e la guida sarebbe divertente se non ci fosse di mezzo il cambio automatico. Il cinema l’ha sfruttata ampiamente per queste sue caratteristiche: del resto, sarebbe difficile ambientare un incidente stradale minimamente pittoresco in qualsiasi altro posto di Los Angeles, visto che il resto è costituito da stradoni larghi e dritti con un semaforo ogni duecento metri.

Lungo il percorso, si attraversano le più alte e remote delle villazze, perchè tutto il versante a sud è occupato dalle ville degli straricchi, e tappezzato di cartelli che invitano a non passare di lì, che sparano a vista (metaforicamente, si spera). Ci si può fermare ogni tanto a fare foto, schivando i cartelli che intimano di non mettersi lì. Insomma, un ambiente dove ti senti benvenuto… Però è davvero un bel giro.

Arrivati al passo Cuenahoga, occupato in forze dall’autostrada 101, potete persino, come ho fatto io, provare l’inseguimento alla scritta HOLLYWOOD. Già, perchè la famosa scritta sulla collina, nonostante tutte le immagini che avete visto, non solo è chiusa e guardata dai cani, ma è anche a parecchi chilometri dal mondo civilizzato (ve l’avevo detto che tutto è molto più lontano di quello che sembra…). Io sono riuscito ad arrivarci piuttosto vicino solo col mio fiuto per l’orientamento, per cui annoto le indicazioni: percorrendo il passo verso nord sul Cahuenga Boulevard, potete infilarvi nelle villette di Hollycrest come ho fatto io, anche se sparano a vista; oppure potete prendere il Barnham Boulevard. In entrambi i casi, dopo un po’ incrocerete sulla destra Hollywood Lake Drive; salendo di lì, si incrocia Wonder View Drive (nomen omen) e poi si piega a destra verso il lago Hollywood, che è in realtà un enorme bacino artificiale.

A questo punto siete veramente nella terra di nessuno, fuori dalle villette; ci sono solo il sole, il lago e qualche jogger solitario. Imboccate Montlake Drive lasciando il lago sulla destra, e dopo un po’ di curve vi apparirà la Scritta. Andando ancora avanti, entrerete in un’altra zona di villette per Tahoe Drive, fino alla sua fine; quello è uno dei punti più vicini. Proseguendo a destra, si sale e si finisce in Mulholland Highway, che è una strada strettissima: siete arrivati proprio in mezzo alla famosa lottizzazione per cui la Scritta fu creata. Le strade e le case sono quasi interamente di inizio secolo: ve le raccomando. Potete comunque scendere per la ripida Ledgewood Drive, che poi confluisce in Beachwood Drive, che sarebbe l’arteria principale di questo quartiere augusto, collinare ed esclusivissimo. Vi stupirà per quanto tempo dovrete guidare prima di sbucare sulla Franklin Avenue in un incrocio totalmente anonimo – mai direste che quella è la svolta per un quartiere tanto grande e ricco.

Ecco, questo è ciò che vale la pena veramente di fare, a Los Angeles. Ve lo dico perché, in compenso, Hollywood vera e propria è un pacco clamoroso: in pratica, si riduce a un solo isolato di Hollywood Boulevard, quello col centro commerciale, la fermata della metro (Hollywood/Highland) e il famoso cinema orientaleggiante, il Mann’s Chinese Theatre. Lì è dove mettono il tappeto rosso e fanno le riprese in televisione: anche quando sono passato io, c’era la prima di tal film Superbad – dagli autori di Quarant’anni vergine – con due sconosciuti in mezzo ai flash, e centinaia di persone in delirio. Ma in delirio perché?

Attorno a quello, il resto di Hollywood – gli isolati con le stelle sul marciapiede, che viste da vicino sono solo simpatiche decorazioni da marciapiede e anche un’idea un po’ cheap, adesso piazziamo i nomi dei compositori classici davanti al Regio e diventiamo la capitale della lirica? – sono edifici cadenti e pieni solo di negozi di chincaglieria per turisti. Basta girare l’angolo per ritrovarsi nel solito mare di casette, negozietti e fast-food col drive in.

