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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


sabato 30 Luglio 2016, 19:04

La pace è fuori dalle chiese

Fa piacere che, con spirito di pace, molte comunità musulmane in Italia e in Europa (anche se, ho letto, non quella torinese) domani mandino dei rappresentanti ad ascoltare la messa nelle chiese cattoliche.

Eppure, al di là dello spirito di pace, a me l’aspetto simbolico dell’iniziativa convince poco; per prima cosa, perché l’integrazione avviene alla pari e non costringendo gli uni a partecipare al rito religioso degli altri. Questo però si può risolvere: basta che la settimana prossima siano i cattolici ad entrare nelle moschee.

Ma più ancora sono perplesso perché l’integrazione non riguarda solo i fedeli delle due religioni, ma tutta la società; riguarda anche i fedeli delle altre religioni meno praticate, e riguarda chi non si riconosce in alcuna religione; pezzi di società che dalla strombazzata iniziativa di domani sono apertamente esclusi.

Il luogo giusto per l’integrazione, simbolica e pratica, non è un luogo di culto, ma è la sede laica dell’istituzione pubblica; è la scuola, è il posto di lavoro, è la politica, è il teatro e lo stadio. Quelle sono le sedi dove tutta la società si deve unire al di là delle differenze, non una chiesa, che per definizione, in una società laica e multireligiosa, accoglie solo una parte della cittadinanza.

Perché altrimenti il rischio è che il tema di importanza storica dell’integrazione degli islamici in Europa venga sfruttato da una parte del mondo religioso cristiano, quello che non a caso spesso promuove e organizza l’immigrazione senza se e senza ma, per un proprio obiettivo politico di parte: reintrodurre la religione nel cuore dello Stato, rimetterla al centro di una vita pubblica e politica da cui, per uguaglianza e rispetto di tutti i cittadini, dovrebbe essere stata allontanata ormai da molto tempo. Così, almeno, deve essere se l’obiettivo è una società laica, tollerante e libertaria, anziché una società vincolata da precetti più o meno rigidamente interpretati di libri religiosi di epoche antiche.

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venerdì 27 Maggio 2016, 13:37

Perché non disprezzo Mihajlovic

In curva Maratona da molti decenni vige una regola d’oro, quella di lasciare la politica fuori dalla curva; figlia di un periodo in cui per la politica ci si ammazzava a vicenda, è però una regola che, pur permettendo alla Maratona di essere una delle curve con la maggiore coscienza sociale e con molte persone che affiancano all’attivismo sportivo quello politico, ha tuttora un senso per evitare divisioni.

Per questo, io avrei preferito commentare l’arrivo di Sinisa Mihajlovic come allenatore del Toro in senso strettamente sportivo, come quello di un ex ottimo calciatore che ora, da allenatore, è considerato una delle migliori promesse della generazione dei quarantenni. Tuttavia, proprio per la coscienza sociale di cui parlavamo, è inevitabile che l’arrivo di Mihajlovic abbia fatto storcere il naso a molti commentatori granata, come ben riassunto in questo articolo che sta facendo discutere.

Le simpatie nazionaliste serbe di Mihajlovic sono note, così come è nota la sua amicizia personale con la Tigre Arkan, un criminale di guerra responsabile di molti dei massacri della guerra jugoslava, che era il capo degli ultrà quando lui giocava alla Stella Rossa. Rimase famoso l’episodio del 2000 in cui, dopo la morte di Arkan, i fascisti della curva della Lazio esposero uno striscione in suo onore:

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Si disse al tempo che fosse stato Mihajlovic a chiederlo, anche se lui ha smentito; sta di fatto che la Maratona diede allora la risposta perfetta, esponendo la domenica successiva un altro striscione che ha fatto la storia:

7-febbraio-2000-onore-al-gatto-silvestro-L-2_o4FV

Di quello striscione andiamo tutti fieri; ora però, quasi vent’anni dopo, in uno di quei cicli beffardi del calcio ci ritroviamo Mihajlovic in panchina. Io capisco quindi chi lo ritiene almeno moralmente complice di quello che successe nella ex Jugoslavia, e non lo gradisce; eppure, non credo che sia la conclusione giusta.

Per prima cosa, prima di liquidare qualcuno come nazista e genocida vorrei conoscerlo meglio e di persona; perché ho imparato che ciò che scrivono i giornali è solo una approssimazione della verità, e che l’immagine pubblica che ogni personaggio si porta appresso è spesso imprecisa e piuttosto diversa dal vero. Del resto, secondo i giornali io sarei uno che si augura che mezzo governo venga ammazzato a mitragliate (aprile 2013) e che desidera rimpatriare a calci nel sedere quelli che sbarcano dai barconi (agosto 2015) e vi assicuro che nella realtà non penso minimamente alcuna delle due cose.

Ma poi, se leggo i racconti della sua esperienza personale che lo stesso Mihajlovic ha dato nel tempo – per esempio questo, del 2009 – non posso che concludere che l’idea del nazista, razzista e amico degli squadroni della morte è come minimo molto semplificata; non solo per le altre idee che esprime (per esempio l’apprezzamento per Tito e per la sua Jugoslavia multietnica) ma perché i racconti che fa – e vi raccomando di dedicare tre minuti a guardare questo video, che risale solo a un paio di mesi fa – mostrano che nessuno di noi può davvero capire, e figuriamoci giudicare, l’esperienza di un ragazzo di vent’anni, nato e cresciuto proprio sul confine tra Serbia e Croazia, che improvvisamente si trova al centro di una guerra sporchissima, una guerra in cui suo zio croato voleva ammazzare suo padre serbo, poi Arkan cattura lo zio e gli telefona per chiedere se vuole che lo ammazzino o solo che glielo portino.

Anche a me viene naturale giudicare le persone a prima vista, ma poi realizzo che, se distinguere tra il bene e il male è un obbligo morale per chiunque in qualunque situazione, giudicare la scelta degli altri è uno sport per gente con la pancia piena e le pantofole davanti al caminetto. Credo che nessuno di noi abbia vissuto quell’esperienza, e tantomeno quella successiva di vedere il proprio Paese bombardato per mesi dalla NATO, cioé anche da noi. E se questo non mi rende le vere o presunte idee di Mihajlovic più simpatiche, mi porta però a pensare di non avere il diritto di giudicarlo.

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domenica 22 Maggio 2016, 11:09

Una visita al museo Lombroso

Ieri sera ho approfittato della Notte dei Musei per partecipare alla visita guidata del Museo Lombroso. Il museo è piccolo, molto inquietante e molto interessante, purché visitato con un po’ di cervello; aiuta a porsi una serie di domande scomode sul rapporto tra scienza, etica e umanità.

Lombroso non era uno scienziato pazzo né deviato, era semplicemente uno scienziato che ha applicato il metodo scientifico e la conoscenza teorica e tecnologica della sua epoca a ipotesi soltanto parzialmente errate. Sia l’idea che esistano parametri misurabili del nostro corpo correlabili con i nostri schemi individuali di comportamento, che l’idea che tali parametri siano ereditati dai nostri antenati, sono corrette; soltanto, i parametri non sono le dimensioni e la forma del cranio ma le nostre sequenze di DNA, e la correlazione non è assoluta e deterministica, poiché contano anche le influenze dell’ambiente, della cultura e dell’educazione; tale correlazione non riguarda la “delinquenza”, che non è una patologia, ma piuttosto alcune di quelle che oggi sono considerate forme di disabilità e di disturbi nella socialità dell’individuo.

L’applicazione del pensiero scientifico di Lombroso sulla criminalità innata, partendo dalle sue ipotesi, era logica: se c’è un parametro corporeo che mi permette di dire con certezza che una persona avrà comportamenti criminali, da una parte è inutile punirla perché non c’è alcuna volontà nel suo destino, e dall’altra è insensato tenerla libera nella società perché certamente non potrà che danneggiare gli altri. E’ chiaro che una ulteriore conseguenza logica e scientifica di questo pensiero, tratta da altri nei decenni immediatamente successivi, è che a questo punto tanto vale impedire la nascita di questi individui oppure rinchiuderli o addirittura ucciderli una volta individuati: di lì la “soluzione finale”.

