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Archivio per la categoria 'StillLife'


martedì 22 Maggio 2007, 17:08

Un nuovo blog

Era da tempo che avevo bisogno di un blog in inglese, in particolare a proposito delle mie attività in ICANN e nella governance della rete: lo richiede il bon ton delle mie relazioni internazionali nei circoli buoni della società civile liberale, in cui se non hai un blog sei uno sfigato e anche un po’ un mafioso che non vuol essere trasparente.

E così, in un impeto notturno, l’ho messo in piedi: cinque minuti per installare l’ultima versione di WordPress, venti minuti per integrarla con il CMS fatto a manina in PHP che regge questo sito, un’ora per scegliere il tema grafico, e due ore (stamattina) per aggiustare virgole e puntini come piacevano a me (e ce ne sarebbe ancora). Poi ho riempito il blogroll, ho scritto i primi post, e ho corretto i link in giro per il sito, aggiungendo anche una nuova box in home page. Ed ecco il risultato!

Dopo aver fatto tutto questo, dovrò pur trovare il tempo di postare anche in inglese, ogni tanto… nel frattempo, però, visto il caldo, scappo in montagna lasciandovi un post per domattina.

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martedì 22 Maggio 2007, 14:01

Una giornata di calda follia

Stamattina, dovendo uscire, ho preso la macchina. Non fatelo.

Non tanto perchè il termometro dell’auto presto segnava 37 gradi: per quello basta abbassare il finestrino ed eventualmente accendere il condizionatore; ma perchè il caldo fonde il cervello e sbriciola la pazienza della gente.

Io stesso, dopo che un marocchino sul furgone si è messo di traverso dietro di me, fermo in coda, per girare a sinistra al semaforo, e una signora su una Ypsilon non ha trovato di meglio che suonare il clacson per dieci secondi abbondanti e continuati, visto che ciò le impediva di guadagnare la pole position dal lato di destra per scattare al semaforo, ho avuto la forte tentazione di tirare il freno a mano, abbrancare il primo oggetto a tiro, scendere dall’auto e spaccarglielo sul cranio.

Per fortuna che ci sono i vigili: difatti, dopo un anno abbondante di inazione, stamattina i vigili devono aver deciso che era giunto il momento di far rispettare la minuziosa sequenza di divieti di sosta – che iniziano e finiscono ogni dieci metri, in corrispondenza dei cancelli dei garage – che sono stati installati nella mia via da quando ha aperto la metropolitana e la pressione da parcheggio per notav con cappello in uscita dalla tangenziale è un po’ aumentata. E così, la Citroen fighetta di uno dei miei vicini aveva sul vetro una bella multa: penso che anche lui, quando la vedrà, avrà voglia di abbrancare il primo oggetto a tiro e scagliarlo sulla sede dei sadici vigili da solleone.

Peccato che ci abbia già pensato qualcun altro.

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martedì 15 Maggio 2007, 22:40

Cose molto stupide

Ogni tanto capita, di fare delle cose stupide quando si è in viaggio. A me è successo ierioggi (lunedì e martedì per me sono stati una giornata sola, intervallata da cinque o sei ore di sonno a spezzoni sulla poltrona raddrizzata della business Lufthansa).

Già dovevo capire che non era giornata quando ho ordinato due birre per me e il mio compare Roberto, e la cameriera mi ha chiesto dieci dollari: io le ho dato venti, e lei mi ha riportato il resto sotto forma di una banconota da cinque e cinque da uno. Io la guardo un po’ strana, penso che debba disfarsi degli spiccioli, intasco e vado a sedermi. Lei mi guarda malissimo. A quel punto Roberto tira fuori un dollaro e glielo dà… ecco, non pensavo che negli Stati Uniti la mancia facoltativa obbligatoria vigesse anche al bancone dei pub irlandesi.

