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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


mercoledì 24 Marzo 2010, 10:19

Lavoro, giustizia, merito

Lunedì pomeriggio ho fatto una gita, lontano dal computer e dai faccioni dei candidati sui muri, e sono andato davanti ai cancelli di una fabbrica, la ZF Sachs di Villar Perosa, a farmi raccontare la loro storia (se poi sbaglio qualcosa mi perdoneranno, possono precisare nei commenti).

In questo periodo di crisi, la Sachs ancora se la cava: produce ammortizzatori e se quelli per auto (originariamente era una fabbrica Fiat) non tirano più, quelli per le moto vanno ancora bene. “Ancora se la cava” di questi tempi vuol dire magari mettere persone in mobilità o in cassa integrazione, ma almeno la fabbrica non chiude. Peccato che abbia da poco chiuso l’altra fabbrica che stava nello stesso capannone, la Stabilus, azienda dello stesso gruppo tedesco che ha lavorato qui per quindici anni e che non era affatto in crisi, ma che al primo stormir di fronde i tedeschi si son riportati in casa: dato che loro non son fessi, preferiscono licenziare comunque gli italiani e riportarsi il lavoro in Germania, a differenza degli imprenditori italiani, che preferiscono licenziare comunque gli italiani e portare il lavoro in Romania, salvo poi scoprire che non esiste più un mercato interno per i loro prodotti perché nessuno qui ha più una lira da spendere.

Chiusa la Stabilus, a catena rischia anche la Sachs: perché i costi per tenere attivo un capannone sono grandi e se chi ne occupa metà sparisce, i costi per l’altro raddoppiano. Così tutti – perché una fabbrica così è un patrimonio per tutta la valle, non solo per gli operai – si sono dati da fare per trovare qualche modo per migliorare la situazione, e invece di avere come unica idea quella di farsi dare fondi a babbo morto, hanno detto alla Regione Piemonte: aiutaci con dei fondi per ricoprire il tetto del capannone di pannelli fotovoltaici, così la fabbrica produrrà energia, taglierà i costi energetici e incasserà anche qualche lira vendendo l’eccesso.

E la Regione, naturalmente, non ha risposto; perché erano già tutti in fregola pre-elettorale. Cota o Bresso, Bresso o Cota, finché non finisce il derby dei faccioni non si muove foglia, e chissà per quanto tempo ancora dopo. Dopo, chissà se ci sarà ancora la fabbrica.

Racconto questa storia non solo perché è un dovere, perché di storie così ce ne sono tante ma arrivano al massimo fino all’Eco del Chisone, mentre i “grandi giornali” come La Stampa sono impegnati a raccontarci che un candidato alle regionali, sconosciuto ma con agganci al giornale, ha mandato una lettera a Obama (questa sì che è una grande idea per risolvere i problemi del Piemonte).

La racconto perché spesso ci dicono che siamo velleitari, che vogliamo creare lavoro ed eliminare la precarietà ma che non abbiamo la minima idea di come farlo. E invece vedete che chi lavora arriva da solo a capire la portata della rivoluzione energetica. Se fossimo un po’ più furbi ci saremmo messi da tempo ad aprire aziende su queste tecnologie; prima di quanto pensate, i nostri tetti dovranno coprirsi tutti di pannelli, le nostre case dovranno dotarsi di pompe di calore, i nostri impianti idraulici andranno riprogettati per non sprecare acqua e così via.

E vedete che, se in Italia ci fosse una amministrazione pubblica che funzionasse decentemente, la crisi non sparirebbe, ma la si potrebbe affrontare meglio; si potrebbero usare i pochi soldi che ci sono per aiutare le persone o per riconvertire le fabbriche a produzioni più vendibili, invece che sprecarli in grandi opere non particolarmente utili (quando non sono sprechi puri e semplici) e nei costi allucinanti della corruzione, delle clientele e della politica in genere.

Sarebbe comunque velleitario pensare di poter risolvere la crisi semplicemente cambiando la classe dirigente, perché la crisi è sia locale che globale; tolta quella locale, rimane comunque la crisi mondiale del modello di sviluppo adottato fino ad oggi. Tuttavia, un cambio di classe dirigente e di politiche del lavoro può permettere di affrontare la crisi con più giustizia, con regole eque e solidali per tutti.

Lo stesso concetto di precarietà, per esempio, può comunque essere affrontato rivedendo le regole. La globalizzazione da una parte (in sé fenomeno positivo, di incrocio, conoscenza e pacificazione mondiale) e l’immigrazione dall’altra sono stati usati per distruggere quel po’ di benessere, di diritti e di giustizia sociale che era stato faticosamente costruito in cent’anni di lotte operaie, a favore dell’arricchimento sfrenato di pochi.

Non esiste nessuna ragione per cui dobbiamo accettare passivamente che i nostri “imprenditori” trasferiscano le produzioni in Cina per sfruttare la manodopera schiavizzata e senza diritti che possono trovare là, oppure che licenzino le persone regolarmente assunte per “esternalizzare” il lavoro a immigrati e giovani senza diritti. Il problema non sono tanto i dazi, non sono “gli immigrati che rubano il lavoro” (come ripete la Lega, che poi da vent’anni mantiene gli immigrati nell’illegalità perché possano essere sfruttati meglio, e se a forza di illegalità finiscono a delinquere tanto meglio, così si rafforza la paura), ma è la possibilità di aggirare le regole sulla salute dei lavoratori, sulla sicurezza dei prodotti, sul trattamento fiscale e assistenziale, mediante l’uso delle sacche di illegalità e di precarietà che vengono accuratamente mantenute in Italia, o portando il lavoro là dove i diritti non esistono.