Per questo il museo Lombroso è importante e va visto, perché se ne esce con diverse questioni filosofiche fondamentali che travalicano i confini della scienza, a partire da quella sull’esistenza del libero arbitrio: esiste veramente un libero e insondabile arbitrio degli esseri umani, oppure il nostro comportamento è pienamente determinato da leggi fisiche e reazioni chimiche che semplicemente noi ancora non conosciamo sufficientemente? E comunque, nel momento in cui scopriamo una correlazione certa tra il modo in cui è fatto un essere umano e il modo in cui si comporterà e si inserirà nella vita sociale, qual è il comportamento giusto da tenere?

Proprio perché la scienza, col suo continuo progresso, ci permette sempre più facilmente una selezione eugenetica dei futuri esseri umani prima ancora che nascano, è importante essere coscienti di questa domanda; sapendo che il rifiuto di questa selezione è una scelta fieramente antiscientifica, ma non per questo sbagliata, anzi è l’affermazione del principio che esistono ambiti dell’esistenza umana situati su piani diversi e inconciliabili con quello della scienza.

D’altra parte, però, anche questa affermazione è potenzialmente altrettanto pericolosa del positivismo; e anche su questo il museo Lombroso, suo malgrado, pone delle domande urgenti. E’ innegabile che in Occidente gli ultimi anni vedano una recrudescenza dell’oscurantismo, delle credenze mitologiche in qualsiasi bufala, della ribellione all’autorità della scienza, per sua natura sempre meno intuitivamente comprensibile man mano che avanza e diventa più complessa, ma per questo equiparata a una manipolazione di poteri forti contro il popolo. Così come i momenti di sviluppo e di fiducia nel futuro promuovono il positivismo, i momenti di crisi economica e di paura promuovono il negativismo.

Al povero Lombroso tocca ora un destino beffardamente opposto rispetto a quello di Galileo e di tanti altri scienziati. Galileo, scienziato di valore, fu bruciato (metaforicamente) in vita per essere riconosciuto da morto; Lombroso, riempito di onori mentre era in vita, è ora metaforicamente bruciato da morto. Egli è, in effetti, il bersaglio perfetto per il negativismo; essendosi occupato di studiare scientificamente il corpo umano nell’unico modo che la tecnologia dell’epoca gli permetteva, ovvero sotto forma di collezionista di spoglie (che continuo a pensare andrebbero sepolte e sostituite da riproduzioni, ma non è questo il punto), può facilmente essere fatto passare per un Mengele ante litteram, un crudele e freddo massacratore di esseri umani. Ovviamente era l’opposto; attivamente socialista, i suoi studi miravano al benessere dell’umanità, compresi i più poveri, e l’uso di cadaveri era proprio il modo per farli senza danneggiare nessuno. Ma chi meglio di lui può essere sfruttato come simbolo aggregatore per qualsiasi ribellione antiscientifica e complottista, dal revanscismo neoborbonico al rifiuto della medicina “ufficiale”?

Per questo il museo Lombroso deve rimanere aperto e venire difeso (qui la petizione); e bisogna che esso sia libero di mandare il suo messaggio, senza gli imbarazzi della nostra guida di ieri che ogni due minuti era costretta a ripetere che le teorie di Lombroso erano screditate. Certo, il problema è che spesso chi lo critica non è in grado di capirlo; e allora, l’ultimo messaggio importante che Lombroso ci manda è che nessuna società umana complessa come la nostra può sopravvivere senza la fiducia, anche se non illimitata, nella scienza e nel suo metodo; e che questa fiducia non è mai scontata, ma va costruita dalla società tramite l’educazione.

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venerdì 15 Aprile 2016, 10:49

Una giornata uuggiosa

È un po’ complicato spiegare come mai ho speso questi tre giorni in Polonia, un Paese la cui maggiore attrazione turistica è un campo di concentramento: certo non il massimo per attirare visitatori.

Comunque, avevo già preso il treno mercoledì, per andare a Lublino a vedere un altro lager famoso, quello di Majdanek; e chiedere allo sportello un biglietto per Lublin è facile. Il treno era nuovo nuovo, finanziato ovviamente dall’Unione Europea, pulitissimo, con tanto di wi-fi, prese di corrente e annunci bilingui; certo, dopo un’oretta si è piantato nel bel mezzo di una stazione nel nulla, in una Santhià polacca qualsiasi, e abbiamo dovuto attendere che trafelati ferrovieri di mezz’età dai baffoni stalinisti lo riavviassero due o tre volte: mezz’ora di ritardo. Il viaggio però è stato piacevole, verde sotto e grigio sopra, che il sole qui s’è visto solo in figura sulla livrea di treni locali di mezzo secolo fa, arrugginiti ma ripittati a nuovo per attirare i clienti come una coguara.

Diverso è, invece, recarsi allo sportello di Varsavia Centrale e riuscire a farsi dare un biglietto per Uugg-Vizzèff. Ho deciso di scriverlo come si pronuncia perché lo spettacolo d’arte varia di uno straniero che cerca di pronunciare Łódź-Widzew dev’essere uno dei primari divertimenti delle attempate impiegate della biglietteria, anche se loro se ne fregano e preferiscono concentrarsi nell’attesa delle loro antiche stampanti ad aghi. Comunque, io ci sono riuscito al primo tentativo, senza dover usare materiale scritto, e ne vado molto fiero.

Ora, se voi siete italiani conoscerete senz’altro Uugg-Vizzèff per un solo motivo: Vizzèff, difatti, è il quartiere di Uugg dove ha sede la principale squadra di calcio cittadina, protagonista di memorabili sfide europee con la Juve quando eravamo bambini. In realtà è piuttosto in periferia, tanto che fuori dalla stazione vi sembrerà di essere atterrati alla Falchera Nuova (in realtà l’intera Polonia, centri città compresi, sembra la Falchera Nuova: potere dell’urbanistica comunista). La stazione in centro città, che si chiama Uugg Fabbrica e già questo vi fa capire molte cose, è chiusa per rifacimento generale, per cui bisogna scendere qui e farsi un quarto d’ora di tram, comprando i biglietti a gesti dalla giornalaia.

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Avrete dunque capito perché sono venuto qui: Uugg fino a metà Ottocento era un piccolo villaggio agricolo, poi arrivarono le fabbriche e le ferrovie e diventò l’archetipo del capitalismo delle filande. Non c’è niente da vedere a Uugg, se non fabbriche ottocentesche parte in rovina e parte ristrutturate, e una lunga strada di begli edifici art nouveau decimati dai russi e dai tedeschi, nel senso che i bombardamenti ne hanno tirati giù nove su dieci e ora ti vedi uno di questi palazzi in mezzo a “rimpiazzi” comunisti nel suddetto stile da periferia popolare, dei casermoni nati dalla collaborazione ideale tra Le Corbusier e Stalin che potranno essere portati come prova al loro processo per crimini contro l’umanità.

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Comunque, per chi si interroga di politica ed economia vedere un po’ di luoghi del capitalismo otto e novecentesco è imprescindibile; si parte da New Lanark, dove nacque il capitalismo paternalista, e si finisce con Gary nell’Indiana, città natale di Michael Jackson e di due diversi premi Nobel per l’economia, ora ridotta a un raccapricciante deserto di rovine che ti fa pensare che se due diversi premi Nobel per l’economia non riescono nemmeno a salvare dalla distruzione la propria città natale allora vuol proprio dire che l’accademia economista moderna ha grossi problemi.

Anche la visita a Uugg è impressionante; in particolare io mi sono concentrato su Xsiesjuimuìn (ripeto, scrivo come si pronuncia e concludo che la pronuncia del polacco potrebbe essere considerata una tortura ai sensi della convenzione di Ginevra) che sarebbe una specie di grosso Villaggio Leumann in via di ristrutturazione; c’è un quartiere operaio fatto di case a due piani di mattoni rossi in cui gli operai potevano avere vasti appartamenti da 30 o 40 metri quadri per loro e i loro otto figli, inframmezzato da negozi aziendali in cui comprare il cibo; dall’altra parte c’è la fabbrica, un gigantesco monolite degli stessi mattoni rossi, immenso, enorme, sovrastato dall’orologio, il re indiscusso delle vite di migliaia di contadini inurbati a fare gli operai; e infine, su un lato, l’elegante palazzo neoclassico, bianco e pieno di statue, dove abitava il padrone.

