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Archivio per la categoria 'NetGov’It'


mercoledì 21 Dicembre 2022, 08:58

Su SPID e carta d’identità elettronica

Sul possibile pensionamento dello SPID ho letto tante cose, da chi pensa che sia solo una boutade per far parlare i giornali a chi è contento perché vuole che tutto sia sempre gestito dallo Stato. Credo dunque, da persona un po’ più addentro alle cose, di dovervi fornire alcuni elementi di riflessione.

Per prima cosa, l’idea di usare al posto di SPID la carta d’identità elettronica (CIE, dotata di chip digitale da leggere con un apposito dispositivo) non è nuova. Non ci siamo solo noi; il maggior sostenitore dell’idea è la Germania, dove SPID non esiste, ma che negli anni ha messo in piedi ripetuti e costosissimi progetti di identità digitale, tutti falliti. La Germania ha una CIE come la nostra: ha poche centinaia di migliaia di utenti e fa in un mese il numero di transazioni che SPID fa in due ore.

Il motivo è semplice: la CIE è molto più complicata da usare di un sistema basato sui cellulari, che non a caso è quello che usano tutte le piattaforme americane. Serve un cellulare moderno con lettore NFC (SPID funziona anche sul Nokia del nonno via SMS…), oppure un lettore da attaccare al computer; e serve un PIN, che la gente o si dimentica o si scrive. Poi, quando la perdi o scade, aspetti per mesi il nuovo documento e nel frattempo che fai? Se poi, come successo in Estonia, si scopre che il chip è fallato e insicuro e che le carte vanno bloccate in massa, di botto tutto il Paese resta senza identità digitale fin che non hai riemesso tutte le carte, mentre SPID si aggiorna al volo via software.

Tuttavia, pochi giorni fa Germania e Francia hanno imposto al Consiglio Europeo una posizione che renderebbe illegali i sistemi come SPID perché “insicuri”, in quanto il cellulare sarebbe craccabile più facilmente di un pezzo di plastica. È una stupidaggine, perché i sistemi di identità non vengono craccati informaticamente, ma corrompendo uno all’anagrafe di Roccacannuccia perché rilasci un documento falso, oppure facendo phishing delle credenziali; e a quel punto, il metodo di autenticazione è irrilevante, anzi, la CIE può essere rubata e usata fisicamente. Del resto, non risulta che SPID sia mai stato craccato per via informatica.

Ma allora, perché il governo italiano va dietro a questo trend e prova a distruggere l’unica esperienza di identità digitale che funziona davvero in tutta Europa, con quasi 35 milioni di utenti? La risposta io non la so, ma temo sia molto banale. Il PNRR prevede l’istituzione di una nuova mega software house di stato, partecipata da INPS, INAIL e ISTAT; due settimane fa, il governo Meloni ha nominato il suo amministratore delegato. Ma una software house deve pur avere qualcosa da fare, e quindi, cosa meglio di una commessa per fare un nuovo sistema di identità nazionale e migrare a esso tutti gli SPID già esistenti? Ci sono tutti i soldi del PNRR da spendere. E se non fossero loro a farla, comunque questa commessa la si può dare a qualche ente pubblico che piaccia, come il Poligrafico che già stampa le carte d’identità, magari con subappalto ad altre aziende che piacciano: rifare qualcosa che già esiste è un gran motivo per spendere soldi dei contribuenti.

In fondo, quello che dà fastidio di SPID è che è un sistema misto pubblico-privato, in cui, orrore, il cittadino può scegliere a chi far gestire la propria identità, magari cercando qualcuno che abbia un’app che funzioni meglio delle altre o che garantisca meglio la privacy. Perché invece non rimettere tutto in mano ai luminari che hanno prodotto siti come quelli dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, fulgidi esempi di usabilità ed efficienza? Sicuramente, con il monopolio informatico pubblico, verrà fuori un sistema migliore.

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sabato 2 Gennaio 2021, 10:54

La maledetta password dello SPID di Poste

Stamattina ho aperto l’app IO per vedere alla fine quanto cashback ho accumulato. Diversamente dal solito, però, l’app mi ha detto che il mio login era scaduto e mi ha chiesto di rifare un login con SPID.