Non esiste nessuna ragione per cui il mondo del lavoro italiano debba essere diviso tra finte partite IVA, di quelle che ogni mese fatturano la stessa cifra alla stessa azienda, e contratti a progetto – persone che per quanto lavorino non hanno mai welfare, cassa integrazione, assistenza, garanzie sul futuro – e poi un insieme di lavoratori intoccabili che possono anche rubare o non presentarsi a lavoro e, di fatto, quasi sempre restano al loro posto. Invece di avere una giungla di contratti diversi, in cui ognuno difende i propri piccoli privilegi mentre l’intero sistema economico affonda, basterebbe un contratto di lavoro uguale per tutti o quasi, in cui a tutti è garantita una tutela in caso di perdita del lavoro secondo il “sistema danese”: un vero e proprio sussidio di disoccupazione pari allo stipendio per i primi mesi, che poi decresce progressivamente incentivando la persona a trovare un nuovo lavoro.

Con un uso intelligente dell’informatica non è difficile scovare i dipendenti travestiti da professionisti e l’evasione fiscale; basta volerlo fare. I soldi in Italia ancora ci sono, le strade sono piene di SUV da 50.000 euro, i ristoranti sono pieni, i negozi eleganti pure. Ma se nel mondo civile la ricchezza è un indicatore di capacità, e chi si arricchisce viene ammirato perché vuol dire che ha lavorato molto e bene, da noi troppo spesso la ricchezza è un indicatore di furbizia, e manda il messaggio che per avere successo bisogna fregarsene degli altri e violare le regole. Questo è un messaggio devastante che va cambiato, va sostituito con la meritocrazia, con il premio alla preparazione, alla capacità, all’onestà.

E infine – ma non diciamolo troppo forte – bisognerà prima o poi affrontare il problema delle piramidi che esistono tuttora nella nostra società. Il loro simbolo sono le banche, accumuli di denaro prelevato dalle tasche di tutti e gestito per garantire potere e controllo. Ma la ricchezza collettiva dovrebbe essere al servizio della collettività, investita in ciò che serve a tutti, utilizzata anche per la solidarietà, anziché per lo strozzinaggio al primo segno di difficoltà economica di una persona o di una azienda. Il problema della proprietà del denaro, del controllo delle banche centrali, del futuro dell’Europa affidato a un Parlamento di trombati e di burocrati in modo che il vero potere sia in mano alle lobby, è un problema fondamentale per la costruzione di una nuova società futura. Non è una elezione regionale il momento per affrontarlo, ma bisogna comunque metterlo sul tavolo.

Mi sono dilungato e me ne scuso, ma le cose che non vanno sono tante. Almeno, noi abbiamo una lista, e la volontà di metterci mano non appena ne avremo l’opportunità. Attendo volentieri i commenti e i suggerimenti dei lettori.

[tags]economia, lavoro, assistenza, equità, giustizia sociale, meritocrazia, politica[/tags]

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domenica 21 Marzo 2010, 23:11

Massaggini

Che dire: un’altra giornata da incorniciare. Piazza piena a Bussoleno, piazza piena (anzi parco pieno) a Novara… fino a Verbania non sono andato, ammetto che ero troppo stanco.

In più, prima del comizio ero sul palco (che poi era un pezzo di scalinata) davanti alla stazione di Bussoleno, arriva Beppe, mi saluta e mi fa: “Belin, ho letto il tuo curriculum, se è vero è incredibile…”. Ovviamente gli ho risposto “Certo che è vero!”, ma lo capisco, nel senso che ci sono tantissimi trentenni italiani con capacità ed esperienze internazionali di rilievo, ma quasi tutti purtroppo sono già all’estero da un pezzo; ci han lasciato qui nella bagna, anche se con la morte nel cuore e con sincera rabbia e nostalgia. Qui, purtroppo, è più facile trovare quelli che le capacità o le esperienze di rilievo non le hanno, ma se le fabbricano ad arte nel curriculum.

A Novara seconda puntata: Beppe finisce il suo discorso e, come sempre, si prepara a passare il microfono ai candidati. Stavolta, però, vede me, mi prende sotto braccio e comincia a dire: “Vedete, per esempio qui abbiamo un ingegnere, un esperto internazionale, un curriculum così ce l’hanno solo lui e Steve Jobs…” – o meglio non sono completamente sicuro di cosa abbia detto, perché penso di essere diventato un bel po’ viola, e per fortuna che era già quasi buio. Parlo, racconto dei miei video, faccio la mia solita domanda – ho deciso che è una buona domanda, dunque la vado ripetendo in ogni piazza. Poi parlano gli altri, e a quel punto spunta fuori Beppe e si mette dietro di me, davanti a tutti, a farmi i massaggini alle spalle. Ovviamente più lui mi massaggia e più io mi irrigidisco, che diamine! non solo siamo uomini: siamo piemontesi e ci diamo del lei pure a letto.