Comunque, subito dopo siamo andati al mio albergo a riprendere i bagagli per andare in aeroporto: in previsione della giornata in giro, avevo chiuso anche la borsa del computer dentro la valigia, a sua volta chiusa a chiave e lasciata all’hotel. L’avrò fatto sì e no due volte in sette anni di viaggi continui, perché non mi piace molto lasciare il computer in albergo, persino se l’albergo è di livello e ha tanto di talloncini e deposito chiuso a chiave.

E proprio questa volta, la chiave della valigia ha deciso di uscire in qualche modo dalla taschina del portafoglio dove la tengo, e perdersi nel nulla.

Dico proprio questa volta, perchè naturalmente io viaggio con una seconda chiave della valigia, che, per ridondanza, sta in un luogo separato rispetto al portafoglio e/o alle mie tasche… ovvero, nella borsa del computer. E no, non ci ho proprio pensato, quando ho chiuso il portatile in valigia al mattino, pure un po’ di corsa dovendo prendere il tram F per andare a imbarcarmi per Alcatraz, che sarebbe stato meglio prendere la seconda chiave anziché lasciarla dentro.

A quel punto, naturalmente ho cercato per ogni dove per dieci minuti, poi ho chiesto al concierge se avessero trovato la chiave nella mia stanza, ma nulla. Mi hanno chiamato un fabbro, che mi ha spiegato che poteva provare ad aprire la valigia per forza bruta, ma poi non si sarebbe richiusa; o a tagliare la cerniera, nel qual caso c’erano speranze di poterla poi risistemare. Tuttavia, il rischio di rimanere lì coi bagagli spatasciati e l’aereo in partenza era elevato; e ho deciso che valeva invece la pena di correre l’altro rischio, quello di imbarcare il tutto as is, col computer chiuso dentro: in fondo, la valigia è rigida e il portatile era dentro la borsa.

Ho incrociato le dita per tutto il viaggio, temendo di non veder spuntare la valigia, o di vederla spuntare spaccata e senza computer, o di vederla arrivare e scoprire poi che il computer non aveva retto alle bottazze dei gentili scaricatori d’aeroporto. In subordine, ero preparato a fare una scena alla Fantozzi alla dogana di Caselle, quando mi avrebbero chiesto di aprire la valigia per controllare il contenuto. E poi, anche giunti a casa con la valigia, restava comunque il problema di aprirla.

Eppure, non si è verificato nulla di tutto questo. La valigia, con tutti i suoi bei talloncini “priority” e “frequent traveller” (che da quando li ho messi compaiono segni di effrazione a ogni viaggio), è apparsa sul nastro addirittura per seconda, intatta. Nel corridoio in uscita di Caselle, mi sono astutamente infilato in mezzo a un gruppo che arrivava da Roma, e con passo deciso ho ignorato i finanzieri convincendoli ad ignorare anche me. A casa, c’erano effettivamente una terza e addirittura una quarta chiave, frutto di varie duplicazioni preventive. E il computer è partito al primo colpo, senza sembrare più malridotto di prima. Alleluja.

P.S. Colgo l’occasione per segnalare l’hotel dove ho dormito nella mia notte a San Francisco, il Chancellor Hotel: è centralissimo su Union Square, è di inizio ventesimo secolo ma rifatto a nuovo, sono stati gentilissimi – vedi sopra, ma anche per aver accettato di tenere il bagaglio di Roberto anche se non stava lì – e il tutto per 140 dollari a stanza a notte tasse comprese, che per un albergo di livello business in centro a San Francisco sono un affare, specie se siete in due. C’è persino il Wi-Fi compreso nel prezzo, almeno se riuscite a scrivere giusta la password in hex che vi detterà il concierge (lo ammetto, al primo colpo ho capito “8” al posto di “A”).

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venerdì 11 Maggio 2007, 07:41

Ancora!

Metto a verbale che il momento in cui sono finalmente entrato in albergo risale a non più di dieci minuti fa: non so che ore siano in realtà, qui l’orologio dice le dieci e un quarto di sera. Essendo uscito di casa stamattina alle nove e mezza, se non sono ventiquattro ore di viaggio sono almeno ventidue.

Mi stupisco sempre di come faccia il corpo a resistere a questa innaturale giornata di trentatre ore; dopo un po’, il tempo semplicemente collassa, e si entra in un tunnel spaziotemporale dilatato indefinitamente. Ho anche lavorato, ho guardato The Pursuit of Happyness (decisamente meglio di come mi aspettavo, anzi complimenti a Will Smith che prende un polpettone dal messaggio dubbio – lui è infelice perchè non ha soldi, poi diventa ricco quindi è felice – e riesce a renderlo credibile e persino emotivamente coinvolgente; tuttavia, Smith è talmente mattatore che immagino abbiano preso Muccino solo perchè scrivere “regia del mio gatto Fuffi” pareva brutto).

La business class Lufthansa è una mezza delusione, anche se è sempre molto meglio che pigiarsi in economy. Ti mettono su una sedia motorizzata in ogni direzione, che quando ci sei sopra ti senti il protagonista della pubblicità delle auto che diventano robot; schiacci un bottone ed essa contemporaneamente si allunga, si allarga, si appiattisce e si gira per mettersi in posizione “relax”. Però, la presa di corrente non accetta prese tedesche (!); la presa Ethernet è finta; c’è il video on demand invece dei film a ciclo continuo, ma fa poca differenza, e poi l’action thriller di Bollywood con una figona senza senso era disponibile solo in hindi. Inoltre, il servizio del pranzo, che è circa lo stesso dell’economy ma servito con tovaglioli e cerimonie, dura come un matrimonio: a un certo punto volevo chiedere se almeno mi davano insieme lo ius primae noctis su una delle hostess.

Soprattutto, già a Caselle, causa due ore di ritardo del Torino-Francoforte, mi hanno dumpato in automatico sul Monaco – San Francisco di due ore dopo; io ho cercato di avvertire l’organizzazione di ICANN in vari modi, e pietendo la hostess lei è andata dal capitano col numero di cellulare austriaco di Roberto Gaetano, che è stato faxato alla torre di controllo, che gli ha telefonato e gli ha lasciato un messaggio in segreteria. Tutto inutile: a SFO, passata l’immigrazione e la dogana, non c’era nessuno ad attendermi.

Ora, cosa fareste voi se vi trovaste a SFO alle sette e mezza di sera, con in mano solo l’indicazione Four Seasons Hotel di Palo Alto? Beh, saltereste sul taxi; ma a me di far spendere a ICANN tra gli ottanta e i cento dollari di taxi non andava, e in più mi piacciono i treni. Così, mi sono fidato dei pannelli (lo scortesissimo bigliettaio mi ha persino diretto alla macchinetta automatica per fare i biglietti, che non aveva voglia di farlo lui) secondo cui con una fermata di Bart potevo poi, con cinque minuti di attesa, prendere il Caltrain fino a Palo Alto Centrale.

Mi sono così avvicinato incuriosito al Bart – che in The Pursuit of Happyness, che è ambientato nel 1981, si vede in quasi ogni scena – e pota, ho capito come hanno risparmiato sul film: ci sono ancora le stesse carrozze del 1981! E non le puliscono dal 1981! Noi ci lamentiamo dei nostri trasporti pubblici, ma dovreste vedere quelli americani. In più, ovviamente il mio treno aveva cinque minuti di ritardo: per cui mi son visto sfilare la coincidenza sotto il naso – mentre facevo il secondo biglietto alla macchinetta, che sono due società separate e ben si guardano dall’accordarsi, che poi sarebbe un cartello oligopolistico! – e ovviamente il treno della seconda compagnia mica aspetta la coincidenza con quello della prima, anzi se può parte più di corsa ancora, perchè la gente s’incazzi con gli altri per il ritardo. Quello successivo, ovviamente, era dopo soli 68 minuti.