Tuttavia, a differenza di tutti gli altri login SPID, questo non avviene tramite QR code e/o impronta digitale nell’app PosteID; bisogna inserire a mano username e password.

Ovviamente, siccome questo è l’unico login SPID che richiede di inserire esplicitamente la password, io non ricordavo più la password dello SPID.

Normalmente io uso un set di password base e di loro varianti che ricordo a memoria, diverse a seconda del livello di sicurezza, e che generalmente memorizzo nel browser, a sua volta protetto da una password unica. Ovviamente, però, non memorizzo nel browser la password dello SPID (o della banca o di altri servizi cruciali).

Tuttavia, quando si cerca di scegliere una password per lo SPID di Poste, si riceve un set di requisiti assolutamente folle (nell’immagine qui sotto).

In più, PosteID obbliga a cambiare la password regolarmente: una pratica che era ritenuta sicura 10-15 anni fa, ma che è stata generalmente abbandonata perché l’unico risultato è che la gente non si ricorda mai la password del momento e, oltre a intasare tutti i sistemi di recupero e rimanere regolarmente chiusa fuori dal proprio account, finisce per scriversi la password da qualche parte.

I requisiti di PosteID sono talmente complicati che anche se nel proprio set di password ricordate a memoria ce ne fossero alcune che ci entrano, al secondo o terzo cambio forzato non le si può più utilizzare, nemmeno con delle varianti.

Insomma, l’unica cosa possibile con le attuali policy di PosteID è davvero scriversi la password su un pezzo di carta in casa o nel portafoglio, una cosa potenzialmente ben più pericolosa di memorizzare una sola password (non banale) mantenuta nel tempo. Anche perché poi, quando recuperi l’appunto scritto, se sei poco ordinato può succedere che non sia veramente la password attuale, e che tu rimanga chiuso fuori lo stesso.

Comunque, mi pare strano che non sia possibile avere su Android una interfaccia applicativa con cui l’app IO chiede l’autenticazione all’app PosteID, che la chiede all’utente con l’impronta digitale come per tutti gli altri servizi. Spero che il moloch informatico parastatale riesca prima o poi a sistemare pure questo.

(Ah, comunque ho accumulato 48 euro di cashback in 20 transazioni.)

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sabato 12 Maggio 2018, 10:29

Whatsapp: il software chiuso è un incubo

Dopo quattro anni, Elena ha un cellulare nuovo (Xiaomi, comprato da Hong Kong). E quindi, abbiamo dovuto trasferire le chat dal vecchio cellulare.

Con Telegram non c’è il minimo problema; le memorizza in cloud e sono sempre disponibili su tutti i dispositivi. Certo, non a tutti può piacere che le proprie conversazioni siano sul cloud, ma io non discuto segreti di stato (mi chiedo invece quanti parlamentari discutano di segreti di stato su Whatsapp: e la CIA festeggia).

Whatsapp, invece, è stato un delirio. In teoria, almeno attivando l’apposita opzione, anche lui memorizza le chat su Google Drive e le ripristina quando lo installi su un nuovo telefono. Peccato che il ripristino sia possibile solo la prima volta che lo esegui; nel nostro caso, il ripristino per qualche motivo si è piantato e dopo diverse ore era ancora lì, per cui l’abbiamo chiuso… e solo dopo abbiamo scoperto che, così facendo, rinunci per sempre a recuperare i vecchi messaggi.

O meglio, una soluzione c’è: come loro stessi dicono, bisogna disinstallare e reinstallare l’applicazione, in modo che lui ti chieda di nuovo se vuoi ripristinare. E’ un po’ come: se non hai ricevuto il PIN del bancomat quando ti è stato dato, chiudi e riapri il conto in banca. Ma tanto non hai alternative, e quindi lo fai.

Peccato che però, nel frattempo, se hai proceduto all’installazione e attivato il backup su Google sul nuovo telefono, questo automaticamente ha cancellato il backup precedente, sostituendolo con un backup (vuoto) dei messaggi (inesistenti) sul nuovo telefono. Whatsapp, infatti, permette di tenere nel cloud un solo backup da un solo dispositivo per volta.

