Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Lun 22 - 18:23
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione

Archivio per la categoria 'LonelyPlanet'


giovedì 3 Febbraio 2011, 17:02

Ricordando il Cairo

Chi segue questo blog da lungo tempo ricorderà che sono stato due volte al Cairo, nel 2008; la seconda per uno dei ciclici meeting di ICANN, mentre la prima, più avventurosa, come unico italiano del gruppo e poi da solo, invitato dalla signora Mubarak a parlare di Internet e bambini. Ho girato mezzo mondo, ma di nessun altro posto ho portato via con me una così grande sensazione di inconoscibilità; una sensazione contemporanea di attrazione e di respingimento, di grande ricchezza e di totale barbarie, di civiltà raffinata e di caos cattivo.

Nel giro di due giorni ero passato da un modernissimo villaggio tecnologico pieno di palazzi di vetro, aiuole, palme e connessioni in fibra (c’è ancora ma è ora presidiato dai carri armati) a una passeggiata a piedi per il centro città (comprese le parti non turistiche) che resta una delle esperienze più memorabili della mia vita, insieme spaventosa e meravigliosa. La volta dopo, mi ero goduto un tour notturno (traffico compreso), una festa con espatriati e il giro tra Museo Egizio e centro commerciale; e altre cose che non avevo raccontato, per esempio un party davanti alle piramidi in cui ci ammannirono lo “spettacolo di luci e suoni” (dei laser verdi che disegnano forme sulle pietre, accompagnati da un pessimo impianto audio sparato al massimo) e l’applauso maggiore venne quando saltò di botto la corrente e dovettero spegnerlo.

Le contraddizioni di un posto del genere sono un paio di ordini di grandezza superiori alle nostre, e per questo non mi stupisce quel che sta succedendo. Ora pare che sia in corso una controrivoluzione, che bande di soldati in borghese abbiano circondato i manifestanti in piazza Tahrir (tra l’altro “piazza” è un concetto che mal si adatta a quel posto, direi piuttosto “una spianata occupata da numerosi incroci e svincoli autostradali”) e che li stiano massacrando. Detto che le dinamiche internazionali della situazione ancora mi sfuggono, e che mi pare strano che una cosa del genere possa succedere senza un ok degli americani e degli israeliani (di cui Mubarak è un garante), il Cairo mi è sempre sembrato un posto sull’orlo dell’abisso, con una densità di persone di livello cinese ma con tutt’altra capacità di garantire l’ordine. In questi casi, Internet – che già allora tentavano invano di bloccare – non può che trasmettere la scintilla.

Spero che la situazione migliori, per loro e per gli italiani che stanno là e che avevamo conosciuto (ultimo contatto, per mail, ieri pomeriggio). Spero di poter tornare in un paese pacifico e meno inquietante e frustrante di come era prima, perché alcune delle cose che ci sono là – la moschea di Ibn-Tulun, per esempio – sono davvero speciali.

[tags]cairo, egitto, rivolta, mubarak, viaggi[/tags]

divider
domenica 23 Gennaio 2011, 19:56

A velocità normale

Trenitalia insiste: la bassa velocità non è possibile. Se, come me, dovete ritornare da Ferrara a Torino di giovedì pomeriggio, e chiedete al sito di Trenitalia le opzioni disponibili, ottenete soltanto soluzioni via treni alta velocità, e al massimo il passaggio sull’unico e solitario intercity rimasto dall’Adriatico per Torino. Ovviamente i prezzi sono sostanzialmente casuali ma comunque cari; la soluzione più veloce (3h 17′) costa 64 euro e parte alle 16:48, ma se volete partire due ore prima dovrete spendere 79 euro pur mettendoci venti minuti in più, per la teoria demenziale per cui Trenitalia vende spezzoni di treno e non un viaggio completo, per cui l’alta velocità costa carissima anche se poi gli orari vi costringono ad attendere a lungo in stazione il treno successivo. L’intercity ci mette quasi cinque ore e costa 35 euro; e se volete arrivare per le 17 dovete prendere una soluzione AV che costa 55 euro e ci mette praticamente quanto l’intercity.

Supponete però di essere, come me, in viaggio di piacere in una giornata senza impegni, e dunque che preferiate viaggiare più lentamente ma evitare di dover aprire un mutuo per pagare i treni AV. Si può; è solo che Trenitalia cerca di evitare in ogni modo che lo facciate, spingendovi sull’alta velocità. Cliccando su “tutte le soluzioni” cominciate a scoprire qualcosa; per esempio che esiste la possibilità di andare da Ferrara a Torino con tre treni regionali in catena, impiegandoci solo un quarto d’ora in più che con l’intercity, e spendendo 21,30 euro: un terzo o un quarto che con l’alta velocità, e in certi orari l’incremento di durata del viaggio rispetto alla soluzione AV è soltanto di mezz’ora.

I treni regionali hanno altri vantaggi: per esempio, se ne perdi uno ce n’è generalmente un altro un’ora dopo (anche se purtroppo questo non è vero sulla Piacenza-Torino). Puoi anche inserire delle pause: e infatti io ho scelto di partire da Ferrara un’ora prima e avere un’ora di pausa a Bologna, nella quale fare pranzo con calma, una passeggiata e un po’ di foto. Non c’è bisogno di prenotazione, sali e scendi quando vuoi, e anche se alle volte c’è l’assalto, alle volte hai tutta la carrozza per te o quasi. Non ci sono manager coi telefonini, turisti americani coi valigioni, annunci pubblicitari all’altoparlante sulla qualità dello spumante offerto in prima (sì, sui Frecciarotta li fanno). E la velocità ti permette – oltre che di connetterti con il telefonino senza che la connessione cada ogni minuto per via del cambio di cella – di vedere meglio il paesaggio.

Sono dunque arrivato alla stazione di Ferrara all’una e un quarto; ho cercato di fare il biglietto alla macchinetta (una di quelle nuovissimo stile), che però, a differenza del sito, non mi mostrava la soluzione via treni regionali nemmeno selezionando “tutte le soluzioni”, e insisteva a farmi prendere l’alta velocità. Non è un caso: è una nuova “scelta commerciale” di Trenitalia, per cui sui percorsi lunghi le emettitrici self service sono riservate ai percorsi via treno veloce o almeno via intercity. Tanto si sa che le ferrovie non sono un servizio, ma una società a scopo di lucro…

Comunque sono andato alla biglietteria, dove mi hanno fatto il mio biglietto regionale senza fiatare, chiedendomi solo conferma del percorso. Già, perché avessi avuto più voglia e più tempo avrei anche potuto esplorare, prendere qualche linea secondaria come la Ferrara-Suzzara e poi la Suzzara-Parma, anche se ci avrei messo un’ora in più.

