Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Lun 25 - 3:38
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione

Archivio per la categoria 'NewGlobal'


sabato 8 Dicembre 2007, 18:11

Cacca

A rischio di andare controcorrente, volevo dire la mia sul caso Luttazzi, cacciato da La 7 dopo poche puntate per una frase disgustosa (in senso letterale) su Giuliano Ferrara.

Io sono tutto sommato d’accordo con La 7: è vero che la frase in sé non era poi così offensiva, però era chiaramente superflua e di cattivo gusto, e di televisione di cattivo gusto ce n’è già troppa.

Il problema è che Luttazzi come comico non è un granché, visto che – oltre a scopiazzare il formato dei propri programmi da Jay Leno e David Letterman – si riduce spesso a provocare sul piano personale e a parlare di cacca come i bambini di sei anni, evidentemente perché altrimenti non saprebbe cosa dire per far ridere. La cosa è ancora più triste perché, depurate dalla cacca e rese invece su un piano presentabile, le cose che dice sarebbero spesso degne di ascolto.

Se invece ciò non accade, probabilmente è per via di una personalità antisociale e istrionica che lo spinge – magari come reazione al fatto che, pur tornato in televisione dopo sei anni di polemiche, non molti si erano accorti del suo show – ad attraversare il limite massimo della decenza. E poi, come troppi italiani, quando lo cacciano perché non è capace a fare il proprio mestiere (anche se, altrettanto all’italiana, chi di dovere agisce quando ad esserne toccato è un amico, altrimenti se ne frega) Luttazzi fa la vittima e si attacca alle teorie del complotto.

E io proprio non riesco a pensare che irridere ed umiliare un qualsiasi essere umano non importa quanto antipatico, presentandone ad alcuni milioni di persone l’immagine mentre viene coperto di feci, sia “libertà di opinione”; a maggior ragione se avviene tramite il mezzo televisivo, che ha un grande potere, e a cui quindi è associata una grande responsabilità.

[tags]luttazzi, ferrara, la 7, cacca, decameron, censura, libertà di opinione[/tags]

divider
venerdì 7 Dicembre 2007, 15:47

I diritti umani e la Cina

Dopo questa settimana di racconti, ci tenevo a parlare del tema più caldo e complesso: la Cina e i diritti umani.

E’ molto difficile giudicare il livello di rispetto dei diritti umani in un Paese da una visita di una settimana, limitata alla capitale, e senza avere grandi possibilità di interazione con i locali. Al giorno d’oggi, qualsiasi regime sa che l’immagine pubblica è fondamentale, per cui è improbabile che violazioni e restrizioni siano facilmente visibili, specialmente agli occhi degli stranieri in visita.

Eppure, io sono arrivato in Cina con in testa le tradizionali immagini dei regimi autoritari di tutto il mondo: mi aspettavo polizia ovunque e propaganda dappertutto. Ho trovato invece una città sostanzialmente uguale alle nostre, piena di palazzi di vetro, centri commerciali, pubblicità e gente indaffarata. Ho avuto la sensazione di un luogo sicuro, dove – a parte la folla di venditori di paccottiglia nei luoghi turistici – nessuno ti assalta per strada; se questo sia dovuto a paura di repressione o semplicemente a una moralità più diffusa, non lo posso sapere. Ci sono, è vero, telecamere dappertutto, anche se non ho idea di come vengano utilizzate – e peraltro ormai è così anche da noi. Ma non ci sono certo squadroni della morte e desaparecidos (del resto i dissidenti sono processati e condannati per terrorismo, mica ammazzati per strada).

Mi aspettavo un Paese dove l’informazione fosse rigidamente controllata, dove sui giornali apparissero zone vuote al posto degli articoli censurati – come accadeva col fascismo – e dove la gente avesse paura di parlarti per strada. Nulla di più sbagliato; forse era così fino a dieci anni fa, ma nel centro di Pechino le edicole vendono Newsweek e Sports Illustrated e i negozi sono pieni di marchi occidentali; e si pubblica un giornale in lingua inglese – il China Daily – su cui ho letto editoriali che descrivono la libertà di espressione come un elemento fondamentale per la realizzazione di una giusta società socialista. (Naturalmente il giornale in lingua inglese è alla portata di pochi locali, e quelli in cinese potrebbero essere ben diversi.)