Beh, ho pensato, sul vecchio telefono però i messaggi ci sono ancora; si potrà rifare il backup da lì. E invece no, perché Whatsapp, a differenza di Telegram e degli altri, ti vieta di farlo funzionare su più di un telefono per volta, per cui la vecchia applicazione si è automaticamente disattivata installando quella nuova.

A questo punto cominciavo a essere piuttosto arrabbiato, e ho provato il metodo da amministratore di sistema: copiare il file in cui sono memorizzati i messaggi dal vecchio cellulare a quello nuovo. Loro ti danno delle istruzioni, che però sono sbagliate; per esempio, sul vecchio telefono i file di Whatsapp non erano nella scheda di memoria, ma in un altro percorso sulla memoria interna.

Recuperato poi il file dei messaggi, si pone il problema di come trasferirlo sul nuovo telefono… e lì mi sono preso il piacere, visto che Whatsapp rifiutava di servirmi, di usare Telegram per spedire il file di Whatsapp sul nuovo telefono come allegato.

Ma anche ricevuto e scaricato il file sul nuovo telefono, non sapevo dove metterlo: il percorso “Whatsapp/Databases” segnalato dalle loro istruzioni non esisteva né sulla scheda di memoria né sulla memoria interna. Alla fine ho deciso di provare a creare io la cartella, ci ho messo dentro il file, ho aperto l’applicazione, sono andato nelle impostazioni dei backup e… mi diceva che il backup c’era, ma non dava alcuna opzione per ripristinarlo.

A quel punto ho nuovamente disintallato e reinstallato Whatsapp per vedere se così lo ripristinava, ma durante l’installazione l’applicazione mi ha detto: hai già installato Whatsapp troppe volte, devi aspettare sette ore prima di poter ricevere un nuovo SMS di verifica. Per fortuna c’era almeno l’alternativa di farsi telefonare da una voce automatizzata, e così ho fatto. A quel punto, finalmente l’applicazione ha visto il backup che io gli avevo messo sotto il naso e l’ha importato correttamente.

Morale: Whatsapp fa schifo, ma tutti lo usano perché tutti lo usano, e Facebook, che lo possiede, se ne approfitta per fare le cose male e per imporre limitazioni che non hanno nessun vero senso tecnico o di sicurezza, ma seguono logiche commerciali. Se soltanto ci fosse un regolatore con le palle sufficienti per imporre l’uso di standard pubblici e aperti, sarebbe possibile per altri realizzare app compatibili con Whatsapp e molto migliori!

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sabato 31 Dicembre 2016, 08:59

La fine dell’anno è una bufala

Una discussione seria e approfondita sulle bufale che sempre più spesso popolano la comunicazione di massa è urgente e importante, ma sfortunatamente non è quella che si è sviluppata in questi giorni tra Grillo e il garante antitrust, che è solo l’ennesima battaglia di propaganda, quindi una bufala anch’essa.

La nostra società del consumo si basa da sempre sul marketing, che è l’arte di dire mezze bugie senza mai arrivare a una bugia intera, anche se poi spesso la bugia intera si dice lo stesso. La “post-verità” nell’informazione ne è solo la naturale evoluzione, e peraltro, già molto tempo fa, da Goebbels a Orwell, in molti ci hanno avuto a che fare.

Comunque, ho passato gli ultimi vent’anni a usare la rete per fare controinformazione rispetto alle manipolazioni dei giornali, per cui non dovete spiegare a me che siamo in fondo alle classifiche della libertà di stampa. Tuttavia, il fenomeno visto sulla rete italiana in questo ultimo paio d’anni è qualcosa di nuovo, incomparabile rispetto alle “linee editoriali” e agli articoli scandalistici della carta stampata (compresa persino la colonnina destra di Repubblica). E’ nuovo per sfacciataggine, è nuovo per sistematicità, è nuovo per diffusione, è nuovo per la completa anonimità dei suoi responsabili.