Alle 13:32 ho preso a Ferrara il treno RV (“regionale veloce” – sono gli ex interregionali, che per un po’ sono stati rinominati “regionale” come gli altri, e ora hanno di nuovo un nome diverso, anche se la tariffa è la stessa dei locali) che arrivava da Venezia: assalto di studenti ma carrozza poco affollata. Alle 14:06, puntuali, siamo arrivati a Bologna e io ne ho approfittato per mangiare al solito self service di via Indipendenza e dare uno sguardo al devastante cantiere della stazione TAV.

Alle 15:26 si riparte per Piacenza; qui l’unico inconveniente, il treno arriva da Rimini e non solo si ferma a metà stazione, prima ancora del secondo sottopassaggio, ma ha le prime due carrozze sbarrate e fuori servizio. Davanti alle porte della terza carrozza si forma un grumo disumano di almeno cento persone a porta… io corro un po’ più in giù e riesco a salire e sedermi, ma questo treno viaggia effettivamente bello pieno per tutta l’Emilia; forse dovrebbero metterne uno ogni mezz’ora.

Il treno arriva però puntuale alle 17:02 a Piacenza, dove io ho il tempo addirittura di andare in bagno, proprio davanti al mio treno successivo fermo sul binario 1. Alle 17:17 si riparte, e stavolta in tutta la carrozza siamo in due: capisco perché la Piacenza-Torino RV ha pochi treni (6:38, 11:17, 17:17 e 19:17). Esistono comunque soluzioni che Trenitalia non vi dirà mai – ad esempio alle 14:17 parte un RV per Genova, da cui a Voghera si può prendere una coincidenza per Asti e poi un altro regionale locale fino a Torino. Il viaggio è tranquillissimo e posso godermi un magnifico tramonto sull’Oltrepò Pavese. Anche qui, arrivo in perfetto orario.

Sarò anche stato fortunato, ma continuo a pensare come potrebbero essere utili le ferrovie se si prestasse attenzione anche a un servizio capillare a velocità normale, invece di concentrare tutti gli sforzi su un servizio ad alta velocità costosissimo che poi, a meno che tu non ti stia spostando direttamente tra due delle sei città coperte dal servizio, a forza di coincidenze nel nulla ci mette quasi lo stesso tempo di prima.

Spesso è la mancanza di servizio che elimina l’utenza: se io so che ogni due ore posso prendere un treno economico e diretto da Voghera per Torino o da Asti per Piacenza ci faccio un pensiero, mentre se devo stare dietro a orari imprevedibili, prenotazioni obbligatorie e prezzi sempre diversi mi rompo e prendo l’auto. Gli ex interregionali sono stati volutamente ammazzati da Trenitalia per spingere le persone a prendere i treni più costosi, col risultato di spingerli invece sempre più spesso sull’auto.

[tags]treni, trenitalia, ferrovie, orari, viaggio, ferrara, bologna, piacenza, torino, velocità[/tags]

divider
giovedì 20 Gennaio 2011, 18:07

Un giro per Ferrara

L’ultima e unica volta che ero stato a Ferrara risaliva addirittura al 1991; facevo quarta liceo e, come avveniva ogni primavera, ero stato spedito a Cesenatico per partecipare alle finali nazionali delle Olimpiadi di Matematica. All’epoca in Piemonte le si faceva per divertimento, e dunque noi torinesi arrivavamo lì senza grande preparazione e le prendevamo come una vacanza. Nei quattro giorni ce n’era uno libero, e noi ne avevamo approfittato per prendere il treno e andare a visitare al mattino Ravenna e al pomeriggio Ferrara; era una fine aprile che sembrava luglio, e il ricordo del nostro treno fermo all’ora di pranzo nella bassa padana alla stazione di Argenta, mentre intorno tutto era verde giallo e silenzioso e si sentiva solo un flebile tremolo di vento, mi è rimasto dentro fino adesso.

Ho avuto dunque l’opportunità di passare a Ferrara un pomeriggio e una mattinata, troppo poco per fermarcisi ma abbastanza per perdercisi dentro. Ferrara è una città eccellente per la sua uniformità; urbanisticamente, è rimasta praticamente congelata alla fine del Cinquecento, quando perse il ruolo di capitale. Camminare per le vie acciottolate del centro è davvero un piacere, e vi permette davvero di sentirvi come quattro secoli fa; a parte le auto, peraltro discretamente contenute, e l’abbondanza di biciclette, poco è cambiato.

In particolare, ieri pomeriggio – anche per ripararci dal notevole freddo – abbiamo visitato il museo Boldini; e se la sistemazione è davvero triste, in un vecchio palazzo che pare mai più pulito dagli anni ’30, i quadri sono davvero molto belli. E’ impressionante vedere la differenza tra i quadri di Boldini e quelli che dipingevano i suoi maestri anche solo dieci anni prima di lui; la fine dell’Ottocento è un periodo di grande rivoluzione in pittura un po’ ovunque, ma la differenza di vitalità nei risultati è incredibile.

Alla fine ci hanno chiesto di compilare un questionario, e io per un attimo ho pensato di attivare la modalità Sgarbi e di riempirli di insulti per la sistemazione indegna o di sfotterli facendo notare che c’erano più custodi che visitatori, ma mi sono limitato a scrivere che l’illuminazione è terribile: nelle sale c’erano ancora dei vecchi lampadari elettrici a candelabro, vecchi di un secolo, che facevano luce esattamente orizzontale sulle tele, rendendole totalmente coperte dal riflesso se ci si stava davanti.

Beh, poi c’è stato il momento culinario: abbiamo scelto il ristorante Mandolino perché ci era sembrato interessante passandoci davanti e perché era tra i primissimi nelle recensioni su TripAdvisor; siamo addirittura andati prestissimo per la paura di non trovare posto. Ma chi può esserci in giro in un gelido e piovoso mercoledì di gennaio? Nessuno, e in effetti abbiamo avuto il ristorante tutto per noi fin verso le otto e mezza. La signora è stata gentilissima; i fiori di zucca impanati erano buoni, le lasagne molto buone, i cappellacci di zucca ottimi; ma i secondi sono stati eccezionali. Ovviamente io ho preso salama da sugo e puré (cos’altro potresti mangiare a Ferrara?) ed era davvero sublime; anche la faraona al cartoccio era eccellente. Chiusura con torta al cioccolato, mezzo litro di vino in uno e mezzo e 33 euro a testa: ci torneremo.

Stamattina ho visitato la casa Romei, anche questa tutta per me a parte i custodi; ed è stato bello per un’oretta chiedersi come sarebbe stato vivere lì. Stavo già pianificando dove installare il barbecue e la piscinetta dentro il chiostro… E’ un peccato aver dovuto rientrare!