Il centro non è tanto meglio: esso si divide in tre parti. Quella più meridionale, attorno alla settima strada, è piena di centri commerciali, alberghi storici e grattacieli di banche; non è male, ma è come la zona degli affari di qualsiasi altra città americana, cioè uno scimmiottare Manhattan. Bella la salita sulla collinetta di Bunker Hill, con il piccolo museo Wells Fargo, da cui si sbuca sul Museo d’Arte Contemporanea (pensavo che Isozaki fosse sopravvalutato, ma dopo aver visto questo suo edificio – indistinguibile dai palazzi dove abito – mi chiedo se sia veramente un architetto famoso) e sulla nuovissima Walt Disney Concert Hall, del cui andamento a nastri metallici certamente avete già visto milioni di foto.

Quella subito più a nord, invece, è la zona dei palazzi pubblici: il peggio del peggio. E’ come Bucarest, moltiplicata dieci volte in dimensione. Squallida uguale, tronfia uguale, sporca uguale, e piena di barboni uguale (anche se i barboni a Los Angeles sono ovunque, persino sull’elegante passeggiata a mare di Santa Monica). Ci sono persino i fregi a mosaico in stile Alexanderplatz.

A margine, c’è Little Tokyo. Che è una fregatura: sono due isolati, di cui uno nel parcheggio di un hotel. Vero, ci sono negozi giapponesi veri, con scritte giapponesi e persino le guide telefoniche in giapponese. Ma il cosiddetto “villaggio giapponese” è un fintume commerciale per turisti. Stessa cosa Chinatown: in realtà non c’è, perchè la rasero al suolo negli anni ’30 per farci la stazione. Poi si son resi conto che non era gentile e che ai turisti piacciono le Chinatown, e allora hanno costruito una impalcatura di tubi su una strada a mo’ di portale, e hanno detto “questa è la nostra Chinatown”.

L’unica parte del centro che merita veramente è quella messicana, di cui vi parlerò domani!

(continua…)

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giovedì 23 Agosto 2007, 16:26

Los Angeles (1)

In questi giorni sto scrivendo un po’ di commenti e ricordi sul mio viaggio a Los Angeles dell’altra settimana; siccome sono abbondanti, li posterò un po’ per volta, a puntate.

Nel complesso, questo viaggio resterà nei miei ricordi come alcuni giorni densi di sensazioni interessanti, e di un po’ di apertura rispetto a quella percezione di aria chiusa, di frustrazione e di asfissia che, qualsiasi cosa si pensi, si respira ormai da troppo tempo in Italia (vedi la discussione sul signor Rossi).

Parte di ciò, in effetti, è data dalle numerose esperienze intra-extra-sensoriali, cominciate con il viaggio di andata, e culminate quando, verso le tre e mezza di mattina nel mio lussuoso albergo di Santa Monica – peraltro gestito da una manica di stagisti orientali che non avrebbero saputo mandare avanti neanche una lavanderia -, dopo essermi rigirato varie volte nel letto senza riuscire a riprendere sonno, mi è apparso in persona Don Henley a cantare per intero Desperado, apposta per me, dall’inizio alla fine, e poi persino a rifarla tutta da capo come un bis, giusto per essere sicuro che il messaggio fosse chiaro: una esperienza profonda, che ti cambia la vita.

Los Angeles, in effetti, è così: un miraggio, una entità irreale che apre una finestra su un modo di vivere completamente diverso. La prima impressione non è granché, ma probabilmente è proprio perché la città è troppo diversa dalla nostra concezione: un rettangolo lungo la costa di cento chilometri di lunghezza per quaranta di profondità, con vari tentacoli aggiuntivi. Solo recentemente hanno permesso la costruzione di grattacieli, per cui ci sono solo due o tre punti dove la città, vista dalla collina, emerge in altezza; il resto è una distesa infinita di case basse, in certe zone più dense, in altre meno, intervallate da autostrade, zone industriali, zone commerciali (tendenzialmente piccole, fatte di negozietti e fast food) e degli enormi canali di cemento (da noi noti per la scena di inseguimento in Terminator 2) che fungono da fogna a cielo aperto. Los Angeles è un enorme reticolo, in cui le vie – avenue da nord a sud, boulevard da est a ovest – sono lunghe ciascuna trenta o quaranta chilometri, ed è sempre affascinante reincrociare la stessa via a distanze siderali e in tutt’altro contesto.