Io non ho mai visto alcun giornale pubblicare una bufala tipo quella che ho segnalato qualche giorno fa, quella della foto di un ponte crollato a Piacenza anni fa spacciata per un ponte della Salerno-Reggio Calabria crollato subito dopo l’inaugurazione di Renzi. Non si possono paragonare le interviste sdraiate dei telegiornali a una cosa del genere.

E dato che la moneta cattiva scaccia quella buona, se queste pratiche vengono ammesse come legittima forma di comunicazione, allora anche i giornali e la televisione, prima di scomparire del tutto per la naturale evoluzione tecnologica, ci si adegueranno completamente; e vivremo davvero dentro il libro di Orwell.

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venerdì 28 Ottobre 2016, 13:20

Il mio nuovo lavoro

Ho il piacere di annunciare che dal primo novembre inizierò un nuovo lavoro, come responsabile di progetti di ricerca e innovazione aperta in Open-Xchange (o, come tutti la chiamano, OX).

20160920-ox

OX è una media azienda tedesca in forte crescita, con uffici e sussidiarie in giro per l’Europa, che produce alcuni dei software liberi vitali per il funzionamento di Internet, tra cui il server di posta Dovecot (usato sul 70% dei server del pianeta) e il server DNS PowerDNS, nonché una piattaforma di webmail e collaborazione usata da molti grandi provider. L’azienda si basa sulla filosofia open source (il management arriva dall’esperienza originaria di SUSE Linux) e intende promuovere diverse iniziative tecniche per difendere la sicurezza, la neutralità e la libertà di Internet tramite nuovi servizi basati su standard aperti. Per esempio, il primo tema di cui mi occuperò è la sicurezza nel trasporto delle email, che oggi viaggiano spesso in chiaro su e giù per la rete e sono facilmente intercettabili e regolarmente intercettate.

Per me, questa è una grande opportunità di incidere sul futuro di Internet tramite una attività creativa che mette insieme tutte le mie competenze ed esperienze, da quella ingegneristica a quella di comunicazione, da quella di “startupper” a quella di esperto di policy. E’ un lavoro con i piedi a Torino, dove resterò basato, ma con testa in Germania e corpo e anima in giro per il mondo, ragionando di problemi globali in un ambiente internazionale.

Nelle prossime settimane cercherò di raccontarvi di più dell’intera esperienza, ma per ora posso solo dire che meglio di così non potevo trovare e che non vedo l’ora di cominciare!

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venerdì 19 Febbraio 2016, 13:33

Viva lo sharing, ma senza economy

Forse non tutti sanno che quasi vent’anni fa, da studente del Politecnico, insieme ad altri appassionati di tutta Italia, misi in piedi il primo sito Web che conservava e distribuiva in forma digitale le sigle italiane dei cartoni animati degli anni ’70 e ’80: il progetto Prometeo. Il formato MP3 era appena stato inventato e sconosciuto ai più; alla rete si accedeva tramite modem e telefonate notturne; l’ondata di nostalgia per quegli anni era ancora di là da venire. Appassionati di tutta Italia, però, tirarono fuori dal cassetto quei 45 giri ormai introvabili, li digitalizzarono con le loro SoundBlaster e, a spese proprie, senza guadagnarci niente e per il semplice piacere di condividere il loro tesoro con gli altri, li caricarono sul sito.

Dopo poco tempo arrivarono gli avvocati: ebbi un lungo scambio di mail con un allora sconosciuto Enzo Mazza, che cercò con le buone e con le cattive di farmi sbaraccare tutto, al che io dissi che l’avrei sbaraccato davvero facendo il maggior casino possibile sui media, e la negoziazione si concluse con l’eliminazione delle sole canzoni di Cristina D’Avena, le uniche che avessero ancora un qualche interesse commerciale in quanto ampiamente sfruttate da Mediaset.

Un paio di anni dopo furono inventati Napster e il peer-to-peer, e la questione della condivisione dei contenuti divenne globale; nel frattempo i siti del progetto Prometeo divennero obsoleti e vennero chiusi. Tuttavia, la nostra iniziativa riaccese l’interesse del pubblico per quelle canzoni, e credo che se l’altra settimana Cristina D’Avena è andata a cantare a Sanremo – ossia, se quei pezzi che stavano per scomparire hanno riacquistato un grande valore anche economico – è anche grazie a quell’antico sforzo di condivisione.