Resta, è vero, la buffa sensazione di cliccare su un link a Wikipedia e vedere la connessione andare magicamente in timeout, e però è più una curiosità che un problema, visto che io, da un albergo pieno soprattutto di cinesi, ho potuto leggere online tranquillamente i giornali e i blog italiani, usare Google in italiano (chissà se riconosce che vengo dalla Cina e aggiusta i risultati?), e leggere le mie mailing list dove si parla di diritti umani ogni due post. Non si è presentato alcun poliziotto alla porta; può darsi che sarebbe successo se non fossi stato un turista occidentale, non lo posso sapere.

Abbiamo avuto occasione di parlare con i locali; seduti in un elegante caffè della zona delle aziende tecnologiche, ci hanno detto tranquillamente che in Cina c’è molta disoccupazione perché tutti i giovani vogliono andare in città, studiare e andare a fare gli impiegati, e nonostante la crescita non c’è posto per tutti; e ci hanno persino detto che anche là esistono le raccomandazioni. Non mi sono parsi affatto spaventati all’idea di esporre queste critiche; il più spaventato era l’accompagnatore per la Grande Muraglia, quando gli abbiamo offerto la nostra frutta secca e lui ci ha detto che, se il capo avesse saputo che lui accettava cibo dei clienti, sarebbe stato licenziato in tronco. Ma mi sembra una misura di cortesia, non una forma di repressione ideologica.

Insomma, non metto in dubbio che in Cina esistano i campi di lavoro forzato, le persone incarcerate per avere chiesto riforme, e un uso significativo della pena di morte. La Cina di oggi, però, è solo un lontano parente del regime autoritario comunista che mandava i carri armati contro gli studenti; assomiglia forse più a una nazione dove un gruppo di potere seduto su una montagna di soldi cerca di utilizzare le proprie prerogative per rintuzzare chi potrebbe mettere tale potere a rischio; esattamente come l’Italia o gli Stati Uniti. La differenza – ed è una differenza non da poco – è che in Italia il giudice che indaga su Mastella o D’Alema viene trasferito e il politico che critica il segretario del partito non viene ricandidato, mentre in Cina potrebbero finire in prigione per dieci anni; ma tale differenza sta nella quantità della punizione, non nell’approccio in sé.

Anche le più visibili manifestazioni dell’autoritarismo cinese sono spesso fraintese. Il desiderio di inglobare Taiwan, per dire, non è tanto una mania espansionista quanto una riunificazione, visto che Taiwan rimase separata dalla Cina semplicemente perché fu l’unica regione dove la guerra civile cinese non fu vinta dai comunisti ma dai nazionalisti, e l’avvento della guerra fredda congelò la Cina divisa, esattamente come la Germania. La stessa questione della sovranità del Tibet è complessa, fatta di trattati contrapposti e talvolta discordanti, risalenti a vari periodi degli ultimi cento anni. La repressione del culto del Falun Gong è una violazione di diritti umani, eppure tutti i paesi occidentali reprimono le sette religiose (vedi Scientology in Germania) quando ritengono che esse siano pericolose per i propri cittadini.

Insomma, se da una parte la Cina ha ancora molta strada da percorrere, dall’altra mi pare che con essa si usi, spesso per ignoranza o per la semplificazione operata dai media, un metro di giudizio particolarmente duro, che non si usa invece nei confronti di se stessi o di paesi più “amici”.

Credo però che il nocciolo di questa discussione possa stare in un assunto che sembriamo dare tutti per scontato, e che invece andrebbe perlomeno motivato: siamo così sicuri che a tutte le società del pianeta si debba applicare la visione occidentale del rapporto tra individuo e società, basata sulla totale supremazia della libertà individuale rispetto alle esigenze collettive?

La Cina, per via delle proprie radici confuciane ben più che di quei sessant’anni di comunismo, ha un rapporto tra le due cose totalmente opposto rispetto al nostro: prima vengono le esigenze collettive – la morale comune, gli obiettivi condivisi, l’equilibrio sociale – e poi viene la libertà del singolo. Se chi governa ordina di radere al suolo un isolato per costruire una stazione della metropolitana, spostando gli abitanti trenta chilometri più in là, per noi sta violando i diritti dei singoli abitanti; per loro sta semplicemente facendo ciò che è complessivamente meglio per tutti, evitando inoltre l’immobilismo dovuto a un piccolo gruppo che tiene in ostaggio la collettività, modello “non nel mio cortile”. L’attacco all’ordine costituito non è quindi un esercizio di democrazia, ma un comportamento antisociale ed egoista.

