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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


martedì 19 Settembre 2006, 18:10

La Stampa libera

Stamattina ho assistito alla maggior parte di questo convegno, organizzato da La Stampa per annunciare la decisione di rilasciare sotto licenza Creative Commons i supplementi Tuttolibri e Tuttoscienze.

Innanzi tutto, la decisione è ottima; per i pochi che non li conoscono, si tratta di due supplementi che da una quindicina d’anni parlano rispettivamente di libri, musica, teatro e cultura in genere, e di scienza e tecnologia, ospitando interventi e articoli veramente di livello. Come confermato informalmente sul luogo, pare che la decisione riguardi non solo il futuro, ma anche tutti gli arretrati, che fino ad oggi La Stampa vendeva su appositi CD. Si tratta del primo caso in Europa, tra i quotidiani, e segna certamente una pietra miliare nella diffusione di questo tipo di modelli distributivi all’interno della carta stampata; complimenti quindi sia al team di Creative Commons Italia, che immagino abbia spinto l’idea, sia ai vari responsabili della Stampa.

Per quanto riguarda l’evento, io sono ovviamente arrivato in ritardo – volevo andare in bici, ma mi sono alzato troppo tardi, e poi parcheggiare in zona Castello del Valentino è stato comunque difficile. La sala del Castello è veramente eccezionale, merita andarci soltanto per l’atmosfera, con gli affreschi restaurati da poco e le finestre che danno sul Po!

Quando arrivo, sta parlando l’editore, John Elkann, persona di cui le conoscenze dirette mi dicono un gran bene, ma che ha un disperato bisogno di un corso di public speaking: in questo caso, vabbe’ che sono le nove e mezza, ma sta leggendo con aria assonnata un discorso prestampato, da un foglio tenuto a mano, alto e dritto in verticale, in modo quasi da coprire la faccia, con un mono-tono che, in termini culinari, equivarrebbe ad un bollito misto senza salse.

E’ decisamente più a proprio agio il direttore, Giulio Anselmi, che espone alcune considerazioni interessanti sull’intenzione della Stampa di costruire un ciclo di feedback tra il giornale stampato e il sito, chiedendo ai lettori di commentare sul sito articoli e notizie e riportandone poi sul giornale del giorno dopo un riassunto; pare che abbiano finalmente capito che non è affatto detto che Internet cannibalizzi i quotidiani, se i quotidiani non dormono.

Sul palco ci sono anche Carlo Olmo (preside di Architettura di cui ho buoni ricordi dai tempi in cui facevo il rappresentante al Poli), presumo in rappresentanza del Rettore Profumo, e Marco Ajmone Marsan, nientepopodimenoche il mio relatore della tesi di laurea, anche se presumo che fosse sul palco non a tale titolo ma in quanto Direttore dell’Istituto di Ingegneria dell’Informazione e altra roba (ci siamo capiti) del CNR, e al posto di Chiamparino. Ma quando arrivo hanno già parlato, mi spiace; ad ogni modo, tutto l’evento è filmato e distribuito liberamente qui.

Subito dopo, la moderatrice Anna Masera (con cui ho appena litigato in pubblico un paio di settimane fa, con gran rispetto s’intende) introduce il panel successivo. Il primo è Juan Carlos De Martin, professore del Poli e anima di Creative Commons in Italia, che fa una spiegazione eccellente, concisa ma chiara anche ai non addetti ai lavori, di cosa siano le licenze CC; la cosa lo appassiona e si vede. Segue Domenico Ioppolo, della Stampa; poi arriva il pezzo forte, cioè l’intervento di Stefano Rodotà.

La mia stima per il professore è nota, ma oggi sono assolutamente stupefatto: credo di essere una persona piuttosto addentro a questi temi e piuttosto avvezza alla riflessione innovativa per conto proprio, ma lui, in un intervento a braccio di mezz’oretta, riesce a darmi almeno una decina di spunti di riflessione e di connessioni interessanti. Ad esempio, è chiaro a tutti il problema del diritto all’oblio, ma il suo collegamento con l’importanza della facilità di pubblicazione libera creata da Internet, per cui invece di far cancellare o far rettificare si possono pubblicare in proprio informazioni aggiornate, è meno ovvio. Ed è davvero importante, come lui fa, far notare a questa platea di manager ed editori che il tema non è una contrapposizione ideologica tra chi vuole il diritto di condividere e chi vuole proteggere una proprietà, ma una discussione anche pratica su quale sia il modello distributivo che massimizza la creazione e la remunerazione dell’ingegno, in uno scenario di creazione di massa e immateriale. (Mi sono spiegato?)