[tags]ferrara, turismo, cucina, viaggi, matematica, boldini, salama da sugo[/tags]

divider
mercoledì 5 Gennaio 2011, 19:47

Ancora sulla montagna

A valle (è il caso di dirlo) del post montano di ieri, su Facebook è iniziata una discussione su cosa sia la montagna, su come venga maltrattata e mal considerata dalla società di oggi. E allora, c’è un’altra cosa che vorrei farvi vedere.

Sono stato a Cervinia una volta sola, due estati fa; e anche lì ero stato sconvolto dall’urbanizzazione degradata, compreso il degrado dei vecchi impianti funiviari del dopoguerra. Tra questi impianti c’era quello del Furggen: una delle funivie più ardite della storia alpina, con un’unica immensa campata di tre chilometri che saliva infine quasi verticalmente fino a una stazioncina di arrivo aggrappata alla roccia (progettata sulla carta da Carlo Mollino, ma realizzata ben più al risparmio). Inaugurato nel 1952, chiuse nel 1993 quando, dopo soli quarant’anni di esercizio (le funivie sono programmate per durarne sessanta), una delle funi una notte rimase incastrata per il ghiaccio e si ruppe all’avvio, fortunatamente senza vittime. Risistemarlo costava troppo e l’impianto fu abbandonato.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che in cima a una montagna, proprio di fronte al Cervino, c’è un edificio di cemento lasciato bellamente lì a morire. La morte dei manufatti umani in alta montagna è dolorosa e cruenta, ma anche meritata; è una giusta vendetta della natura. Questa funivia aveva un’appendice particolarmente invasiva al tempo, e particolarmente horror oggi: dopo i primi anni di esercizio, in cui numerosi sciatori scivolavano nel primo tratto in cresta cadendo in qualche centinaio di metri di strapiombo sul lato svizzero, fu realizzato un orrido tunnel di cemento appoggiato sul fianco della montagna, pieno di gradini in discesa che gli sciatori percorrevano con gli attrezzi in spalla. I mitici esploratori crucchi di Retrofutur ci sono saliti, e hanno realizzato una serie di impressionanti video di ciò che resta del tutto.

Ma non è questa la cosa più impressionante; la cosa più impressionante sta invece in un paio di altre foto. Questa, infatti, è l’uscita del tunnel suddetto, fotografata nell’estate del 2008. Ovviamente l’immagine vi lascerà perplessi: ma come, finisce su uno strapiombo di rocce? Come facevano gli sciatori a lanciarsi giù? Sarà crollata la montagna?

La risposta sta in questa immagine qui sotto: la foto della pista con gli sciatori sopra nel 1993, e la stessa foto nel 2008. Le due righe rosse corrispondono allo stesso profilo; nel cerchietto giallo a destra (a sinistra è subito sopra la pista a metà crinale) l’uscita del tunnel.

furrgenTunnelPisteVergleich_med.jpg

In quindici anni, sono spariti circa quindici metri di ghiacciaio, a causa del riscaldamento globale: e dunque il “piano pista” si è corrispondentemente abbassato. Anche volessero, oggi non potrebbero più rifare quell’impianto così com’era. Ma ho il sospetto che, a fronte di questa ecatombe gelata, la perdita di una pista da sci non sia il problema principale.

[tags]cervinia, furggen, funivie, sci, montagna, ghiacciaio, riscaldamento globale[/tags]

divider
lunedì 4 Ottobre 2010, 16:34

Un giro per la città di Londra

Se al medio turista italiano, portato in avanscoperta a Londra da Ryanair, chiedessero qual è il centro della città, qual è il punto in cui tutto converge e che tutto simboleggia, sono sicuro che direbbe Piccadilly Circus o al massimo Trafalgar Square. La risposta è però sbagliata: il centro di Londra, sin dall’epoca romana, si trova da tutt’altra parte; per la precisione, si trova in questo palazzo per uffici anni ’60, dai marmi verdi, che vedete sulla sinistra nella foto qui sotto.

londonstone-1.jpg

Non vi pare? Bene, andiamo più vicino:

londonstone-2.jpg

Quella che vedete, incastonata in una anonima nicchia in un muro qualsiasi, è la pietra di Londra: la London Stone che la leggenda vuole piantata da Bruto di Troia, mitico fondatore della città; la pietra da cui partivano tutte le strade romane attraverso la Britannia, e da cui si misuravano le distanze. Fino al diciottesimo secolo stava nel mezzo della strada, ma poi disturbava il traffico e la inglobarono nell’adiacente chiesa di San Swithun, che poi fu distrutta dalla guerra e sostituita dal triste palazzo che vedete. Ora la pietra sta lì, nel piscio di un falso tombino, dimenticata dal mondo, al centoundici di Cannon Street.

Londra è una delle città il cui centro è migrato repentinamente negli ultimi secoli; quella che era la periferia ovest (West End) è diventato il centro, quello che era il centro è diventato un grigio quartiere di uffici, e quella che era la periferia est (East End) è diventata una roba che in compenso Quarto Oggiaro è un giardino d’infanzia. Il grigio quartiere di uffici, però, ha una particolarità: rispetta in maniera inquietante le proprie origini romano-medievali. Nemmeno il grande incendio del 1666, l’anno del diavolo, poté ridisegnare la Città di Londra: i re e gli architetti immaginarono grandiosi boulevard su cui ricostruire una città razionale sopra le ceneri di quella antica, ma prima che potessero batter ciglio tutti i proprietari di ogni fazzoletto di terreno edificabile avevano già ricostruito le loro case sulla pianta preesistente, visto che la speculazione immobiliare non aspettava nessuno nemmeno nel diciassettesimo secolo.

Questo è solo l’inizio del nostro percorso; da Cannon Street – uno dei due cardini romani sulla direzione est-ovest – si scende a quello che oggi è l’approccio di un anonimo ponte di cemento che usurpa il nome di London Bridge. Per secoli, leggermente più a valle del ponte attuale, stava il ponte di Londra l’unico vero e inimitabile, prima fatto di barche, poi infine di pietra; coperto di casupole e negozi come il Ponte Vecchio a Firenze, ma anche di comode latrine per cagare direttamente nel Tamigi. Se rinunciate al ponte moderno, potete scendere un attimo verso il Monumento, una colonna di dimensione abnorme sita vicino al forno da cui partì l’incendio che rase al suolo la città quasi completamente; e da lì verso il fiume, ripercorrendo quella che un tempo era la strada che portava al ponte.

Oggi finite invece in Lower Thames Street, una anonima strada trafficata; da lì potete però deviare sulla sponda del fiume e arrivare al mercato del pesce di Billingsgate. Qui, per secoli, hanno attraccato le barche dei pescatori che arrivavano dal mare, e da qui le pesciaie col cestino sulla testa si spargevano a vendere la merce. L’edificio attuale è ottocentesco e adornato con fantastici pesci di ferro battuto e pesci dorati sul tetto.