A questo punto, se questo fosse un partito, i miei compagni di lista mi farebbero trovare una testa di cavallo davanti alla porta. Invece eravamo tutti contenti… d’altra parte, con queste folle che si palesano in tutte le tappe del giro di Beppe, non potrebbe essere diversamente; lo spazio per gli ego, che pure in politica è inevitabile, è messo in secondo piano.

Non so, non so davvero come andrà a finire, se supereremo il 3% o no, se cambieremo il mondo poco, tanto, completamente o per niente. So però che tutta la fatica che abbiamo fatto sta venendo ripagata dall’affetto che incontriamo, e soprattutto, ancora più importante, dal vedere tante altre persone che si attivano; nemmeno che ci seguono, ma che cominciano a “movimentarsi” in prima persona di propria iniziativa.

[tags]politica, movimento 5 stelle, beppe grillo, elezioni regionali, piemonte, bussoleno, novara, emigrazione, fuga dei cervelli[/tags]

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sabato 20 Marzo 2010, 22:25

Il bello della politica

Il bello di queste giornate convulse è la possibilità di conoscere tante persone nuove, e soprattutto diverse. Ognuno di noi, infatti, tende a frequentare soprattutto persone simili a sé; anche quando hanno idee diverse, di solito hanno in comune un certo livello sociale e culturale, un certo stile di vita, un certo sistema di valori. La nostra società è sempre più divisa in compartimenti stagni, in cui le persone si sfiorano senza conoscersi e senza parlarsi; avere l’opportunità di scoprire pianeti diversi è non solo un grande vantaggio (se mai uno di noi si troverà ad amministrare qualche cosa, avere la possibilità di conoscere le questioni di prima mano da chi le vive direttamente è fondamentale) ma anche un grande piacere; una occasione di arricchimento umano.

Questo, per esempio, è uno dei motivi per cui mi piace andare allo stadio, e magari (quando si può, ormai sempre più raramente) in trasferta, ossia in una occasione dove puoi condividere non solo il breve spazio della partita, ma un intero viaggio in pullman attraverso l’Italia. Lo stadio è infatti uno dei pochissimi luoghi della nostra società dove i gruppi sociali si mescolano e si uniscono trasversalmente.

Analogamente, in questi giorni tante persone mi hanno incoraggiato, mi hanno voluto parlare, mi hanno chiesto i volantini da distribuire; ed è stata una grande occasione per imparare qualcosa. Bastano dieci minuti di parole per scoprire almeno un po’ problemi, aspirazioni, desideri, e tanto meglio se vengono da ambienti che non hai mai avuto modo di frequentare; dagli autisti del GTT o dagli operai di una fabbrica in crisi, dagli anziani che chiedono un futuro per i propri figli agli imprenditori con le banche che se li mangiano.

Stamattina ero ad Alba, in un bell’incontro con Imprese che resistono in cui sul palco dei politici mi sentivo a disagio – sto meglio nei panni del piccolo imprenditore in lotta col sistema. Delle questioni economiche parlerò con più calma nei prossimi giorni, ma volevo raccontarvi di quanto mi abbia colpito scambiare due parole con una imprenditrice tessile del Varesotto, amareggiata e pronta a portare quel che rimane della sua fabbrica in Svizzera, data l’impossibilità di competere coi cinesi stando in Italia. Lei era leghista e accusava con calore il rappresentante della Lega di aver “disonorato quel fazzoletto verde che io rispetto”, dimostrando con la rabbia di non credere più ai grandi proclami leghisti a difesa dell’Italia, alla schizofrenia decennale della “Lega di lotta e di governo”. Mi sono reso conto di come per quelle zone la Lega sia stata ciò che è stato nelle periferie di Torino il PCI fino agli anni ’80: prima ancora che un partito, un simbolo in cui identificarsi, a suo modo un simbolo di lavoro e di progresso; e per noi torinesi, che pensando alla Lega abbiamo subito in mente il razzismo becero di Borghezio, è una visione diversa e davvero strana, e mi ha colpito.

Oggi pomeriggio poi – alla manifestazione No Tav No Mafia – mi ha fatto piacere conoscere di persona tante persone incrociate solo su Facebook, anzi mi spiace che non ci sia stato più tempo per parlare. Ammetto di essere veramente stanco, alcune volte mi son dovuto far ripetere le cose prima di capirle… Eppure, raramente come in questi giorni ho avuto modo di conoscere esperienze diverse dalle mie, e questo è stato davvero un bel regalo.

[tags]politica, movimento 5 stelle, piemonte, elezioni regionali, società, persone[/tags]

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martedì 16 Marzo 2010, 18:21

Un parere sull’immigrazione

È una delle obiezioni che ci fanno spesso: “voi parlate tanto di ambiente e di energia, ma sull’immigrazione cosa avete da dire?”. Beh, intanto che l’immigrazione è un problema sicuramente importante ma altrettanto sicuramente ingigantito dai media e dalla politica, per cavalcare le paure ancestrali della gente. Dopodiché, mi sembra giusto rendere pubblica la risposta che ho dato a una persona che mi ha chiesto cosa ne pensi.