Dovreste vedere lo spettacolo di migliaia e migliaia di persone che si muovono come api nella metro di Pechino, per capire quanto sia difficile immaginare che una società così densa possa sopravvivere senza un rigido ordine. Allo stesso tempo, questo ordine è pieno di disordine creativo, e di gente sorridente; sarà anche per aver messo la polvere sotto il tappeto, ma il tappeto dei cinesi appare piacevole per tutti quelli che vi sono seduti sopra, e la densità di nuove aziende, nuovi negozi, nuovi palazzi, nuove infrastrutture testimonia come la libertà personale di intraprendere sia tutt’altro che impedita, finché non si va al di fuori dei limiti collettivi.

Noi occidentali continuiamo a vantarci della nostra presunta libertà, contrapposta al presunto autoritarismo cinese; eppure si respira un’aria molto più libera e piena di opportunità a Pechino, dove tutti corrono e fanno e dove non hai paura di venire scippato per strada, che a Los Angeles, dove c’è l’atmosfera cupa della segregazione razziale di fatto e dove se giri l’angolo sbagliato rischi di beccarti una pallottola vagante.

Penso sempre di più che l’argomento dei diritti umani in Cina, iniziato dal basso in totale e giustificata buona fede, sia per i poteri occidentali anche una comoda scusa per mettere in difficoltà politica un rivale economico che ha trovato un interessante compromesso tra libertà, solidarietà sociale e crescita economica, e per tentare una colonizzazione culturale. Vedendo il disastro morale delle società occidentali, ammetto di sperare che a Pechino smettano di filtrare Wikipedia e di arrestare chi critica, ma si guardino bene dall’adottare tout court i nostri modelli sociali.

[tags]diritti umani, cina, libertà[/tags]

divider
lunedì 3 Dicembre 2007, 17:02

L’inutilità del software libero

Il motivo per cui sono venuto in Cina è l’acquisizione di un prodotto software per Internet, che una azienda cinese ha realizzato (mettendoci una decina di sviluppatori per due-tre anni) e che ora vorrebbe cedere.

Il prodotto è bello e funziona bene, è parecchio avanzato e anche tecnicamente all’avanguardia – certamente più degli equivalenti progetti europei e americani. Però ha un difetto: per ora, l’unica implementazione disponibile utilizza i formati multimediali di Windows Media e gira solo come plugin per Internet Explorer su Windows. Per cui, ovviamente, siamo arrivati con le nostre richieste per chiedere se ci facevano anche il porting.

Abbiamo così dato vita a una conversazione surreale con l’amministratore delegato e il direttore tecnico di questa azienda cinese, che suonava più o meno così:

Italia: “Dunque, vorremmo però che il sistema utilizzasse anche Flash, non solo Windows Media.”

Cina: “Flash? Sì, ne abbiamo sentito parlare, ma perché volete usare Flash? Tanto i computer hanno già tutti Windows Media.”

Italia: “Beh, no, non tutti, dipende dal sistema operativo… e poi anche il browser cambia, ci servirebbe che funzionasse anche dentro Firefox.”

Cina: “Firefox? Una volta l’abbiamo visto, ma qui da noi non si usa, se volete lo guardiamo meglio…”

Italia: “Sì perchè, sapete, ci servirebbe davvero che il sistema funzionasse con altri sistemi operativi, non solo con Windows.”

Cina: “Certo, ma è già così: funziona anche con Windows Vista.”

Italia: “Ok, abbiamo capito, ma a noi interesserebbe farlo funzionare sui Macintosh.”

Cina: “Macintosh?? Cos’è?”

Italia (mostrando iBook): “Ecco, questo, vedi… il sistema operativo è una variante di Unix.”

Cina: “Unix?”

Italia: “Non usate Linux?”

Cina: “Linux?”

Il punto è peraltro ovvio: in un paese dove la proprietà intellettuale è un concetto alieno, e dove – come da noi una decina di anni fa – il software è quasi sempre copiato e si trovano facilmente CD pirata a prezzo stracciato ovunque, tutti hanno Windows, Internet Explorer e Windows Media; non c’è alcuna necessità di utilizzare altro. Il software libero quindi è una idea incomprensibile ai cinesi, visto che “free as in free beer” il software lo è già, e “free as in free speech” è un concetto culturalmente alieno.