Non voglio qui riaprire l’annosa questione sulla legittimità del condividere in rete contenuti culturali di cui non si possiede il copyright; lasciamola per un’altra volta. Voglio però sottolineare che, nei primi anni dell’Internet di massa, la condivisione è sempre stata concepita come una iniziativa dal basso fatta per il bene di tutti, in cui ogni utente attivo della rete sopporta una propria fetta di costi per creare un servizio di enorme valore liberamente disponibile a tutti. E con lo stesso spirito sono presto nati altri servizi pienamente legittimi, prima puramente online (Wikipedia, per esempio), e poi anche nel mondo reale (Couchsurfing, Blablacar), in cui ognuno condivideva gratuitamente qualcosa che possedeva già.

Certo, è subito emerso un problema di fondo: gli utenti possono anche donare il proprio pezzetto gratuitamente, ma chi paga i costi, potenzialmente enormi, della piattaforma di condivisione? Inizialmente le piattaforme si basavano anch’esse su donazioni volontarie e condivise di risorse tecniche e di tempo, ma il modello, Wikipedia a parte, faticava a reggere.

Questo è stato il momento in cui l’economia “classica”, quella dell’uomo utilitaristico che si muove solo per il profitto, quella che i pionieri della condivisione volevano sfidare e che per qualche anno sembrava poter essere clamorosamente buttata fuori dalla porta, è rientrata in gioco. Inizialmente lo ha fatto dalla finestra; servizi come Youtube, gestiti da società a scopo di lucro ma con ampie disponibilità ad attendere il lungo periodo, hanno iniziato a ripagarsi i costi con la pubblicità, come hanno poi fatto le aziende dello step successivo, cioè i social network; la condivisione per gli utenti resta gratuita, ma l’azienda incassa con uno sfruttamento economico non troppo invasivo dei contenuti degli utenti.

Dopo un po’, anzi, giustamente si è detto: ma se la piattaforma oltre a ripagarsi i costi comincia a guadagnarci, non sarebbe giusto che una parte di questi guadagni tornasse agli utenti che caricano i contenuti? Giusto, sì; ma così l’aspetto economico ha preso altro spazio, e sono nati i professionisti del video scemo e della stupidaggine virale, e poi i titoli acchiappaclick e le bufale acchiappagonzi. A quel punto anche la commercializzazione delle piattaforme si è fatta più invasiva, dato che sempre più utenti non condividevano per piacere o per altruismo, ma per profitto e per vantaggio personale: e quindi, liberi tutti di mandare in soffitta lo spirito di beneficenza.

E’ da lì che si arriva a quest’ultima epoca, quella della “sharing economy”: Uber, AirBnB e compagnia bella. Essa abbatte definitivamente il tabù che scricchiolava da un pezzo ma che ufficialmente non si poteva toccare, quello di condividere qualcosa non per altruismo o per divertimento, ma per il desiderio, o peggio la necessità, di guadagnare dei soldi. Che sia un tabù è evidente proprio dai pietosi tentativi iniziali dell’ufficio stampa di Uber di sostenere che i loro autisti non lo fanno per i soldi, ma per il piacere di caricare uno sconosciuto e portarlo da un punto A a un punto B, punti in cui loro altrimenti non sarebbero mai andati. Ma ormai hanno smesso anche loro: la prima cosa che sta scritta oggi sul loro sito è “GUADAGNA SOLDI GUIDANDO LA TUA AUTO”.

Nella “sharing economy”, le piattaforme non servono a trovare altre persone con cui condividere una passione o un’amicizia, ma a trovare i clienti per un’attività a scopo di lucro che vuoi fare con la tua auto, la tua cucina o la tua camera da letto, probabilmente perché ti hanno già tanto precarizzato – magari grazie a un’altra forma di “sharing economy” globale e delocalizzata che ha preso piede nella tua professione – che oltre a lavorare otto ore di giorno devi anche passare l’ex tempo libero a venderti un po’ della tua auto, della tua cucina o della tua camera da letto per far quadrare i conti a fine mese.