Così, ho festeggiato il tramonto in un venticello tiepido che è poi divenuto una bora gelida, alla stazione d’interscambio di Millbrae. Ho preso il Caltrain, sono sceso a Palo Alto, e… oddio, di taxi neanche l’ombra! Non ho una mappa, non ho un indirizzo, sono in un parcheggio di periferia… qui butta maluccio. Vado alla fermata degli autobus per chiedere informazioni, ma della decina di presenti solo due parlavano anche inglese, tutti gli altri solo spagnolo, al massimo potevo chiedergli del coche fantastico.

Così mi sono diretto a piedi verso [Stanford] University Avenue, sperando di incocciare in un taxi. Ma ero talmente fuso che ho fermato due ragazzi per la strada per chiedere dove era una fermata dei taxi, e loro mi hanno fatto notare che ne avevo due a cinque metri da me… E però, questa è stata la nota positiva della giornata: perchè il tassista era nero e somalo, quindi amante degli italiani, e abbiamo passato il viaggio a sparlare degli Stati Uniti. Breaking news, i neri vivono di merda pure in California. Alla fine gli ho dato una mancia del cinquanta per cento, e sono entrato nel mio lussuosissimo alberghissimo dalla puzza sotto il naso, col ristorante finto italiano e gli stuoli di cameriere in divisa che negli occhi hanno l’inconsapevole palpito represso della rivoluzione che prima o poi verrà, quando sarà divenuto consapevole.

Nel frattempo, io vado a farmi la doccia e poi a letto senza cena: anche perchè, ad essere precisi, oggi ho comunque fatto una colazione, tre pranzi, una merenda e una cena, anche se sulla nomenclatura ci sarebbe da discutere. Buona… boh, quello che è lì da voi.

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giovedì 10 Maggio 2007, 00:20

Ancora?

Oggi sono di nuovo in viaggio, in aereo per San Francisco. E no, non è divertente.

Cioè sì, è fighissimo, ci vado per un meeting di ICANN, è ospitato da Google che ci farà anche fare un tour degli uffici (sì, ho chiesto se posso fare foto; sì, sto ancora schivando avvocati). E per fortuna avevo prenotato un volo sufficientemente tardo da poter essere domani sera per cena in Silicon Valley pur decollando domani mattina alle 10:55, il che vuol dire che domani non mi devo alzare alle quattro e mezza come al solito.

Però, in questo momento – quello in cui mi rilasso, dopo aver messo le ultime cose in valigia e prenotato il taxi – preferirei invece avere davanti cinque giorni per me, di eremitaggio a prendere il sole, leggere e riflettere fuori dal mondo e dalle beghe di ogni genere in mezzo a cui mi ficco; e, soprattutto, dormire.

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mercoledì 9 Maggio 2007, 21:21

Inferno

Ok, avrei potuto infilarmi sulle tangenziali invece di fare di nuovo il giro dei viali (stavolta quelli esterni, Cermenate compreso). Avrei potuto fare Pavia – Alessandria; ci ho pensato, ma per una forma di lealtà sono rimasto sulla vecchia autostrada. Però l’esperienza di oggi si avvicina discretamente all’idea che ho di un girone dantesco.

Non intendo offendere chi è nato a Milano o chi ci abita; ognuno è attaccato alla propria città. Io, però, esco da questi due giorni chiedendomi seriamente come ci si possa vivere. Probabilmente, una volta che ci si è dentro, ci si abitua e non ci si rende più conto di quanto male si viva a Milano, o quanto bene si viva in altre città del Nord Italia.

Per dire, il traffico è un problema normale. Ma che l’unico posto per parcheggiare per una notte l’auto non palesemente in divieto, nel raggio di un chilometro, sia su un marciapiede, è insensato. Che tu chieda in giro e tutti facciano tanto d’occhi all’idea che tu trovi strano parcheggiare su un marciapiede, anche. Dopodichè, al mattino ti vergogni, e hai l’idea brillante di spostare la macchina e parcheggiarla un paio di fermate di metro più giù, dove non si paga.

Lo fai, e nel frattempo scopri un altro brutto angolo di Milano, la zona di corso Lodi, viale Brenta e piazza San Luigi. Dove su vie laterali strettissime e dal percorso zigzagante (era tutta campagna, cosa costava fare delle vie dritte e larghe?) ci sono auto su entrambi i lati, più sui marciapiedi, se ci sono dei marciapiedi. Se c’è uno spartitraffico, ci sono auto sullo spartitraffico. Se lo spartitraffico è troppo stretto, ci sono auto con due ruote sullo spartitraffico e due sulla carreggiata. E pare normale.

Se provi a muoverti con l’auto, incappi in un sacco di gente elegante, a bordo di un sacco di auto eleganti: Audi, BMW, fuoristrada, Cayenne. Tutte ferme. Tutte in lotta per cinque centimetri, a colpi di clacson e talvolta insulto, in cinquecento metri di auto completamente ferme. Quelli col fuoristrada, dopo un po’ prendono e passano sui marciapiedi, o persino attraverso i giardinetti.

In più, tutte le vie secondarie sono a senso unico, casuale. Di solito, si inverte a ogni isolato. Quando arrivi su una via un po’ più grande, c’è in mezzo un cordolo o una corsia preferenziale che ti costringe regolarmente a girare nella direzione sbagliata. Dopodichè, arrivi in una piazza rotonda (in modo da perdere l’orientamento) o in un incrocio a cinque vie, in cui la precedenza va per portellate.

Qualunque strada tu prenda per arrivare alle tangenziali, conquistandoti centimetro dopo centimetro l’avanzata come in una trincea, finirai poi sull’autostrada che non solo è piena di cantieri, ma è anche bloccata senza preavviso dopo Arluno. Due chilometri di auto ferme perchè una Audi, un BMW e una 159 si sono toccate e sono finite di traverso tra un cantiere e l’altro. Quaranta minuti di coda.

Ma non è solo il traffico – del resto, anche muovendosi a piedi cambia poco, visto che camminando ti trovi ogni cinque minuti contro un’auto che, due centimetri dal muro e due dagli alberi, si sta infilando sul marciapiede per cercare un “parcheggio”. E’ la gente in metropolitana che (evitando l’acqua che cola in piena stazione Duomo) si mette a litigare per chi ha il diritto di salire per primo sulla scala mobile. E’ l’albergo dove ti chiedono duecento euro a notte per una stanza microscopica col bagno scrostato. E’ il ristorante che ti fa il prezzo fisso per il gruppo compreso dolce, ma del dolce prepara metà delle porzioni necessarie e quando sono finite fa finta di niente. E’ il padrone del catering che, davanti ai commensali, si mette ad insultare le cameriere (“Cretina! Aggiungi dei bicchieri lì! Le bottiglie spostale più in là! Ma come fai a lasciare questa roba qui, che poi uno ci inciampa, scema!”) nell’indifferenza generale, come se fosse normale. Tutto in un giorno solo.

Tornando a Torino, mi sono trovato davanti a un tramonto bellissimo: si vedeva tutto l’arco delle Alpi, dal Monviso in su, con il sole a scendere dietro e tutte le gradazioni dal giallo all’azzurro. Alla fine sono arrivato a casa finalmente rilassato. Passando davanti alla Thales Alenia Space già Alcatel Alenia Space già Alenia Finmeccanica già Alenia Spazio già Aeritalia, mi son detto: la nostra economia andrà un po’ da schifo, ma nessuna quantità di denaro potrebbe convincermi ad affrontare ogni mattina quell’inferno.

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mercoledì 9 Maggio 2007, 08:57

Deglutiamoli

Non ero mai stato all’Università Bocconi in vita mia; ci sono entrato per la prima volta ieri, visto che ospitava la nostra assemblea di Società Internet.

La cosa comincia male, perché sono in ritardo, visto che il mio analista si è scordato della seduta per la seconda volta di fila (è chiaramente una sua resistenza inconscia all’incontro con me; come tale, mi sento titolato a chiedergli di pagarmi ugualmente per le due sedute). Così, a fronte di un inizio riunione alle 13 in piazza Sraffa 13 Milano, io alle 11:40 sto imboccando corso Marche a Torino.