L’unica spinta che sta cominciando a portare Linux da queste parti è, paradossalmente, proprio il fatto che gli occidentali comincino a insistere seriamente perché i cinesi smettano di copiare il software, oltre alla naturale avversità che i cinesi hanno (e che dovremmo avere anche noi) verso l’idea di una emorragia di soldi in licenze verso gli Stati Uniti.

[tags]cina, software libero, windows, linux[/tags]

divider
venerdì 30 Novembre 2007, 15:19

Impatto su Pechino

Il viaggio per la Cina è devastante; perché è verso est, e quindi il corpo lo regge molto peggio, trovandosi a fare i conti con due giornate sostanzialmente fuse in una sola da 41 ore. Sull’aereo, complici le chiacchiere con i compagni di viaggio e la scomodità dell’economy, ho dormito a malapena un’ora; così oggi sono stato uno zombi, come peraltro anche gli altri. In più, il volo da Malpensa era in ritardo, e mentre noi abbiamo preso la coincidenza al pelo (ci hanno anzi aspettato per una decina di minuti) i nostri bagagli non ce l’hanno fatta; così li aspetteremo fino a domani sera.

Il primo impatto con Pechino – limitato peraltro all’aeroporto, ai quartieri universitari della zona nordovest e al Palazzo d’Estate – è stato comunque molto interessante. Tutto è enorme, ma la città non è affatto sovraffollata, sporca e caotica come le altre metropoli asiatiche che ho visto; i palazzi sono alti (20-30 piani sono la norma) ma distanziati, come torri che emergono da una piana coperta tutt’al più da piccole costruzioni a un piano solo, residui del passato che vengono via via sostituiti da vetro e acciaio o in subordine da muratura e piastrelle eleganti, collegate da strade a quattro o otto corsie ciascuna con isolati da mezzo chilometro l’uno. E il nostro albergo è praticamente un quartiere, con nove palazzine che ospitano almeno un migliaio di stanze di vari livelli di comfort.

Insomma, l’impressione è di ordine e benessere, anche se l’ordine esclude il traffico, dove si vedono grovigli di auto, bici e pedoni modello Nordafrica: è la prima volta che vedo una torma di bici attraversare tutte insieme in svolta a sinistra un gigantesco incrocio, e in mezzo alle bici si aggiungono svariati pedoni che attraversano in diagonale, usando le bici come scudo, e quindi correndo per rimanere insieme a loro; e in tutto ciò il colore del semaforo è sostanzialmente irrilevante, si va a clacson e portellate. L’ordine invece include una selva di telecamere, decine a ogni incrocio, appese sui palazzi, nei parchi, ovunque.

L’altra cosa che colpisce è che in giro si vedono solo giovani indaffarati che corrono a frotte; gli anziani sono pochissimi, e da nessuna parte c’è gente ferma a far niente; per quanto in qualsiasi negozio ci siano almeno cinque commessi per ciascun potenziale cliente, sono tutti attivi, dinamici, inarrestabili. Di conseguenza, l’assalto fastidioso di massa è la modalità commerciale comunemente usata con l’occidentale; un ragazzo di un negozietto di computer ci ha inseguiti per tre piani del centro commerciale, sempre dicendo “come on, sir, follow me, we good prices” (questo era già uno che parlava inglese benissimo). Mentre al Palazzo d’Estate una ragazza ci ha abbordati mentre scendevamo dal taxi, ha negoziato un quindici euro di onorario, e ci ha guidati in buon inglese per due ore di visita, con soddisfazione reciproca e quindi ulteriore mancia.

E’ peraltro vero che Pechino è la capitale imperiale, e vive da millenni di burocrazia; ce ne siamo resi conto compilando i moduli per il reclamo delle valigie, dove ci hanno chiesto informazioni chiaramente inutili – come il peso della valigia, la carta di imbarco del Milano-Francoforte, o il numero di carta Miles&More – semplicemente perché erano previste dal formulario statale. Certo, immagino che chi sgarra finisca male, per cui capisco anche il desiderio di essere ligi alla lettera. Eppure come si possa non solo tenere insieme una società di queste dimensioni, ma anche farla crescere al dieci per cento l’anno e oltre, coniugando una evidente ricchezza con la pace sociale e con disuguaglianze di classe che per ora mi sono sembrate nettamente inferiori alle nostre, è un mistero che merita di essere approfondito.