Ci sono, comunque, anche dei vantaggi, al di là della vitalità commerciale e culturale della città. Per esempio, il clima: non fa mai veramente freddo. Poi ci sono le spiagge: ampie, di sabbia, e completamente libere, persino davanti alle località più note (qui il concetto di “stabilimento balneare” è sconosciuto). E ci sono le colline: l’unica parte paesaggisticamente bella della città, che sovrasta tutta la famosa infilata di quartieri e comuni sui Sunset e Santa Monica Boulevard: da ovest a est, Downtown, Silverlake, Hollywood, Beverly Hills, Century City, Westwood, Bel Air, Brentwood e infine Santa Monica, lo sbocco al mare.

Ma non fatevi ingannare: non sono veramente dei quartieri o delle cittadine come intendiamo noi, con un centro, un monumento, una piazza, qualcosa che funga da punto di aggregazione. Sono distese di case, interrotte ogni tanto da qualche casa più storica o famosa che definisce il circondario. Per dire, più a sud, Wilshire Boulevard a ovest del centro è una delle zone storiche e famose; ma non è che una infilata di palazzi più belli e più vecchi, costruiti a inizio secolo sulla vecchia strada per il mare, in mezzo al generale mare di anonime palazzine e negozietti.

Le colline, comunque, meritano la visita; potete fare come me, e noleggiare una macchina, anche perchè visitare Los Angeles senz’auto è sostanzialmente impossibile. Qui, più ancora che nel resto degli Stati Uniti, vale il primo principio del turista europeo in America, ossia TUTTO E’ MOLTO PIU’ LONTANO DI QUELLO CHE SEMBRA. “Due fermate di metro” sono facilmente quattro o cinque chilometri. “Tre o quattro isolati” sono mezz’ora a piedi. “E’ solo il paese dopo” vuol dire mezz’ora di macchina, fermi negli eterni ingorghi delle insufficienti autostrade (solo una ventina, a quattro-sei-otto corsie per senso di marcia) che attraversano la città. Per dire, io, per spostarmi dall’albergo di Santa Monica a quello di Hollywood, ho noleggiato un’auto per un giorno: vista la distanza e il traffico, costava praticamente come il taxi.

L’auto si è poi rivelata essere una Ford Focus, che però non sembrava nemmeno lontana parente della Focus nostrana: berlina, stretta e alta, e con l’aria di ribaltarsi da sola. Ero peraltro l’unico che avesse noleggiato una classe A in quel posto nelle ultime tre settimane, per cui mi hanno dato l’unica che avevano: targata Oklahoma. E’ stato un po’ come girare per Torino con la targa di Caltanissetta.

Io l’ho presa e per prima cosa sono andato al Getty Center di Brentwood (da non confondere con la Getty Villa di Malibu), un enorme centro museale realizzato da un benefattore talmente sovversivo da dotare sì il tutto di un enorme parcheggio sotterraneo, ma da realizzarlo lontano (c’è un trenino di collegamento) e soprattutto da far pagare il parcheggio anziché l’ingresso al museo. Il museo è così così, una collezione di arte europea completa ma uniformemente di livello relativamente basso, a parte un paio di Rubens e di Tiziano. Il posto, però, è meraviglioso, in cima alla collina, in mezzo al verde bruciato dal sole, costruito con travertino originale di Tivoli portato fin là con una ventina di transatlantici. Potete anche guardare la città dalla terrazza, o meglio la potreste guardare se non fosse coperta – permanentemente – da uno strato di foschia rossa e solida spesso un paio di chilometri: l’aria più inquinata del pianeta, persino più di Milano.

Il vero clou, però, è stato uscire di lì nel tardo pomeriggio di una tranquilla domenica d’agosto, e imboccare la vicina Mulholland Drive, percorrendola tutta, fino a Hollywood.

(continua…)

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giovedì 16 Agosto 2007, 19:54

Security (2)

Dunque, dicevamo come le procedure di sicurezza per entrare negli Stati Uniti siano disumane; anche quelle per uscire, però, non sono male.

In particolare, dopo aver effettuato il check-in a LAX, mi è stato detto che dovevo riprendermi la valigia e portarla personalmente al controllo di sicurezza. Fatta la coda, ho consegnato la valigia e mi è stato chiesto se la serratura fosse aperta; ovviamente non lo era, visto che le valigie aperte vengono spesso saccheggiate durante il trasporto.