La passeggiata pedonale sul fiume è fredda e nuvolosa, piena di barche sullo sfondo arzigogolato del Tower Bridge e dell’immenso cantiere dello Shard, l’ennesimo grattacielo firmato Renzo Piano che si staglia contro il cielo bianco e grigio. Questo è davvero uno di quei posti salvati dall’acqua e che l’acqua potrebbe riprendersi in ogni momento; uno di quei posti pieni di fantasmi innamorati che un londinese (acquisito) del secolo scorso avrebbe descritto come “when she’s walking by the river and the railway line / she can still hear him whisper / let’s go down to the waterline”.

Proseguendo lungo il fiume arrivate alla Torre di Londra, il castello dei re; la folla di turisti sul Futile Galles (sì, c’è una via che si chiama così, del resto c’è anche una Futile Francia dopo il parco di Saint James) vi potrebbe impedire di notare la torretta circolare che dà accesso al condotto sotterraneo della London Hydraulic Power Company, 1868 – all’epoca un ritrovato della tecnica, oggi è chiusa e i piccioni beccano le briciole dei panini dei turisti che ci mangiano attorno.

Da qui comincia il Muro di Londra; il tracciato delle mura romane, rimaste in piedi fino a tre secoli fa, e ora visibili nel percorso arcuato delle vie. Gli edifici sono ex grandiosi e comunque relativamente moderni, ma le vie si chiamano Attraverso il Muro (ma va’) e Frati con le Grucce, a ricordare che un tempo a Londra c’erano più chiese che fognature.

Arrivate così alla porta di Aldgate, che non esiste più – ma esiste la strada, guardata giusto dalla chiesa di San Botulfo fuori Aldgate. Di lì si risale ancora per Bevis Marks, e per la sua parallela – Houndsditch, la Fossa dei Segugi, così chiamata perché un tempo era il fossato a protezione esterna delle mura, e però era già mezzo secco e ci buttavano dentro la monnezza e i cadaveri dei cani. Oggi la zona è dominata dal suppostone del grattacielo della Swiss RE, un razzo di vetro in attesa di decollo amichevolmente detto “il cetriolo”; da anni tutti sperano che infine decolli per levarselo dalle scatole.

Qui si supera Bishopsgate, la Porta del Vescovo – pochi metri più in là sta la stazione di Liverpool Street. Tutto questo quartiere è pieno di edifici moderni, al massimo di inizio Novecento, e però si vedono vicoli e vicoletti dalle dimensioni decisamente medievali, magari trasformati in passi carrai o in passaggi sul retro di nuovi bisonti di cemento. La via, poco più in là, si chiama direttamente London Wall; costruita negli anni ’50 sul tracciato delle antiche mura, dopo che esso era stato “liberato” dai bombardamenti.

Girando verso il centro, si punta su Via Filo & Ago (Threadneedle Street) – vediamo se indovinate quale corporazione aveva qui sede in epoca medievale. Tagliando sulla destra, si passa in uno dei pochi angoli della City ancora vagamente ottocenteschi, Throgmorton Street – una via storta e buia dove a un certo punto resiste l’insegna ben più che centenaria di uno dei ristoranti della catena Lyons, i più antichi McDonald’s della storia. Si spunta infine sul retro della sede dell’Impero del Male: la Banca d’Inghilterra, la prima banca centrale della storia. Gli ornati di marmo sanno di tronfia dominazione, di tre secoli di gente strozzata dal credito al guinzaglio.

Si arriva così infine alla Guildhall, il municipio o meglio la Sala delle Corporazioni; Londra è una città di mercanti e sin da poco dopo l’anno Mille è governata non dalle istituzioni inglesi, ma dalla Corporazione della Città di Londra, una struttura felicemente massonica in cui erano rappresentate le varie gilde e che aveva rivendicato con successo una discreta indipendenza dalla Corona, dato che il vero padrone di un Paese non è chi lo governa ma chi presta i soldi a chi lo governa.

Anche la Sala delle Corporazioni fu ricostruita varie volte, anche di recente, ma conserva un finto aspetto medievale, giusto per farti credere che almeno qualcosa si sia salvato dall’incessante ciclo di abbatti-e-ricostruisci-per-vendere-a-prezzo-più-alto che caratterizza da sempre la storia di Londra. Infatti, le rovine del passato non si conservano nelle ere di successo, ma nelle ere di decadenza; e Londra, superato l’incendio, fu per tre secoli la capitale del mondo, senza la voglia di conservar niente perché niente valeva i soldi della futura crescita economica.

Da qui, verso il Tamigi si trovano Via del Latte – altro pezzo di mercato – e Via dello Scolo, nota per il canaletto non proprio profumato che portava giù verso il fiume una parte dei liquami del centro. Verso l’interno invece si trova Love Lane, il Vicolo dell’Amore, che ora è una larga, anonima, corta via che potrebbe indurvi in errore, facendovi pensare di esser stata costruita insieme ai palazzi che la circondano, nel Novecento, e intitolata alla pace degli hippy. Nulla di più sbagliato; semplicemente, nel Medioevo questo era il vicolo dei troioni, comodamente sito dietro il municipio.

Poco più in là c’è Noble Street, che come dice il nome è tutt’altra roba, per quanto fosse anch’essa a comoda e breve distanza da Love Lane; è qui che si può vedere uno dei pochissimi pezzetti di muro romano ancora sopravvissuti. Le mura qui facevano una curva ad angolo retto, inglobando un forte romano di forma quadrata; la zona martoriata dai bombardamenti porta ancora qualche segno dell’antichità, come il giardinetto con annesso pret-a-manger che sostituisce l’antica chiesa di Sant’Olaf. Dietro si trova quel mostro anni ’60 che è il Museo di Londra, e poco più in là c’era l’antica porta di Aldersgate.

Da qui potete infilarvi nella via che si chiama Little Britain, il cui percorso tortuoso rappresenta un altro pezzetto di Londra non dico medievale ma ottocentesca senz’altro, e poi attraversa l’Ospedale di San Bartolomeo, che nel tempo ha invaso tutto il quartiere, e sfocia davanti al mercato vittoriano di Smithfield.

Questo era, da sempre, il mercato generale di Londra; prima del mercato vittoriano c’era una piazza e prima ancora un prato, subito fuori le mura, dove sin dalla notte dei tempi si vendeva il bestiame, tranne nelle due settimane della Fiera di San Bartolomeo, un baccanale post-pagano in cui tutto poteva succedere, dalle impiccagioni all’ubriachezza molesta fino all’esibizione di donne barbute e nani da circo. A metà Ottocento decisero di spostare il bestiame molto più fuori dalla città e di costruire questo mercato di ferro battuto, una meraviglia anche perché sotto ci misero la prima metropolitana del mondo, attualmente la Circle/District/Metropolitan Line, che dopo essere passata sotto Farringdon Street (seguendo il fiume Fleet intubato) svolta tra le case e sotto il mercato si dirige verso l’est.