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Questa è la parte recuperata; le case sono diventate appartamenti moderni, la fabbrica si è riempita di uffici, il palazzo è un museo che ospita la collezione di quadri che fu del padrone; ho cercato invano l’ipermercato autorizzato col decreto sviluppo ma qui non c’è, strano, bisogna dire a Lo Russo che qui non hanno capito niente di come si riqualificano le aree industriali.

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A fianco, comunque, ci sono ancora intere aree diroccate, in cui sopravvivono solo le facciate senza i tetti, e lì un paio di ipermercati li potrebbero ancora fare. Il contrasto, comunque, colpisce; il capitalismo crea e il capitalismo distrugge, e intere aree di Uugg sono discariche del capitalismo ottocentesco che il comunismo ha solo lasciato agonizzare (d’altra parte se qui ci fossero ancora i comunisti i polacchi oggi telefonerebbero ancora con il Sirio, e non credo che ne sarebbero contenti).

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Certo, però, questo è il posto giusto per riflettere sui cicli del capitale e del lavoro. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, la Polonia era la Thailandia del momento; gli investitori esteri, tedeschi e inglesi, insieme a qualche imprenditore locale, ebreo polacco, spostarono qui le fabbriche tessili che nei paesi europei più ricchi erano nate qualche decennio prima, delocalizzando per trovare un costo del lavoro più basso; e qui le poterono sistematizzare su scala enorme.

Qui, dunque, ogni mattone è sangue; perché le condizioni di lavoro nelle filande dell’Ottocento erano terribili, e tutti, compresi i bambini, lavoravano dall’alba al tramonto su macchinari primitivi e insicuri, con tassi di infortuni e di menomazioni altissimi. Oggi condizioni di lavoro del genere non si possono nemmeno più immaginare, grazie al movimento sindacale operaio socialista e comunista che si sviluppò nei decenni successivi; o meglio, non si possono nemmeno più immaginare in Europa, e quindi le abbiamo esportate in Asia.

Il recupero filologicamente corretto di queste antiche fabbriche, invece della loro demolizione e sostituzione con brutti fabbricati moderni, è anche un modo per onorare e ricordare questi sacrifici, e insieme l’eterna e sempre valida tenzone di punti di vista contrapposti sul progresso economico capitalista, per cui c’è chi ci vede più sfruttamento, più sacrificio ingiusto a vantaggio di pochi arricchiti, e chi invece ci vede più opportunità, più strumento che comunque dopo i sacrifici concede benessere e progresso un po’ a tutti (è su quell’ “un po’ a tutti” che si è attualmente incartata l’economia occidentale).

Dev’essere per questo che da noi si preferisce radere al suolo o al massimo convertire la fabbrica in ipermercato, e la produzione in consumo, come se ci potesse essere consumo senza produzione. Eppure anche noi abbiamo storie operaie terribili e dimenticate, per esempio quella delle fiammiferaie di Rocca Canavese; anche noi avremmo antichi luoghi di produzione da rendere nuovi.

Io mi rivedo spesso la scena di un consiglio d’amministrazione del Politecnico di metà anni ’90, in cui tutti i professori ingegneri da Zich in giù indicavano col dito gli antichi fabbricati delle officine ferroviarie da abbattere per costruirci il raddoppio, secondo un progetto di anonimi cubi mi pare di Gregotti, e fu uno strano asse tra me studente e Vera Comoli a premere per salvarne almeno una parte, quella dove oggi c’è l’Istituto Boella – e insomma, col senno di poi, avevamo proprio ragione. Ma quante robe industriali ottocentesche sono state tirate giù ancora in questi anni – stazione Dora, la più antica stazione ferroviaria di Torino, per dire – per lasciarne magari su un moncone, una beffarda ciminiera trasformata in reggi-insegna di supermercato?

La logica del soldo edilizio facile ha prevalso sulla memoria e sul suo significato, in un’orgia futurista di nuove economie sottili come una speculazione di Borsa. Eppure, più il mondo è globale e più chi non ha memoria e non ha identità è destinato a soccombere, a venire assimilato in un nulla di non-luoghi e di consumi da schiavo. Qui o altrove, vedere le fabbriche ci ricorda cos’è stata l’epopea dell’Europa industriale; e senza conoscerla, è difficile immaginare davvero un futuro.

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sabato 2 Aprile 2016, 12:58

Se falliscono gli Stati

Una delle conseguenze collaterali dei recenti attentati di Bruxelles è stata la ridicolizzazione del Belgio su scala globale. Praticamente tutte le nazioni sviluppate, difatti, hanno subito prima o poi su di sé i colpi del terrorismo; nessuna, però, aveva mai fatto la figuraccia di annunciare tutta tronfia (in maniera peraltro apparsa da subito imprudente) di aver debellato una cellula terroristica sul proprio territorio, peraltro mettendoci dei mesi per “scovare” uno che se ne stava più o meno nascosto a casa sua, per venire poi colpita così pesantemente subito dopo dagli altri membri della stessa, reagendo con lentezza e confusione.

Il secondo attentato nella metro è avvenuto a un’ora dal primo all’aeroporto, ma pur sapendo bene che questi attacchi arrivano a raffica nessuno stop di emergenza dei bersagli più ovvi era stato pianificato o approntato; nei giorni successivi sono emersi numerosi episodi imbarazzanti, dal presunto terzo uomo arrestato e poi rilasciato e poi arrestato di nuovo alle perquisizioni notturne vietate per legge, fino al capo della polizia che si presenta ubriaco alla riunione di emergenza; e l’aeroporto è tuttora ancora chiuso per via di una lite sindacale tra polizia e governo (!) perché i poliziotti hanno paura (!!).

Ma non è finita qui, perché lo stato belga ha da molto tempo una lunga tradizione di paralisi e inefficienza. Qualche anno fa il Belgio è rimasto per quasi due anni senza governo per via dell’impossibilità di costruire una alleanza sufficientemente solida per governare, al punto che Grillo usava questo episodio come prova dell’inutilità dei governi; e quanto all’incapacità della polizia belga, basta pensare al clamoroso caso di Marc Dutroux. Per cui, pur con tutta la simpatia e la solidarietà per i belgi e la difficoltà di fare un discorso del genere venendo da uno Stato quasi altrettanto inconcludente come quello italiano, non si può che concludere che il Belgio attuale ha un grosso problema, e che è un problema strutturale.

Ci si può chiedere come sia possibile che la capitale d’Europa stia in uno Stato del genere; in realtà è proprio per la debolezza del Belgio che la capitale europea è stata messa lì, a metà tra mondo francese e mondo germanico. Gli stati deboli, insomma, esistono anche perché fanno comodo a quelli più forti, e questa non è certo una novità.

E’ una novità, tuttavia, il fatto che con la globalizzazione uno Stato debole possa provocare danni e rischi a valanga all’intero pianeta. Per questo gli americani hanno cominciato da qualche tempo a parlare di “failed states”, anche se per loro questa è soprattutto una scusa per giustificare gli interventi funzionali alle loro strategie imperialiste. Eppure, il problema che sollevano è corretto.

La ragione fondante che giustifica la creazione di uno Stato, difatti, è stabilire e garantire l’ordine pubblico, attraverso l’esercizio del monopolio legale sull’uso della forza e sulla definizione delle norme a cui tutti si devono attenere. Negli ultimi duecento anni gli Stati hanno assunto sempre nuovi compiti sociali e organizzativi, ma essi non sono possibili se alla loro base non c’è il monopolio dell’ordine pubblico. Uno Stato con tante fantastiche attività di integrazione, di servizio ai cittadini e di redistribuzione della ricchezza può essere una bella Ferrari, ma se non garantisce l’ordine pubblico è una Ferrari senza le ruote: non va da nessuna parte e non serve a niente, fin che non arriverà qualcuno con un carro attrezzi e se la porterà via.