Il poliziotto mi ha guardato come se fossi uno spacciatore, e mi ha mostrato un cartello che offriva ai viaggiatori le tre seguenti opzioni:
1) Lasciare la valigia aperta;
2) Utilizzare una serratura “approvata dal governo americano”, che presumibilmente vuol dire che ha un sistema di passepartout che permette ai poliziotti di qualsiasi aeroporto americano di aprirla a tua insaputa;
3) Accettare il fatto che la serratura potrebbe essere spaccata dai poliziotti per controllare cosa c’è dentro.

Io ho cominciato a protestare, e dopo un po’ di discussione la risposta è stata: va bene, allora aspetta dall’altro lato del passaggio, così puoi vedere se la valigia passa il controllo o se la devi aprire.

Vado dall’altro lato del posto di controllo e mi metto a guardare gli inservienti, per vedere quand’è che arriva la mia valigia. Errore mortale: mi si precipitano addosso due altri poliziotti, e mi intimano sgarbatamente di andare via, e stare oltre il nastro. Io mi metto prontamente oltre il nastro… e scopro che da quella posizione si vede ancora meglio cosa fanno i controllori; però sono oltre il nastro e non possono dirmi nulla.

Dopo qualche minuto, vedo la mia valigia uscire dalla macchina a raggi X, e ovviamente viene selezionata per il controllo. In tre la poggiano su un tavolino, e cominciano a spingere sui pulsanti a scatto per aprirla. Non ci riescono… e non hanno alcuna intenzione di chiedere la chiave. Intuendo cosa sta per succedere, mentre uno dei tre si dirige a prendere un martellone dall’altro lato del tavolo, tiro fuori la chiave della valigia, la alzo sopra la mia testa e comincio a fare ampi cenni, gridando “Key! Key!”. Riesco appena in tempo a richiamare l’attenzione di uno degli inservienti, che viene fino al nastro a prendere la chiave.

Seguono cinque minuti in cui una gentile signorina mette le mani ovunque nella mia valigia. Temo che ci saranno problemi, visto che ho acquistato vari libri, di cui uno chiaramente sovversivo. Invece, alla fine richiude la valigia, e mi riporta persino la chiave. La valigia viene portata via per l’imbarco, mentre io vado ai controlli di sicurezza (mi tolgono anche le scarpe, ma ormai non ci faccio più caso).

Tra l’altro, cosa degna di nota, per la prima volta mi hanno fermato anche a Francoforte, alla dogana nel passaggio tra lato non-Schengen e lato Schengen: mi hanno fatto aprire il computer e si sono assicurati che fosse vecchio e italiano. Col dollaro debole, penso che comincino a stare attenti alla gente che compra elettronica durante i viaggi agli Stati Uniti.

Chiudo con un aneddoto carino: ancora a LAX, dopo i controlli, sono andato ad attendere l’imbarco in una splendida lounge, quella da cui ho postato la puntata precedente. Ero lì spaparanzato godendomi riso e gamberi e birra Kirin dal buffet giapponese, quando arriva una famigliola abbronzatissima, padre madre e due bambini. Dal loro comportamento, e non appena aprono bocca, li riconosco subito: sono un temutissimo esemplare di venditori di cessi della Brianza. Parlano a voce altissima disturbando tutti i presenti; commentano tra loro “Uè, cazzo, guarda quanti giapponesi” e “Figa, ma c’è la birra gratis!”, mentre il dodicenne viziato, con i suoi vestiti firmati, comincia a rompere le scatole a voce altissima, facendo osservazioni quasi più stupide di quelle di suo padre. Poi i quattro si avvicinano al banco e imboscano banane e lattine di coca-cola, che tanto gli sequestreranno all’imbarco.