Siamo ormai fuori dalle mura, e attraversata la valle del Fleet si risale verso Holborn, un tempo borgo fuori dalla cinta muraria. Su un lato sbocca l’anonima Fetter Lane, che era in origine una delle prime strade periferiche dall’altro lato del Fleet, piena di casette seicentesche e poi di casermoni popolari abitati dalla feccia. Il grande incendio del 1666 finì, miracolosamente, proprio all’angolo di Fetter Lane; è dunque qui, all’angolo con Gray’s Inn Road, che sopravvive quello che è praticamente l’unico edificio antico di Londra, una casa di legno di epoca Tudor piuttosto malmessa.

Per trovarla abbiamo dovuto girare tutta la città, camminare per tre ore e allontanarci un po’ dalle antiche mura, perché ancora oggi la City non ha tempo per altro che per mangiarsi viva giorno dopo giorno, lei e i suoi abitanti, nel ciclo incessante dell’iniziativa economica privata, portata avanti dallo stress di milioni di vite impiegatizie private di ogni vero significato. Eppure, Londra è ostinatamente legata ai fantasmi del passato; il suo fascino deriva proprio dal fatto che – a differenza delle città italiane – della sua storia bimillenaria non resta sostanzialmente nulla, e nonostante questo, a parte qualche cambiamento nella foggia dei vestiti e negli strumenti, funziona da sempre allo stesso modo.

[tags]londra, city, storia, romani, medioevo[/tags]

divider
mercoledì 29 Settembre 2010, 11:30

Noi italiani e gli altri italiani

Ieri mattina, sul mio volo Ryanair per Londra, ho incontrato il mio ex capo dei tempi di Vitaminic, Adriano Marconetto, attualmente amministratore delegato di Electro Power Systems. Sul treno da Stansted a Londra abbiamo chiacchierato – oltre che del suo mestiere, ovvero l’energia – dello stato dell’Italia e del mondo; alle volte eravamo d’accordo e altre no, ma abbiamo concluso che l’Italia ha grandi potenzialità che sono però bloccate dalla mentalità furbetta di una parte del Paese, quella che vive a sbafo grazie alla politica, ai suoi sprechi e ai posti di lavoro farlocchi che essa crea per gli amici, drenando soldi a tutti gli altri.

Alla stazione di Liverpool Street ci salutiamo, e io prendo la metro. Salgo sul treno pieno di inglesi, e dopo pochi metri dalla partenza vedo una signora sui quarant’anni, dall’aria molto latina, precipitarsi verso l’unico posto a sedere rimasto libero nel vagone. Nonostante lo scatto, davanti al sedile c’è un altro signore che si siede prima di lei. La signora sbuffa, poi nota in un angolo, sopra un altro posto a sedere occupato da un ragazzo, un adesivo che dice “Priority seat for elderly and disabled people”.

Allora si avvicina con un altro scatto, apre la borsetta, ed estrae un pezzo di cartone arancione con un grosso disegno di una sedia a rotelle. Lo agita davanti al ragazzo e lo invita ad alzarsi per farla sedere; il ragazzo, contrito, subito si alza e la signora si spaparanza sul posto. Mentre mette via nella borsetta il pezzo di cartone, riesco a vederlo meglio; c’è scritto, in italiano, “PERMESSO DI CIRCOLAZIONE”. Non era la tessera dei disabili di qualche istituzione inglese, bensì il permesso emesso da qualche città italiana per la circolazione delle auto dei disabili nelle zone a traffico limitato, anche se la signora era chiaramente in perfetta salute e camminava senza il minimo problema.

Ora, di gente che parcheggia abusivamente per l’Italia con il contrassegno disabili del nonno che non ha nemmeno più la macchina ne ho vista parecchia, ma che adesso questi abusino pure del suddetto contrassegno per sedersi a sbafo sulla metropolitana di Londra è davvero pazzesco. Se non li prendiamo a calci nel sedere noi altri italiani, che li manteniamo e li subiamo, prima o poi il mondo prenderà a calci nel sedere tutta l’Italia, e a buona ragione.

[tags]londra, stansted, ryanair, vitaminic, marconetto, italia, italiani, disabili, sbafo, parassiti, calci nel sedere[/tags]

divider
sabato 18 Settembre 2010, 21:03

Una giornata in Lituania

Oggi era la mia giornata libera per girare un po’ questa città, e ho guardato l’inverno negli occhi: c’è un’aria da neve che, per la città vecchia di Vilnius, mi ha fatto pensare che avrei presto incontrato i mercatini di Natale. La febbre è passata quasi completamente, ma per precauzione mi ero portato comunque dietro una maglietta aggiuntiva; alla prima folata di vento, sulla penisola di Trakai, mi sono rifugiato nell’anticamera di una chiesa e ho improvvisato uno strip per mettermela. Nessuno si è formalizzato; stavano preparando la chiesa per un matrimonio, ma di lì non passava nessuno, dentro c’era soltanto il prete e non era ancora giunto nessuno (anche se ho poi visto l’uscita del corteo quando sono ripassato lì davanti un paio d’ore dopo). E il bello è che la chiesa era in pieno restauro, con tanto di scavi e passaggi nella sabbia per entrare; credo che da noi gli sposi si sarebbero scandalizzati.

Comunque, anche questo è stato un elemento caratteristico: o oggi era la giornata nazionale della cerimonia religiosa, oppure qui c’è un’epidemia di matrimoni e battesimi. Nel centro di Vilnius è impressionante quante chiese ci siano, eppure erano tutte occupate da celebrazioni – in una addirittura c’erano in contemporanea un matrimonio nella chiesa e un battesimo nella cappella adiacente. Ho un po’ l’impressione che, dal punto di vista della laicità, i lituani ce li siamo giocati: dopo cinquant’anni di comunismo, saranno papalini per i prossimi seimila.

Le differenze culturali, comunque, non finiscono qui; per esempio è stato interessante trovarsi fermi ad un lunghissimo semaforo rosso in mezzo a una folla di pedoni in attesa di passare, notare che sulla strada non c’erano auto per chilometri, cominciare dunque ad attraversare col rosso e trovarsi ad essere assolutamente l’unico, mentre tutti gli altri rimanevano fermi con gli occhi sgranati; sono passato senza problemi, ma non ho ben capito se gli sfigati sono loro o siamo noi.