Nel mezzo, c’è la “autostrada” Torino-Milano, quella dove ambienteranno il prossimo numero del videogioco di rally di Colin McRae: chicane ogni chilometro? segnaletica orizzontale a tre strati contraddittori? pullman greci a ottanta all’ora che superano camion a settantacinque? limiti di velocità che cambiano ogni cento metri? tutto questo e anche più: ora (nuovo!) con i cantieri anche da Novara a Milano!

Nonostante questo, con una applicazione rigorosa del principio vauto = vlimite + 40, alle 12:45 sono in viale Certosa, per infilarmi poi nel centinaio di semafori ad onda rossa che intasano la circonvallazione tra piazzale Lotto (che, scopro, è intitolato al pittore e non al più noto gioco d’azzardo) e il Naviglio Pavese. Ho ancora speranza di farcela, visto che ieri ho chiesto a Simone (l’esperto di Milano) se quella della Bocconi, a sud di Porta Ticinese, sia zona parcheggiabile e se si paghi, e lui mi fa: tranquillo! è fuori dalle mura, di sicuro non si paga.

Difatti, arrivo lì ed effettivamente non si paga, nel senso che l’intero quartiere è zona gialla riservata ai residenti; girando lì attorno, trovo in due soli punti rispettivamente venti posti blu (con macchine su tre file) e un pezzo di parco collettivizzato a parcheggio selvaggio. Penso di far brillare la macchina, ma poi, come un miraggio, appare un cartello con la P, che mi guida a un parcheggio sotterraneo da 1,50 euro l’ora (nemmeno tanto), che è proprio sotto l’Università: così arrivo in sala alle 13:15, prima che inizi l’incontro.

Ovviamente l’edificio è strafigo: vi dico soltanto che, stando alle mappe sui muri, non ha un atrio ma un “foyer”, e non ha le macchinette distributrici di cibarie negli angoli, ma una “sala break” con le suddette macchinette incastonate in eleganti chioschi di legno. Il resto è molto milanese, compreso il cartello appeso in multiple copie sul bancone del bar di fronte alle macchinette, scritto in caratteri cubitali in grassetto, che specifica che le macchinette non sono in gestione al bar e quindi il bar non fornisce gratuitamente tovagliolini e altro materiale per fruirne i prodotti.

Tuttavia, comincio a notare alcune cose un po’ strane. Ad esempio, durante la riunione, c’è sempre un fastidioso rumore di fondo, che a tratti diventa così forte da non riuscire a sentire la persona che parla a due metri di distanza. Guardiamo fuori, e scopriamo che attorno all’edificio ci sono almeno tre diversi edifici in costruzione o in ristrutturazione, con tanto di gru, muratori e martelli pneumatici. Diventa impossibile persino chiacchierare del più e del meno, e quindi ci chiediamo: ma come fanno a fare lezione?

Alla pausa, alle tre meno un quarto, andiamo a prendere un caffè e scopriamo un’altra cosa strana: il bar – pardon, la sala break – è pieno, stracolmo di studenti. Sono tutti bambinetti bauscia, firmatissimi dal primo all’ultimo pelo di mutanda, con regolamentari vite basse e marchi bene in vista. Cazzeggiano allegramente. Vabbe’, saranno in pausa, dico io: eppure alle tre e venti sono ancora lì. Esco per fare una telefonata, e verso le quattro non solo sono ancora lì, ma diventano uno sciame, una folla strabordante che annichilisce il mio Nokia insieme ai persistenti martelli pneumatici, e mi costringe a mettere giù. Sono tutti firmati. Saranno centinaia, ma sì e no una ventina hanno dei libri sotto braccio. Uno ha dei volantini di una assicurazione personale, con cui abborda le tipe dalla quarta in su (ai miei tempi però si propagandavano discoteche: come cambiano i tempi…). Due guardano il manifesto di Azione Universitaria che invita gli studenti a un concerto elettorale con Faso, Cesareo e Meyer (non sapevo fossero fascistoni). Gli altri, ridacchiano.

