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Archivio per la categoria 'TorinoInBocca'


mercoledì 13 Febbraio 2008, 12:11

La capra

Sono oggi venticinque anni da un giorno che entrò nella storia collettiva di Torino molto più di tanti altri, che pure forse risalteranno più di esso sui libri del futuro.

Il 13 febbraio del 1983, infatti, in una via elegante che non è più centro ma non è ancora periferia, bruciava in quaranta secondi il cinema Statuto. Il locale era stato appena ristrutturato, ed era stato visitato poche settimane prima dalla commissione addetta, che aveva dato l’autorizzazione alla riapertura. Sul tessuto sintetico dei rivestimenti c’era scritto “Produce fumo”, ma in realtà, bruciando, produceva acido cianidrico. In più, le uscite di sicurezza della galleria erano chiuse, e così, mentre chi stava sotto si salvò, chi stava sopra non riuscì a scappare. I morti furono sessantaquattro. Le immagini sono pesanti, e non le raccomando.

Per anni, il cinema annerito rimase lì, con i manifesti della Capra – un film altrimenti dimenticabile con un giovane Depardieu – a testimoniare di quella inquietante manifestazione del diavolo, di cui la capra è da sempre uno dei simboli. Alla fine, qualcuno ebbe il cuore di demolirlo e di costruirci sopra un condominio, anche se non so quanto sia stato facile vendere quegli appartamenti.

A venticinque anni di distanza, ci siamo tutti abituati a quelle misure che all’inizio trovammo eccessive, gravose, con infinite proteste di chi vedeva locali e sale chiudere. A posteriori, sono l’unica conseguenza positiva di quella tragedia, insieme a una cultura per cui, almeno a Torino, abbiamo tutti l’occhio alle frecce verdi e alle uscite di sicurezza.

E poi, rimangono le storie spicciole. Quelle dei parenti, che restano con le domande senza risposta, e che comprensibilmente hanno bisogno di incarnare il diavolo in qualcheduno, e di trovare una capra da sacrificare. Quella del proprietario del cinema, spezzata anch’essa dal male (i burocrati invece si salvarono, così come i produttori del tessuto). Le tracce piccole ma profonde, spesso segrete, che tornano alla luce dal profondo, ma solo quando si trova il coraggio di scoperchiarlo ancora. Le storie che sconfinano in leggenda di chi ci doveva andare e all’ultimo non c’è andato, di chi c’è andato ed è uscito cinque minuti prima, per arrivare poi all’immancabile seduta spiritica.

Ma mai come in questo caso – pur con tutta l’importanza della giustizia degli uomini – si ha la sensazione di una vicenda che scorre su di un altro piano: quello negato e sepolto dell’equilibrio instabile, e mai veramente spiegato, tra le forze del bene e del male.

[tags]cinema, statuto, capra, torino, diavolo[/tags]

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giovedì 7 Febbraio 2008, 09:58

Fusione a motore

Torino, dopo la radio, la televisione, la moda, la Telecom e le banche, potrebbe presto perdere persino i trasporti pubblici. E’ infatti di queste settimane la notizia secondo cui la cupola cittadina, in mezzo a grandi comunicati di giubilo e ai peana della Stampa, ha avviato le trattative per vendere GTT alla ATM milanese.

Naturalmente, secondo Chiamparino e Bresso l’operazione sarebbe necessaria per offrire all’azienda torinese prospettive di crescita e di competitività. Peccato che questa tiritera mi sembri di averla già sentita, ad esempio per la fusione Sanpaolo-Intesa, che a distanza di un po’ di tempo conferma quel che tutti sapevano, cioè che Torino sarebbe diventata, al solito, la periferia che prende ordini da Milano.