Un’altra differenza culturale sta nell’uso dei supermercati; alle quattro del pomeriggio sono entrato per prendere qualcosa da mangiare, e davanti a me alla cassa c’era una lunga coda di almeno una decina di persone. Tutte, ma proprio tutte, hanno comprato birra, o superalcolici, o superalcolici e birra; non uno che abbia comprato, che so, una coca cola, una bottiglia d’acqua, delle caramelle, dei panini… Anche nei supermercati più grandi è facile capire dov’è il settore degli alcolici, basta seguire la fiumana di gente. Certo l’assortimento è ottimo, in media i superalcolici occupano un terzo del supermercato; dal nostro punto di vista però la situazione è inquietante.

Invece, al mattino ho quasi perso il pullman perché, pur arrivato con consistente anticipo, dalla giornalaia alla fermata – praticamente ogni fermata ha accanto un chiosco di giornali che vende anche i biglietti, penso sia un residuo di pianificazione sovietica – c’era una persona che ha cominciato a fare non so cosa, porgendo dei fogli stampati da internet con dei codici a barre che la giornalaia leggeva, batteva sulla cassa due o tre volte, poi sbarrava a matita e poi non so che altro e infine chiedeva il pagamento mettendoci delle ore a contare i soldi tutta tranquilla; eravamo ormai una decina a friggere in coda, ma questa giornalaia circa sessantenne non sembrava assolutamente interessata all’efficienza, né le è venuto in mente di bloccare l’operazione per dar via un po’ di biglietti o cos’altro; se la mettessero all’edicola di Milano Centrale dopo dieci minuti o le verrebbe un infarto o sarebbe linciata da bauscia inferociti.

In compenso, stamattina ho preso il bus extraurbano per andare a Trakai, e il treno per tornare indietro; e in entrambi i casi il sistema ha funzionato bene (ovviamente ci sono gli orari su Internet, sia del treno che dei bus). Menzione speciale per i due binari recintati che si trovano in mezzo alla stazione di Vilnius; sono i binari dove fermano i treni russi che collegano Kaliningrad alla madrepatria, attraversando da stranieri la Lituania e la Bielorussia. Nel sottopassaggio della stazione infatti c’è un vero e proprio posto di frontiera, con dogana e controllo passaporti, visto che sul treno si è sostanzialmente già in Russia; è anche un confine non da poco, essendo uno dei punti di contatto diretto tra la Russia e l’area Schengen. Chissà se durante l’attraversamento della Lituania le porte dei vagoni vengono sbarrate…

A Trakai l’attrazione è il castello, una delle immagini simbolo della Lituania; Trakai è l’antica capitale (precedente a Vilnius) ed è attualmente un paesino su una stretta penisola chiusa tra due laghi. Su un’isoletta nel lago si trova il castello; dentro mi ha ricordato molto quello di Turku, ma la posizione sul lago lo rende ovviamente più affascinante, anche se il fatto che sia stato quasi interamente ricostruito nella seconda metà del Novecento, dopo secoli di abbandono, lo rende pure un po’ finto. Altrettanto interessanti sono le rovine dell’altro castello, quello sulla penisola – ma tanto sono al lavoro per ricostruire come nuovo pure quello.

La città vecchia di Vilnius, invece, è carina ma niente poi di così speciale; la tipica città mitteleuropea. Tra un matrimonio e l’altro, sono arrivato al viale Gedimino, che parte dalla cattedrale e arriva vicino al mio albergo, davanti al Parlamento (dev’essere per questo che in questa zona ci sono anche vari night club). Il viale era occupato da un lungo mercato di materiale vario, tra cui ogni tanto degli stand di cibo locale; dunque ci sono tornato per cena, e ho mangiato un ottimo spezzatino con melanzane, patate e peperoni. Considerando che non mangiavo un pasto vero da mercoledì a pranzo, mi ha fatto molto piacere.

[tags]lituania, vilnius, trakai[/tags]

divider
giovedì 16 Settembre 2010, 16:48

La storia del genocidio lituano

Questa mattina all’IGF non c’era niente di interessante, dunque mi sono preso la mezza giornata per andare a visitare il Museo del Genocidio di Vilnius. Qui come già in Estonia, per “genocidio” si intende l’occupazione sovietica, estesa a tutto il periodo in cui la Lituania ha fatto parte dell’Unione Sovietica, cioè fino al 1990.

Per farvi capire il contesto, è necessaria qualche breve nota storica: la Lituania è una piccola nazione che ha vissuto il suo unico momento di gloria alla fine del quattordicesimo secolo, periodo in cui dominava la Bielorussia e gran parte dell’Ucraina e in cui Vilnius fu fondata e divenne la capitale; dopodiché è stata schiacciata e devastata dalle guerre tra i suoi ben più grandi vicini (Polonia, Russia, Prussia e Svezia), finendo infine in Russia con cui c’entra poco (i lituani sono cattolici e usano l’alfabeto latino).

All’inizio del ventesimo secolo, Vilnius e gran parte della Lituania facevano parte dell’Impero Russo; nel 1915, con la prima guerra mondiale, la Lituania passò ai vicini tedeschi (come sicuramente ricorderete, fino al 1915 l’attuale exclave russa di Kaliningrad era l’exclave tedesca di Königsberg, dunque la Germania confinava con la Lituania). Nel 1918, con la ritirata dei tedeschi, la città divenne la capitale della neonata Lituania indipendente, ma solo per pochi mesi, dato che nel 1919 fu occupata dai sovietici che li inseguivano. I trattati di pace assegnarono la città alla Lituania, ma all’epoca la maggior parte della popolazione era di etnia polacca (i rimanenti erano quasi tutti ebrei); dunque nel 1920 Vilnius passò ancora di mano, venendo invasa ed annessa dalla Polonia (la Lituania rimase un piccolo stato con capitale Kaunas).

Nel 1939 la Polonia crollò sotto l’invasione nazista; per effetto del patto Molotov-Ribbentrop, la Lituania ricadde sotto la sfera di influenza sovietica. Si trattava tuttavia di uno stato indipendente; dunque i sovietici offrirono di restituire Vilnius alla Lituania, ma in cambio pretesero di poter installare ventimila soldati in Lituania per difendersi da ulteriori avanzate tedesche. Dopo questa prima concessione forzata, nel 1940 i sovietici ne ottennero una seconda tramite un ultimatum, inviando ulteriori truppe e ottenendo un cambio di governo a loro favorevole, che poi convocò elezioni fantoccio in cui il 99,2% votò per l’unico partito ammesso, quello comunista, creando così un Parlamento che “chiese” l’annessione; la Lituania venne così “accettata” nell’Unione Sovietica. Nel 1941 tuttavia i nazisti avanzarono, e il fronte passò attraverso Vilnius, che divenne dunque tedesca fino al 1944, quando ritornarono i sovietici, che rimasero fino alla perestroika e all’indipendenza del 1990.