La questione è molto complessa, ha davvero tanti aspetti. Credo che in Italia non la si riesca ad affrontare seriamente perché la discussione è basata su pregiudizi e su ideologie: o c’è la posizione per cui gli immigrati sono tutti vittime, o quella per cui sono tutti criminali. La verità sta nel mezzo, come tra gli italiani anche tra gli immigrati ci sono quelli onesti e quelli disonesti, quelli pacifici e quelli violenti; lo sforzo dovrebbe essere quello di distinguere tra i due e di giudicare ogni persona individualmente per le azioni che compie e non per la sua nazionalità di origine.

Il modo di pensare per preconcetti finisce per penalizzare soprattutto gli immigrati onesti, che magari vengono spinti verso l’illegalità dal fatto di essere trattati già in partenza come criminali, o semplicemente da un sistema burocratico che non funziona, compresa la difficoltà per acquisire la cittadinanza (che invece dovrebbe essere un modo per far sentire definitivamente italiana la persona giunta dall’estero). Allo stesso tempo una immigrazione senza regole e senza limiti non è tollerabile dalla società, finisce soltanto per acuire il razzismo naturale di molte persone (la diffidenza verso lo straniero è innata), e comunque è necessario avere mezzi seri per fermare chi delinque. La persona che arriva qui dovrebbe avere davanti due strade certe, una di lavoro, diritti (compresa la protezione dallo sfruttamento) e integrazione, l’altra, in caso di reati, di espulsione per davvero (non per finta). Purtroppo però la certezza del diritto in Italia non c’è più per nessuno…

In senso più generale, comunque, l’immigrazione è necessaria soprattutto a quelli che a parole sono più xenofobi (vedi molti piccoli-medi industriali) e che in realtà hanno bisogno di manodopera senza diritti da pagare il meno possibile. L’immigrazione dunque viene usata per sostenere il modello economico legato alla crescita infinita della produzione, che porta alla distruzione del pianeta; in un mondo in armonia non dovrebbe esserci bisogno di migrazioni (anche se le migrazioni ci sono sempre state sin dalla preistoria…). L’obiettivo di lungo termine dovrebbe essere lo sviluppo di tutto il pianeta, e non lo spostamento forzato di milioni di persone.

Infine c’è una questione culturale di fondo, quella relativa all’assimilazione: da sempre con le migrazioni arrivano le mescolanze di cultura e il risultato è l’evoluzione dell’uomo. Io non conosco molto l’Africa, sono stato solo in Mozambico, in Sudafrica e nei paesi arabi, ma l’impressione è che sia sbagliato pensare che l’unico modello di sviluppo possibile per l’Africa sia quello occidentale. Allo stesso modo, qui da noi, c’è necessariamente bisogno di mediare tra italiani e immigrati per capire quale può essere una cultura meticcia accettabile per tutti per convivere in pace.

Concludo dicendo però che noi non pensiamo di avere le risposte a tutto, io ho dato le mie opinioni ma noi crediamo molto nella democrazia partecipativa, che vuol dire che sull’immigrazione dovrebbero essere anche gli immigrati ad esprimersi: io non posso certo sapere meglio di loro quali sono i problemi effettivi.

[tags]immigrazione, società, diritti[/tags]

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martedì 9 Marzo 2010, 20:37

Digitale pubblico o digitale privato

Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, volevo segnalare e invitare a firmare il Public Domain Manifesto, una iniziativa di Communia – la rete tematica europea sul pubblico dominio digitale, una iniziativa universitaria finanziata dall’Unione Europea di cui il nostro Politecnico è il coordinatore – e di tanti amici e compagni di varie battaglie digitali, a partire dal primo firmatario Philippe Aigrain.

Noi siamo talmente immersi in una cultura di copyright, diritti e regole varie che non ci rendiamo nemmeno più conto di quanto essa sia innaturale. Eppure, fino a un paio di secoli fa la protezione delle opere d’ingegno era un concetto praticamente sconosciuto, ed è solo da pochi decenni che è stato coniato il termine “proprietà intellettuale”. Come ben spiega Richard Stallman, è questo stesso termine a essere ingannevole, coniato dalle industrie dell’audiovisivo per far passare subdolamente l’idea che i pensieri siano proprietà di chi li pensa.

In realtà, una “invenzione” o una “creazione” sono il frutto del loro tempo, e si basano su di un 99% di conoscenza pregressa che risale indietro nei millenni; e, da sempre, il progresso scientifico e culturale della società si basa sulla disponibilità di quello che c’è stato prima. Con la rivoluzione industriale, si decise di premiare l’opera dell’ingegno con un monopolio temporaneo, il brevetto: chi inventa un nuovo meccanismo può sfruttarlo commercialmente in esclusiva per vent’anni, in modo da ripagarsi degli investimenti di tempo e denaro, incentivando quindi ulteriori invenzioni. Nessuno, tuttavia, aveva mai pensato che l’invenzione fosse “proprietà” di chi l’aveva inventata: si parlava solo di sfruttamento commerciale.

Questo concetto è progressivamente degenerato, arrivando invece all’idea opposta: quello che invento, quello che scrivo, quello che compongo è mia proprietà e posso non solo sfruttarlo commercialmente, ma imporre agli altri le modalità con cui lo possono usare. Specialmente al giorno d’oggi, per produzioni intellettuali il cui ciclo di vita economico è di venti-trent’anni (per i film, tranne pochi classici) o di pochi anni (per il software), succede che la proprietà sia di fatto senza fine: quando scadono i termini del copyright, la cosa non interessa più a nessuno.

Succede però, per la grande maggioranza delle opere, l’effetto opposto: dopo pochi anni non sono più commercialmente interessanti dunque nessuno le distribuisce, ma sono ancora sotto protezione e dunque non sono liberamente accessibili né utilizzabili. Per fare un esempio che conosco bene, le sigle dei cartoni animati degli anni ’70 erano destinate sicuramente all’oblio. Fu proprio la rete a metà anni ’90, con il Progetto Prometeo (di cui fui uno dei promotori), a salvarle e anzi a rilanciare quel genere di musica fino a farlo diventare un classico. Fu un atto di totale pirateria, ma alla fine portò un beneficio economico ai titolari dei diritti, perché il rinnovato interesse in quei brani volle anche dire nuove possibilità di guadagno. Eppure ricordo quando arrivò al Rettore del Politecnico una raccomandata dalla Federazione contro la Pirateria Musicale (allora diretta dall’attuale capo dei discografici italiani, Enzo Mazza) che ordinava la chiusura immediata del nostro sito (noi resistemmo e minacciammo di creare un caso, e il risultato fu un accordo: togliete i brani di Cristina d’Avena, di proprietà Mediaset, e lasciate il resto).

Eppure l’argomento è tabù: qualche anno fa, nell’ambito del gruppo di lavoro WGIG delle Nazioni Unite, mi presi il compito di scrivere il “paper” sulla questione. Giudicate voi se era di parte: penso fosse semplicemente onesto. Peccato che il rappresentante delle major americane nel gruppo di lavoro si sia sdraiato contro di esso, tanto che non fu mai pubblicato ufficialmente come risultato collettivo.

Il copyright, infatti, è un elemento fondamentale della strategia americana per mantenere la propria posizione di superpotenza economica. Forse non sapete che in tutti gli accordi commerciali bilaterali firmati dagli Stati Uniti con i paesi in via di sviluppo vengono inserite clausole che li obbligano alla protezione ossessiva della proprietà intellettuale, spesso senza nemmeno spiegargli bene cosa stanno firmando.

Probabilmente nelle ultime settimane avrete letto in rete della sollevazione generale provocata dall’avanzato stato di negoziazione dell’accordo ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement), che con la scusa della lotta alla contraffazione vuole imporre misure strettissime di controllo e repressione sulla rete, tra cui (pare) le famose risposte graduate per cui “se scarichi MP3 ti buttiamo fuori da Internet”. Il tutto – incredibile – negoziato in maniera segreta tra i governi, al di fuori del controllo della pubblica opinione e persino dei Parlamenti.

Vi invito a vedere questo video (se parlate inglese o francese); per il resto, io l’allarme l’avevo già lanciato quasi tre anni fa. Perché con “pirateria” ormai sempre più si intendono “opinioni sgradite al governo”: filmati scomodi, testi di protesta, parodie in musica che hanno spesso bisogno del materiale originale da commentare; o semplicemente, con i meccanismi introdotti per “fermare la pirateria” (ad esempio i filtri obbligatori imposti in questi mesi ai provider italiani, che vi impediscono di accedere a siti come The Pirate Bay) si può poi non solo fermare il progresso, chiedendo un obolo insostenibile ai paesi in via di sviluppo che vogliano sfruttare l’acqua calda che la multinazionale di turno ha provveduto a brevettare, ma fermare anche il dissenso.

La rete è l’unico mezzo di comunicazione non controllato centralmente; dunque è l’unica difesa della democrazia. Per questo la libertà della rete è così importante.

[tags]internet, libertà, proprietà intellettuale, contraffazione, mp3, pirateria, mediaset, pirate bay, democrazia[/tags]

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lunedì 8 Marzo 2010, 19:46

L’energia vera è il cervello

Tutti i lunedì su Radio Flash c’è una trasmissione che parla di risparmio energetico. In quella di oggi raccontavano l’esperienza di una scuola in Friuli che ha ridotto i consumi elettrici per l’illuminazione in modo molto semplice; trovandosi di fronte alla necessità di sostituire i neon vecchi di trent’anni, ha aggiunto alle nuove lampade dei sensori di luce – in modo da regolare automaticamente l’illuminazione in funzione della luce solare disponibile, ad esempio d’inverno – e dei sensori di movimento, in modo da spegnere automaticamente la luce se non c’è più nessuno nell’aula (l’insegnante segnalava come la vecchia buona regola “l’ultimo che esce da una stanza spenga la luce”, che da decenni faceva parte dell’educazione dei bambini, sia ormai quasi completamente sparita: i genitori non la insegnano più).

La cosa incredibile è l’aspetto economico: l’aggiunta dei sensori ha determinato un aumento del prezzo delle lampade solo del 10%, da 50.000 a 55.000 euro per tutta la scuola; in compenso, in questo modo la scuola ha abbattuto di un terzo la sua bolletta elettrica, che era di 800 euro al mese. In pratica, la scelta delle lampade intelligenti non solo riduce la produzione di energia – dunque riduce l’inquinamento, l’importazione di combustibile, le necessità di trasporto e così via – ma si ripaga in meno di due anni!

Eppure, sono ancora poche le scuole (ma potremmo parlare delle aziende o degli uffici pubblici) che si preoccupano di fare questo genere di investimento, o di avere una policy chiara che, per esempio, vieti di acquistare nuove lampade se non risparmiose. Paradossalmente va meglio nelle case, dove la bolletta viene pagata da chi usa le luci; per il resto, l’idea italiana che ciò che è di tutti non sia di nessuno porta al menefreghismo.

E’ proprio qui che dovrebbe eventualmente intervenire la politica, con incentivi e con regole chiare. L’energia è la prima necessità di un Paese dopo acqua e cibo, e l’Italia è un Paese che potrebbe arricchirsi con il geotermico, con il solare o con altre forme di energia rinnovabile, e che invece rimane appeso alle importazioni dall’estero (con conseguente dipendenza da personaggi come Putin e Gheddafi) o peggio si rimette a studiare il nucleare, una tecnologia ormai morta e sepolta, figlia del mito positivista degli anni ’50 (quello per cui a quest’ora avremmo già dovuto avere colonizzato lo spazio, presumibilmente per buttarci i nostri rifiuti).

Risparmiare si può e si deve: basta spegnere le luci inutili e accendere il cervello.

[tags]energia, risparmio energetico, scuole, investimenti, nucleare, energie rinnovabili[/tags]

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martedì 23 Febbraio 2010, 19:38

Blackout

Chi mi conosce, chi legge da tempo questo blog, sa che non sono un simpatizzante dei centri sociali. Penso che le regole debbano valere per tutti, dunque non credo giusto occupare abusivamente dei locali altrui (anche se credo che gli edifici in abbandono dovrebbero essere dati in uso a chi li vuole, almeno finché il proprietario non dimostra di farci qualcosa); non mi piacciono le scritte sui muri e le azioni di disturbo verso chi la pensa diversamente; e sui famosi “centri di identificazione ed espulsione” la penso in maniera decisamente diversa da loro, non mi piacciono ma penso che nell’attuale condizione siano inevitabilmente necessari.

Tuttavia, l’operazione di polizia di questa mattina mi ha lasciato basito e anche molto preoccupato. E’ indubbio che sia sgradevole e non condivisibile andare a gettare fisicamente sacchi di merda su chi cena al Cambio (anche nel caso in cui, come per qualcuno di loro effettivamente è, tale merda sia metaforicamente meritata), ma è anche un reato? Questo è il punto: qual è il confine tra la manifestazione del dissenso e il crimine? Tutte le società prima o poi si pongono questo dilemma; ci sono quelle più autoritarie, dove il dissenso è immediatamente represso, e quelle più libertarie, dove pur di non limitare la democrazia si accettano anche i vestiti sporcati di merda, magari spedendo agli autori il giusto conto della tintoria.

Comunque sia, se fosse confermato che queste persone hanno violato la legge è giusto che ne rispondano; ma anche in questo caso c’è una cosa che davvero preoccupa, cioè l’irruzione nella sede di una radio con conseguente interruzione delle trasmissioni per circa sei ore. Quelli che La Stampa definisce “controlli” hanno infatti portato allo spegnimento del segnale per oltre un’ora e all’annullamento dei normali programmi nelle altre, dalle 5 alle 11 circa di stamattina.

Anche qui, credo di non aver mai ascoltato Radio Blackout in vita mia, se non per le informazioni dalla Valsusa, visto che è la radio che ne dà la maggior copertura. Ma non è questo il punto; come non disse Voltaire (l’attribuzione è errata, anche se continua a propagarsi per copia-e-incolla di compiti tra bimbiminkia), “disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”.

Il Comune di Torino, zitto zitto, quattro mesi fa gli ha già dato lo sfratto; e se è nel diritto di un padrone di casa dare lo sfratto anche a fronte di un affitto che la radio paga regolarmente, certo fa specie che le autorità ostacolino apertamente quella che è l’unica voce cittadina di un certo tipo di idee, anche perché traslocare una radio, con tanto di impianti e tralicci, non è come traslocare un ufficio. E’ davvero preoccupante vedere le istituzioni cittadine trasformarsi sempre più spesso in ostacoli alla libertà di espressione, invece che in promotori della stessa; e questa è una scelta di campo profondamente politica da parte di Chiamparino & c., che non possiamo non far notare.

Ci sarebbe da citare la famosa poesia che Brecht non scrisse: ho il sospetto che quando verranno per me i centri sociali non ci saranno più da un pezzo, e quando verranno per voi non ci sarò più io.

P.S. Poi scopro che la poesia di Niemöller è stata citata anche da Magdi Cristiano Allam, e allora la mia fede nella libertà di espressione vacilla per un attimo. Ma solo per un attimo eh!

[tags]torino, radio blackout, anarchia, digos, repressione, libertà di espressione, diritti, polizia, chiamparino, voltaire, brecht[/tags]

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sabato 13 Febbraio 2010, 19:17

Rispetto (2)

La nostra società è caratterizzata indubbiamente da una grande mancanza di rispetto per gli altri: come dicevamo già l’altro giorno, ormai dilaga l’idea che ognuno debba lottare per sé e che gli altri siano dei nemici da combattere o al massimo una risorsa da sfruttare.

C’è una categoria di mancanza di rispetto che io trovo particolarmente ripugnante ed è quella verso la morte. Non è una novità: ricordo il disgusto che provai nell’agosto del 2005 quando, dopo il terribile incidente aereo del volo Bari-Djerba, La Stampa occupò la metà alta della prima pagina con una foto a colori di cadaveri galleggianti nel mare. Avrà sicuramente venduto molto, ma fu con piacere che lessi di come l’allora neodirettore Anselmi fu costretto a scusarsi il giorno dopo.

Purtroppo le cose non hanno fatto che peggiorare; per esempio, c’è una famosa videogallery di Repubblica dove appare la testa mozzata di un bimbo palestinese. Ma quello che è successo oggi mi ha davvero scandalizzato: dopo l’incidente dell’atleta georgiano di slittino morto durante le prove delle Olimpiadi, il filmato integrale è stato mandato e rimandato in televisione in ogni occasione, compresa l’apertura dei telegiornali; con tanto di primi piani, moviole e persino qualche commento “ecco qui è dove va a sbattere”; una sorta di autopsia mediatica di massa ripetuta all’infinito.

Sulla spettacolarizzazione della morte, così come sulla presunzione/ossessione di invulnerabilità dell’uomo moderno, sono stati scritti interi volumi; ma è bene cercare, almeno noi, di non farci mai l’abitudine.

[tags]rispetto, morte, defunti, olimpiadi, vancouver 2010, georgia, slittino, incidenti[/tags]

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domenica 7 Febbraio 2010, 00:45

Decisioni di business

Questa era l’ultima serata londinese – domani mattina si torna indietro – e ce la siamo goduta con l’ultimo giro per il centro città… compresa anche l’ultima sosta al supermercato Tesco di Piccadilly Circus, meta di tutti i turisti in cerca di un panino, un dolce, un gelato o una coca cola a prezzi un po’ più umani.

Per ridurre i costi, in questo supermercato hanno eliminato i cassieri; vi sono soltanto le casse automatiche, quelle che hanno cominciato a diffondersi anche da noi in alcuni ipermercati. Sono quelle in cui il cliente passa da solo il codice a barre su un lettore, mette i prodotti su una bilancia che ne verifica il peso, poi inserisce i soldi e riceve il resto in automatico.

Il nostro conto era di £ 3,04; abbiamo inserito le tre monete da una sterlina, e poi ci siamo detti: finiamo le monetine. E così, cerca cerca, dopo dieci secondi abbiamo inserito un centesimo. Poi, dopo altri dieci secondi, abbiamo inserito un altro centesimo. E poi… la macchinetta ha preso una decisione di business: improvvisamente ha chiuso la transazione, ci ha fatto lo sconto dei due centesimi rimanenti e ci ha detto di andare via!

In effetti, dato l’affollamento e il numero limitato di casse, il fatto che una di esse resti occupata per un tempo superiore alla media è un costo probabilmente superiore a quei due centesimi. Adesso però, se volete farvi fare lo sconto, sapete come fare…

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venerdì 29 Gennaio 2010, 16:18

Blocco Euro 2: nell’interesse di chi?

È ricominciato in questi giorni, sulla pelle dei lavoratori, il triste teatrino di ogni anno. Ogni anno infatti il governo vorrebbe smettere di buttare pile di soldi negli incentivi alla rottamazione delle auto, e ogni anno la Fiat mette in atto tutte le possibili forme di pressione di modo che, magicamente, gli incentivi vengono infine regolarmente rinnovati.

Ma c’è una forma molto più sottile di incentivo che ormai ci è penetrata in testa, fino a sembrarci del tutto normale: sto parlando delle famose direttive europee sulla limitazione delle emissioni delle auto, e dei divieti che ad esse vengono agganciati.

L’attuale pietra dello scandalo è la decisione della Provincia di Torino, del Comune di Torino e di vari altri comuni della cintura di estendere il blocco permanente (tutti i giorni feriali tutto il giorno per tutto l’inverno) ai veicoli diesel Euro 2 – auto con una decina d’anni di vita, ancora piuttosto diffuse. Il blocco è stato contestato duramente dall’opinione pubblica, fino ad arrivare all’esenzione degli ultra-65enni; una scelta che si spiega solo con motivazioni elettorali, perché onestamente, tra una mamma precaria 30enne che deve arrabattarsi tra famiglia e lavoro e un pensionato con tutta la giornata a disposizione e ampi sconti sui mezzi pubblici, credo che l’auto sia più vitale per la prima.

I giornali si sono però anche riempiti di commenti del genere “basta con gli scassoni per le strade” e “avete solo da lavorare per mettere da parte i soldi e cambiare l’auto”. Già, perché negli anni ci hanno convinti che chi va in giro con un’automobile vecchia di dieci anni sia non solo un pezzente, ma anche un pericoloso attentatore alla salute pubblica. Ma è vero?

Ho trovato in giro una interessante tabella riassuntiva dei vari livelli di emissione: leggetela. Scoprirete così che una delle attuali auto diesel Euro 4, con due o tre anni di vita, inquina per chilometro meno dei deprecati Euro 2 di circa due terzi. Una riduzione di due terzi non è certo poco, ma non è nemmeno tanto: vuol dire che chi con un’auto Euro 4 scorrazza per la città tutto il giorno, percorrendo per esempio 40 km, inquina comunque di più di chi usava la vecchia Euro 2 solo per un tragitto di pochi chilometri per andare e tornare da lavoro. Non parliamo poi di chi, anche con una macchina nuova fiammante, la prende per andare a Milano in auto invece che in treno: inquina quasi dieci volte di più di entrambi i precedenti. Insomma, il fattore principale da cui dipende la quantità di inquinamento prodotto è il numero di chilometri percorsi; la categoria dell’auto è un fattore importante ma secondario.

Oltre a questo, c’è un’altra domanda che è necessario porsi: ma esiste poi davvero tutto questo inquinamento? Non c’è dubbio che l’aria non sia delle migliori e che si debba continuare ad agire per ripulirla, per ridurre l’impatto sulla salute. Esiste però qualche dubbio sull’allarmismo pompato dai giornali: “sforati i limiti per cento giorni di fila!”. Sì, ma bisognerebbe sapere come sono fissati i limiti… Nel frattempo (e per fortuna) i livelli di inquinamento di molte sostanze sono calati notevolmente nel corso degli ultimi trent’anni.

Io ho trovato una interessante analisi sponsorizzata dalla Provincia di Torino. Leggendo il rapporto si desume che:
– i livelli del monossido di carbonio e del biossido di zolfo sono calati di cinque volte dagli anni ’80, e sono ben sotto i limiti;
– sono molto preoccupanti e oltre i limiti i livelli del biossido d’azoto (e dell’ozono che da esso deriva) e del PM10, che però, nonostante la sequela di Euro X, sostanzialmente sono stabili da un decennio, perché dipendono in gran parte anche dalle fabbriche e dal riscaldamento delle case.

L’inquinamento dunque esiste, ma quello veramente pericoloso deriva dal traffico solo per circa metà o poco più; l’altra metà deriva principalmente dalle fabbriche, oltre che dal riscaldamento (per il PM10 però cuba solo il 2%) e dal trattamento rifiuti (12%: qualcuno vuole un inceneritore?). Naturalmente è sempre interessante notare come nei grafici di Chiamparino la quota del traffico sia messa lì come un bel monolite in modo da impressionare, mentre quella di competenza di Confindustria – che è quasi grande uguale – sia spezzettata in quattro categorie (“Energia e industria di trasformazione”, “Combustione nell’industria”, “Processi produttivi” e “Uso di solventi”) in modo che sembri trascurabile.

Già, perché la verità sul blocco dei diesel Euro 2, e in generale su tutto il meccanismo dei divieti per categoria di emissioni, è piuttosto chiara: il vero scopo di questi provvedimenti non è ridurre l’inquinamento, ma costringere le persone a cambiare l’auto ogni tre-cinque anni, dieci al massimo, facendo così un bel regalo alla Fiat e agli altri produttori automobilistici; tutto questo tramite una campagna politica e mediatica che tende a convincere le persone che l’inquinamento è sì un gravissimo problema, ma che è sufficiente cambiare l’auto ogni 4-5 anni e poi si mantiene il diritto di scorrazzare come e dove si vuole senza limiti.

Invece, se si volesse ridurre l’inquinamento, il modo più efficace – oltre che agire anche sulle emissioni industriali – sarebbe ridurre i chilometri totali percorsi da tutti i veicoli, eliminando le necessità di spostamento inutili e ottimizzando quelle utili, cioè aumentando il numero medio di persone per veicolo. Bisogna dunque agire nella direzione opposta: non premiare chi compra l’auto nuova, ma far comprare sempre meno auto ai privati.

Anche perché, se ancora non vi foste convinti, c’è un’ultima cosa da dire: se consideriamo l’energia spesa, le risorse utilizzate e l’inquinamento prodotto per costruire una nuova automobile, il danno aggiuntivo all’ambiente prodotto dal costruire tre o quattro auto invece di una (su un arco di tempo di 10-15 anni) è molto superiore a qualsiasi guadagno possa derivare dalla riduzione delle emissioni per chilometro conseguente al cambio frequente dell’auto.

Concludo infine con una considerazione di giustizia sociale: l’inquinamento è un problema di tutti. Non è accettabile che esso venga scaricato sulle fasce più deboli della popolazione, quelle che non possono proprio permettersi di cambiare l’auto ogni pochi anni e che al massimo possono acquistare, appunto, un usato scalcinato vecchio di dieci anni. Se c’è da fermare il traffico privato per garantire la qualità dell’aria, si fermi quello di tutti: compreso quello delle madame sul SUV Euro 5 e dei politici in auto blu. Se no, è soltanto l’ennesimo modo per togliere soldi e qualità di vita ai più poveri per darli ai più ricchi.

[tags]traffico, inquinamento, trasporti, blocco, auto, emissioni, equità[/tags]

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