Qualcosa di vero c’è; certamente anche nel mondo del trasporto pubblico sono in atto consolidamento e globalizzazione, anche prima di quel che pensiamo, visto che due compagnie storiche del torinese come Sadem e Sapav – cioè i pullman blu per Pinerolo e per la Valle d’Aosta – già esibiscono timidamente il logo Arriva, cioè la mega-azienda dei bus londinesi. Tuttavia, non è affatto chiaro né perché questo sia per forza un pericolo, né perché questo implichi la necessità di svendersi ancora una volta a Milano o comunque di creare un sistema di trasporto piemontese concentrato sulla dipendenza dal capoluogo lombardo. Su questo punto si vedano anche le incredibili dichiarazioni dell’amministrazione regionale sdraiata a difesa di Malpensa, dopo non aver mosso mai un dito in dieci anni per promuovere seriamente Caselle.

I trasporti torinesi hanno innanzi tutto ben altri problemi: quelli di inanellare una stupidaggine gestionale dietro l’altra, in un tripudio di quella che, se non è incompetenza, è perlomeno mancanza di pianificazione. Siamo l’unico caso di città che, dopo avere speso 200 miliardi per costruire la nuova linea 4 in tramvia veloce, ci fa correre accanto due bus che fanno lo stesso identico percorso (50 e 63) e che finiscono pure per intralciarne e rallentarne il passaggio. O che spende altre centinaia di miliardi per costruire una linea di metropolitana talmente a misura di puffo che, prima ancora di essere completata, nell’ora di punta è già intasata come quella di New York, e nonostante questo perde da sola ottanta milioni di euro l’anno.

Il caso emblematico è quello del collegamento per l’aeroporto, pianificato mediante il treno Torino-Ceres (che esiste da un secolo). Nel 1990 si usarono i fondi dei Mondiali di Calcio per interrare il tratto urbano, con capolinea a Torino Dora; poi però la linea restò chiusa per anni perché si erano accorti dopo di volerla interrare anche nel paese di Caselle. Finiti questi lavori, si riaprì la linea e ci si rese conto che nessuno la usava, perchè Torino Dora è in una zona degradata, decentrata e mal servita, mentre chi va all’aeroporto sta solitamente o in centro / Crocetta, o nelle zone borghesi della periferia occidentale. Allora pianificarono di collegarla al passante ferroviario, per arrivare alle stazioni principali, e si misero in paziente attesa che le Ferrovie dello Stato finissero i relativi lavori (durano solo da venticinque anni).

Nel 2001, però, il Comune decise che bisognava assolutamente interrare il passante sotto la stazione Dora, e così magicamente i binari per Porta Susa sarebbero arrivati dieci metri sotto quelli per Caselle. Come risolvere il problema? Ci stanno ancora pensando, ma ora pare stiano stanziando 130 milioni di euro per buttare via il tunnel del 1990, scavarne uno nuovo sotto corso Grosseto (presumibilmente chiudendolo alle auto in contemporanea alle chiusure già esistenti di corso Mortara e via Breglio, tanto chi usa l’auto è un criminale e va punito a prescindere, anzi meglio se la gente non esce di casa) e collegarsi al passante con un giro di tre chilometri più lungo. Dopodiché scopriranno che così ci andranno 45 minuti per fare col trenino i dieci chilometri in linea d’aria da Porta Susa a Caselle, quindi la gente continuerà a non usarlo; ma mica vorrete che ci pensino prima.

Nel frattempo, basterebbe una linea di autobus diretti dal centro per eliminare un po’ di auto dall’aeroporto; ma quella che c’è, oltre ad esserci una volta ogni quaresima e a costare sette euro, per qualche imperscrutabile motivo non prende la tangenziale ma entra in tutti i paesi, mettendoci una vita, e facendo lo stesso identico percorso del treno invece di complementarlo (viva l’integrazione dei sistemi di trasporto).

E quindi, di fronte a questo caos, cosa si fa? Beh, senza toccare quelle che già esistono e che lavorano così bene, si fa una nuova azienda municipalizzata, l’Agenzia per la Mobilità Metropolitana di Torino. A cosa serve? Non lo sa nessuno, però sono altre poltrone di sottogoverno, ovviamente ben pagate, da affidare con logiche politiche.