Di fronte a tanta calamità, insensibili alle occhiate disgustate del mondo civile, il giunonico staff tedesco della lounge non può restare indifferente. E così, a un certo punto una hostess crucchissima passa dalla ragazza giapponese dietro di me, le chiede “Frankfurt?”, la ragazza risponde di sì, e la hostess le dice: “I would like to inform you that unfortunately we are slightly late, we will board ten minutes later.”. La giapponese annuisce; la hostess viene avanti, arriva da me, mi chiede “Frankfurt?”, io rispondo di sì, e dice anche a me la stessa frase. Va avanti così con tutti, finché non arriva dagli zotici, al che dice: “Frankfurt?”. Quelli, con un tono di voce che sveglierebbe un morto, rispondono “Yes!”, e lei: “I would like to inform you that we are boarding right now, please follow me immediately!”.

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mercoledì 15 Agosto 2007, 03:16

Security (1)

Ci sono vari motivi per non venire negli Stati Uniti, ma uno è particolarmente pressante: la difficoltà tremenda per entrare ed uscire da questo paese.

All’andata, atterrati a LAX dopo tredici ore di volo, ci siamo prima dovuti subire venti minuti parcheggiati a terra, perché tutte le baie erano piene; dopodiché, una volta sbarcati, siamo stati scaricati in una specie di girone dantesco, ossia un enorme salone brulicante di gente, sbarrato da una fila di una cinquantina buona di sportelli, accoppiati a due a due su una doppia fila. Ogni quattro / sei sportelli c’è una coda, e già all’ingresso nel salone gli inservienti in divisa ti invitano con voce monotona ad andare avanti e ad infilarti in questa o quella massa umana.

Le code per i cittadini americani non sono brevi, ma quelle per il resto del mondo sono inumane: noi, giovedì, abbiamo fatto un’ora e mezza di coda, in piedi, lungo una serpentina di nastri che pareva non andare mai avanti, in un salone sovraffollato dove ci saranno stati quaranta gradi. Io stavo svenendo dal sonno, visto che ero completamente laggato; per fortuna ero in coda con il mio collega portoghese Francisco, che è un gran parlatore e ha mandato avanti la conversazione da solo.

Una volta giunti allo sportello, poi, il poliziotto – che non alza quasi mai gli occhi dal terminale – ti chiede come ti chiami, e perché vuoi entrare negli Stati Uniti, detto con un tono che significa “Perché vieni qui a rompere le scatole?”; e poi, “When are you getting back home?”, cioè “Quando te ne vai?”. Francisco – un pazzo – gli ha fatto la battuta, rispondendo “As soon as possible”; pensavo lo portassero via, ma il poliziotto si è limitato a guardarlo male e a rispondere “Sure, everyone should stay at home.”.

Insomma, si tratta di un sistema al limite dell’inumanità, che talvolta viene bellamente superata; come quando domenica pomeriggio si è piantato il server dell’immigrazione, e circa seimila persone sono rimaste in coda nel salone, ferme, per tre ore, o addirittura non sono state nemmeno lasciate scendere dagli aerei (perché una volta che sei a terra, in teoria, puoi chiedere asilo).

Va detto, tuttavia, che non si tratta tanto di cattiveria, quanto di una cultura in cui l’aspetto personale viene completamente cancellato, e le persone non vivono: funzionano. Ci sarebbe molto da dire su questo aspetto, e il racconto dei controlli di sicurezza non finisce certo qui, ma ora stanno imbarcando il mio volo, per cui devo andare!

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martedì 14 Agosto 2007, 06:13

Luoghi di L.A.

Los Angeles, diciamocelo, fa schifo. Avrò tempo, sperabilmente, di supportare questa affermazione postando altro materiale; se è vero che la città ha comunque un certo fascino, che deriva proprio dalla sua crassa esagerazione di qualsiasi cosa, alla fine ci si rende conto che ci sono proprio poche ragioni per visitarla, se non quella di dire di esserci stati.

In compenso, proprio girando in un ambiente così alieno saltano fuori le caratteristiche più interessanti. Ad esempio, il mio albergo si è rivelato ottimo, perchè è situato all’incrocio di Sunset Boulevard con Vermont Avenue, e quindi è attaccato a una delle rarissime stazioni della metro (non che la metro serva a molto, ma almeno porta in centro e a Hollywood); è confortevole e costa relativamente poco; e ha persino la connessione wi-fi inclusa nel prezzo.

Più inquietante, però, è il circondario. Non in termini di degrado, proprio perchè, essendo le stazioni della metro così rare, attorno ad esse si concentra la vitalità dei vari quartieri. Se mai è proprio il contrario; nel giro di un isolato ci sono un po’ troppe cose che incombono.