Per carità, la mia è una prima impressione e come tale è probabile che sia sbagliata, ma mi resta l’idea che, ecco, quaggiù non si faccia un cazzo (come peraltro, purtroppo, ormai nella maggior parte delle Università italiane).

Però non mi rassegno, mi ci arrovello, e alla fine ho l’illuminazione: gli studenti sono solo una copertura. Il vero scopo di questa Università è costruire nuovi metri cubi di cemento nel centro città col mercato immobiliare più caro d’Italia. Non può che essere così.

E, rassicurato sul luminoso futuro dell’Università italiana pubblica e privata, mi preparo volentieri per la cena.

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lunedì 7 Maggio 2007, 19:27

Ridotti male

Oggi, ritornando da un cliente, pedalavo allegro sul tratto di via Guido Reni che va da via Filadelfia a via Baltimora. Proprio lì, sull’aiuola spartitraffico centrale, si trovano alcuni alberi di discrete dimensioni, residuo di quando lì era tutta campagna; tra cui uno che pare un ciliegio o assimilabile.

Bene, mentre passo, mi accorgo di un tizio che, con in mano un sacchetto di carta, si arrovella attorno all’albero, tra le macchine che sfrecciano, cercando disperatamente di aggrapparsi ai rami per cogliere le ciliegie (che, data la posizione, conterranno per il 99% ossidi di azoto e polveri sottili).

Ma quanto si deve essere ridotti male, per pensare di andare a cogliere le ciliegie dello spartitraffico?

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lunedì 7 Maggio 2007, 19:20

Impegni presenti e futuri

No, scusate, ho almeno tre post per la testa, ma per un motivo o per l’altro il mio tempo di oggi è stato risucchiato completamente. Facciamo che adesso scrivo quello breve, mentre quello lungo lo rimando a domani mattina, visto che tra mezz’oretta devo uscire per andare a fare la cavia del sushi casalingo di Simone (il pesce palla però lo assaggia lui).

Nel frattempo segnalo questo evento mercoledì a Milano, in cui illustri intervenuti tra cui il sottoscritto (che ovviamente metterà insieme le slide martedì notte) discetteranno del futuro della rete e dei suoi problemi. Se qualcuno è interessato, c’è ancora qualche posto.

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sabato 5 Maggio 2007, 20:48

Movimenti

La notizia che devo darvi da un po’ di tempo è che alla fine ho comprato casa. Come sapete, già vivo da solo da anni, ma pur sempre allo stretto e in una mansarda: e quindi, da qualche tempo mi sono messo a cercare una casa vera. Nulla di clamoroso, insomma, un appartamento da single o da giovane coppia: camera, sala, cucina e bagno; e però, un certo ampliamento.

Ciò che mi ha convinto nella scelta è stata la posizione all’ultimo piano, con vista sui tetti, l’indipendenza su tre lati, e l’abbondanza di ripostigli da trasformare in sala dati; nonchè il luogo, in una via tranquilla, a 250 metri dalla metropolitana, accanto a un giardinetto. Insomma, dovendo comprare ai prezzi folli di oggi – ma credo che per andarci ad abitare ne valga ancora la pena – io ho preferito spendere un po’ di più ma prendere una casa con una serie di pregi; anche se manca il garage e già so che questo sarà un potenziale problema.

E così, a fine estate diventerò un orgoglioso abitante di via Zumaglia, considerandolo come un progresso sulla scala sociale. Già, perchè non solo mi sono avvicinato al centro di un paio di chilometri, ma ho acquisito, si badi bene, una posizione centrale in uno dei quartieri classici della media borghesia torinese. Non sono mica andato a stare nel primo isolato di via Zumaglia, così affollato di case pigiate l’una sull’altra; e nemmeno nel terzo isolato, con il rumore delle scuole e ormai lontano dalla metro. No, io ho comprato nel secondo isolato, quello più verde e signorile. I miei nonni operai ne sarebbero felici, se avessi dei nonni operai.

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