Ora, pensando per bene a quanto sopra, credo di capire perché vogliono fare la fusione con Milano. Se lasciassero fare all’economia, entro qualche anno tutti questi manager così capaci che hanno nominato a gestire questo settore sarebbero in mezzo a una strada, sopraffatti da qualche operatore privato un po’ moderno come appunto gli inglesi. O magari sarebbero gli inglesi stessi a comprare GTT, in un accordo che, se negoziato bene, potrebbe persino prevedere Torino come quartier generale della multinazionale per l’Italia e il Sud Europa, con un sicuro futuro occupazionale: sono sicuro che le cose funzionerebbero molto meglio, però la multinazionale ovviamente selezionerebbe i dirigenti per merito e non per amicizie.

Meglio quindi svendere tutto a Milano, in cambio della certezza di poter ancora nominare un po’ di manager amici, tramite quote politiche elemosinate in anticipo da Moratti e Formigoni.

[tags]gtt, atm, torino, milano, trasporti pubblici[/tags]

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mercoledì 6 Febbraio 2008, 12:29

Un filosofo qualunque

Supponete di essere un vecchio filosofo brontolone che già per tutta la vita ha dovuto scontare il fatto di chiamarsi Gianteresio, e che non ha mai perso una occasione che fosse una per rendersi ridicolo. Vi accorgete che è prevista la partecipazione di Israele alla Fiera del Libro: potete mancare una occasione come questa per rendervi ulteriormente ridicolo?

No, non potete: e così scrivete un articolo sul giornale cittadino chiedendo il boicottaggio della manifestazione. Già che ci siete ne sparate un paio, come quella secondo cui prima avrebbero invitato l’Egitto e poi l’avrebbero cancellato per far spazio a Israele (mentre l’Egitto è stato rinviato al 2009 semplicemente perché nello stesso periodo si farà una mostra di risonanza mondiale al Museo Egizio), o il parallelo con la visita del Papa alla Sapienza (pare che nella sinistra radicale vada di moda, in questo periodo, combattere per la libertà di opinione cercando di non far parlare tutti quelli che la pensano diversamente).

Naturalmente, vi fate subito sbertucciare dagli stessi scrittori invitati, che pure non sono certo allineati al proprio governo. Ma non importa, perché nel frattempo s’alza il pugno e arriva la solidarietà del vostro partito (oddio: partito che vi ha fatto trombare come un fesso alle ultime Europee, ma non sottilizziamo). Tra voi e questo partito c’è comunque una identità di vedute, perché ad entrambi piace rendersi ridicoli; in più, visto che le elezioni si avvicinano, i Comunisti Italiani hanno disperatamente bisogno di farsi vedere, dato che stanno per sciogliersi nel polpettone rosso bertinottiano e se il loro posto nel mondo era poco chiaro prima, lo sarà ancor di meno adesso.

Eppure, la cosa che io trovo veramente triste di tutta questa vicenda è la quantità non trascurabile di persone che vanno dietro all’idea di boicottare uno Stato che, con tutte le critiche possibili alla politica del suo attuale governo, è l’unica democrazia del Medio Oriente e combatte quotidianamente contro gente che si fa saltare in aria negli autobus e che dichiara tranquillamente a mezzo stampa di avere come obiettivo la cancellazione dalla faccia della terra di tale Stato e dei suoi abitanti.

E non parlo solo di quella decina di figli di papà dei centri sociali che sono andati ad appiccicare uno striscione scritto a pennarello fuori dalla finestra della sede della Fiera (sempre meglio che lavorare). Parlo invece di tanta gente intelligente, laureata, con posizioni di rilievo, che però vede tuttora il mondo in bianco e nero, dividendolo per buoni e cattivi in base a scelte ideologiche mai sottoposte a verifica rispetto alla realtà delle cose, e tanto meno compatibili con l’opportunità di dialogare con persone che tale realtà vivono direttamente, e che quindi potrebbero scombinare queste scelte.

Capisco che il mondo moderno dia poche certezze e che quindi, da Vattimo alla pescivendola del mercato, venga la tentazione di usare l’ideologia (esattamente come la religione) per farsele. In Italia, di questo sport siamo campioni; ed è sicuramente una delle ragioni per cui, alla prova dei fatti, i nostri piani e le nostre politiche falliscono miseramente.

[tags]fiera del libro, israele, vattimo, pdci[/tags]

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giovedì 17 Gennaio 2008, 20:32

La misura della crisi

Oggi è stata una giornata pienissima, tanto che terminato l’ultimo appuntamento della giornata non ho potuto fare altro che infilarmi nel take away cinese dietro casa mia, per un mix di riso alla cantonese e pollo fritto; schivando, dal suo menu italiano, l’eccezionale offerta di un piatto di spaghetti al misto di male.

Volevo soltanto dire che la misura della crisi morale della classe politica italiana non sono soltanto le disgustose dichiarazioni di Romano Prodi a difesa di Clemente Mastella, che personalmente spero sia, in caso di colpevolezza, solo la prima vittima di una nuova e ampia rivoluzione giudiziaria sulla falsariga di Mani Pulite. Capisco la necessità di difendersi la poltrona, visto che la defezione di Mastella farebbe cadere il governo, e quindi meglio sostenuti da un indagato a capo di un partito arrestato (come lo definisce Travaglio) che a casa e privi dell’agognato potere. Dopo tale scivolone etico pro interesse personale, tuttavia, per me Prodi ha perso ogni dignità; se insiste, temo che comincerò seriamente a dubitare persino della sua onestà.

La vera misura della crisi, però, l’ho avuta stasera, passando un quarto d’ora in piazza Chironi, dove la circoscrizione organizzava un incontro con i cittadini a proposito del progettato parcheggio sotterraneo nella piazza; e dove un manipolo di cittadini allibiti, cercando con difficoltà di infilare qualche domanda pratica o qualche opinione ogni tanto, hanno dovuto assistere al teatrino di quattro consiglieri di circoscrizione che infilavano battute alla Ballarò interrompendosi a vicenda, chiamando in causa praticamente qualsiasi tema dall’immondizia di Napoli alle attitudini di Chiamparino, pur di criticarsi l’un l’altro; senza mai ascoltare nessun altro che il proprio dirimpettaio di teatrino, né dire quale fosse la loro proposta per migliorare l’impatto del parcheggio oppure per risolvere il problema della carenza di posti auto in maniera alternativa.

Se pure a questi livelli c’è una simile alienazione dei politici dal resto della società e dalla realtà delle cose, temo che non esista altra via che farne interamente pulizia.

[tags]mastella, prodi, casta, giustizia, politica, piazza chironi, pollo fritto[/tags]

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venerdì 28 Dicembre 2007, 14:49

Da Torino a Milano

Visto che siamo in periodo natalizio, continuo con i video, e in particolare con questo meraviglioso spot, dedicato a tutti i torinesi che si lamentano di non essere milanesi. Chi emigra da Torino a Milano raramente lo fa in piena libertà, e più spesso lo fa perché spinto da questioni professionali; ma sono parecchi quelli che anche dopo vent’anni di vita milanese continuano a sentirsi sabaudi anziché biscioni.

[tags]torino, milano[/tags]

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mercoledì 19 Dicembre 2007, 13:42

Ravanello. Collegno.

Che cosa si può dire della Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO)? Beh, per prima cosa che ci sono stato ieri sera per una cena di ex colleghi Vitaminic; per seconda cosa che il responsabile della scelta del posto è Yari Latini Corazzini (il sito è in costruzione da secoli) e quindi io me ne chiamo fuori; per terza cosa questo è un post su commissione da parte di tutto il gruppo che ieri vi si è ritrovato.

Io comunque dissento, e segnalo che alla Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO) le cozze alla tarantina erano davvero buone, anche se la pasta alla tirolese invece non era niente di che. I prezzi non sono particolarmente modici (25 euro a testa prendendo mediamente mezzo antipasto, un primo o pizza e il dolce), ma ormai dov’è che puoi mangiare un pasto completo, anche alla buona, per meno di 30 euro? (A parte il pub-trattoria Manhattan di via Giachino, che invece raccomando spassionatamente, a meno che non vi formalizziate sulla zona simil-Bronx, i tavoli consumati, i graffiti sulle pareti e l’apparente – ma soltanto apparente – situazione di sporcizia.)

Il problema della Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO), invece, è stato che noi avevamo diligentemente prenotato per otto persone alle 20,30, e quando siamo arrivati non c’era nemmeno la più vaga ombra del tavolo; in pratica, hanno accettato la prenotazione pur sapendo di avere un gruppo di trenta mocciosi schedulato per le 19,30. E’ chiaramente impossibile pensare di ricevere un gruppo di trenta persone per le 19,30, aspettare che ci siano tutti, dargli da mangiare, e poi avere i tavoli liberi per le 20,30; difatti, il nostro tavolo è apparso solo alle 21,15, e altri ancora dopo.

Se questo sia un problema tale da tirare una riga sul posto, o sia invece perdonabile, lo deciderete voi; certo è che sono uscito con la sensazione che la Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO) sia un posto progettato da abili marchettari, con una attenzione al cliente soltanto formale. Del resto, è la prima volta che vedo una pizzeria con la pubblicità di un concessionario di automobili stampata sui cartoni delle pizze…

Concludo dicendo che la cameriera era carina, anche se non ha dato segno di volerla rendere disponibile nè a Simone, nè ad Andrea B.; però era un’ottima venditrice, e ci ha piazzato tre terrine di cozze con una abilità disarmante; del resto è noto che un bel faccino può vendere a un nerd qualsiasi cosa – a parte i componenti elettronici, che lì comunque l’attrazione per le specifiche in megahertz prevale persino sull’attrazione per il gentil sesso.

In compenso, la classe di seconda liceo che ha liberato la tavolata è stata allarmante: una sequenza di mostri ambosessi uno dietro l’altro, una sfilata di moda di brufoli, il festival dello sguardo spento e del futuro da disoccupato spettatore di grandi fratelli. Se questo è il nostro futuro, potremmo organizzare uno scambio della nostra generazione di nati negli anni ’90 con quella di un qualsiasi altro paese (io voto per l’Estonia). Ma forse è solo che a quell’età si è tutti dei mostri.

P.S. Per completare l’opera per Google: Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO)! Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO)! Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO)! Pizzeria Trattoria Ravanello di Collegno (TO)!

[tags]pizzeria trattoria ravanello, collegno, pizzeria, trattoria, ravanello, collegno, nerd, vitaminic, cameriere, cozze, liceali senza futuro[/tags]

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lunedì 17 Dicembre 2007, 11:35

Grattacieli

Ieri mattina, approfittando della giornata ad ingresso libero per l’anniversario della riapertura, sono andato a visitare Palazzo Madama.

Il museo in sé non ha nulla di particolarmente interessante, a parte forse un po’ di decorazioni lignee subito all’inizio, alcuni bassorilievi in marmo e in avorio, e il famoso (ma microscopico) ritratto di Antonello da Messina; è però veramente bella la vista dalla cima della torre dell’ascensore, una veduta del centro di Torino che non ti aspetti ma che è proprio all’altezza giusta, non così in alto come dalla Mole (dove tutto sembra piccolo e perduto) ma abbastanza in alto da spaziare fino ai confini della città.

Il museo ospita però in queste settimane anche la mostra sui sei progetti per il discusso grattacielo che il fu Sanpaolo dovrebbe costruire sui giardinetti accanto alla futura stazione di Porta Susa 2.0, su quel fazzoletto di terra dove per decenni c’è stata la stazione degli autobus.

Dall’esame della mostra emerge chiaro che non ha vinto il progetto migliore, ma quello più conservatore: un banalissimo parallelepipedo che Renzo Piano deve aver disegnato con la mano sinistra, ma che probabilmente aveva gli appoggi giusti (in senso architettonico, s’intende). Praticamente tutti gli altri progetti – a parte forse quello degli spagnoli – erano più originali, più innovativi, più scenografici, insomma più belli. Due in particolare erano magnifici: quello di Perrault, fatto di sei enormi cubi appoggiati in modo irregolare l’uno sull’altro, e quello di Libeskind, una forma a cristallo fatta di superfici piatte ma sghembe, in relazione con tutti i punti cardinali della città e del circondario, dal Monviso a piazza Castello.

L’impressione è che la banca abbia scelto il progetto che, oltre a minimizzare i costi e massimizzare il valore edilizio dell’opera, potesse sembrare più rassicurante per le vecchiette sabaude, notoriamente critiche a priori di qualsiasi innovazione. Il risultato però è discutibile: perché – anche senza andare a discutere i problemi di traffico, di sostenibilità energetica, di effettiva utilità a fronte di una quantità abnorme di aree industriali da risistemare e di edifici per uffici vuoti e in decadenza, a partire dal grattacielo Rai qualche centinaio di metri più in là – un’opera del genere è innanzi tutto un nuovo monumento, che ridefinisce pesantemente l’immagine della città.

Allora, la Torino del futuro qual è: la città apparentemente provinciale e cullata dalle montagne che vediamo adesso? O la città innovativa e fuori dagli schemi che sceglie per simbolo un grattacielo destrutturato come quello di Perrault o anticonformista come quello di Libeskind? (Ma anche, per dire, come la bellissima biblioteca civica di Bellini, di cui infatti nessuno s’è lamentato.) Oppure la città anonima e grigia che comincia a fare banali parallelepipedi di vetro e cemento cinquant’anni in ritardo su tutti gli altri, senza guardare alla qualità, purché siano firmati?

Io, sul fare grattacieli a Torino, non ho una posizione a prescindere, a differenza del “club no tutto” che è prontamente sorto anche su questo tema. I grattacieli, se fatti bene, sono un investimento per il futuro; ma possono anche diventare errori ingestibili (e tremo all’idea del secondo grattacielo in arrivo, quello di Fuksas: uno che a Porta Palazzo è riuscito a costruire un edificio bellino ma talmente inadatto allo scopo che è ancora lì abbandonato dopo anni, che disastro potrà fare su una scala venti volte maggiore?). Per cui non contesto l’idea in sé, ma il progetto che è stato scelto: ce ne presentino uno più bello, e poi se ne potrà parlare.

[tags]torino, grattacieli, sanpaolo, palazzo madama[/tags]

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giovedì 13 Dicembre 2007, 11:59

Tarallucci e bare

Ci sono molte strade che portano da casa mia al mio ufficio; ma solo quella che ho scelto ieri, in bicicletta dopo l’ora di pranzo, passa davanti all’acciaieria della Thyssen-Krupp. Ieri peraltro era una giornata magnifica; non c’era una nuvola, il cielo era azzurro e le montagne innevate facevano da cornice al silenzio irreale dello stabilimento, che si specchiava nel parco che gli sta di fronte. C’erano solo tre macchine nel parcheggio, e tutto era immobile. Lo spettacolo era magnifico e quindi ancor più straziante, come una celebrazione fredda di una gloria triste.

Oggi è il giorno dei funerali, e Torino si ferma per lutto. Eppure, proprio questa mattina ho sentito da Radio Flash una notizia che mi ha spiazzato. Un giornalista della radio, intervistando un sindacalista, ha chiesto conferma di una voce che gira, e cioè del fatto che i parenti delle vittime abbiano cominciato a chiedere denaro ai giornali e alle televisioni per concedere interviste. Il sindacalista ha confermato la cosa, infilando poi una serie di giustificazioni relative alle spese da sostenere e ai figli da sfamare.

Non so se la notizia sia vera; potrebbe essere il risultato di una frase detta sarcasticamente e male interpretata, o una leggenda metropolitana ingigantitasi fino ad essere raccolta da un giornalista poco attento alle fonti. A ben pensarci, però, la notizia è perlomeno verosimile; perché tutti ormai hanno imparato che le ospitate televisive e le interviste possono essere monetizzate, non solo da personaggi dalla fedina un po’ dubbia come il marocchino di Erba, ma persino da assassini veri e propri come il rom di Appignano del Tronto.

E quindi, devono avere pensato alcuni dei parenti, se i media sono pronti a coprire di denaro gente del genere, perché non dovremmo chiederne un po’ anche noi? In fondo, non riesco a dargli torto: certo, sarebbe stato più bello rifiutare le interviste con un no sdegnato, magari come forma di protesta per il disinteresse precedente (anche se da mesi il problema delle morti bianche appare stabilmente tra i titoli di molti giornali e telegiornali, per cui per una volta non getterei la croce sui media, ma piuttosto sui politici e sugli imprenditori). Certo, per queste famiglie sono già state raccolte centinaia di migliaia di euro, grazie alle donazioni del pubblico, e insomma almeno il problema economico sarà meno pressante, anche se è una magra consolazione. Però, tutto sommato, queste persone hanno semplicemente capito che il proprio dolore ha un valore, e che non riscuoterlo sarebbe stato più che altro un regalo alle aziende della comunicazione, che certo non ne hanno bisogno.

Tuttavia, anche se la razionalità porta ad accettare anche questo comportamento come logico, c’è qualcosa nel profondo che non mi lascia tranquillo. A me hanno insegnato che la vita umana non ha prezzo; in fondo, è quello che tutti ripetiamo quando si parla di sicurezza sul lavoro. La grande tragedia dell’acciaieria ha avuto il merito di sollevare finalmente le coscienze, di spostare il problema della sicurezza sul lavoro da un mero piano economico a quello che gli compete, di potenziale tragedia individuale e collettiva che richiede uno sforzo morale. Grazie a questo, per un paio di giorni si è intravista la vaga possibilità che si faccia veramente qualcosa, che qualche cosa cambi rispetto alla disattenzione e alla corruzione che hanno permesso questa e altre tragedie.

Mescolare tutto ciò con il denaro rischia di sgonfiare in un attimo questo miracolo sociale, e di riportare tutta la faccenda dal piano morale a quello dell’arrangiarsi all’italiana. Di far sì insomma che anche questa tragedia, come troppe altre tragedie nel passato dell’Italia, si chiuda infine nell’oblio e con un nulla di fatto: a tarallucci e bare.

[tags]torino, thyssenkrupp, morti bianche, media, denaro[/tags]

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mercoledì 28 Novembre 2007, 17:46

Diritti e solidarietà

Oggi, mentre giravo in macchina, ho sentito per ben due volte su Radio Flash un servizio da una sala torinese, in cui si teneva la presentazione di un rapporto sull’immigrazione in Piemonte. Il corrispondente raccontava di come una cinquantina di immigrati-rifugiati (cioè provenienti da paesi in guerra) avessero occupato la sala e interrotto i lavori per ottenere che il Comune provvedesse a dare loro una casa.

Con un tono fortemente indignato, il giornalista della radio e un suo intervistato si lamentavano di come il diritto all’assistenza di questi immigrati fosse violato; e di come il Comune non volesse nemmeno discutere la questione, e di come lo stanziamento comunale per questa categoria di persone fosse stato solo di un milione e mezzo di euro, sufficiente appena per una soluzione temporanea, mentre queste persone, pur avendo avuto il permesso di soggiorno, non riescono a pagarsi una abitazione decente – tanto da occupare abusivamente una palazzina – perché trovano soltanto lavori interinali.

La questione è interessante per vari aspetti: stiamo parlando del diritto d’asilo, cioè di una prescrizione riconosciuta da decenni da varie convenzioni internazionali, secondo le quali chi proviene da una zona di guerra ha diritto a venire accolto (non può essere respinto alla frontiera) e assistito. Il problema è che negli ultimi anni il numero dei rifugiati è in forte crescita, non tanto perché siano in aumento le guerre, ma perché l’industrializzazione dell’emigrazione permette a molte più persone di arrivare fino in Italia a costi accettabili; e anche perché la stessa industria suggerisce ai suoi poveri clienti di dichiararsi alla frontiera come proveniente dal Darfur o dalla Somalia, e prova tu, davanti a un immigrato senza documenti, a capire se è vero. Peggio ancora se l’immigrato si dichiara perseguitato politico.

Per l’Italia poi, la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, da accordi europei, l’assistenza è di competenza del primo paese UE in cui il rifugiato sbarca, anche nel caso in cui poi si sia spostato clandestinamente altrove. Ovviamente le nostre frontiere di burro e brava gente sono l’approdo più battuto.

Si potrebbe discutere su dove possa arrivare questo diritto; comprende solo il permesso di soggiorno, o dovrebbe, come sosteneva l’intervistato, comprendere anche una casa e magari un lavoro stabile? Perché, in questo caso, la domanda seguente è ovvia: in una situazione in cui una percentuale consistente degli italiani sotto i quarant’anni non ha nè l’una nè l’altro, come si può pensare che l’Italia possa assistere a quei livelli tutta la popolazione in fuga dalle guerre di mezzo mondo?

Quello che colpiva nell’intervista era proprio questo: il parlare di diritti in modo totalmente avulso dalla realtà, come se il livello di realizzazione dei diritti (che è cosa diversa dal diritto in sè) non dovesse necessariamente scendere a patti con la società circostante e con la quantità di ricchezza disponibile nel sistema; al punto da giustificare persino il tentativo di imporne il soddisfacimento con la forza, occupando sale e palazzine.

La situazione economica generale è evidente a tutti; vero, ci saranno abusi e sprechi, ma non c’è dubbio che le risorse collettive per l’assistenza siano scarse e che, visto il già alto livello di tassazione, non potranno certo aumentare; si tratta di decidere come dividerle equamente tra tutti i diritti esistenti, sapendo che non sarà possibile soddisfarli tutti completamente per tutti.

Se è vero che un diritto è un diritto, è anche vero che in un momento del genere tutti – a maggior ragione chi ne parla sui media – dovrebbero avere senso della misura; e magari ricordarsi che anche per esercitare un proprio diritto – che però si basa sulla solidarietà altrui, in un luogo dove si è ospiti – invece di sbraitare e aggredire gli altri sarebbe gentile chiedere per favore, e ringraziare.

[tags]diritti, diritto d’asilo, assistenza, rifugiati, torino, radio flash[/tags]

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venerdì 23 Novembre 2007, 18:03

Roby

Al numero quarantadue di via Challant, nel mezzo di una landa dimenticata da Dio e dagli uomini in cui nessuno a parte .mau. potrebbe riuscire a sopravvivere, sta il carrozziere affiliato all’azienda che mi noleggia la macchina.

Proprio di fronte a lui, sta Roby.

Roby è un palazzo basso e largo, come fosse una grossa officina, di mattoncini giallini anni sessanta. A un certo punto, sulla facciata dell’unico piano (il terreno), si apre una doppia porta, protetta dalla pioggia e dal sole da un aggetto di tende.

Lì sopra, sul muro, è attaccata una insegna orizzontale di neon azzurri e rosa, che occhieggia la strada e dice: ROBY.

Sulle tende verdine che proteggono la porta, c’è scritto in un bel corsivo dorato: Roby Roby Roby.

E accanto alla porta, che è di legno ed elegante come quella di un albergo londinese, c’è una targa di ottone lucido con su scritto: Roby.

Davanti a Roby, c’è parcheggiato un furgone – un vecchio Fiat rosso – con le porte posteriori coperte da due grandi scritte ROBY. Ma sotto la prima c’è scritto anche “cena con”.

Non c’è assolutamente null’altro, sull’esterno di Roby. Nessuna indicazione di cosa sia e cosa ci si faccia, ad eccezione di una targa di plastica sbiaditissima, con sopra, a malapena leggibile, scritto “International Police Association – Delegazione Regionale Piemonte”.

Il che non aiuta a capire, anzi infittisce il mistero, su cosa diavolo sia veramente Roby.

[tags]roby[/tags]

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