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domenica 26 Agosto 2007, 09:49

Los Angeles (4)

(Segue dalla terza puntata…)

Comunque, l’esperienza migliore l’ho fatta decidendo di fare qualcosa che i miei contatti locali hanno descritto come “follia”: trasferirmi da Hollywood a Marina del Rey – la sede di ICANN, sul mare vicino a Santa Monica, a una trentina di chilometri dal centro – con i mezzi pubblici, portandomi dietro valigia, computer e tutto il resto.

Si inizia bene, prendendo la linea rossa della metro, che è una vera metropolitana, con treni veloci – anche se radi, uno ogni 10-12 minuti – e tutta in galleria. Arrivati in centro, si passa sulla linea blu, che va meno bene: in pratica, è un tram che collega il centro con Long Beach, quaranta chilometri più a sud. In galleria c’è solo il capolinea; dopodichè, il tram percorre sferragliando le vie alla periferia meridionale del centro, fermandosi bellamente ai semafori. La cosa migliora un po’ quando, dopo un quarto d’ora, si gira su Long Beach Avenue, dove il tram percorre una vecchia ferrovia, sempre a raso, ma con un’ampia sede dedicata a centro strada, e precedenza sulle vie laterali. Poi, dopo un po’ di fermate, improvvisamente la ferrovia si alza, e passa su un altissimo cavalcavia. Proprio lì, nel mezzo dell’aria, si ferma, e quella è la fermata di Slauson Avenue: la mia.

Esco, e immediatamente penso: sono nei guai. Difatti, mentre il tram si allontana sferragliando, io mi guardo attorno e vedo un panorama talmente lunare che non mi sono osato tirar fuori la macchina fotografica per immortalarlo. Intorno, guardando nella piana di South Los Angeles per chilometri, non c’è un albero o un filo d’erba: soltanto terra polverosa, come in mezzo a un deserto. Sotto di me, passa una via trafficata, oltre la quale, parallela ad essa, si stende una vecchia ferrovia arrugginita, a raso, che sembra abbandonata. La traversa più vicina è a un duecento metri – c’è anche la freccia, perchè le fermate degli autobus sono là. Intorno, ci sono antiche fabbriche cadenti, magazzini di vario genere, casupole misere, vecchie auto sfondate e lasciate là a morire. Cammino fino all’incrocio, attraverso, e trovo la fermata del bus 108. E’ un palo, piantato nella sabbia sul ciglio impolverato della strada. Per aspettare, ci si può sedere sui vecchi binari, evitando il riporto dei camion. Nello spiazzo dietro di me, un vecchio messicano spinge un carrello pieno di ferraglia, mentre, davanti a una vecchia roulotte con cartelli soltanto in spagnolo, tre signori chiacchierano seduti sulle sedie da campeggio. Puro Quentin Tarantino, ma ci sono proprio in mezzo.

E sono nei guai anche per un altro motivo: ecco, a me piace fare i miei piani e seguirli. Il bus 108 percorre tutta la Slauson Avenue, una trentina di chilometri da est a ovest fino al mare e ritorno, passando circa una volta ogni quarto d’ora. Tuttavia, solo un autobus su quattro va fino a Marina del Rey, posto fighetto dove l’idea di prendere i mezzi pubblici viene solo a qualche cameriera messicana. Stando al pidieffone dell’orario sul sito, c’era un 108 per Marina del Rey entro un quarto d’ora dal mio arrivo. Però, stando al trip planner, non ce ne sarebbero stati per un paio d’ore.

Potete quindi capire il mio sollievo quando dopo una attesa guardinga, passata a controllare i messicani alle mie spalle, ho visto emergere dal riverbero caldo sull’asfalto lontano uno scassone con il numero 108 e la scritta Marina del Rey. E vai! Salgo e allungo il dollaro e venticinque: come vi dissi, qui i trasporti pubblici sono gestiti da innumerevoli compagnie private, per cui non esiste il concetto di biglietto a tempo: si ripaga ogni volta che si sale su un mezzo.

Il pullman è scassato, ma mi sorprenderà in positivo per due cose. La prima, è una piattaforma automatica per invalidi che si apre su richiesta, e tira su la carrozzina per la porta davanti: un vecchio meticcio in carrozzina riesce a prendere l’autobus completamente da solo. La seconda, è uno schermo LCD che riporta in un angolo la mappina satellitare di Windows Live, con la posizione del pullman, per capire a che punto sei dell’infinita avenue; nel grosso dello schermo scorre pubblicità, è per quello che può esistere.

Il viaggio è affascinante. All’inizio, sono l’unico non messicano; dopo un quarto d’ora, mi accorgo di essere diventato l’unico bianco. La zona è povera, sempre caratterizzata da vecchie fabbriche e magazzini di cianfrusaglie, con la ferrovia ad affiancarle tutte; a un certo punto scopro che non è abbandonata, c’è addirittura un vagone merci rugginoso che deve avere sessant’anni, e che arranca da solo, più lento di noi, attraversando le traverse ad ogni incrocio. Insomma, degrado totale; di notte deve essere certamente parecchio pericolosa. Me ne accorgo perché ho già visto, in Argentina o in Sud Africa, interi quartieri borghesi recintati dal filo spinato, e protetti dalle guardie all’ingresso. Ma non avevo mai visto, come qui, casupole cadenti, poverissime, quasi baracche, però circondate da lamiere e filo spinato. Ho come il sospetto che qui anche due dollari siano una ricchezza, e che ci si ammazzi per niente.

Poi, dopo quasi mezz’ora, finalmente lo scenario cambia: la ferrovia gira e sparisce nei meandri, e cominciano a comparire casette più dignitose, e anche qualche filo d’erba. Poi, di colpo, la strada sale; le case si fanno belline, curate, nuove, con il prato davanti, e agli angoli riappaiono negozi e servizi. Dopo questa collina c’è un parco, e lì vedo un’altra cosa che non mi aspettavo: in un angolo, ben cintate, tre pompe di petrolio, di quelle antiche, a becco, che vanno su e giù, perfettamente in funzione.

Dopo un po’, sono in una zona decisamente borghese: Fox Hills, dove l’autobus gira e si infila per viali alberati affiancati da condomini carini e da gente che fa jogging. Il pullman ormai è vuoto, a parte una enorme signora nera che prende il bus con l’abbonamento per fare un tragitto che, a piedi, sarebbe di cento metri scarsi: signora, un po’ di moto le farebbe bene. A questo punto sale un ragazzo bianco in tuta da ginnastica, con l’iPod: sono definitivamente nella civiltà, ma lui mi fa l’effetto di un alieno. Chiede se l’autobus va veramente a Marina del Rey, che non l’ha mai preso in vita sua. Gli si sarà rotta la macchina.

Dopo un’ora di bus, ci siamo; anticipo la fermata con precisione, tiro la corda che si usa per segnalare, scendo, a venti metri dal portone del palazzone in cui sta ICANN, sulla passeggiata davanti al porto. Dopo il mio meeting, avrò anche un’oretta per passeggiare e vedere questo enorme porto turistico, pieno di barche e yacht, di ristorantini di mare e finti villaggetti di pescatori per i turisti. Un altro pianeta. Ma, per due dollari e cinquanta, il mio giro di due ore sui mezzi pubblici di Los Angeles, con vista sulla vita, è stato il miglior investimento dell’estate.

E mi ha fatto anche un po’ ricredere su questa città, dove non c’è niente da vedere, ma molto da sperimentare. Sono contento di esserci stato.

(Fine!)

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Un commento a “Los Angeles (4)”

  1. .mau.:

    beh, i bus erano scassati anche quando li provai io sette-otto anni fa, ma non avevano il Windows Live.

 
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