La prima, che occupa due interi blocchi, è una strana corporation che si fa un sacco di pubblicità alla radio, e che non ho ancora capito se è un ospedale, un centro di chirurgia estetica, o una assicurazione. La cosa inquietante è che essa risponde al nome di Kaiser Permanente; e con un nome così, faccio fatica ad addormentarmi, temendo ogni sera di trovarmi la Gestapo fuori dalla porta.

La seconda, proprio sul lato opposto dell’incrocio, sono gli altri due blocchi dell’ospedale infantile di Los Angeles, e in particolare del Centro Ricerche Saban. Ora, ho già capito che lo show business muove la città; e difatti le attrazioni principali sono la Mostra Planetario Leonard Nimoy, la nuovissima Walt Disney Concert Hall, il capannone della Geffen Contemporary (Geffen, per i meno esperti, è il discografico dei Guns’n’Roses e uno dei tre soci della Dreamworks), e così via. Ma che l’ospedale infantile sia finanziato da Haim Saban mette abbastanza i brividi: verranno i Power Rangers a curare i bambini?

Ma tutto ciò è nulla rispetto alla grande cittadella che occupa tre o quattro blocchi subito dietro: è il quartier generale mondiale della chiesa di Scientology. Ho avuto in effetti qualche sospetto quando, facendo il giro dell’isolato in macchina, mi sono trovato in L. Ron Hubbard Way; e così, è saltata fuori una stradina in pavè con un sacco di droni in giacca e cravatta che uscivano dagli edifici. Ho resistito all’istinto di schiacciarli, ma sono stato ben attento a non passare più da lì. Ora sono incerto se andare a vedere, avendo già evitato il palazzo a quindici piani della L. Ron Hubbard Life Exhibition, che sta proprio in mezzo a Hollywood. Che faccio, oso?

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domenica 12 Agosto 2007, 02:53

Sembra facile

Come vi dicevo, sono a Los Angeles per due giorni di meeting del Board di ICANN, visto che nessuno è riuscito a convincere gli americani che a Ferragosto il pianeta deve chiudere per ferie. Il meeting finisce stasera (mentre scrivo, qui è sabato pomeriggio), e, avendo fatto tutto il viaggio fin quaggiù, mi sono preso la domenica libera prima di tornare… poi ho preso anche il lunedì, perchè martedì ci sono due conference call che farò da qui e che altrimenti avrei mancato. (Prima che maligniate, le due notti di Travelodge le pago io, e anche la macchina che tocca affittare per muoversi in codesta città.)

Dunque, essendo per due giorni in una delle città più famose, eleganti e brutte del pianeta, mi son detto: fosse che c’è qualche evento interessante? C’era: perchè domani sera, a cinquanta chilometri da qui (quindi sempre dentro la città), suonano i Deep Purple; li ho mancati quando sono venuti in Italia in primavera, e non è male l’idea di vederli ancora una volta prima che vadano in pensione.

L’unico problema è stato comprare il biglietto.

Difatti, gli efficientissimi americani fanno tutto via Web: e così, ancora in Italia, vado sul sito di Ticketmaster e faccio tutta la trafila. Il sito di Ticketmaster è una buffa imitazione di una coda vera; in pieno delirio efficientista, ogni singola pagina del processo di vendita ha un tempo che scorre, partendo da uno o due minuti. Se non completi l’inserimento dei dati prima che scada il tempo, la prenotazione viene interrotta e ti tocca ricominciare da capo; questo anche se sono le due di notte e sei l’unico su tutto il pianeta che sta cercando di prendere un biglietto per quell’evento. In più, a seconda del momento, il sito ti dà disponibilità a caso: una volta trovi la quarta fila, tre minuti dopo c’è solo la trentesima, cinque minuti dopo ti dice che sono esauriti e poi ti rioffre la quarta fila.

Riuscito finalmente a digitare i dati abbastanza in fretta, arrivo in fondo e… il sito si pianta: scopro difatti che non è possibile vendere i biglietti a chi non ha una carta di credito con un indirizzo negli Stati Uniti o in Canada. Come ci si può fidare di carte di credito di paesi strani e misteriosi, tipo la Germania o l’Italia? E così, il sito comincia a rimbalzarmi all’infinito, finché mi arrendo.