La storia dello scorso millennio è la storia della progressiva formazione di Stati sempre più forti, che via via hanno sottratto il potere alle chiese, ai predoni, alle città murate e ai capetti feudali, costruendo un ordine sempre più stabile fino al trionfo degli Stati nazionali e infine a un’era di pace e stabilità (in Occidente) incredibilmente lunga. A seguito di questo processo storico, a tutti sembrava ovvio che il prossimo passo fosse l’ulteriore integrazione degli Stati in un unico ordine pubblico mondiale. Eppure, a ben vedere, quello degli stati falliti è un segnale per cui questo prossimo passo potrebbe non essere affatto ovvio.

Il potere degli Stati, peraltro, è da tempo sotto attacco anche su molti altri fronti. E’ sempre più evidente come scelte fondamentali per il futuro dell’umanità non attengano più alla sfera della politica, ma a quella dell’economia; esistono ormai molte multinazionali più potenti degli Stati, talvolta vere e proprie monarchie con una efficiente struttura gerarchica e molte più risorse a disposizione rispetto alle casse pubbliche sempre più vuote di tutti gli Stati. Anche la legittimazione popolare data dalla democrazia è spesso in crisi, risultando in un crescente astensionismo, in leader di fatto scelti da pochi e talvolta nemmeno votati dal popolo, nella sfiducia di molti verso le istituzioni. Uno Stato, poi, può esistere (almeno nell’accezione attuale) solo se possiede e difende un territorio e se sa distinguere tra i propri cittadini e il resto dell’umanità; e i fenomeni migratori stanno sempre più dimostrando l’incapacità, forse persino l’impossibilità, di garantire questi requisiti di base in parecchi Stati europei.

Se tutto questo ricada nella sfera dei normali ostacoli al progresso sociale dell’umanità, o se invece possa essere il preludio a un futuro un po’ diverso da quello in cui speravamo, non è ancora dato sapere; certo, gli scricchiolii dell’ordine mondiale basato sugli Stati nazionali sono sempre più evidenti.

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venerdì 19 Febbraio 2016, 13:33

Viva lo sharing, ma senza economy

Forse non tutti sanno che quasi vent’anni fa, da studente del Politecnico, insieme ad altri appassionati di tutta Italia, misi in piedi il primo sito Web che conservava e distribuiva in forma digitale le sigle italiane dei cartoni animati degli anni ’70 e ’80: il progetto Prometeo. Il formato MP3 era appena stato inventato e sconosciuto ai più; alla rete si accedeva tramite modem e telefonate notturne; l’ondata di nostalgia per quegli anni era ancora di là da venire. Appassionati di tutta Italia, però, tirarono fuori dal cassetto quei 45 giri ormai introvabili, li digitalizzarono con le loro SoundBlaster e, a spese proprie, senza guadagnarci niente e per il semplice piacere di condividere il loro tesoro con gli altri, li caricarono sul sito.

Dopo poco tempo arrivarono gli avvocati: ebbi un lungo scambio di mail con un allora sconosciuto Enzo Mazza, che cercò con le buone e con le cattive di farmi sbaraccare tutto, al che io dissi che l’avrei sbaraccato davvero facendo il maggior casino possibile sui media, e la negoziazione si concluse con l’eliminazione delle sole canzoni di Cristina D’Avena, le uniche che avessero ancora un qualche interesse commerciale in quanto ampiamente sfruttate da Mediaset.

Un paio di anni dopo furono inventati Napster e il peer-to-peer, e la questione della condivisione dei contenuti divenne globale; nel frattempo i siti del progetto Prometeo divennero obsoleti e vennero chiusi. Tuttavia, la nostra iniziativa riaccese l’interesse del pubblico per quelle canzoni, e credo che se l’altra settimana Cristina D’Avena è andata a cantare a Sanremo – ossia, se quei pezzi che stavano per scomparire hanno riacquistato un grande valore anche economico – è anche grazie a quell’antico sforzo di condivisione.

Non voglio qui riaprire l’annosa questione sulla legittimità del condividere in rete contenuti culturali di cui non si possiede il copyright; lasciamola per un’altra volta. Voglio però sottolineare che, nei primi anni dell’Internet di massa, la condivisione è sempre stata concepita come una iniziativa dal basso fatta per il bene di tutti, in cui ogni utente attivo della rete sopporta una propria fetta di costi per creare un servizio di enorme valore liberamente disponibile a tutti. E con lo stesso spirito sono presto nati altri servizi pienamente legittimi, prima puramente online (Wikipedia, per esempio), e poi anche nel mondo reale (Couchsurfing, Blablacar), in cui ognuno condivideva gratuitamente qualcosa che possedeva già.

Certo, è subito emerso un problema di fondo: gli utenti possono anche donare il proprio pezzetto gratuitamente, ma chi paga i costi, potenzialmente enormi, della piattaforma di condivisione? Inizialmente le piattaforme si basavano anch’esse su donazioni volontarie e condivise di risorse tecniche e di tempo, ma il modello, Wikipedia a parte, faticava a reggere.

Questo è stato il momento in cui l’economia “classica”, quella dell’uomo utilitaristico che si muove solo per il profitto, quella che i pionieri della condivisione volevano sfidare e che per qualche anno sembrava poter essere clamorosamente buttata fuori dalla porta, è rientrata in gioco. Inizialmente lo ha fatto dalla finestra; servizi come Youtube, gestiti da società a scopo di lucro ma con ampie disponibilità ad attendere il lungo periodo, hanno iniziato a ripagarsi i costi con la pubblicità, come hanno poi fatto le aziende dello step successivo, cioè i social network; la condivisione per gli utenti resta gratuita, ma l’azienda incassa con uno sfruttamento economico non troppo invasivo dei contenuti degli utenti.

Dopo un po’, anzi, giustamente si è detto: ma se la piattaforma oltre a ripagarsi i costi comincia a guadagnarci, non sarebbe giusto che una parte di questi guadagni tornasse agli utenti che caricano i contenuti? Giusto, sì; ma così l’aspetto economico ha preso altro spazio, e sono nati i professionisti del video scemo e della stupidaggine virale, e poi i titoli acchiappaclick e le bufale acchiappagonzi. A quel punto anche la commercializzazione delle piattaforme si è fatta più invasiva, dato che sempre più utenti non condividevano per piacere o per altruismo, ma per profitto e per vantaggio personale: e quindi, liberi tutti di mandare in soffitta lo spirito di beneficenza.

E’ da lì che si arriva a quest’ultima epoca, quella della “sharing economy”: Uber, AirBnB e compagnia bella. Essa abbatte definitivamente il tabù che scricchiolava da un pezzo ma che ufficialmente non si poteva toccare, quello di condividere qualcosa non per altruismo o per divertimento, ma per il desiderio, o peggio la necessità, di guadagnare dei soldi. Che sia un tabù è evidente proprio dai pietosi tentativi iniziali dell’ufficio stampa di Uber di sostenere che i loro autisti non lo fanno per i soldi, ma per il piacere di caricare uno sconosciuto e portarlo da un punto A a un punto B, punti in cui loro altrimenti non sarebbero mai andati. Ma ormai hanno smesso anche loro: la prima cosa che sta scritta oggi sul loro sito è “GUADAGNA SOLDI GUIDANDO LA TUA AUTO”.

Nella “sharing economy”, le piattaforme non servono a trovare altre persone con cui condividere una passione o un’amicizia, ma a trovare i clienti per un’attività a scopo di lucro che vuoi fare con la tua auto, la tua cucina o la tua camera da letto, probabilmente perché ti hanno già tanto precarizzato – magari grazie a un’altra forma di “sharing economy” globale e delocalizzata che ha preso piede nella tua professione – che oltre a lavorare otto ore di giorno devi anche passare l’ex tempo libero a venderti un po’ della tua auto, della tua cucina o della tua camera da letto per far quadrare i conti a fine mese.