Intendiamoci, non c’è niente di male nel creare nuovi modelli di business con cui fare utili, trovando i clienti a chi ha un prodotto o un servizio da vendere e agendo da garanti della transazione, in cambio di una percentuale. Dai sensali e dai magnaccia fino ai commerciali e ai pubblicitari, è il secondo mestiere più antico del mondo. Certo, se poi il servizio viene venduto in nero e in barba a tutte le normative sulla sicurezza, sull’igiene, sui diritti del lavoro, magari sostenendo pure che non rispettarle è una grande innovazione perché fa scendere i prezzi, la cosa assomiglia un po’ tanto alla versione digitale del caporalato o delle fabbriche cinesi (non mi dilungo, vi rimando al post dell’anno scorso). Ma è ben possibile, e anche giusto, mettere a posto tutti questi aspetti e permettere a queste aziende di offrire il proprio servizio sul mercato, alle stesse condizioni di chi già esercità attività simili, e magari facendo attenzione a non creare nuovi monopoli di fatto, nuove ondate di disoccupati e precari, nuova povertà.

Solo, non spacciate questa per innovazione, e soprattutto non spacciatela per condivisione.

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giovedì 19 Novembre 2015, 15:33

Se Facebook è pieno di falsi

Normalmente ignoro queste cose (a parte farmi una risata, visto quanto sono ben scritte), ma siccome per ognuna di esse vedo decine di persone che credono convinte che siano vere e le ricondividono a ripetizione, volevo darvi due dritte su come verificare che questo è un falso (prendo questo perché mi è capitato oggi, ma è irrilevante chi sia il personaggio preso di mira).

Allora:

1) Sulla pagina di Salvini il post non esiste; ce n’è un altro in cui attacca Dario Fo, ma con parole diverse e senza strafalcioni. Ok, ma direte voi, magari l’ha modificato dopo che è stato fotografato;

2) Tuttavia, accanto al post sulla pagina di Salvini non compare la scritta “Modificato”. Ok, ma potrebbe averlo eliminato e poi riscritto (come tra l’altro sostiene un anti-leghista nei commenti allo stesso, raccogliendo molti like);

3) Allora esaminiamo meglio lo screenshot riportato; si tratterebbe di un post fotografato dopo soli 5 minuti, ma che in questi pochi minuti avrebbe già raccolto 5700 like, 3598 commenti e 2512 condivisioni; per quanto sia inquietantemente grande il numero di follower della pagina di Salvini, è un po’ improbabile che possa attivarsi un seguito del genere in cinque minuti per un post come tanti altri, per cui quasi certamente lo screenshot è falso;

4) Ma se avete ancora dei dubbi, basta seguire la sequenza dei commenti, secondo i quali il primo commento avrebbe raccolto 394 like in soli tre minuti, e la risposta di Salvini sarebbe avvenuta un solo minuto dopo, raccogliendo 520 like in soli due minuti; anche questi numeri sono un po’ insostenibili;

5) Ma se avete ancora dei dubbi, basta accorgersi che l’ultima risposta del misterioso commentatore (tra l’altro senza nemmeno una foto del profilo) sarebbe avvenuta “3 minuti fa” a un commento di Salvini di “2 minuti fa”, ovvero sarebbe avvenuta un minuto prima del commento a cui starebbe rispondendo: questo è oggettivamente impossibile.

Morale? La rete è piena di tifoserie, ma è anche piena di manipolatori, di tutti gli orientamenti politici, che si divertono in maniera interessata a dare alle tifoserie una pappa pronta con cui sostenere il proprio tifo… solo che in genere è falsa.

E questo è un vero problema, anche perché il risultato a lungo termine è di minare completamente la credibilità della rete, ovvero dell’unico mezzo di informazione che non è così direttamente controllabile dai poteri che orientano i media tradizionali; e questo, secondo me, è il vero obiettivo di questi falsi.