Il posto dove si terrà il concerto, il Pacific Amphitheatre, non ha una propria biglietteria online; eppure, a forza di cercare, trovo un modulo di contatto per la Fiera di Orange County, che lo ospita. Poco prima di partire, senza troppa convinzione, lascio un messaggio spiegando il problema.

Capirete la mia sorpresa quando ieri mattina, arrivato qui, trovo una gentile mail che non solo risponde alla mia, ma non mi manda a stendere; e vi garantisco che per gli Stati Uniti, dove tutto è una procedura standardizzata, è davvero strano. La signorina Danielle mi invita a rispondere fornendo i miei dati, in modo che possa emettere un biglietto e lasciarmelo allo sportello del Will Call (nei paesi anglosassoni si usa tenere i biglietti in biglietteria, per farli ritirare il giorno dell’evento).

La mail è di giovedì mattina; sono passate ventiquattr’ore; io rispondo subito. Dopodiché, aspetto; e non arriva risposta. A pranzo, ancora niente. La sera, nulla di nulla. Sarà mica che Danielle ha preso il venerdì libero? Nella sua mail c’è un numero di telefono, e allora corro in camera per telefonare.

E qui, scopro che non posso: per qualche motivo, i due telefoni della mia camera d’albergo a cinque stelle non mi permettono di fare chiamate. Pigiato il 9 per uscire, pigiato l’1 per le interurbane, composta qualche cifra del numero, il telefono si mette a fare strani suoni. Paciocco un po’ con i tasti e la cosa peggiora ulteriormente, nel senso che il telefono addirittura si pianta. Arriva l’ora di cena (le 18) e devo andare.

Stamattina, ancora nessuna risposta; mando una gentile mail di sollecito, per sapere se il mio primo messaggio è arrivato; ancora nulla. Nella pausa pranzo, torno in camera e riprovo a telefonare; ancora casini telefonici. Pigio il pulsante della reception, parlo un po’ con l’impiegata, che alla fine resetta qualcosa: posso telefonare. Peccato che non risponda nessuno: Danielle sarà presumibilmente in vacanza, o addirittura ammalata, morta, traslocata su Marte. Vedo immagini di me aggrappato ai cancelli dell’arena che faccio gli occhioni come il gatto con gli stivali di Shrek, mentre tutti dentro si dimenano al ritmo di Highway Star.

Per fortuna, arriva il colpo di genio: scopro nelle pieghe del sito un altro numero di telefono. Chiamo, e risponde Ticketmaster; la vocina automatica mi chiede se voglio biglietti per Stevie Wonder. No, grazie, e allora mi metto in coda per l’operatore, subendomi una voce registrata che per vari minuti mi dice che “we will be with you in a moment”, e nel frattempo mi magnifica le varie cose che posso comprare da loro. Alla fine, risponde una signorina, che, fatidicamente, mi dice che al telefono (ma non dal web) accettano anche le carte di credito straniere. Alleluja: dopo dieci minuti di spelling (provate voi a far capire “Fenoglio” a un messicano che parla in inglese) mi confermano il biglietto. Rinfrancato e vincitore, torno nel meeting e, giusto per scrupolo, mando una terza mail a Danielle, che – se mai resuscita – non mi faccia il biglietto.

Trenta secondi dopo, mi arriva la risposta: “Ah, ok, allora non te lo faccio più!”. Ma porco cacchio! Ma allora sei stata un giorno e mezzo davanti alla mail senza rispondere! allora sei bastarda dentro!

Due ore dopo, arriva un’altra mail da Dave, sempre dello staff della fiera, che si offre di farmi un biglietto, e comunque mi dice che c’è ancora parecchio posto, certamente non faranno l’esaurito, e potrei fare senza problemi il biglietto la sera stessa. Ma non potevate dirmelo subito?

Bon, insomma: vediamo se riuscirò a vedere questo concerto; domani mattina prendo un’auto qui a Santa Monica, mi faccio il mio giretto del circondario – magari vado anche al Getty Museum, che sta in un posto impossibile lungo l’autostrada – poi faccio il check-in all’albergo e mi reco a Costa Mesa: incrociate le dita per me.

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