Intendiamoci, non c’è niente di male nel creare nuovi modelli di business con cui fare utili, trovando i clienti a chi ha un prodotto o un servizio da vendere e agendo da garanti della transazione, in cambio di una percentuale. Dai sensali e dai magnaccia fino ai commerciali e ai pubblicitari, è il secondo mestiere più antico del mondo. Certo, se poi il servizio viene venduto in nero e in barba a tutte le normative sulla sicurezza, sull’igiene, sui diritti del lavoro, magari sostenendo pure che non rispettarle è una grande innovazione perché fa scendere i prezzi, la cosa assomiglia un po’ tanto alla versione digitale del caporalato o delle fabbriche cinesi (non mi dilungo, vi rimando al post dell’anno scorso). Ma è ben possibile, e anche giusto, mettere a posto tutti questi aspetti e permettere a queste aziende di offrire il proprio servizio sul mercato, alle stesse condizioni di chi già esercità attività simili, e magari facendo attenzione a non creare nuovi monopoli di fatto, nuove ondate di disoccupati e precari, nuova povertà.

Solo, non spacciate questa per innovazione, e soprattutto non spacciatela per condivisione.

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giovedì 4 Febbraio 2016, 21:22

Una giornata in Grecia

Gli economisti discutono senza frutto da decenni su quali siano i parametri giusti per misurare il livello di sviluppo delle nazioni del mondo. Eppure, quando si arriva per la prima volta in un nuovo Paese, bastano poche ore, talvolta pochi minuti, per capire al volo in che tipo di progresso si è capitati; basta uscire dall’aeroporto e guardare le auto che circolano, la pulizia delle strade, i materiali utilizzati, e si ha subito una sensazione a pelle.

Se poi, come è successo a me oggi per la Grecia (a dire il vero è la seconda volta che ci vengo, ero già stato dieci anni fa ad Atene, ma dopo tutto questo tempo la sensazione si resetta), ci si capita anche in una giornata grigia di inizio febbraio, nonché di sciopero generale, si conclude immediatamente di essere finiti in un posto non lontano da noi, anzi piuttosto simile per geni e per cultura; ma inevitabilmente indietro nel tempo.

E così stamattina, osservando le persone sull’autobus che mi portava in centro a Salonicco, e poi osservando i palazzi, le insegne, le strade, ho riprovato la stessa sensazione che già mi era capitata al primo impatto con l’America Latina, nel 2001 a Montevideo: quella di essere più o meno in Italia, ma nell’Italia di quarant’anni fa.

“Benvenuto nel 1976”, mi diceva il cervello, osservando come su un pullman carico di gente fossi l’unico che picchiettava su uno smartphone, in mezzo ad anziani vestiti con giacche di velluto e a studenti universitari diversi dei quali, in compenso, portavano sottobraccio un giornale di carta (un giornale di carta!!).

Peggio ancora è andata quando nel mio giro ho cominciato a incrociare le manifestazioni. All’inizio son partito dai musei; quello bizantino, piuttosto carino, era aperto e illuminato e pieno di dipendenti, che però, regolarmente seduti al bancone d’ingresso, non facevano entrare nessuno: aperghìa. Quello archeologico, che contiene meraviglie ma è contenuto in un orripilante fabbricato anni ’50, era proprio sbarrato: aperghìa persino le serrande.

Poi sono arrivato all’Arco di Galerio, che ho scoperto essere il ritrovo degli universitari: ecco, lì gli anni ’70 strabordavano. In mezzo a palazzoni in stile Bucarest, sotto questo impressionante arco romano di mattoni ancora in parte coperti da fregi e bassorilievi di marmo, stavano un duecento studenti, tutti coi cappottoni e con cartelli di protesta rigorosamente scritti a mano (gli striscioni stampati qui sono ancora una tecnologia di punta).

Avevano delle casse che emettevano canti di protesta di quelli che possono stare solo su un vinile, che già la cassetta è troppo modernamente capitalista; quei canti strazianti di quando esistevano ancora le fabbriche, gli operai, i padroni (quelli con una faccia ed un nome, non quelli con un ISIN e un ticker), quelle robe pesanti come un loden che parlavano dei compagni dai campi e dalle officine che giravano con falci e martelli d’ordinanza. Quelle robe che c’è una chitarra acustica che suona, e poi se non parte il flauto (ok, Inti Illimani) parte comunque una tizia che cerca di imitare Joan Baez (chi avesse meno di quarant’anni per favore prenda Wikipedia per sapere di chi sto parlando).

Insomma, nel campionato della ricchezza delle nazioni la Grecia certamente non sta in serie A con Germania e Inghilterra, e non sta nemmeno in serie B con Italia e Spagna; si gioca una onorevole Lega Pro con la Turchia e il Nord Africa, e pure lì rischia di retrocedere, perché comunque il dinamismo che ho visto a Istanbul non l’ho visto da queste parti, pur considerando l’enorme diversità di dimensione; là in questi dieci anni hanno fatto diverse linee di metro e il tunnel sotto il Bosforo, qui hanno la prima linea di metropolitana in costruzione dal pleistocene, coi cantieri aperti da tempo immemore sul corso principale.

La situazione peraltro è resa ancora più paradossale dal fatto che qui la sinistra-sinistra ha davvero preso il potere, da sola, senza compromessi con il centro; e ora è lei il bersaglio di tutte queste proteste, avendo dimostrato di non potere o non volere fare niente di diverso. A forza di paradossi, la Grecia dimostra la futilità della resistenza all’eurocapitalismo; tutti protestano, ma non si sa nemmeno bene contro chi, perché il popolo ha già rovesciato i cattivi e corrotti governanti di prima mettendo al loro posto chi li aveva combattuti in nome della gente, e non è cambiato proprio niente, anzi le cose sono ancora peggiorate; perché chi comanda davvero non sta nemmeno più in Grecia, non sono nemmeno più i ricchi greci, che pure certamente ancora esistono, e non si sa nemmeno più chi sia.

Ma scendere in piazza quando l’economia è già tutta in mano straniera, quando il governo prende ordini dall’estero altrimenti il Paese resta senza soldi e senza mezzi di sussistenza, è totalmente inutile; è troppo tardi, serve solo a sfogare la rabbia, e solo per un momento; è un beccarsi tra capponi che, già castrati da un pezzo, restano tutti saldamente nelle mani di chi li sta portando al definitivo massacro. Però non so che ve lo dico a fare, tanto in Italia nessuno si sta più preoccupando di non finire come la Grecia, dato che il problema fondamentale e definitivo per il futuro del Paese, quello su cui tutte le forze politiche si concentrano e lottano duramente in un senso o nell’altro, è se un omosessuale possa o meno adottare il figlio biologico del proprio compagno.

Comunque, non vorrei che il mio racconto risultasse troppo drammatico. Per essere un giorno di sciopero generale, è stato molto ordinato; nonostante le mie paure di rimanere a piedi, sono riuscito lo stesso a prendere il pullman per visitare la città (il datore di lavoro della mia compagna, organizzatore del viaggio, ci ha comodamente sistemati in un ameno sobborgo collinare a dieci chilometri dal centro); a differenza che da noi, quando c’è sciopero tutto il giorno viene garantita dall’alba alla sera una corsa all’ora su ogni linea, per cui basta presentarsi alla fermata al momento giusto; c’è addirittura l’app che ti mostra in tempo reale la posizione dei mezzi sulla linea.

Lo sciopero ha avuto un’adesione generale; qui non è che ogni categoria vada per i fatti propri, ma chiude tutto insieme; dipendenti pubblici e privati, negozi, benzinai, musei, tutto o quasi tutto chiuso. Tuttavia, in centro c’era anche parecchia gente che faceva come nulla fosse, affollando i caffé rimasti aperti; ci sono tuttora ampi strati sociali che non sono affatto alla fame, che vivono più che bene, in un Paese comunque ospitale e più organizzato di quel che si potrebbe pensare. Girando per i quartieri alti di Salonicco si trovano catapecchie, ruderi, capanne che sembrano quasi di fango; ma si trovano anche, proprio a fianco, tante casette appena ristrutturate e ridipinte, spesso con un Mercedes parcheggiato davanti.

Ieri siamo stati in un ristorante piuttosto raffinato vicino all’albergo, dove per 25 euro a testa abbiamo ottimamente cenato con pesce; oggi in città ho mangiato souvlaki (spiedo), non il gyros (il gyros sarebbe il kebab ma non ditelo ai greci, sono convinti che il gyros sia un fantastico piatto greco mentre il kebab sia una schifezza di quei porci dei turchi(*) ) ma uno spiedino di maiale vero e proprio, marinato in origano e peperoncino e accompagnato da cipolla cruda che reagendo con la marinatura mi ha regalato un bruciore muriatico nella gola e anche nel naso, però veramente ottimo.

Resta, però, l’impressione di una società che farà molta fatica a rimanere agganciata a quelle più avanzate, evolvendo se mai verso il Sudamerica, verso società non totalmente povere ma molto più diseguali di quelle europee; una società che in gran parte un po’ si incazza e agita i pugni nell’aria e poi però si rassegna, si affloscia a guardare il vuoto su uno spartitraffico come i tanti cani randagi senza più un padrone che affollano questa città. E’ solo l’impressione di un giorno, ma forse è vivida perché anche noi italiani ci possiamo ritrovare in essa; con la sgradevole sensazione che probabilmente saremo noi i prossimi.

(*) Su un muro di una casa stava scritto “PAOK 4 – Tourkòi bastardòi”, ma purtroppo non parlo il greco, non ho idea di cosa voglia dire…

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giovedì 19 Novembre 2015, 15:33

Se Facebook è pieno di falsi

Normalmente ignoro queste cose (a parte farmi una risata, visto quanto sono ben scritte), ma siccome per ognuna di esse vedo decine di persone che credono convinte che siano vere e le ricondividono a ripetizione, volevo darvi due dritte su come verificare che questo è un falso (prendo questo perché mi è capitato oggi, ma è irrilevante chi sia il personaggio preso di mira).

Allora:

1) Sulla pagina di Salvini il post non esiste; ce n’è un altro in cui attacca Dario Fo, ma con parole diverse e senza strafalcioni. Ok, ma direte voi, magari l’ha modificato dopo che è stato fotografato;

2) Tuttavia, accanto al post sulla pagina di Salvini non compare la scritta “Modificato”. Ok, ma potrebbe averlo eliminato e poi riscritto (come tra l’altro sostiene un anti-leghista nei commenti allo stesso, raccogliendo molti like);

3) Allora esaminiamo meglio lo screenshot riportato; si tratterebbe di un post fotografato dopo soli 5 minuti, ma che in questi pochi minuti avrebbe già raccolto 5700 like, 3598 commenti e 2512 condivisioni; per quanto sia inquietantemente grande il numero di follower della pagina di Salvini, è un po’ improbabile che possa attivarsi un seguito del genere in cinque minuti per un post come tanti altri, per cui quasi certamente lo screenshot è falso;

4) Ma se avete ancora dei dubbi, basta seguire la sequenza dei commenti, secondo i quali il primo commento avrebbe raccolto 394 like in soli tre minuti, e la risposta di Salvini sarebbe avvenuta un solo minuto dopo, raccogliendo 520 like in soli due minuti; anche questi numeri sono un po’ insostenibili;

5) Ma se avete ancora dei dubbi, basta accorgersi che l’ultima risposta del misterioso commentatore (tra l’altro senza nemmeno una foto del profilo) sarebbe avvenuta “3 minuti fa” a un commento di Salvini di “2 minuti fa”, ovvero sarebbe avvenuta un minuto prima del commento a cui starebbe rispondendo: questo è oggettivamente impossibile.

Morale? La rete è piena di tifoserie, ma è anche piena di manipolatori, di tutti gli orientamenti politici, che si divertono in maniera interessata a dare alle tifoserie una pappa pronta con cui sostenere il proprio tifo… solo che in genere è falsa.

E questo è un vero problema, anche perché il risultato a lungo termine è di minare completamente la credibilità della rete, ovvero dell’unico mezzo di informazione che non è così direttamente controllabile dai poteri che orientano i media tradizionali; e questo, secondo me, è il vero obiettivo di questi falsi.

Ogni volta che ne condividete uno, ogni volta che propagate una bufala, date una mano a chi vorrebbe ritornare al vecchio mondo, quello in cui bastava controllare i direttori dei giornali per decidere cosa è vero e cosa no. Capita a tutti (pure a me) di cascarci, ma prima di condividere qualcosa, per favore, invece di farvi trascinare dall’antipatia verso un avversario politico, cercate di valutare se è almeno verosimile.

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venerdì 4 Settembre 2015, 10:09

Gli immigrati portano ricchezza?

Uno degli argomenti più dibattuti in rete, quando si parla di immigrazione, è questo: gli immigrati sono un costo o una ricchezza? I giornali ne parlano spesso, e ne parlano malissimo; di solito si limitano a un concetto strettamente economico di “ricchezza” (lo farò anch’io in questo articolo, rimandando altre riflessioni al futuro) e sparano un titolone con una cifra che faccia impressione, positiva o negativa a seconda del pregiudizio che il giornale ha rispetto al fenomeno.

Repubblica, per esempio, definisce gli immigrati “un tesoro da 123 miliardi di euro”; detto così, sembra che siano soldi che gli immigrati mettono di tasca loro, ma in realtà si tratta semplicemente della fetta di PIL corrispondente in proporzione al numero di lavoratori immigrati rispetto al totale dei lavoratori in Italia (l’8,8%). Per dire che questa ricchezza è generata dagli immigrati, bisogna dare per scontato che in loro assenza non ci sarebbe altro modo di produrla, ad esempio impiegando al loro posto i disoccupati italiani, oppure migliorando la produttività degli altri lavoratori; e questo può essere o non essere vero a seconda di tanti fattori, a partire dal tipo di produzione e di competenze richieste.

Ancora peggio è Il Giornale, una vera fabbrica di cifre usate male, grazie a una costante manipolazione dei termini. Sia quando espone cifre corrette, come il miliardo di euro annuo abbondante che ci costa l’accoglienza dei profughi, sia quando fa confronti che non stanno nè in cielo nè in terra, come quello tra il costo mensile (peraltro abbastanza gonfiato) dell’accoglienza di un profugo e lo stipendio mensile di un poliziotto, Il Giornale non usa la parola “profugo” o “sbarcato” o “rifugiato” ma parla genericamente di “immigrato”. Eppure queste spese si riferiscono solo alle decine di migliaia di profughi attualmente ospitati nel nostro sistema di accoglienza, e non a tutti i circa cinque milioni di immigrati (più i clandestini, presunti essere tra 500.000 e un milione) attualmente presenti in Italia.

Il discorso, infatti, è ben diverso se parliamo degli immigrati regolari, quelli che entrano e rimangono in Italia con un permesso di soggiorno e con un lavoro, o se parliamo dei poveretti appena sbarcati a Lampedusa, sia che siano veri rifugiati che hanno perso tutto, sia che siano persone in cerca di lavoro e benessere.

Per quanto riguarda l’immigrazione in generale, troverete citato ovunque il rapporto di una certa Fondazione Moressa di Venezia, che trovate esposto qui alle pagine 11 e 12, e che conclude che il conto tra quanto gli immigrati versano allo Stato e quanto ricevono in servizi sarebbe in attivo di 3,9 miliardi di euro: 16,5 miliardi di entrate e 12,6 di uscite.

Ora, io vi prego di leggere bene in quel documento la tabellina e la spiegazione, perché qualche dubbio sulla sensatezza di questo calcolo ce l’ho. In particolare, più della metà delle entrate sono i contributi previdenziali, eppure in uscita la voce per i trattamenti previdenziali non compare affatto; a parte che ormai nella prima generazione di immigrati ci sono anche i pensionati, ma tra venti o trent’anni poi queste pensioni andranno pur pagate, quindi un qualcosa andrà pure accantonato.