Ogni volta che ne condividete uno, ogni volta che propagate una bufala, date una mano a chi vorrebbe ritornare al vecchio mondo, quello in cui bastava controllare i direttori dei giornali per decidere cosa è vero e cosa no. Capita a tutti (pure a me) di cascarci, ma prima di condividere qualcosa, per favore, invece di farvi trascinare dall’antipatia verso un avversario politico, cercate di valutare se è almeno verosimile.

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venerdì 11 Settembre 2015, 08:44

Se La Stampa ti spamma

Anni fa mi sono registrato sul sito de La Stampa, per poter commentare online le lettere di Specchio dei Tempi.

Da un paio di giorni però ricevo ogni mattina, senza averla mai chiesta, una newsletter del direttore Calabresi con i suoi pensierini sulle sue scelte per l’uscita del giorno, tipo stamattina (in grassetto): “È così bello quando in prima pagina si può mettere la Storia” (con la S maiuscola, mi raccomando).

A un certo punto c’è comunque scritto: “Abbiamo deciso di mandarti questa newsletter per fartela conoscere. Ti verrà inviata automaticamente fino a giovedì 17 settembre. Se vuoi continuare a riceverla gratis devi attivare il servizio.” Che è un po’ come prendere un ateo e mandargli gratis tutte le mattine una copia delle riviste dei Testimoni di Geova, con allegati i due tizi che suonano il campanello alle otto del mattino, così per fargli provare il servizio. Sicuramente a qualcuno nel mucchio piacerà, ma sarebbe gentile chiedere prima se uno gradisce; anzi no, sarebbe un obbligo di legge; anzi nemmeno, sarebbe un obbligo di legge non mandare niente a nessuno, nemmeno una gentile richiesta, se non è stato lui per primo a chiedertelo sul sito.

In fondo, in piccolo, c’è un link di disiscrizione e ho provato ad usarlo. Bene, si viene rimandati a una pagina in cui inserire il proprio username e password; io li metto (giusti, ho controllato con il recupero password) e… non succede niente; la pagina torna alla form in questione. Non so se comunque la disiscrizione funzioni, ve lo saprò dire domani mattina.

Certo che è disarmante vedere come nel 2015 i quotidiani italiani non abbiano ancora capito granché di come ci si relaziona con i lettori nel mondo digitale, anzi si trasformino tranquillamente in pessimi spammer.

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lunedì 24 Settembre 2012, 14:38

Il software libero mi fa arrabbiare

Come molti di voi sanno, da molto prima di interessarmi alla politica sono un attivista per le libertà digitali; dalle conferenze delle Nazioni Unite fino agli hackmeeting nei centri sociali, sin dagli anni ’90 ho discusso di software libero, diritto d’autore, censura in rete, net neutrality e via via tutti i temi che si sono negli anni sviluppati.

Sono insomma temi che conosco bene e che ho piuttosto a cuore, e per questo sono stato contento quando la maggioranza che sostiene Fassino ha presentato due mozioni che intendevano portarli avanti, una per diffondere il software libero e una per promuovere l’accessibilità dei dati comunali tramite formati e licenze aperte.

L’altro giorno le mozioni sono arrivate in aula e ho preso la parola per annunciare il nostro sostegno, ma anche per far notare che di parole se ne sono già fatte troppe, e che l’attenzione della maggioranza per questi temi rischia facilmente di rivelarsi ipocrita; una bella dichiarazione di principi che non costa nulla e che da dieci anni viene periodicamente ripetuta (qui la mozione praticamente identica del 2003) ad uso puramente elettorale, continuando poi ad amministrare esattamente nel senso contrario.

Man mano che parlavo mi sono venuti in mente i tanti esempi che ho visto anche solo in questo anno da consigliere, e mi sono arrabbiato. Sentirete nel video com’è la realtà dell’informatica comunale torinese; io spero solo che stavolta l’esito di questi atti sia diverso dal passato, e che non si rivelino un’altra volta una presa in giro.