In sostanza, nel ventesimo secolo Vilnius ha cambiato nazionalità dieci volte, e ora mi è dunque più chiara la struttura misteriosa di questa città, con palazzi ottocenteschi che improvvisamente finiscono dentro un prato e vie che finiscono nel nulla; credo che sia stata bombardata parecchio. Il museo, tuttavia, si concentra soltanto su una cosa: le malefatte dei sovietici. Sui nazisti c’è soltanto un video in un angolino di una stanza e un cartello che segnala lo sterminio di 200.000 ebrei, ma tutto il resto è dedicato al comunismo sovietico (a Tallinn, più onestamente, avevano scritto chiaro nei commenti che “molto meglio i nazisti dei sovietici”).

Si comincia con la parte sui partigiani lituani; fino ai pieni anni ’50 migliaia di lituani si diedero alla macchia, vivendo in bunker nei boschi, per combattere i sovietici, credendo ingenuamente alla promessa fatta da Churchill e Roosevelt all’inizio della seconda guerra mondiale – “nessun Paese perderà l’indipendenza alla fine di questa guerra” – e attendendo un attacco occidentale all’Unione Sovietica che ovviamente non sarebbe mai avvenuto. Si prosegue con le deportazioni; circa 20.000 abitanti di Vilnius – tutta la borghesia e tutti gli oppositori alla sovietizzazione – vennero deportati durante l’occupazione del 1940, mentre altri 120.000 furono deportati tra la fine della guerra e la morte di Stalin.

Le persone politicamente impegnate venivano spedite direttamente ai lavori forzati nei gulag, mentre gli altri venivano “rilocati” in Siberia o in Kazakistan, e utilizzati come manodopera a basso costo; non erano formalmente prigionieri, ma non potevano lasciare il luogo di lavoro né comunicare con amici e parenti in Lituania, ed erano tenuti nella totale povertà. Tra i deportati c’erano anche circa 15.000 bambini, di cui un terzo morì di stenti nei campi. Solo a metà degli anni ’50 fu permesso ai deportati di ritornare in Lituania, dove peraltro non avevano più nulla, e solo dopo il 1989 fu permesso ai parenti di esumare le salme dalle fosse comuni in Siberia e riportarle a casa.

La parte veramente interessante del museo però si trova nel sotterraneo, dove è possibile visitare la prigione politica usata dal KGB durante tutti gli anni del comunismo. Nonostante non ci si aspetti certo una passeggiata di piacere, ci sono alcuni punti veramente impressionanti. Per esempio, ci sono due celle in cui il pavimento è stato scavato in una vasca, al centro della quale è stata messa una piccola piattaforma rotonda di ferro appoggiata su un sostegno centrale instabile; i prigionieri dovevano riuscire a stare in equilibrio sulla piattaforma, muovendo continuamente le gambe, per non cadere nella vasca piena di acqua gelida, e venivano lasciati lì anche per giorni. Vi è poi la stanza delle esecuzioni, con la parete sforacchiata dietro il punto dove venivano messi i condannati.

La stanza più impressionante però è quella delle torture: è una cella buia e vuota, senza finestre, di tre metri per due, in cui tutte le pareti sono state imbottite, compreso il pavimento, che è fatto da uno strato di pelle come di un divano. Lo scopo era quello di poter torturare i prigionieri senza che all’esterno si sentissero i colpi o le grida; ed ha in sé qualcosa di così intrinsecamente malvagio che è impossibile guardarla senza stare male.

[tags]lituania, vilnius, storia, unione sovietica, polonia, germania, guerra, comunismo, occupazione, genocidio, tortura, resistenza[/tags]

divider
martedì 14 Settembre 2010, 16:18

Della democrazia liquida e di altri pensieri

Oggi è il primo giorno dell’Internet Governance Forum 2010, a Vilnius. Io sono arrivato ieri pomeriggio, e ieri ho avuto appena il tempo di andare al cocktail di benvenuto organizzato dalla Internet Society (la sede centrale americana) all’ultimo piano del Crowne Plaza. Vista magnifica, vini e cibi raffinati, e io e altri “vecchi” commentavamo che dieci anni fa ISOC non avrebbe mai avuto i soldi nemmeno per prenotare la sala, e non sappiamo se questo sia poi un bene.

Stamattina, come faccio spesso in questi casi, sono venuto alla conferenza con i mezzi pubblici, e precisamente con il filobus. Mi son studiato online i percorsi e ho trovato quello giusto; ho comprato i biglietti dalla giornalaia senza problemi, sono salito su un mezzo d’anteguerra e… ecco, l’unico problema è stato che io avevo in mano il biglietto da obliterare, ma all’ingresso c’era solo un blocchetto di ferro arrugginito delle dimensioni di un pacchetto di sigarette. Io ho provato a metterci dentro il biglietto in varie posizioni, ma non succedeva niente; non timbrava. L’autista cominciava a essere un po’ scocciato, ma alla fine ho avuto il lampo di genio: l’obliteratrice non era elettrica, ma funzionava ad energia muscolare umana. In pratica, bisogna prendere il lato di dietro e spingerlo con forza contro il biglietto, che peraltro non viene timbrato, ma sforacchiato in sei punti come se trafitto da una scarica di pallini; metodo un po’ brutale ma assolutamente economico, in perfetto stile sovietico.

Superata la lunga coda della registrazione, mi sono infilato nel primo meeting, dove si discuteva dell’uso di Internet per promuovere l’attivismo giovanile – dove per “giovani”, so che sembra incredibile, si intendono le persone da 15 a 24 anni, non i quarantenni. Dopo un po’ ho preso la parola e, a parte raccontare un pochino della nostra esperienza del Movimento 5 Stelle, ho chiesto se negli altri paesi non trovassero difficoltà a mobilitare i “giovani”, e se anche da loro ci fosse il problema di larghe fasce giovanili dedite soltanto a guardare la televisione o a uscire la sera a strafarsi. Mi hanno guardato perplessi, poi da varie parti del mondo un paio di 15-20enni mi han risposto: “No, i giovani hanno molto tempo e la voglia naturale di cambiare il mondo, non conosciamo nessuno dei nostri amici che non sia impegnato in qualcosa.”

Comunque, dopo la riunione ho cominciato a chiacchierare con Eddan Katz di EFF, che mi ha chiesto lumi sul caso Vividown (qualcuno ha una traduzione o commento alla sentenza in inglese?), e con Amelia Andersdotter. Amelia, 23 anni, svedese, diventerà a pieno titolo europarlamentare entro pochi mesi, quando i decreti attuativi del trattato di Lisbona entreranno completamente in vigore e con essi la Svezia riceverà un seggio aggiuntivo a Strasburgo, che andrà al Partito Pirata.