Poi si arrampicano sugli specchi: ti dicono che la sanità costa molto, ma gli immigrati la usano meno della media perché sono giovani, quindi non puoi imputargliela appieno; poi però ti dicono che, essendo giovani, usano la scuola più della media, ma comunque i costi della scuola sono fissi perché sono gli stipendi degli insegnanti, quindi non puoi imputarli a loro. E nella sanità gli stipendi non ci sono? E poi anche in settori come casa e servizi sociali gli stranieri beneficiano dei servizi in maniera ben più alta della media; vi raccomando di dare un’occhiata all’elenco dei beneficiari dei contributi per l’affitto del Comune di Torino per farvi un’idea da soli.

Anche altre voci di spesa sono palesemente sottostimate: per esempio la spesa per la gestione dei fenomeni migratori (“Ministero dell’Interno”) è stimata in un miliardo di euro, ma noi sappiamo che è già superiore solo la spesa per l’accoglienza dei profughi esclusi i costi di salvataggio, trasporto e gestione, senza nemmeno cominciare a parlare di tutti gli altri immigrati.

Infine, un altro grosso errore: dal lato delle spese, l’elenco è chiaramente incompleto. Difatti, all’attivo viene messo l’intero gettito Irpef dei lavoratori immigrati, nonché una minuzia di altre tasse (persino le tasse sul presunto gioco d’azzardo da parte degli immigrati, o sulla benzina che probabilmente comprano…), ma come spese vengono contate solo alcune delle voci pagate con le entrate fiscali nazionali dei cittadini: sanità, scuola, servizi sociali, casa, giustizia. E i trasporti? Le strade? La polizia? L’ambiente? La cultura? Gli immigrati usufruiscono di tutti i servizi pubblici, come tutti gli altri cittadini. La spesa pubblica italiana è di 835 miliardi, se gli immigrati sono quasi il 10% della popolazione la loro quota potrebbe arrivare fino a 80 miliardi, altro che 12,6.

E in tutto questo non abbiamo ancora considerato un altro grosso fattore: loro stessi stimano in 5,5 miliardi (qui, al fondo di pagina 3) il valore delle rimesse inviate ogni anno dagli immigrati al loro Paese, soldi che non sono una spesa dello Stato, ma che comunque lasciano l’economia italiana e vanno ad alimentare quella di altre nazioni, e che però nel conto non compaiono.

Allora, capite che questo calcolo è talmente complesso, e talmente influenzato dal risultato che si vuole ottenere, che lascia un po’ il tempo che trova; peraltro, stante che il bilancio italiano è in perenne deficit e che abbiamo un’ampia tendenza all’assistenzialismo, sospetto che il conto sarebbe negativo anche per buona parte degli italiani.

Credo quindi che non abbia molto senso discutere se “gli immigrati” portano ricchezza oppure vivono alle spalle degli italiani; è un tipo di ragionamento strumentale sin dal principio, che viene fatto solo per dare una pretesa di scientificità ai propri pregiudizi positivi o negativi sull’immigrazione. Perché, vedete, “gli immigrati” o “gli italiani” non sono categorie sensate; bisogna capire cosa fa ogni persona.

Basta un po’ di buon senso per capire infatti che l’immigrato che arriva qui, rispetta la legge, lavora, paga le tasse è una ricchezza per tutti; mentre l’immigrato che arriva qui e non lavora, trovandosi a sopravvivere di espedienti ai margini della società o peggio a rubare o spacciare o prostituirsi per vivere, non è una ricchezza ma un danno.

E’ proprio per questo che tutti gli stati moderni, almeno dall’età industriale, non lasciano entrare chiunque, ma adottano politiche di gestione dei flussi: decidono quante persone possono essere accolte dall’economia e che qualifiche devono avere, fanno entrare quelle e rimandano indietro gli altri. Il primo strumento di integrazione, difatti, non è il sindaco che festeggia il Ramadan con te per mettere la foto sui giornali, e nemmeno l’accoglienza in albergo pagata dalla collettività, ma è il lavoro che ti trovi e che ti permette di mantenerti e di sistemare te e la tua famiglia; senza lavoro non c’è integrazione.

Per questo io sono basito da tutti quelli che dicono che noi dobbiamo accogliere a braccia aperte tutti quelli che si presentano oggi alle nostre frontiere, perché un secolo fa noi siamo stati accolti negli Stati Uniti e altrove. Gli Stati Uniti hanno accolto quasi tutti per un periodo ben definito, alla fine dell’Ottocento, in cui avevano un intero continente da popolare e colonizzare; una situazione molto particolare, certo non quella dell’Italia di oggi. Anche loro facevano comunque una selezione sulla capacità di lavorare, rimandando indietro per esempio i disabili, e nel Novecento ben presto introdussero un sistema di quote e progressivamente chiusero le frontiere; e gli italiani che entrarono là, lo fecero quasi tutti regolarmente, con un visto valido e dopo essere stati identificati e schedati. Oggi, negli Stati Uniti, senza qualifiche si entra a numero chiuso con una lotteria; in Australia nemmeno così, ma si entra, dopo i trent’anni, praticamente solo se si fa parte di una serie ben precisa di professioni di cui hanno bisogno. Se ti presenti alla frontiera senza il visto, ti fermano (oddio!), ti mettono in una cella (oddio!!!), e ti reimbarcano a tue spese sul primo aereo per il tuo Paese (oddio!!!!! tutte cose che qui sono bollate come razzismo).

I rifugiati, quelli veri, sono un caso particolare; sono persone che non hanno necessariamente prospettive di integrarsi nella nostra economia, e che quindi potrebbero pesare sul nostro sistema di welfare a lungo, ma che accogliamo per civiltà e solidarietà. Gli altri, i migranti economici, quando sono entrati in questi anni con un visto e hanno trovato un lavoro, hanno dato e stanno dando il loro contributo al benessere degli italiani e sono i benvenuti.

Quelli però che non rientrano in una stima dei lavoratori che ragionevolmente possiamo assorbire, quelli che non troveranno un lavoro e resteranno in mezzo a una strada, non saranno una ricchezza, ma un problema per tutti. E allora trovo giusto che anche l’Italia decida ogni anno quanti migranti economici accogliere, che riceva le domande già dai Paesi di origine e gli conceda il visto prima di partire, in modo che i prescelti possano venire qui in aereo e non rischiando la vita in mare, e possano arrivare e lavorare e prosperare insieme a noi, magari nell’ottica di trasferire poi denaro e conoscenza nel Paese di origine per accelerarne lo sviluppo. Per gli altri, mi spiace: senza razzismo, senza cattiveria, ma oggettivamente il posto non c’è.

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mercoledì 2 Settembre 2015, 16:30

Il razzismo delle porte aperte

Come ricorderete, nel mese di luglio ho dedicato al tema dei profughi quattro post pieni di dati e informazioni utili, cercando di promuovere una discussione su come si potesse oggettivamente affrontare un problema così complesso e difficile. Ecco, effettivamente la discussione poi è partita, ma non certo nel modo in cui avrei voluto; alcune riflessioni su come gestire solo uno degli aspetti della questione – quello relativo alle persone che non hanno diritto all’asilo politico – sono state pubblicate sul blog di Grillo, suscitando un bel vespaio, ma soprattutto dando l’impressione che tutta la mia capacità di riflessione sul tema finisse lì; e provocando inoltre accuse di “razzismo” e “leghismo” verso Grillo e verso di me.

Ora, io non sono razzista e ci tengo a non essere confuso con chi veramente lo è, per cui, contrariamente alle mie intenzioni iniziali e nonostante ci siano diversi altri temi altrettanto importanti da affrontare, mi vedo costretto a usare questi giorni di fine estate per mettere nero su bianco alcune ulteriori riflessioni sull’argomento, precisando che si tratta di valutazioni personali all’interno di una discussione in cui il Movimento 5 Stelle è meno diviso di quanto sembri – io, per esempio, condivido i sette punti espressi già da mesi dai parlamentari – ma che inevitabilmente sta impegnando un po’ tutti.