[tags]software libero, free software, diritti digitali, internet, internet governance, open data,  torino, fassino, comune[/tags]

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venerdì 11 Novembre 2011, 19:57

Internet scrive a Mario Monti

In via del tutto eccezionale, ieri e oggi ho abbandonato la mia abitudine di dormire in Municipio e, grazie a Chiara che mi sostituisce, sono venuto a Trento all’annuale Internet Governance Forum Italia, di cui sono stato tra i fondatori e che è un po’ il ritrovo di tutti gli esperti Internet italiani a cui sta a cuore la libertà della rete.

Purtroppo i discorsi sono da anni sempre gli stessi: a fronte del modo in cui la politica italiana ignora Internet se non quando c’è da censurarla, c’è chi vuol promuovere una agenda digitale verso i politici, chi dice che bisogna fondare il partito di Internet, chi vuole “candidare un uomo della rete alle primarie del PD”… Io da anni ho detto che l’unica agenda digitale che serve al Paese è utilizzare la rete per cacciare l’attuale classe politica, e da lì ho quasi smesso di andare a queste conferenze e ho cominciato a lavorare nel Movimento 5 Stelle.

Comunque, il ritardo della diffusione di Internet nel Paese non è più tollerabile e così i più noti partecipanti alla conferenza, a partire da Stefano Rodotà e Fiorello Cortiana, hanno realizzato una lettera da inviare per canali diretti al nostro nuovo lider maximo, Mario Monti. La lettera è condivisibile, e chissà che tra le varie cose Monti non riesca a far saltar fuori i soldi per il famoso piano per la diffusione della banda larga, che peraltro anche il Movimento chiede da anni.

Crisi: per la crescita il nuovo governo deve affrontare lo “spread digitaleâ€

Gentile Professore,

Non abbiamo bisogno di ricordarle l’importanza di Internet, spazio di libertà globale, strumento di organizzazione politica e sociale, sostegno indispensabile dell’economia. Lo “spread digitale†dell’Italia nei confronti dei principali paesi del mondo ha ormai raggiunto livelli insostenibili anche per la tenuta economica nazionale. Ancora più preoccupante, anche in queste ore di straordinaria apprensione per la situazione finanziaria del Paese, è il persistere di una condizione di inconsapevolezza politica e di inazione governativa nell’affrontare tale ritardo che pregiudica gravemente le nostre possibilità di crescita e di sviluppo. In particolare, l’incapacità di affrontare i problemi legati alla diffusione della banda larga è indegna di un paese che voglia restare in Europa.

Non si può aspettare il superamento della crisi economica per investire nel digitale, perché, come sancito dalla Commissione Europea nella Strategia 2020, lo sviluppo dell’economia digitale è una delle condizioni imprescindibili per il superamento stesso della crisi.

Nonostante i ritardi, l’economia digitale rappresenta già il 2% del PIL dell’economia nazionale e, negli ultimi 15 anni, ha creato oltre 700.000 posti di lavoro. Internet non può essere più ignorata. Il Paese non può continuare a rimanere politicamente emarginato rispetto a questi temi. Sono state abbandonate le iniziative che, grazie anche a documenti sottoscritti con altri stati, avevano fatto del nostro Paese un indiscusso protagonista dell’iniziativa per un Internet Bill of Rights nel quadro degli Internet Governance Forum promossi dalle Nazioni Unite. A fronte di questo ruolo, negli ultimi anni l’Italia è stata mortificata dall’inazione e da ripetuti tentativi di limitare la libertà in rete e lo sviluppo dell’economia digitale.

L’Internet Governance Forum Italia 2011 si rivolge a Lei affinché un nuovo governo si impegni concretamente, anche attraverso la nomina di un ministro se necessario, per la piena implementazione di un’agenda digitale in conformità con quanto stabilito dall’Europa. Richiamiamo in particolare l’attenzione sull’accesso ad Internet come diritto fondamentale della persona, come già riconosciuto da costituzioni, leggi nazionali e risoluzioni del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa; sul riconoscimento in via di principio della conoscenza come bene comune globale; sulla garanzia della neutralità della rete in relazione ai flussi di dati; sulla definizione di uno statuto del lavoro in rete.


[tags]internet governance, banda larga, igf italia, monti, rodotà

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