Dopo Rodotà parte il coffee break, e quindi il momento delle chiacchiere; il break è lungo e quindi aggancio un po’ tutti, cominciando da Rodotà stesso (con cui devo organizzarmi per il nostro “comitato Nicolais, e già che ci sono gli dò la buona notizia: ad Atene si farà il workshop sulla Costituzione di Internet), e poi il giro dei libertari torinesi di Hipatia, fino a Pistoletto. Incrocio Andrea Glorioso con cui pianifichiamo un po’ di attività, e alla fine faccio anche a tempo a salutare i ragazzi dello streaming e pure Vittorio Pasteris. E riesco anche ad abboffarmi di paste secche! (La coda del caffè però risulta indomabile.)

Ho ancora mezz’oretta, che mi permette di ascoltare innanzi tutto Piero Bianucci, il direttore di Tuttoscienze e giornalista molto apprezzato, nonchè il promotore del primo sito della Stampa e, via via, di questa svolta di oggi. Prende la parola Pistoletto e ricorda una serie di punti importanti, fino a giungere alla sua concezione (che merita accurata riflessione) del “terzo paradiso”.

Poi tocca ad Angelo Raffaele Meo, che tira fuori le slide; saranno le stesse che ho già visto varie volte? Invece no, ce ne sono di nuove – memorabile quella con tre gigantesche morti nere con tanto di falce, con scritto sotto “liberalizzazione”, “privatizzazione” e “globalizzazione”, e con la conclusione “Questo mercato fa più morti della guerra” – e il discorso è ancora più convincente del solito; per quanto Meo sia un pelo troppo vetero-ideologico dal mio punto di vista, non solo non ho dubbi sulla sua conclusione – il sistema della proprietà intellettuale va ripensato – ma apprezzo la chiarezza con cui anticipa e vede certi fenomeni. Ottima la citazione del “fabbricatore personale”, un oggetto che potrebbe cambiare il mondo: mi fa venir voglia di lavorarci. L’intervento, insomma, è un successone, concluso da un lunghissimo applauso.

Sta per prendere la parola Marco Ricolfi, ma purtroppo devo fuggire per un appuntamento. Scappo e rinuncio al resto del convegno, anche se avrei volentieri preso la parola e dato il mio contributo con il mio classico intervento sul ruolo degli utenti (De Martin ha comunque già ricordato come dal 40 al 60 per cento degli utenti Internet, circa mezzo miliardo di persone, la usino anche per condividere propri contenuti).

Spero che prima o poi ci sarà una occasione di dibattere di questi temi in grande stile anche a Torino, ad esempio sul modello del WOS che si è svolto a Berlino in questo weekend; noto però con piacere che, anche grazie al tanto vituperato giornale cittadino, non siamo affatto così indietro come ci piace pensare. Anzi, chissà che, sull’onda di queste scelte, non sia proprio La Stampa a spingere la nascita di un altro evento di cartello a Torino.

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lunedì 18 Settembre 2006, 18:38

Vecchi, furiosi e combinaguai

Bene, ho visto che il mio post minimalista sulla morte di Oriana Fallaci ha scatenato una pioggia di commenti, anche piuttosto accesi. A questo punto mi sento in dovere di precisare meglio la questione, e di proporre un punto di vista spero interessante.

La storia della Fallaci è nota a tutti; una giornalista anticonformista, laica ed emancipata, cosmopolita e conosciuta in tutto il mondo, idolo delle femministe e della sinistra e come tale adorata, persino al di là delle sue oggettive qualità artistiche, come giustamente obiettava Bruno; che negli ultimi anni diventa ancora più famosa per una serie di posizioni estremamente dure – sicuramente intolleranti, c’è chi dice razziste – contro l’Islam.

Noi, però, spesso commettiamo l’errore di giudicare le persone da quello che dicono, senza cercare di capire da dove arrivano quei pensieri. E’ invece soltanto attraverso la compassione – in senso proprio, cioè sentire insieme, immedesimarsi nelle emozioni e nei sentimenti delle persone – che si può cercare di comprendere ciò che passa nella testa di una persona.

La chiave di interpretazione, per me, sono state due frasi dell’intervista postuma che La Stampa ha pubblicato sabato mattina, citate direttamente in prima pagina. La prima frase diceva più o meno “Ho avuto una vita difficile e infelice, non capisco perchè tutti mi detestino”; e la seconda “Invidio tutte le donne incinte, perchè stanno per diventare immortali; io ho preso l’abitudine di chiamare bimbi i miei libri, ma è una magra consolazione”.

In altre parole, mi immagino la Fallaci come una vecchia signora frustrata dalla solitudine e dal rimpianto per alcune delle scelte e dei casi della vita (si sa che il suo unico grande amore morì in prigione dopo un paio d’anni, torturato dai colonnelli greci). In tutte le persone infelici esiste la necessità psicologica di trovare qualcun altro con cui prendersela, per evitare di pensare troppo a prendersela con se stessi. Per questo scopo, come “brutti e cattivi” e allo stesso tempo fornitori di una santa missione con cui giustificare la propria esistenza, gli islamici sono perfetti.

Naturalmente, non c’è solo questo; le argomentazioni della Fallaci hanno certamente delle basi filosofiche, per quanto io non le condivida affatto. Ma questo, secondo me, spiega la fissazione ossessiva con cui, in vecchiaia, lei si è concentrata su questo solo argomento; nonchè la cattiveria, la violenza verbale e l’assoluta mancanza di dubbi con cui sostenere le proprie opinioni. Perchè, se pensi di aver sacrificato una parte significativa della tua felicità alla difesa di una causa collettiva, ammettere dubbi e deviazioni dalla causa stessa corrisponde ad ammettere i dubbi (sicuramente covati) sulle tue scelte di vita.

In questo, la Fallaci è tutt’altro che un caso isolato (del resto la vecchiaia porta comunque con sè una sclerotizzazione dei valori e delle visioni del mondo, e penso che non si possa continuare a essere onestamente di sinistra dopo i sessant’anni). Un’altra persona, un tempo illuminata ed arguta, che in vecchiaia diventa puerilmente ossessionata e concentrata su un presunto nemico è il Forattini con la bava alla bocca contro D’Alema e compagni.

E poi, c’è il mistero del Rottweiler di Dio, che insiste nel rilasciare dichiarazioni che farebbero impallidire un inquisitore rinascimentale: tutte le opinioni sono legittime, ma chi di noi, se non sotto effetto di stupefacenti, citerebbe in pubblico come maestro di pensiero un imperatore medievale che era violento, totalitario e bigotto pure per quell’epoca, tanto da metterselo fin nel patronimico? Si dimostrerà un vecchio rancoroso anche lui, o possiamo sperare che metta giudizio?

La cosa veramente preoccupante, a ben vedere, è che le paturnie esistenziali o le antipatie senili di un vecchio o di una vecchia possano finire per alimentare conflitti mondiali, o perlomeno per scatenare un po’ di ammazzamenti in giro per il mondo. Forse sarebbe bene che gli anziani, non importa quanto potenti o geniali siano stati nell’età adulta, si ritirassero in buon ordine quando l’arteriosclerosi comincia ad avanzare.

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domenica 17 Settembre 2006, 23:56

Overbooking

Circa tre ore fa, all’aeroporto di Francoforte, arrivo al gate del mio volo per Torino – in teoria, pochi minuti prima che finisca l’imbarco – e trovo una folla di gente sparpagliata e pigiata nella sala e attorno al bancone; molta di più di quella che può entrare in uno dei (relativamente) piccoli aerei da meno di 150 posti che Lufthansa usa sulla tratta.

Pochi secondi dopo, la signorina prende in mano il microfono e fa il seguente annuncio: “Il volo è esaurito a causa di overbooking. Stiamo ancora cercando alcuni passeggeri disposti volontariamente a partire domani mattina con l’aereo delle 8,55. Offriamo il pagamento dell’albergo, della cena, della colazione e un buono da 350 euro oppure 250 euro in contanti.”

La reazione, contrariamente alle aspettative, è tiepida. Anche io, in effetti, mi pongo il problema: potrei arrivare in ufficio più tardi, non ho nessuno che mi aspetta a casa, perchè non restare? La cifra offerta non è affatto piccola. Poi mi faccio un esame di coscienza, e decido che sono troppo stanco, ho già dormito in albergo stanotte, non ho voglia di cenare da solo e ho soltanto il desiderio di arrivare a casa.

Dopo un po’, comunque, ci ripenso e mi avvicino; tuttavia, mancano solo tre volontari e siamo in quattro potenziali interessati, e gli altri tre sono un gruppo di ragazzi più giovani di me che hanno passato i cinque minuti precedenti a dirsi con entusiasmo “Ehi, ma è quello che guadagno in una settimana!” o “Fico, finalmente cambio il computer!”. Decido che, in effetti, non ho particolare bisogno dei soldi – sicuramente meno di loro – e ascolto la mia voglia di casa.

Ad ogni modo, se l’offerta vi sembra strabiliante, ripensateci: difatti, come ho scoperto ascoltando le conversazioni in sala, a Francoforte c’era una fiera che è finita oggi, e mezzo aereo era riempito da uomini d’affari che tornavano indietro. E’ ampiamente probabile che alcuni di questi si siano svegliati all’ultimo; e lo stesso volo intraeuropeo in economy che con qualche settimana d’anticipo Lufthansa ti dà per 100 euro più tasse, se comprato due giorni prima può costarne tranquillamente 700 o 900, cifra che di tasca mia non pagherei, ma che per un manager, essendo sborsata dall’azienda, non è mai un problema. Nei 600-800 euro di differenza ci stanno tranquillamente sia l’albergo e la cena che i 250 euro in contanti per chi resta a piedi; a Lufthansa conviene quindi vendere questi biglietti anche se il volo è già pieno, e ci guadagna comunque parecchio.

Apprezzo però il fatto che, invece di limitarsi a beccare gli ultimi che arrivano e dirgli “rimanete a terra, questo è il buono per l’albergo e ci vediamo domani”, Lufthansa cerchi dei volontari e li compensi in modo comunque significativo. Non credo che tante altre compagnie facciano lo stesso.

P.S. Anche nel corso di questo giro finesettimanale ho timbrato tutte le caselle: mi sono difatti precipitato in bagno in tutti e tre gli aeroporti coinvolti (nell’ordine Franz-Josef-Strauss, Tegel e Francoforte). Ma l’aria di aeroporto sarà diuretica?

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venerdì 15 Settembre 2006, 14:30

Non sono sempre i migliori che se ne vanno

Dialogo avvenuto cinque minuti fa (mentre scrivevo la bloggata precedente) qui in ufficio, a proposito di una news che ancora non sapevo:

Collega: “Adesso ti tocca bloggare anche sulla Fallaci!”
Io: “La Fallaci? Che ha fatto? Ma non è ancora morta?”
Collega: “Eh, appunto: è morta oggi…”

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mercoledì 13 Settembre 2006, 21:38

La società frustrata

Stasera, leggendo in giro, sono finito tramite il blog di .mau. in quello di una persona che non conosco, anche se mi sono subito ricordato di aver letto il blog tempo fa. Si tratta del racconto fatto da un tecnico di alto livello che lavora in un centro ricerca di una grande multinazionale (Siemens) che, d’improvviso, viene chiuso per essere trasferito all’estero, dove il lavoro qualificato costa meno. Di lì in poi, per oltre due anni, il blog racconta della progressiva spoliazione delle competenze locali, della fuga o cacciata di parte del personale e delle varie riorganizzazioni che chi resta deve subire; il tutto con un tono estremamente polemico e vittimistico, sin dalla pagina introduttiva, come se ciò che succede al protagonista fosse uno scandalo collettivo e non una normale, per quanto spiacevole, vicenda lavorativa privata.

Adesso che mi ricordo, avevo già contestato l’approccio all’epoca, sulla base del fatto che non è sovvenzionando o difendendo artificialmente delle situazioni lavorative non più competitive che possiamo garantirci un futuro, anche in produzioni molto qualificate. Ma il punto non è questo.

La cosa che mi ha colpito stasera, leggendo qua e là con la curiosità di scoprire come si era evoluta nel frattempo la vicenda, è stato un post di fine luglio in cui si narra degli ennesimi brutti segnali, in vista della fusione tra la divisione cellulari di Siemens e Nokia, con le conseguenti paure per il posto di lavoro; il post finisce con la seguente frase:

“Morale, quest’anno faccio vacanze costose, visto che l’anno prossimo potrei non potermele permettere…”

Ecco, detto che i pensieri espressi in rete possono essere fraintendibili, che quello che segue è un volo pindarico pieno di inferenze non provate, e che comunque ognuno ha legittimamente i propri desideri e le proprie esigenze di vita, questa frase mi ha colpito non una ma due volte.

La prima è stato per aver citato le “vacanze costose” come ciò a cui si sarebbe dovuto rinunciare per colpa della crisi sul posto di lavoro, insomma come la rinuncia simbolo del passaggio a uno stato di inaccettabile depauperamento – o, al contrario, come il giusto premio che si ottiene avendo un lavoro “adeguato”. In altre parole, mi ha colpito come si sia incredibilmente alzato il livello di aspettativa su ciò che molte persone ritengono il minimo equo compenso da ricevere dalla società in cambio del proprio lavoro; non soltanto il sostentamento, una casa decente, la possibilità di crearsi una famiglia, ma anche i gadget tecnologici e appunto le vacanze costose (e, si noti bene, non necessariamente belle ma sicuramente costose).

La seconda è stata il ragionamento secondo cui, se l’anno prossimo penso o temo di guadagnare meno di quest’anno, quest’anno spendo di più invece che di meno. Se ci pensate, questo è veramente perverso: i nostri padri, i nostri nonni, sono partiti con poco (i nostri nonni si sono trovati un paese quasi senza economia e raso al suolo dalla guerra…), e, con un lavoro quantitativamente e qualitativamente incomparabilmente più duro del nostro, hanno fatto sacrifici tutta la vita per comprarsi una casa, una macchina, e mandare i figli all’università. Le generazioni vicine alla mia, i trentenni e i quarantenni di oggi, pur di fronte a un mondo con molte meno certezze (ma anche a una situazione economica di partenza molto migliore), e pur vedendo come una prospettiva catastrofica il dover rinunciare ad una estate alle Seychelles (o forse proprio per quello), non hanno nessuna intenzione di risparmiare o di sacrificare alcunchè per costruirsi un futuro; l’imperativo è soddisfare subito, qui e ora, le proprie voglie istantanee, senza guardare in faccia niente e nessuno, e poi si vedrà.

Ho preso l’esempio di una persona che, ripeto, non conosco, ma che dal blog si evince colta, preparata, non certo succube degli spot televisivi o del modello di vita velina-calciatore-Briatore; ne deduco (ma basta guardarsi attorno) che per l’italiano medio è anche peggio. Del resto, giusto per citare un sintomo tra molti, i finanziamenti al consumo di ogni genere, da quelli delle banche ai terrificanti Prestitò telepromozionati per giungere alle carte di credito con dilazione di pagamento incorporata, stanno vivendo un boom senza precedenti. Il paese tradizionalmente più risparmiatore d’Europa si è trasformato nel regno dell’indebitamento a rate.

Eppure, il ragionamento non si può fermare qui. Perchè la psicologia insegna che il consumo moderno è soprattutto una forma di gratificazione, e la gratificazione da shopping – come quella da cibo, da fumo, da alcool – diventa tanto più impellente quanto più vengono a mancare le forme di gratificazione più normali e tradizionali, prima tra tutti quella dei rapporti interpersonali in tutte le loro forme, associazione amicizia amore e sesso tra le altre, e poi quella della realizzazione pubblica, del riconoscimento tra pari, delle soddisfazioni professionali.

E allora, forse tutto questo debito e questo apparente edonismo individuale hanno una causa profonda, cioè la frustrazione tremenda che, in modo ancora sotterraneo ma ben percepibile, attraversa tutta la nostra società. Una frustrazione che è, purtroppo, strutturale; non solo per via dei meccanismi economici basati sulla creazione di desideri artificiali funzionali al consumo, o della parcellizzazione e dequalificazione dei posti di lavoro; ma anche per via del modo in cui, in una società basata troppo spesso sull’arroganza, sulla competizione spinta all’estremo, sulla libertà individuale senza limiti etici e sull’instabilità professionale e personale, i rapporti umani di qualsiasi genere si sono inceppati.

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lunedì 11 Settembre 2006, 22:51

Ancora sui supermercati

Stasera, tornando a casa dopo un panino in birreria, mi è venuta improvvisa voglia di gelato. Sono passato dalla solita gelateria di via Monginevro, ma era chiusa; e così, tornando a casa, ho pensato che era ancora aperto il Carrefour di corso Montecucco.

Si tratta del primo, storico ipermercato che aprì all’interno dell’abitato di Torino nel 1989; prima, c’erano soltanto (pochi) ipermercati in prima cintura, come le Città Mercato di Venaria e Rivoli, tutti rigorosamente della Fiat. Allora si chiamava Continente e quando, una decina di anni dopo, cambiò di botto nome in Carrefour i suoi clienti abituali, tra cui me e .mau., ne restarono sconvolti; ricordo anzi che a questo argomento dedicammo ampio spazio a margine di una riunione romana della Naming Authority.

E’ stato comunque il primo ipermercato dove io abbia fatto la spesa, per le feste con gli amici quando ancora andavo al liceo; insomma, nonostante le varie trasmutazioni, e nonostante abbia smesso da un pezzo di farci la spesa (vennero poi le Gru, e quindi il Lidl), ci resto affezionato.

Sono andato quindi a farci un giro, con lo scopo di comprare una vaschetta di gelato e venir via, dopo anni che non ci entravo. E sono rimasto sconvolto.

Intanto, dentro tutto è vecchio, sciatto, sporco, o almeno così mi sembra adesso (forse siamo solo abituati a ipermercati sempre più grossi e luccicanti). Poi, ho fatto un giro e ho visto (oltre a scaffali mezzi vuoti con le cose buttate un po’ lì) che i prezzi sono comunque alti: lo stesso pacco di biscotti al cioccolato che al Lidl costa 1,69 euro, qui ne costa 1,95. E poi, per uscire ho fatto venti minuti di coda abbondanti: c’erano pochissime casse aperte, e quella “veloce” aveva ben ventisei persone davanti a me. C’era un po’ meno coda solo nelle casse riservate ai possessori di tessera fedeltà, di due tipi diversi. Insomma, anche al Lidl c’è spesso coda, ma mai più di sei-sette persone…

E quindi, ho concluso che non cambierò abitudini d’acquisto; però ho notato come anche un ipermercato come quello sia costretto dall’impoverimento generale a fare concorrenza al ribasso per inseguire i discount, senza peraltro riuscirci. Certo non è un discount e ha l’assortimento e i prodotti di marca, così come ha le tessere fedeltà e i premi, che i discount non hanno. Ma ho avuto l’impressione che questa formula non abbia più il successo che aveva anche solo cinque anni fa.

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venerdì 8 Settembre 2006, 18:22

Religioni

Quest’anno ho passato le vacanze girando in lungo e in largo per un paese islamico. E’ uno dei più laici e moderati, dove, nonostante le fantasie occidentali, di chador se ne vedono pochi e sono quasi tutti di turiste arabe; ma è comunque un paese pienamente islamico.

E se da una parte sono stato stupito dalla laicità e dalla modernità del posto, dall’altra ho avuto modo di entrare nelle moschee, alcune anche poco turistiche, e di vedere l’attaccamento con cui la maggior parte delle persone approcciano la propria religione.

Succede poi di leggere una storia del genere: quella di un calciatore musulmano in un paese occidentale, la cui squadra, di primaria importanza, riceve un ricco contratto di sponsorizzazione da una società di scommesse online. E lui, gentilmente, dice che non ha nessuna intenzione di portare sulla maglia quella scritta, perchè il gioco d’azzardo contrasta con i principi dell’Islam.

Magari vi sembrerà un’idea balzana, ma a me affascina l’idea che esistano ancora culture dove esistono dei principi etici codificati più forti del denaro; e religioni con la R maiuscola, ossia non ridotte (come la nostra) a spettacolo mediatico della domenica mattina, a puro centro di potere, o alla lettera C nella sigla di questo o quel partito o club d’affari. Religioni che fanno il lavoro proprio di una religione, ossia quello di fornire dei precetti morali vincolanti a chi le sceglie.

A me dà sempre molto fastidio la supponenza con cui il mondo occidentale si accosta alle società diverse dalla propria, Islam in testa. Come tutti gli atti di arroganza intellettuale, mi irrita l’assunto che una società laica sia necessariamente migliore, più equa, più avanzata, più felice di una religiosa; che tutte queste noiose regole morali siano l’oscuro passato, e che lo splendido futuro risieda in un laicismo (ma anche in un cattolicesimo di pura forma, come quello della maggior parte degli italiani) in cui, in sostanza, l’unico precetto etico mediamente adottato è di soddisfare i propri desideri individuali e i propri istinti a proprio vantaggio, qui, ora e subito, senza guardare in faccia nessuno.

Non so come sia finita la storia del calciatore di cui sopra, ma spero che non resti un episodio isolato; perchè, al di là degli specifici principi etici a cui uno si rifà, quello che ormai abbiamo completamente svalutato, e che è bene ci venga ricordato ogni tanto, è l’idea di etica in sè.

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lunedì 4 Settembre 2006, 19:16

Spirito hacker

Il mio intervento all’Hackmeeting è stato un successone; per quanto un meeting di smanettoni e antagonisti in una palazzina occupata non sia il tipico appuntamento in cui intervengo, ci vado sempre con molto piacere, e con la certezza di trovare persone che, pur avendo spesso idee politiche ben precise, pensano con la propria testa.

I giornali hanno parlato dell’evento in tono abbastanza neutro, quelli di sinistra anzi chiaramente a favore; non solo il Manifesto aveva una pagina quasi intera e un articolo di apertura di Arturo Di Corinto, ma l’Unità ha ospitato un articolo auto-scritto dalla comunità degli organizzatori mediante un wiki.

L’unico quotidiano a distinguersi è stato La Stampa – e devo dire che da buon sabaudo io alla Stampa sono affezionatissimo, oltre che abbonato, ma più passa il tempo e più si accumulano episodi a favore di quei miei amici che tutte le volte mi dicono “Ma tu ancora leggi La Stampa?!?”. Il mio giornale ha cominciato a parlare di Hackmeeting con uno spottone a tutta pagina al capo della sicurezza informatica della Guardia di Finanza, con tanto di foto e pubblicità del suo libro in uscita, giusto per mettere in chiaro che questi pericolosi alternativi andavano repressi con la forza e già che ci siete compratevi il libro.

Poi, per rafforzare il concetto, ha ospitato un articolo di Raoul Chiesa, il caso più noto in Italia di hacker divenuto professionista dell’anti-hacking, che spiegava con dovizia di dettagli di come non andasse all’hackmeeting perchè si tratta di un evento troppo politico, che come tale non rispecchia l’etica hacker; e di come preferisca invece volare qua e là da un meeting tedesco a uno di hacker malesiani, sempre parlando male di quelli italiani, s’intende.

Ora, lo ammetto, la cosa mi ha dato prontamente sui nervi; perchè io all’Hackmeeting ci sono andato, e ho trovato sì una palazzina occupata, uno striscione contro il fascismo, e un angolo con manifesti che parlavano di Genova (G8) e di CPT, argomenti che con l’hacking in sè c’entrano poco; ma ci sono entrato liberamente, e pur venendo da una cultura diversa da quella dei centri sociali ho fatto il mio intervento, parlando e sparlando di chiunque, e nessuno mi ha insultato o minacciato perchè, ad esempio, collaboro con istituzioni di vario genere.

Non mi piace in generale che si usino i giornali per sparlare di un evento libero e senza padroni, e soprattutto che lo si faccia senza nemmeno essere andati lì a vedere com’era dal vivo, solo sulla base di preconcetti (mi riferisco ai giornalisti, perchè Chiesa almeno a qualche hackmeeting c’è stato). In più, la cosa mi piace ancora meno quando io sono tra i relatori.

Questo detto, il problema che pone Chiesa è reale, e sono stato io stesso a sollevarlo in altre occasioni. Il movimento hacker nasce negli Stati Uniti, e nasce quindi con uno spirito assolutamente capitalista, libertario, individualista; la libertà del software è quella di farcisi i fatti propri, senza coordinarsi o prendere ordini da nessuno. Non c’è necessariamente un piano politico o una ideologia dietro lo sviluppo di software libero o la diffusione della conoscenza, se non l’affermazione delle libertà individuali nei confronti di un mondo fatto di poteri centralizzati e sempre più forti.

E’ del tutto evidente, quindi, che l’etica hacker è tutt’altro che anticapitalista, anzi è l’esatto opposto del comunismo. Il comunismo, come le vecchie reti telefoniche, è un sistema in cui esiste una dirigenza centrale che pianifica, decide, organizza, e impone tutto a tutti. L’hacking, lo spirito di Internet, è decentrato e anarchico, è basato sul fatto che ognuno fa quello che vuole in piena autonomia, mettendo persone idee e progetti in concorrenza l’uno con l’altro; alla fine, il migliore viene scelto dalla quantità maggiore di utenti e quindi sopravvive.

In Italia, però, buona parte del movimento hacker nasce nell’ambito dell’estrema sinistra, e allora per molti hacking e occupazioni, hacking e lotta al sistema capitalista coincidono, sono la stessa cosa. E invece non lo sono, e questo va detto forte e chiaro; tanto è vero che il mondo è ormai pieno di “hacker imprenditori”, da John Gilmore a Joi Ito, categoria in cui io mi riconosco appieno e penso si riconosca anche Chiesa.

Allo stesso tempo, però, non si può negare che l’hacking contenga in sè principi di libertà che ne abilitano anche lo sfruttamento politico. Così come è sbagliato pensare che la conoscenza libera appartenga a una determinata ideologia, è sbagliato anche pensare che essa non debba essere usata per scopi politici di qualsiasi tipo. Compresi quelli meno ovvi, visto che una volta chiesero a Richard Stallman se lui avesse qualche problema col fatto che il software libero fosse usato per teleguidare dei missili, e lui rispose qualcosa come “No, perchè dovrei? E’ libero!”.

E quindi, mi sembra che non si possa impedire ai centri sociali d’Italia di definirsi hacker e di fare il proprio meeting in santa pace, nè contestare loro un abuso del termine o intimare un “cease and desist” a mo’ di major discografica. Mi sembra invece che la cosa giusta da fare sia contaminare in tutte le direzioni, moltiplicando le occasioni per influenzare reciprocamente le proprie idee, che è poi quello che mi spinge a partecipare, per quello che posso, in ambiti e ambienti così diversi l’uno dall’altro; perchè lo spirito hacker è quello di imparare sempre qualcosa di nuovo e di conoscere senza pregiudizi, e non può esserci conoscenza se si disprezza o anche solo si rifiuta l’incontro – e l’alleanza, per gli scopi che si condividono – con qualcuno di diverso da sè.

P.S. All’ora di pranzo sono anche andato sul sito della Stampa, al link riportato più sopra, per lasciare qualche commento; naturalmente, cinque ore dopo, nessuno dei miei post è ancora stato pubblicato. Ma saranno semplicemente in vacanza, eh.

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venerdì 1 Settembre 2006, 18:41

Hackmeeting

Salve a tutti! Sono arrivato ieri sera a mezzanotte, stanchissimo, e subito riparto: domani mattina sarò difatti a Parma per l’Hackmeeting 2006, in cui terrò un seminario, alle ore 11, sulla governance di Internet e sul controllo della rete. Se per caso siete in zona, non mancate.

Il weekend comprende anche un matrimonio domani sera e altre vicende, per cui non contate troppo presto sullo smaltimento degli arretrati…

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domenica 13 Agosto 2006, 20:57

San Bingo Bongo

“Non si tratta di insegnare metodi contraccettivi agli africani, ma di educarli fino a una vera capacità morale.”

Leggendo questa simpatica frase, che specifica senza tanti giri di parole che gli abitanti dell’Africa sono delle specie di bestie non dotate di etica che abbisognano di un bianco che vada ad insegnargliela, viene spontaneo chiedersi: chi l’ha detto? Hitler annunciando una campagna in Africa, sessant’anni fa? Il governatore dell’Alabama segregazionista di Rosa Parks, cinquant’anni fa? I gruppi paramilitari bianchi del Sud Africa dell’apartheid, vent’anni fa?

No, l’ha detto Papa Nazinger proprio oggi, parlando di AIDS. Andiamo bene…

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