Le quattro proposte riportate dal blog di Grillo, peraltro, sono semplicemente logiche se si parte dal principio di voler gestire il fenomeno. A meno che non si voglia accogliere chiunque si presenti alle porte dell’Italia indipendentemente da provenienza e motivazioni, tra gli aspiranti immigrati ci saranno sempre alcune persone che hanno diritto all’accoglienza (a partire dai veri rifugiati e profughi di guerra, che però sono solo, dai nuovi dati del primo semestre 2015 rilasciati ufficialmente dal Ministero dell’Interno, circa un quarto del totale) e altre che non ne hanno diritto; per cui c’è bisogno di accogliere meglio chi rimane in Italia, velocizzando la trattazione delle domande di asilo e favorendo l’integrazione, ma anche di rimandare indietro chi non può rimanere.

Questo è ciò che fanno tutti gli Stati del mondo, compresi gli stessi stati africani: su Wikipedia potete leggere della decennale lotta del Ghana contro l’ingresso di clandestini nigeriani e maliani. Se mai, si può e si deve discutere di chi ammettere e chi respingere; ma non si può mettere in dubbio l’esistenza stessa di un sistema di rimpatri forzosi.

Lo dice anche la Lega? Ben venga, ma c’è una differenza fondamentale: la Lega passa tutto il tempo ad insultare i clandestini, ad agitare spettri di invasioni e di delinquenza generalizzata (esistono gli immigrati che delinquono e vanno gestiti, ma sono una piccola parte); spesso coprendo, lì sì, del vero e proprio razzismo.

Io invece non ho nulla contro chi cerca di venire in Italia per trovare un lavoro, non mi ritengo superiore né sotto attacco, non ho nessun problema a convivere con persone straniere (se leggete il mio profilo scoprirete diverse esperienze internazionali di alto livello, Nazioni Unite comprese); solo, penso che fare una selezione all’ingresso sia necessario per noi e per loro, e prossimamente vorrei spiegarvi il perché.

Ma prima, permettetemi di rimandare al mittente le accuse di razzismo e anzi di far notare che, così come nelle posizioni restrittive c’è spesso del razzismo, anche in quelle favorevoli all’accoglienza ce n’è spesso altrettanto: non un razzismo aperto e buzzurro, ma un sottile razzismo paternalista.

Ci viene difatti detto che l’unica via per essere solidali e non razzisti è aprire le porte senza condizioni e accogliere chiunque dall’Africa (e, in misura minore, dal subcontinente indiano) voglia trasferirsi qui per motivi economici, senza nemmeno capire chi è e cosa vuol fare. Questa conclusione può essere raggiunta solo basandosi su alcune ipotesi implicite ma evidenti:

1) La peggior condizione di vita in Europa, anche schiavo raccoglitore di pomodori o disoccupato senzatetto che vive di espedienti, è comunque meglio di qualsiasi condizione di partenza in Africa.
2) La miglior soluzione ai problemi dell’Africa è trasferire il maggior numero possibile di suoi abitanti in Europa.
3) Se gli africani sono sottosviluppati, è tutta colpa degli europei e dei secoli di saccheggi e sfruttamenti che continuano anche oggi.
4) Visto che la colpa del sottosviluppo africano è degli europei, tocca agli europei garantire agli africani la sopravvivenza.

Le prime due asserzioni sono legate a una immagine distorta e mortificante dell’Africa, quella di un continente dove esistono solo bambini denutriti, capanne di fango e epidemie mortali, e per cui non ci può essere redenzione: l’Africa come inferno perpetuo da cui fuggire. In realtà, esiste anche un’altra Africa, fatta di città sempre più moderne e di grattacieli, e di tassi di sviluppo tra i più alti del pianeta, come il +7% della Nigeria o il +8,3% del Mozambico, contro il -0,2% dell’Italia. Ovviamente si parte da situazioni di ricchezza media molto più bassa (il reddito pro capite della Nigeria è un sesto del nostro e quello del Mozambico è un trentesimo), con tassi di povertà tra il 35 e il 70 per cento (l’Italia, comunque, è al 30%…); eppure, lo sviluppo dell’Africa non è soltanto possibile, ma è reale e sta già avvenendo.


Una vista del centro di Lagos, da Wikipedia.

In quest’ottica, allora, bisogna capire che cosa è davvero utile all’Africa: per esempio, servono i programmi di scambio per trasferire conoscenza, aiutando gli africani a studiare qui per poi tornare e creare sviluppo al loro Paese; e programmi di aiuto e di investimento diretto, che pure già esistono (solo tramite l’OECD nel 2014 sono transitati verso l’Africa 28 miliardi di dollari di aiuti bilaterali, ma si può fare molto di più).

Al contrario, prendere il maggior numero possibile di maschi dell’Africa sub-sahariana per portarli a fare gli schiavi qui, a svolgere lavori sottopagati o in nero sperando di risparmiare qualcosa da mandare alla famiglia, non solo non serve all’Africa, ma la impoverisce; la priva delle forze fisiche e intellettuali per sostenere il proprio sviluppo. E’, se ci fate caso, una nuova forma di colonialismo, in cui oltre alle materie prime si fa razzia anche di lavoratori; e non è poi così diversa dall’antica tratta degli schiavi, né per dinamiche di sfruttamento dei viaggi e delle persone una volta giunte da noi, né per mortalità negli spostamenti.

Del resto, gli stessi migranti vengono in Europa attirati dalla pressione combinata dei media e dei trafficanti di esseri umani, che promettono ricchezza facile e immediata. Diversi di loro, una volta giunti in Europa, dicono apertamente che è tutto molto diverso da come se l’erano immaginato, che restano per non subire la vergogna del ritorno a mani vuote, ma che se avessero saputo non sarebbero partiti (qui un articolo di esempio).

Le seconde due ipotesi sono altrettanto intrise di paternalismo bianco e di senso di colpa (un classico delle culture cattoliche) verso l’africano, trattato come un bambino scemo che non sarà mai in grado di difendersi o di decidere per se stesso, mentre l’italiano deve scusarsi anche solo di esistere. A parte che non ho scelto io di nascere italiano e dunque non capisco perché dovrei scusarmi o vergognarmi di esserlo, lo sviluppo dell’Africa e la redistribuzione a tutti gli abitanti della relativa ricchezza sono frenati proprio dal fatto che i popoli africani non hanno il pieno controllo delle proprie democrazie, in parte per l’interferenza continua delle nazioni europee, e in parte perché si scelgono (anche quando possono votare) governi corrotti e formati per dinamiche tribali, in cui una piccola elite vive in villoni di lusso alle spalle dei loro fratelli (non che gli italiani, peraltro, siano tanto più bravi a scegliersi governanti onesti).

Ora, l’interferenza delle nazioni europee si elimina smettendo di interferire, e non interferendo al punto da promuovere l’emigrazione di massa della popolazione; e il processo di maturazione democratica, come ci insegnano i fallimenti dei tentativi di “esportare la democrazia”, può avvenire solo in maniera endogena.

Io credo quindi che il modo corretto di relazionarsi con gli Stati africani sia da pari a pari, mettendosi a disposizione per aiutare ad eliminare la povertà sul loro territorio: il “piano Merkel” di cui parlava anche il blog di Grillo. Eppure, noi al momento abbiamo un premier che considera il presidente kenyano un tale incapace da presentarsi in visita ufficiale a casa sua, dentro il palazzo presidenziale, con un enorme e ben visibile giubbotto antiproiettile, come se in Africa si rischiasse la vita a ogni passo, persino nei momenti di massima solennità. E poi i razzisti saremmo noi del Movimento…

In conclusione, l’immigrazione è un fenomeno epocale, che già in passato ha segnato la Storia e che nessuno si illude di poter fermare solo con una legge o con un muro, ma che non si può nemmeno rinunciare a gestire, negli aspetti positivi come in quelli negativi. E’ un fenomeno che scuote le nostre società dalle fondamenta, perché ci costringe a pensare a che mondo vogliamo costruire, e a come renderlo prospero e pacifico. Proprio queste, quelle di alto livello e di lungo periodo, sono le vere questioni di cui dobbiamo dibattere urgentemente; e questo dovremo fare nel prossimo futuro.

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