Nel frattempo, nonostante sia praticamente impossibile comunicare e si senta un po’ il rischio di rimanere persi da qualche parte, ho constatato come l’ambiente non sia affatto intimidente; sarà per la sensazione di sicurezza, sarà per il sorriso che quasi tutti ti mostrano, ma la tentazione di restare chiuso in albergo – che spesso ti assale in posti come gli Stati Uniti o il Brasile – qui proprio non c’è.
[tags]cina, pechino[/tags]

divider
mercoledì 28 Novembre 2007, 17:46

Diritti e solidarietà

Oggi, mentre giravo in macchina, ho sentito per ben due volte su Radio Flash un servizio da una sala torinese, in cui si teneva la presentazione di un rapporto sull’immigrazione in Piemonte. Il corrispondente raccontava di come una cinquantina di immigrati-rifugiati (cioè provenienti da paesi in guerra) avessero occupato la sala e interrotto i lavori per ottenere che il Comune provvedesse a dare loro una casa.

Con un tono fortemente indignato, il giornalista della radio e un suo intervistato si lamentavano di come il diritto all’assistenza di questi immigrati fosse violato; e di come il Comune non volesse nemmeno discutere la questione, e di come lo stanziamento comunale per questa categoria di persone fosse stato solo di un milione e mezzo di euro, sufficiente appena per una soluzione temporanea, mentre queste persone, pur avendo avuto il permesso di soggiorno, non riescono a pagarsi una abitazione decente – tanto da occupare abusivamente una palazzina – perché trovano soltanto lavori interinali.

La questione è interessante per vari aspetti: stiamo parlando del diritto d’asilo, cioè di una prescrizione riconosciuta da decenni da varie convenzioni internazionali, secondo le quali chi proviene da una zona di guerra ha diritto a venire accolto (non può essere respinto alla frontiera) e assistito. Il problema è che negli ultimi anni il numero dei rifugiati è in forte crescita, non tanto perché siano in aumento le guerre, ma perché l’industrializzazione dell’emigrazione permette a molte più persone di arrivare fino in Italia a costi accettabili; e anche perché la stessa industria suggerisce ai suoi poveri clienti di dichiararsi alla frontiera come proveniente dal Darfur o dalla Somalia, e prova tu, davanti a un immigrato senza documenti, a capire se è vero. Peggio ancora se l’immigrato si dichiara perseguitato politico.

Per l’Italia poi, la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, da accordi europei, l’assistenza è di competenza del primo paese UE in cui il rifugiato sbarca, anche nel caso in cui poi si sia spostato clandestinamente altrove. Ovviamente le nostre frontiere di burro e brava gente sono l’approdo più battuto.

Si potrebbe discutere su dove possa arrivare questo diritto; comprende solo il permesso di soggiorno, o dovrebbe, come sosteneva l’intervistato, comprendere anche una casa e magari un lavoro stabile? Perché, in questo caso, la domanda seguente è ovvia: in una situazione in cui una percentuale consistente degli italiani sotto i quarant’anni non ha nè l’una nè l’altro, come si può pensare che l’Italia possa assistere a quei livelli tutta la popolazione in fuga dalle guerre di mezzo mondo?

Quello che colpiva nell’intervista era proprio questo: il parlare di diritti in modo totalmente avulso dalla realtà, come se il livello di realizzazione dei diritti (che è cosa diversa dal diritto in sè) non dovesse necessariamente scendere a patti con la società circostante e con la quantità di ricchezza disponibile nel sistema; al punto da giustificare persino il tentativo di imporne il soddisfacimento con la forza, occupando sale e palazzine.

La situazione economica generale è evidente a tutti; vero, ci saranno abusi e sprechi, ma non c’è dubbio che le risorse collettive per l’assistenza siano scarse e che, visto il già alto livello di tassazione, non potranno certo aumentare; si tratta di decidere come dividerle equamente tra tutti i diritti esistenti, sapendo che non sarà possibile soddisfarli tutti completamente per tutti.

Se è vero che un diritto è un diritto, è anche vero che in un momento del genere tutti – a maggior ragione chi ne parla sui media – dovrebbero avere senso della misura; e magari ricordarsi che anche per esercitare un proprio diritto – che però si basa sulla solidarietà altrui, in un luogo dove si è ospiti – invece di sbraitare e aggredire gli altri sarebbe gentile chiedere per favore, e ringraziare.

[tags]diritti, diritto d’asilo, assistenza, rifugiati, torino, radio flash[/tags]

divider
sabato 3 Novembre 2007, 07:37

Un post

Qualche giorno fa, Sohrab Razzaghi, il direttore di ICTRC, una delle NGO iraniane più attive nel processo del WSIS e in altri forum di cooperazione internazionale, è stato arrestato a Teheran (qui in farsi). Pur non conoscendolo, tramite conoscenze avevo già firmato la petizione quando l’ufficio della sua organizzazione era stato chiuso con la forza dalle autorità.

Cosa si può fare? Niente, a parte forse mandare una lettera. Sono comunque situazioni che non conosciamo e che non sappiamo interpretare che in superficie, grazie a qualche email e a qualche informazione raccattata sul web. Eppure, quando qualcuno viene arrestato per le proprie idee è sempre un male, e vale sempre la pena di farci almeno un post.

[tags]razzaghi, ictrc, iran, diritti umani[/tags]

divider
venerdì 2 Novembre 2007, 19:50

Rom e romani

Ho scoperto oggi, leggendo i giornali dal web, che in Italia c’è un certo fermento per l’ennesimo episodio di violenza da parte di un rom su di un romano.

Vista da qui, la situazione non sembra così complicata: basterebbe evitare le generalizzazioni, punire adeguatamente chi commette crimini, sussidiare l’integrazione chi dimostra di comportarsi bene, e non tollerare situazioni di illegalità, come i campi di roulotte autoorganizzati o come quei gruppi di famiglie rom che notoriamente vivono di sfruttamento dei minori mandati ad elemosinare, quando non di furto organizzato.

Se tutto ciò diventa un problema di massa per l’abbondanza di delinquenti in un certo gruppo sociale, e se si pensa di non poter gestire una integrazione ordinata di tale massa, nulla dovrebbe vietare di chiudere le frontiere a nuove immigrazioni o di adottare provvedimenti che abbiano un effetto analogo – anche perché è noto che in Romania sono ben lieti di togliersi i rom dalle scatole, e allo stesso tempo questa situazione dà loro modo di chiedere più soldi all’Europa, con la giustificazione di dover creare condizioni sociali che riducano la tendenza ad emigrare (lo stesso trucco è stato utilizzato spesso da Gheddafi).

Questo è un tipico problema di integrazione “borderline”, cioè con una comunità che ha usi e costumi incompatibili con le nostre leggi; è lo stesso problema che si pone, anche se in modo meno marcato, con la comunità islamica. Non è mai facile tirare la riga, e definire fino a dove siamo noi che dobbiamo accettare la diversità, e dove devono essere gli altri che vengono qui ad adottare la nostra cultura; soprattutto, non è un problema che si possa risolvere in astratto, con un principio valido sempre e comunque.

Purtroppo, in Italia c’è ancora per questa questione un approccio ideologico nel senso deteriore del termine: non si riesce ad andare oltre il terzomondismo d’accatto, per cui tutto va accettato in quanto loro sono poveri (persino quando non lo sono affatto!), ed il corrispondente fascismo strisciante, per cui non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono rom.

Purtroppo, pare che in Italia, invece di avere discussioni basate su dati e proposte concrete, qualsiasi problema debba dare necessariamente luogo a isteria, scaricabarili e strumentalizzazione. La rete, tra le altre cose, dovrebbe essere un luogo sufficientemente libero e pacato per cominciare a rovesciare questo approccio. Eppure, quando non più di tre settimane fa Grillo ha lanciato l’allarme, i benpensanti della blogosfera l’hanno ricoperto d’insulti. Mi sa che è proprio vero che la nostra politica e i nostri media, tanto criticati in questo periodo, si limitano a riflettere la mentalità del romano medio.

[tags]rom, violenza, tor di quinto, grillo[/tags]

divider
lunedì 29 Ottobre 2007, 14:12

I will not illegally download this movie (2)

Da The IT Crowd – telefilm che non avendo figone non sarà mai tradotto in italiano – ecco l’ultimo video della MPAA per convincervi a non scaricare film dalla rete. Fate attenzione.

divider
sabato 27 Ottobre 2007, 19:13

Rivoluzioni

Volevo esprimere il mio massimo rispetto per il senatore Fosco Giannini di Rifondazione Comunista, che l’altro giorno ha avuto la forza e il coraggio di indignarsi in Parlamento per un servizio del TG2 di mercoledì sera, dedicato al novantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.