Siamo andati a prenderci un caffé e siamo rimasti lì per oltre due ore a raccontarci di un po’ di tutto, a scambiare opinioni sulla situazione politica europea, sulle conferenze internazionali e sui temi della proprietà intellettuale, che ovviamente sono al centro della loro azione (ma hanno cominciato a capire anche loro che il problema vero è più in là, è nella struttura dell’economia… e lì io ho attaccato con la decrescita). Io le ho passato il puntatore al paper di Van Schewick che prova che le violazioni della neutralità della rete diminuiscono l’innovazione su Internet, e lei mi ha raccontato dell’esperimento di democrazia liquida del Partito Pirata tedesco.

E così mi ha presentato Leon Bayer, 15 anni, il più giovane partecipante alla conferenza, che mi ha spiegato i dettagli del loro modello partecipativo. In pratica, il Partito Pirata tedesco si è messo a scrivere il proprio statuto; come ben sappiamo anche noi, queste sono le situazioni in cui di solito i movimenti politici si avvitano in faide procedurali e finiscono in pezzi. Loro invece hanno scelto il modello chiamato appunto “liquid democracy”; in pratica, grazie a una piattaforma informatica di supporto, qualsiasi simpatizzante può iscriversi al partito e scegliere se votare direttamente sulle questioni in discussione oppure se delegare qualcuno. La delega può essere data per argomento; per esempio, uno può delegare Tizio sulle questioni relative alla sanità, Caio su quelle relative al lavoro, e tenersi per sé la possibilità di voto su altre questioni. La delega inoltre può essere revocata o cambiata in tempo reale in qualsiasi momento.

E’ un sistema interessante, perché rappresenta un giusto mezzo tra la democrazia diretta e quella rappresentativa, permettendo a ogni partecipante di scegliere il livello di coinvolgimento desiderato e allo stesso tempo evitando deleghe incontrollate, dato che anche chi accumula moltissime deleghe può perderle in un attimo se le usa male. A me piacerebbe moltissimo sperimentarlo nel Movimento 5 Stelle; a Berlino ha funzionato benissimo (tra l’altro anche loro, alle politiche di qualche mese fa, hanno preso tra il 3 e il 4 per cento a Berlino) e ha evitato tutte quelle antipatiche discussioni sulle regole interne… e le lotte per scegliere chi fa il capo l’anno prossimo.

Ora sono in mezzo alla cerimonia di apertura, che si è aperta in modo un po’ kitsch quando l’onorevole presidente della Commissione parlamentare lituana sulle comunicazioni ha imbracciato tromba e microfono e ha cantato e suonato What a Wonderful World, su una base di tastiera preregistrata. Era bravo, ma l’ho trovato fuori luogo… Poi ho scoperto che Janis Karklins, ex presidente del comitato governativo di ICANN e mio collega nel Board, è diventato vicedirettore generale dell’UNESCO. Poco fa ha parlato Andrew McLaughlin, la persona che dieci anni fa organizzò le elezioni At Large di ICANN in cui ero uno dei candidati; adesso è vice-CTO della Casa Bianca e parla di democrazia digitale “on behalf of President Obama”. Ve lo vedete il governo italiano fare una scelta così?

[tags]igf, igf 2010, nazioni unite, internet governance, lituania, partito pirata, democrazia digitale, amelia andersdotter, internet society, vilnius[/tags]

divider
mercoledì 1 Settembre 2010, 12:42

Il piacere di viaggiare

Ero tornato dalla Costa Azzurra con tutte le intenzioni di scrivere un bel post; perché bella era la natura che abbiamo incontrato. E non parlo soltanto della costa, che comunque è affollata e cementificata pure lì al punto da farmi rivalutare la Liguria; parlo soprattutto del viaggio, un viaggio per cui abbiamo scelto la modalità antica e insolita della strada comune.

Al giorno d’oggi i viaggi sono soltanto trasferimenti, dal punto A al punto B senza nulla in mezzo; nulla più che, al massimo, qualche vista veloce sfrecciando dal treno o dall’autostrada (peggio ancora se dall’aereo). Una volta non era così, una volta il viaggio era viaggio e comprendeva tutto ciò che stava tra la partenza e l’arrivo; si attraversavano i paesi, si facevano soste qui e là, si assaporava la strada.

E così anche noi abbiamo evitato l’autostrada il più possibile e abbiamo fatto la strada del Colle di Tenda, con tanto di fermata in piazza Galimberti a Cuneo per comprare i cuneesi (nel senso di cioccolatini). Al ritorno, ancora meglio, abbiamo fatto la strada meravigliosa e solitaria che da Mentone arriva a Breglio passando per Castiglione e Sospello; valli nascoste e semiabbandonate che nascondono esperienze meravigliose, dal vecchio ponte della tramvia montana, che descrive una curva mozzafiato nel vuoto, fino allo strettissimo tunnel di Castiglione, che fa sembrare il Tenda un’autostrada; poi il villaggio antico di Sospello nel fondovalle, e infine venti chilometri della solitudine pelata tipica dell’entroterra ligure, per scollinare e scendere a Breglio.

Le gole del Roia non hanno niente da invidiare a quelle cinesi, sfociando poi a Tenda, un paese attaccato alla roccia come un quadro sulla parete. A Limone il paesaggio è subito diverso, di vegetazione alpina invece che marittima; e poi l’attraversamento di Cuneo (ho fatto per la prima volta il nuovo ponte della variante Est-Ovest di Cuneo, con tanto di raccordo sospeso ad altezza vertiginosa sulla Stura); e poi tutti i paesi della Granda, ognuno con le sue peculiarità – Genola con la zona commerciale sul bivio tra mare e montagna, Savigliano che se fosse in Toscana sarebbe piena di turisti giapponesi, Cavallermaggiore che devono allargare i cartelli per farci stare tutto il nome, Racconigi che non si vede più perché hanno fatto dieci chilometri di strada nuova in mezzo ai campi, per spargere ancora un po’ di cemento; il tutto sotto la sagoma incombente del Monviso, che si staglia in un crepuscolo infinito. E poi, già che ci siamo, cena alla Sagra del Peperone di Carmagnola, ma solo perché è sulla strada eh! (comunque consiglio il coniglio con polenta)

E perché allora non raccontare subito tutto questo? Beh, perché il ritorno alla città ha lasciato il suo segno; ieri ho fatto commissioni, risolto questioni, preso in mano la contabilità, fatto riunioni politiche, riempito di nuovo la dispensa, ma nulla di tutto questo eguaglia la bellezza di un’esperienza naturale, persino dall’interno di un’automobile. C’è qualcosa nella vita urbana di profondamente artificiale, ed è possibile che ogni tanto, nonostante i nostri sforzi per rimuoverla e adattarci all’ambiente, venga comunque fuori la sensazione di essere nel posto sbagliato, presi a fare la cosa sbagliata.

[tags]vacanze, viaggi, natura, piemonte, costa azzurra, cuneo, tenda, mentone, sospello, val roja, carmagnola, città[/tags]

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike