Dopo questa settimana di racconti, ci tenevo a parlare del tema più caldo e complesso: la Cina e i diritti umani.
E’ molto difficile giudicare il livello di rispetto dei diritti umani in un Paese da una visita di una settimana, limitata alla capitale, e senza avere grandi possibilità di interazione con i locali. Al giorno d’oggi, qualsiasi regime sa che l’immagine pubblica è fondamentale, per cui è improbabile che violazioni e restrizioni siano facilmente visibili, specialmente agli occhi degli stranieri in visita.
Eppure, io sono arrivato in Cina con in testa le tradizionali immagini dei regimi autoritari di tutto il mondo: mi aspettavo polizia ovunque e propaganda dappertutto. Ho trovato invece una città sostanzialmente uguale alle nostre, piena di palazzi di vetro, centri commerciali, pubblicità e gente indaffarata. Ho avuto la sensazione di un luogo sicuro, dove – a parte la folla di venditori di paccottiglia nei luoghi turistici – nessuno ti assalta per strada; se questo sia dovuto a paura di repressione o semplicemente a una moralità più diffusa, non lo posso sapere. Ci sono, è vero, telecamere dappertutto, anche se non ho idea di come vengano utilizzate – e peraltro ormai è così anche da noi. Ma non ci sono certo squadroni della morte e desaparecidos (del resto i dissidenti sono processati e condannati per terrorismo, mica ammazzati per strada).
Mi aspettavo un Paese dove l’informazione fosse rigidamente controllata, dove sui giornali apparissero zone vuote al posto degli articoli censurati – come accadeva col fascismo – e dove la gente avesse paura di parlarti per strada. Nulla di più sbagliato; forse era così fino a dieci anni fa, ma nel centro di Pechino le edicole vendono Newsweek e Sports Illustrated e i negozi sono pieni di marchi occidentali; e si pubblica un giornale in lingua inglese – il China Daily – su cui ho letto editoriali che descrivono la libertà di espressione come un elemento fondamentale per la realizzazione di una giusta società socialista. (Naturalmente il giornale in lingua inglese è alla portata di pochi locali, e quelli in cinese potrebbero essere ben diversi.)
Resta, è vero, la buffa sensazione di cliccare su un link a Wikipedia e vedere la connessione andare magicamente in timeout, e però è più una curiosità che un problema, visto che io, da un albergo pieno soprattutto di cinesi, ho potuto leggere online tranquillamente i giornali e i blog italiani, usare Google in italiano (chissà se riconosce che vengo dalla Cina e aggiusta i risultati?), e leggere le mie mailing list dove si parla di diritti umani ogni due post. Non si è presentato alcun poliziotto alla porta; può darsi che sarebbe successo se non fossi stato un turista occidentale, non lo posso sapere.
Abbiamo avuto occasione di parlare con i locali; seduti in un elegante caffè della zona delle aziende tecnologiche, ci hanno detto tranquillamente che in Cina c’è molta disoccupazione perché tutti i giovani vogliono andare in città , studiare e andare a fare gli impiegati, e nonostante la crescita non c’è posto per tutti; e ci hanno persino detto che anche là esistono le raccomandazioni. Non mi sono parsi affatto spaventati all’idea di esporre queste critiche; il più spaventato era l’accompagnatore per la Grande Muraglia, quando gli abbiamo offerto la nostra frutta secca e lui ci ha detto che, se il capo avesse saputo che lui accettava cibo dei clienti, sarebbe stato licenziato in tronco. Ma mi sembra una misura di cortesia, non una forma di repressione ideologica.
Insomma, non metto in dubbio che in Cina esistano i campi di lavoro forzato, le persone incarcerate per avere chiesto riforme, e un uso significativo della pena di morte. La Cina di oggi, però, è solo un lontano parente del regime autoritario comunista che mandava i carri armati contro gli studenti; assomiglia forse più a una nazione dove un gruppo di potere seduto su una montagna di soldi cerca di utilizzare le proprie prerogative per rintuzzare chi potrebbe mettere tale potere a rischio; esattamente come l’Italia o gli Stati Uniti. La differenza – ed è una differenza non da poco – è che in Italia il giudice che indaga su Mastella o D’Alema viene trasferito e il politico che critica il segretario del partito non viene ricandidato, mentre in Cina potrebbero finire in prigione per dieci anni; ma tale differenza sta nella quantità della punizione, non nell’approccio in sé.
Anche le più visibili manifestazioni dell’autoritarismo cinese sono spesso fraintese. Il desiderio di inglobare Taiwan, per dire, non è tanto una mania espansionista quanto una riunificazione, visto che Taiwan rimase separata dalla Cina semplicemente perché fu l’unica regione dove la guerra civile cinese non fu vinta dai comunisti ma dai nazionalisti, e l’avvento della guerra fredda congelò la Cina divisa, esattamente come la Germania. La stessa questione della sovranità del Tibet è complessa, fatta di trattati contrapposti e talvolta discordanti, risalenti a vari periodi degli ultimi cento anni. La repressione del culto del Falun Gong è una violazione di diritti umani, eppure tutti i paesi occidentali reprimono le sette religiose (vedi Scientology in Germania) quando ritengono che esse siano pericolose per i propri cittadini.
Insomma, se da una parte la Cina ha ancora molta strada da percorrere, dall’altra mi pare che con essa si usi, spesso per ignoranza o per la semplificazione operata dai media, un metro di giudizio particolarmente duro, che non si usa invece nei confronti di se stessi o di paesi più “amici”.
Credo però che il nocciolo di questa discussione possa stare in un assunto che sembriamo dare tutti per scontato, e che invece andrebbe perlomeno motivato: siamo così sicuri che a tutte le società del pianeta si debba applicare la visione occidentale del rapporto tra individuo e società , basata sulla totale supremazia della libertà individuale rispetto alle esigenze collettive?
La Cina, per via delle proprie radici confuciane ben più che di quei sessant’anni di comunismo, ha un rapporto tra le due cose totalmente opposto rispetto al nostro: prima vengono le esigenze collettive – la morale comune, gli obiettivi condivisi, l’equilibrio sociale – e poi viene la libertà del singolo. Se chi governa ordina di radere al suolo un isolato per costruire una stazione della metropolitana, spostando gli abitanti trenta chilometri più in là , per noi sta violando i diritti dei singoli abitanti; per loro sta semplicemente facendo ciò che è complessivamente meglio per tutti, evitando inoltre l’immobilismo dovuto a un piccolo gruppo che tiene in ostaggio la collettività , modello “non nel mio cortile”. L’attacco all’ordine costituito non è quindi un esercizio di democrazia, ma un comportamento antisociale ed egoista.
Dovreste vedere lo spettacolo di migliaia e migliaia di persone che si muovono come api nella metro di Pechino, per capire quanto sia difficile immaginare che una società così densa possa sopravvivere senza un rigido ordine. Allo stesso tempo, questo ordine è pieno di disordine creativo, e di gente sorridente; sarà anche per aver messo la polvere sotto il tappeto, ma il tappeto dei cinesi appare piacevole per tutti quelli che vi sono seduti sopra, e la densità di nuove aziende, nuovi negozi, nuovi palazzi, nuove infrastrutture testimonia come la libertà personale di intraprendere sia tutt’altro che impedita, finché non si va al di fuori dei limiti collettivi.
Noi occidentali continuiamo a vantarci della nostra presunta libertà , contrapposta al presunto autoritarismo cinese; eppure si respira un’aria molto più libera e piena di opportunità a Pechino, dove tutti corrono e fanno e dove non hai paura di venire scippato per strada, che a Los Angeles, dove c’è l’atmosfera cupa della segregazione razziale di fatto e dove se giri l’angolo sbagliato rischi di beccarti una pallottola vagante.
Penso sempre di più che l’argomento dei diritti umani in Cina, iniziato dal basso in totale e giustificata buona fede, sia per i poteri occidentali anche una comoda scusa per mettere in difficoltà politica un rivale economico che ha trovato un interessante compromesso tra libertà , solidarietà sociale e crescita economica, e per tentare una colonizzazione culturale. Vedendo il disastro morale delle società occidentali, ammetto di sperare che a Pechino smettano di filtrare Wikipedia e di arrestare chi critica, ma si guardino bene dall’adottare tout court i nostri modelli sociali.
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