Anche io avevo visto il servizio e ne ero rimasto allibito: descriveva la rivoluzione russa con una faziosità virulenta, chiaramente studiata a tavolino, ben lontana da qualsiasi possibile giudizio storico, e molto più simile a un bollettino della CIA degli anni ’50. La scelta e il racconto dei fatti, l’uso degli aggettivi e dei verbi erano studiati per denigrare il comunismo come nemmeno Emilio Fede avrebbe mai fatto. In pratica, la rivoluzione bolscevica veniva descritta come un colpo di stato minoritario, autoritario e sanguinario basato su idee “atee, materialiste e violente” (notare l’associazione tra ateismo e violenza). Secondo il servizio, poi, il comunismo russo sarebbe la causa diretta dell’avvento del nazismo in Germania, come a sottintendere che è colpa dei comunisti se c’è stato Hitler; le due ideologie vengono poi apertamente equiparate. Segue l’affermazione secondo cui “fascismo e nazismo crollarono con la guerra”, fattagli evidentemente dagli alieni e non anche dall’Unione Sovietica comunista: il ruolo del comunismo nella seconda guerra mondiale viene scientificamente ignorato, e anzi si dice che il comunismo alla guerra sopravvisse “abilmente”, come un criminale di strada. E così via.

Ora, voi sapete che io sono ben lontano dall’essere comunista, e anzi che mi diverto a denigrare quei vecchioni della sinistra conservatrice e i loro schemi ideologici, che sono certamente inefficaci, e molto spesso illiberali e autoritari. Eppure, un conto è instaurare un sistema sociale centralizzato ed autoritario – che però ha permesso la liberazione di mezzo mondo dal feudalesimo, dallo sfruttamento e dal colonialismo – e un conto è  spedire gli ebrei nei forni.

Le rivoluzioni comuniste nel mondo sono nate per ideali nobili, per richieste di giustizia sociale, di equità economica, di maggiore libertà da preesistenti regimi oppressivi o dittatoriali. Che esse siano poi degenerate in altrettante dittature è innegabile, nè io vorrei mai vivere in un paese comunista; ma sostenere che il loro scopo fosse esplicitamente e sin dal principio la dittatura e il vantaggio personale è non solo oggettivamente falso, ma vergognosamente irrispettoso di chi per quegli ideali ha dato il proprio sangue (e sì, c’è stata in passato gente che moriva per un ideale, non solo per troppo alcool o troppo sballo).

Il problema è che al giorno d’oggi parlare di rivoluzione, qualunque rivoluzione, è pericoloso; per vent’anni ci è stato fatto un lavaggio del cervello continuo per convincerci che l’ideologia è un male, che l’ideale è un male, che quello attuale è il migliore dei mondi possibili e che chi domanda cambiamenti che non siano meramente estetici è necessariamente un violento e un terrorista, o perlomeno uno stupido che vive di sogni.

Eppure, proprio l’Italia dimostra come sia necessaria una grande rivoluzione, nel senso proprio di un cambiamento radicale e improvviso di classe dirigente. Una rivoluzione molto diversa da quelle passate, innanzi tutto perché pacifica, non violenta, tranquilla. Una rivoluzione glocale come il nuovo sistema economico mondiale, con un occhio alle grandi questioni planetarie, e l’altro ai problemi spiccioli e concreti di tutti i giorni. Ma pur sempre una rivoluzione, perché il sistema sociale attuale è ingiusto e insostenibile per tanti, troppi motivi. E quando una gerarchia non sta più in piedi prima o poi, volente o nolente, cade.

Rivoluzioni così sono successe, in questi vent’anni, proprio nelle nazioni ex sovietiche, che avevano lo stesso nostro problema di gerarchia sclerotizzata. Però preparatevi, perché nessun grande cambiamento storico è mai avvenuto stando col culo sulla sedia a guardare i Simpson, o a farsi rincitrullire dal televisore su come l’importante sia stare zitti e delegare ad altri il potere politico ed economico, in nome della lotta contro un profluvio di paure artificiali e in cambio di svariati specchietti e perline. Prima o poi, ci sarà da sedersi in una piazza e non muoversi più.

[tags]tg2, rivoluzione d’ottobre, giannini, rivoluzione, casta[/tags]

divider
mercoledì 24 Ottobre 2007, 16:15

Pirati? Volevamo dire, contraffattori!

Della diatriba internazionale sul diritto d’autore si parla spesso e in abbondanza; la lotta per favorire formati e programmi aperti su quelli proprietari e per evitare che i produttori di contenuti utilizzino strumenti tecnologici come il DRM per negare ai consumatori i propri diritti è faccenda di massa da una decina d’anni.

Per tutto questo tempo ci siamo dovuti sorbire gli spot di Faletti e le immagini sui DVD (non saltabili) di terribili pirati àcher che con la benda sull’occhio e la mano sul mouse finanziavano la mafia e il terrorismo grazie alla TUA complicità, si proprio tu che dopo aver pagato venti euro la compilation del meglio di Nino d’Angelo mo’ te la vorresti pure sentire sul lettore MP3 senza doverla ricomprare, ladro!

Forse non tutti sanno che, tuttavia, le cose non sono rimaste ferme. Dieci anni fa il “nemico” era WIPO, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale, che era dominata dagli interessi dei paesi industrializzati e che sosteneva il sistema internazionale del copyright infinito.

In questi anni, però, lo scenario ha cominciato a cambiare, principalmente perché i paesi in via di sviluppo hanno mangiato la foglia, e hanno capito che il sistema della proprietà intellettuale così come sviluppato negli ultimi quarant’anni è una forma di colonialismo che crea dipendenza, non più in termini di industrie di manifattura e trasformazione fisica dei prodotti ma in termini, ben più pericolosi, di conoscenza e di infrastruttura dell’informazione e della comunicazione.

E così, la favola del pirata cattivo non se la beve più nessuno; e così, paesi come il Brasile e il Sudafrica sono molto più avanti di noi nell’adozione sia pubblica che privata dei modelli di distribuzione libera; l’Italia è in effetti uno dei paesi più arretrati al mondo, non solo per il proprio cronico ritardo culturale ma per la presunzione facilona – molto “all’italiana” – di stare in questo scontro dal lato di chi produce tecnologia avanzata, mentre invece da almeno trent’anni ne siamo passivissimi utenti.

Comunque, mangiata la foglia, il Brasile ed altre nazioni hanno portato avanti negli ultimi anni la cosiddetta Agenda per lo Sviluppo: un piano di lavoro che si propone di rivoltare WIPO come un calzino, trasformandola da una organizzazione per la difesa delle grandi corporation americane a una che ha come obiettivo la diffusione della conoscenza. La battaglia è durissima, ma promette bene, per un solo chiaro motivo: che nel sistema delle Nazioni Unite, nonostante le lobby e le pressioni, ogni nazione vale allo stesso modo, e i paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati.

E’ per questo che non è una sorpresa l’annuncio di ieri del governo americano, secondo cui gli Stati Uniti si sono accordati con i fidi (nel senso di “obbedienti come cagnolini”) europei, canadesi, australiani, giapponesi e così via, per dare il via alla negoziazione di un nuovo accordo internazionale, al di fuori di WIPO e delle Nazioni Unite, denominato Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA).

Naturalmente, lo scopo di questo nuovo trattato sulla proprietà intellettuale sarà quello di difendere i poveri cittadini delle nostre società dai cattivissimi contraffattori cinesi, quelli che fanno le Barbie al piombo e i dentifrici batterici (il fatto che li facciano su ordinazione di aziende occidentali, che li pagano uno e li vendono a cento, è trascurabile). Se poi nel mezzo del trattato ci capiterà qualche regoletta sull’estensione del copyright o sull’adozione dei DRM, beh, è solo per combattere meglio i malefici contraffattori!

Già, perché non penserete mica che il fatto che da alcuni mesi giornali e telegiornali abbiano quasi smesso di ammannirci le immagini dei pirati con la benda sull’occhio e la mano sul mouse, e abbiano cominciato a terrorizzarci un giorno sì e l’altro pure con il finto parmigiano o con un giocattolo esplosivo dietro l’altro (naturalmente contraffatto), sia casuale?

[tags]copyright, pirateria, contraffazione, acta, wipo, nazioni unite, faletti peccato che il cd non t’abbia preso in fronte[/tags]

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike