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venerdì 18 Luglio 2008, 13:28

Proud to be fancazzist

Raramente ho visto qualcosa che faccia venire voglia di emigrare quanto i risultati di questo sondaggio di Repubblica, secondo cui – al momento in cui scrivo – il 51% dei lettori del giornale sarebbe contrario all’effettuare controlli medici più stringenti sui dipendenti pubblici che si mettono in mutua, anche se per un solo giorno, come proposto dal ministro Brunetta.

Ci ho pensato un po’, ma non sono riuscito a vedere alcun argomento anche solo vagamente potabile a sostegno del no a questo progetto. L’unica cosa che posso pensare è che questo 51% di italiani (meglio, 51% di elettori del centrosinistra, visto il pubblico di Repubblica) rivendichi il proprio “diritto” di poter rubare in santa pace un giorno di stipendio alla collettività ogni volta che si vuole.

Comincio a sviluppare il sospetto che cambiare l’Italia sia un’idea futile. Quel che mi sfugge è solo come questo 51% abituato ad arrangiarsi rubacchiando pensi di sopravvivere alla crisi economica strutturale di questi anni; probabilmente non si è mai posto il problema.

[tags]pubblica amministrazione, lavoro, brunetta, assenze, fancazzismo[/tags]

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venerdì 18 Luglio 2008, 07:11

Dormire dentro

Ieri sono andato a Roma in giornata; come spesso accade, per ottenere la migliore combinazione di orari e prezzi, ho fatto l’andata in aereo – uscita di casa ore 6:20, volo Blu-Express a 70 euro, arrivo in centro a Roma alle 10:50 – e il ritorno in treno – partenza da Termini ore 15:05, Eurostar a 60 euro, arrivo previsto a casa alle 21:10, arrivo effettivo alle 21:45 (grazie Trenitalia, e grazie anche per i dieci minuti di attesa nel tossico tunnel in discesa che porta alla stazione di Milano Porta Mai Pulita Da Quando Ci Passò Garibaldi).

Ho passato praticamente tutto il viaggio di ritorno a guardare il paesaggio dal finestrino, in parte lavorando al computer o ascoltando musica, ma senza mai perdere di vista l’esterno; è uno dei motivi per cui adoro il treno. Ho potuto così ancora una volta constatare come l’Italia sia davvero bellissima, tutta, dall’inizio alla fine. A patto naturalmente di addormentarsi per mezz’oretta mentre si attraversa Milano: ma quanto staranno bestemmiando gli abitanti della casa verdina a cui stanno costruendo a mezzo metro dal balcone un mega-cavalcavia ferroviario per l’ormai inutilissimo collegamento diretto Centrale-Malpensa?

Comunque, il resto è meraviglioso: si comincia con un pomeriggio dorato sui prati e sui campi della direttissima per Firenze, che si snodano tra le colline fino a giungere alla zona di piccoli calanchi che segna l’ingresso nella valle dell’Arno. Poi si vede Firenze, e di lì le montagne in cui la ferrovia si inserisce senza tanti complimenti, con tutta la supponenza dell’epoca fascista, fino al tragico tunnel sotto l’Appennino (cento morti sul lavoro tra incidenti e silicosi, ma un’opera che per l’epoca era fantascientifica). Poi c’è la pianura padana, un susseguirsi di campi che profumano d’estate e di aria immobile, fino a un fantastico tramonto dal ponte sul Po. Poi, dopo la mezz’oretta di dormita, ci si sveglia in mezzo ai boschi della riva del Ticino e di lì alle risaie, e infine alla corona delle Alpi.

Ebbene, con tutto questo popò di meraviglia, io ero l’unico di tutto il vagone che guardava fuori. Il signore davanti a me leggeva un romanzo giallo di Franco Cardini (per la serie “anche gli insigni storici vanno in cerca di celebrità”). I due al mio lato leggevano Il Sole 24 Ore e Inmoto (sì, esiste una roba che si chiama così, e non ha lo spazio in mezzo al nome). La signora dall’altra parte ha telefoninato per tre quarti del tempo, e nel resto si è guardata le unghie; il ragazzo di fronte ha passato tutto il tempo a giocare col cellulare.

Non sono ben sicuro di cosa sia andato perso; se la capacità di meravigliarsi, il senso del bello, la comunione con la natura, oppure la voglia di vivere e di conseguenza la possibilità di accorgersi della vita che scorre fuori dal treno. C’è però qualcosa di molto sbagliato in tutto questo.

[tags]treno, paesaggio, italia, natura, vita[/tags]

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giovedì 17 Luglio 2008, 09:36

Un parere spassionato su iPhone e simili

Non si dovrebbe mai parlare di cellulari con un grande blogger come Fabbrone e un grande non-blogger come Simone C.: non appena ho scritto questo, il mio venerato Nokia 6620 del Natale 2002 è morto sul colpo (o meglio, è morta la sua colonna sonora, e tutte le suonerie sono diventate mute, impedendomi di accorgermi delle chiamate).

La buona notizia però è che questo mi ha permesso finalmente di farmi una opinione di prima mano sui cellulari dell’evo moderno; non sull’iPhone di cui tutti parlano, ma su un suo concorrente piuttosto simile. Infatti, in azienda avevamo un residuo di smart phone di fascia alta dello scorso anno, comprati per un progetto a termine e poi rimasti lì; e così, nella necessità, ho rimediato al volo un HTC P3600.

Stando al duo di two non-blogs di cui sopra, si tratta di un telefono fichissimo: ha uno schermo enorme, due fotocamere da due megapixel, il bluetooth, il wi-fi, l’UMTS, sopra ci gira Windows e può farti anche la pasta in PDF. Così mi sono messo di buzzo buono e ho provato ad adottarlo come cellulare.

La batteria era a terra, e ci ho messo venti minuti per trovare il buco dove infilare la presa del caricatore, o meglio per scoprire che si infila nel buco dell’USB, anche se sull’oggetto, vicino al buco, non c’è alcun simbolo che indichi “corrente” ma solo quello che indica “segnale”; e il buon Beccari, mitico professore al Politecnico, m’insegnò che dove va il segnale non va la corrente, pena il crollo del cielo sulla testa.

In compenso, ci ho messo un’ora (ma veramente!) per riuscire ad aprirlo e metterci la SIM; alla fine, ho chiesto a un collega il quale mi ha descritto via chat una specie di manovra di Heimlich, tipo “metti il palmo di una mano sullo schermo e l’altro palmo sul retro, poi schiaccia con forza e spingi in due direzioni contrapposte”. E dire che avevo cercato il manuale; nella confezione c’era sì un volumetto di 80 pagine, ma erano le condizioni di licenza di Windows e annessi; il manuale, quello che serve a qualcosa, non te lo danno, ed esiste solo online; lo cerchi, lo trovi, lo scarichi, lo apri, e dopo scartabellamento ti dicono che le istruzioni per aprire il retro sono in un altro manuale, quello di “avvio rapido”; trovi pure quello, e finalmente arrivi alla fatidica istruzione, che dice testualmente: “1. Aprire il coperchio.” Ah, grazie!!!

Perlomeno, durante l’ora di ispezione ho scoperto un fenomeno strano; anche se questo oggetto è un mattone, è grosso e pesante il doppio del mio vecchio Nokia e sembra di portarsi dietro un panetto di piombo, ha degli angolini progettati da un coreano con le manine da puffo. Da uno di questi angolini, infilando l’angolo di un’unghia, esce fuori un cottonfioc di metallo, che ho guardato con stupore; poi mi hanno spiegato che esso serve a battere sullo schermo per selezionare le opzioni.

E così, l’ho caricato, l’ho acceso, e mi sono trovato a battere sullo schermo come Woody Woodpecker, quindici volte di fila per settare l’orologio a ore tre, e poi quarantasette per i minuti. Comodo!

Essendo che il cellulare era stato già usato, per prima cosa ho cercato di cancellare la rubrica; non si può. Puoi fare milioni di fantasmagoriche operazioni usando Windows, ma svuotare la rubrica no; ho dovuto fare un reset hardware e reimpostare tutto da capo. E poi, la mia prima telefonata.

E’ lì che ho realizzato un aspetto che mi era sfuggito, ma che è piuttosto basilare: questo coso non ha i tasti coi numeri.

Cioè, signori, lo passano per un cellulare fichissimo, ma non c’è modo di comporre un numero di telefono. A meno naturalmente di: bootare Windows, estrarre il pennino, battere qua e là alla maniera di Woody, far venir fuori un tastierone numerico sullo schermo, e ribattere sui numeri di telefono. Oppure battere qua e là per far venir fuori la rubrica… e poi, visto che non ci sono i tasti coi numeri, non puoi arrivare alla lettera che ti serve semplicemente premendo un tasto; di nuovo, devi battacchiare qua e là.

Ora, un cellulare serve a fare tre cose: telefonare, scambiare SMS e svegliarmi al mattino quando devo prendere l’aereo. Queste tre cose, in codesto oggetto, richiedono dieci volte lo sforzo del mio Nokia di dieci anni fa. Per esempio, immaginate di stare arrivando sotto casa della vostra metà e di volerle fare uno squillo per invitarla a scendere: non mi sembra una esigenza strana, anzi lo fa metà della popolazione terracquea tutte le sere. Con il cellulare precedente, potevo schiacciare tre tasti tre per arrivare a selezionare il numero; al momento buono, bastava schiacciare il pulsante verde. Si poteva fare senza problemi nei venti secondi di attesa all’ultimo rosso, o persino guidando. Si poteva addirittura semplificare facendo in modo che bastasse tenere schiacciato un solo tasto numerico per far partire la chiamata.

Con questo nuovo oggetto, io, mentre guido, dovrei estrarre un cottonfioc di metallo, fare Woody Woodpecker per trenta secondi in mezzo a una interfaccia con decine di icone e voci di menu di 3×3 millimetri l’una – il tutto in equilibrio precario e mentre tengo il volante coi denti – e poi tenere premuto il cottonfioc per un secondo contro lo schermo, mi raccomando senza lasciarlo mai. E badate bene di non preselezionare il numero quando uscite di casa, perchè entro un minuto, per risparmiare la sua batteria che dura più o meno un quarto d’ora, l’oggetto si spegne da solo!

Non ho peraltro dubbi che con qualche centinaio di dollari di costi di licenza io possa sviluppare una meravigliosa applicazione custom per Windows Mobile, che mi permetterà di fare la stessa cosa che fa un Nokia da 30 euro, cioè squillare la mia fidanzata in un secondo senza slogarmi il becco a forza di picchiare…

E dire che mi avevano avvertito: tutti gli altri colleghi che avevano già provato questo coso, passati i primi tre minuti di orgasmo tecnofiliaco, erano tornati di corsa ai loro vecchi cellulari. Ma dopo questa esperienza non ho dubbi: se uno vuole usare un PC, guardare le mail, navigare su Internet, si porta il portatile, magari comprandosene uno leggero e non un padellone da 19″; quanto al telefono, mi cercherò quanto prima un Nokia da 30 euro che faccia le cose che deve fare un cellulare, invece di costringermi a litigare con una interfaccia grafica pure per mandare un SMS alla mamma.

[tags]iphone, smart phone, cellulari, nokia, htc[/tags]

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mercoledì 16 Luglio 2008, 13:26

We, the modern tecnologic affar bank

Voi cosa pensereste di una sconosciuta banca che si definisce “provider di servizi d’investimento B2B” (si mangia?), e che però ha dato in outsourcing pure l’Internet banking; e che quando ti colleghi al tuo account ti rimanda a un sito bancario di un fornitore terzo, preoccupantemente pieno di frasi marchettare, che per identificarti non ti presenta una maschera di login ma usa l’autenticazione HTTP del server web, pretendendo che la tua password non contenga numeri, e dandoti un PIN che non ti viene mai richiesto (basta la password), e un codice utente di dieci caratteri di cui gli ultimi nove sono cifre, ma la prima è una B stampata ad aghi in maniera indistinguibile da un 8?

[tags]banche, tecnologia, internet banking[/tags]

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martedì 15 Luglio 2008, 15:43

La campagna in città

Alle volte sei lì con te stesso e le tue domande senza risposta, tipo “Ma perché io che lavoro con i cellulari e co-possiedo una azienda di applicativi mobili vado in giro con un Nokia del 2002, mentre gente che non arriva a fine mese e non sa distinguere un browser dal solitario di Windows fa la fila di notte per comprarsi un iPhone a 100 euro al mese?”.

Alle volte invece benedici le tue scelte, tipo oggi che ero in giro in bici, sono entrato da Fnac e ho visto almeno cinquanta euro di cose da comprare, tra cui l’intera discografia dei Jethro Tull in offerta a cinque euro a CD: ok, avendoli tutti in plurime copie MP3 è puro feticismo, ma ne vale la pena; allo stesso prezzo ci sono anche i Dire Straits e a poco di più i Led Zeppelin, che a me non sono mai piaciuti più di tanto ma è un’ora che ho in testa il riff di Good Times Bad Times e non se ne vuole andare. E poi per soli ventisette euro e rotti si può comprare il mattone antologico di Cuore; ma in bici, senza zaino, non ci stava, e quindi ho risparmiato i soldi fino alla prossima visita.

Tutto questo era per introdurre il racconto di un bel giro in bici fatto domenica pomeriggio. Se non usate il mezzo, probabilmente penserete che fare un giro da diporto nel raggio di dieci chilometri da piazza Rivoli sia impossibile, trattandosi di zona pesantemente urbanizzata; ma ciò è decisamente falso. Basta un quarto d’ora di pedalata per trovarsi in mezzo all’agricoltura; io mi sono infatti diretto verso Collegno, superando il Campo Volo e il Parco Ian Gillan per infilarmi nella mossa pianura che sta tra la Dora, Collegno e Rivoli.

Ad esempio, dal cavalcavia della tangenziale che marca la fine di Collegno c’è un panorama magnifico sul Musiné, con i campi di grano in mezzo e l’antica cattedrale laica – bella quasi come le giustamente decantate OGR di via Boggio Borsellino – del Cotonificio Valle Susa. Poi si risale leggermente verso Alpignano, si piega dentro il paese e si arriva al cimitero che aggetta sul fiume (sia Collegno che Alpignano hanno il cimitero che aggetta sul fiume, sulla sponda sud, alla fine della salita che risale dal ponte del paese: si saranno messi d’accordo?).

E’ un percorso che conosco bene perché lo facevo già quando abitavo a Rivoli; e vi giuro che non sembra affatto di stare in città. Del resto, il nome Alpignano vuol dire “villaggio delle Alpi”, uno dei tanti toponimi celto-longobardi che finiscono in -gnano sparsi per tutta la bassa Europa, da Perpignano – il cui senso non ho trovato perché mi sono perso in un sito in catalano che protestava contro l’uso del termine “alpinismo” in quanto razzista verso i Pirenei – fino a Lampugnano, che vuol dire “villaggio delle macchine puzzolenti che cercano parcheggio per prendere la metro”. E quindi, sotto le Alpi si sta, con una bell’ariëtta che vien giù dalle montagne e che ogni tanto diviene un certo tifone tra i raggi della ruota.

Proprio dal cimitero d’Alpignano si può imboccare una scorciatoia, senza dover discendere fino al ponte vecchio e poi risalire una versione in sedicesimo del muro di Grammont. Basta prendere a destra e un piccolo passaggio ciclopedonale conduce al ponte del tubo, ovvero una passerella sulla Dora costruita sopra un grosso tubo di qualche acquedotto che doveva proprio attraversare il fiume. Si emerge così nelle frange orientali di Alpignano, e si può presto girare a destra verso Pianezza.

E’ lì che ho scoperto un nuovo, bellissimo percorso ciclabile costruito da pochi anni sulla riva settentrionale della Dora. Esso attraversa tutto il comune di Pianezza, da confine a confine, collegando due dei maggiori landmark del suo territorio: a ovest, la salitina dove durante l’esame di guida ho fatto una partenza col freno a mano che stanno ancora applaudendo adesso; a est, il campo di calcetto con vista tangenziale dove più volte io e l’ex staff di Vitaminic abbiamo dato spettacolo.

In pratica, dall’angolo di Alpignano si diparte una strada ciclabile larga, ben segnalata e piena di ghiaietto minimo, molto ben battuto; si percorrono due tornanti in discesa e ci si trova poi a seguire il fiume, stretti tra le sue acque e quelle di un canale di servizio che rappresenta un’opera idraulica notevole, scavata nella parete della gola, e che risale addirittura al Settecento, quando fu costruito per alimentare il filatoio che stava nella golena.

Si sbuca quindi al porto di Pianezza, proprio sotto l’antico gioiello della Pieve di San Pietro. Si attraversa una zona di antiche fabbriche e di una spettacolare casa di ballatoio costruita proprio a pelo d’acqua, dove – era domenica pomeriggio – tutti gli abitanti dei vari piani si son messi a guardarmi dai balconi; poi, dove la golena si chiude, riparte la strada ciclabile.

Questo è il punto di una delle mie grandi avventure: giunsi qui, in bici, a metà degli anni ’90, e scoprii sul fiume un’antica, instabile passerella di ferro arrugginito. L’incoscienza mi prese, e così decisi di farmela tutta, bici alla mano, sperando che il ferro non si piegasse d’improvviso scaraventandomi svariati metri più sotto in mezzo alla Dora. Non si piegò, e così io potei percorrere con successo la strada in completo abbandono che collegava l’altro lato con Bruere, passando vicino al già citato cotonificio, fino a sbattere contro un cancello chiuso, però dalla parte interna. Dovetti trovare un canonico buco nella rete per uscire, e solo allora potrei leggere qualche decina di cartelli di pericolo messi nel verso opposto; ma fu un’avventura memorabile.

Bene, ora al posto della vecchia passerella ce n’è una nuova, che racconta come quella vecchia (foto: sì era proprio lei) risalisse al 1917, in sostituzione di altre precedenti, e fosse in completo abbandono dal dopoguerra; serviva alle contadine di Bruere che venivano a lavorare nelle fabbriche di Pianezza, e, visto che l’orario di lavoro era lungo e le contadine uscivano a notte inoltrata, fu teatro di svariati stupri, rapine e ammazzamenti.

La nuova passerella è ancora chiusa in attesa della “messa in sicurezza” della strada dall’altro lato che io feci dieci anni fa (ah, che pavidi); spero che la aprano presto, perché è un bel percorso. Ho quindi proseguito sulla sponda nord, dove seguendo le abbondanti indicazioni si infila un buco sotto la tangenziale e si sbuca al ponte di Collegno.

E qui vengono le note dolenti: non mi sono accontentato, e ho tentato il bis. Già, perché anche a Collegno hanno deciso che dovevano avere un parco agricolo della Dora, con i suoi bravi percorsi ciclabili; il parco inizia davanti al cimitero, per la strada del canile da cui proviene il mio gatto. Lì c’è l’unica mappa del parco, che mostra chiaramente un percorso per arrivare a Torino, zona campo rom della Pellerina.

Di lì in poi, sono solo percorsi sterrati, fangosi, tenuti malissimo, senza una freccia che sia una, pieni di inutili cartelli modello sussidiario di quinta elementare (“scheda: che cos’è un fiume”) ma senza alcuna indicazione sulle direzioni da prendere. In pratica, il percorso per Torino finiva nella selva oscura; non volendo tornare indietro per chilometri, ho preso l’ulteriore nuova passerella sulla Dora che dovrebbe portare, a scelta, in frazione Castorama o in frazione Burger King; anche lì, zero frecce e un sacco di tracce agricole che finiscono nel nulla. Ho pedalato avanti e indietro nel fango per un’ora, auspicando malattie fulminanti per tutta l’amministrazione comunale di Collegno; alla fine l’unico modo per uscire è stato tagliare attraverso il cortile di una cascina e poi per un prato, navigando tra l’erba incolta, fino a impattare il guard-rail della statale 24.

Poi, il ritorno per via Pianezza e la Pellerina, dove un gruppo di russi ubriachissimi aveva portato un SUV fin nel cuore del parco e lo usava per sparare musica orrida a volume pazzesco, circondato a debita distanza da decine di italiani che dicevano “lo facessimo noi, i vigili ci sequestrerebbero anche le mutande”. Arrivo a casa stanchissimo, ma contento: dovreste farle più spesso, queste cose.

[tags]torino, collegno, alpignano, pianezza, bici, dora, parco, sindaco-collegno-caghetta-fulminante[/tags]

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lunedì 14 Luglio 2008, 20:54

Singing in the rain

Di concerti bagnati ne ho seguiti parecchi, ma quello di ieri sera li batte tutti: e dire che era stata una bella giornata, tanto che ero uscito in bicicletta per mezzo pomeriggio. Quando però è calato il sole, sulla vecchia fabbrica di Collegno si è scatenata una pioggerellina; quando ci siamo avviati ai cancelli, è diventata una pioggia secca, tanto che i venditori di magliette – di cui peraltro mi chiedo da anni perché, indipendentemente dal tipo di musica e dal luogo del concerto, vengano tutti dalla stessa parte d’Italia – si sono prontamente ritrasformati in venditori di preservativi giganti, cinque euro per cinque centesimi di plastica sottilissima.

All’inizio del concerto, tuttavia, la situazione era potabile, tanto che si erano scatenati sia cori da stadio anche piuttosto sboccati contro i rari tamarri (anzi, più spesso tamarre) che insistevano nel tenere gli ombrelli aperti ostruendo la visuale a mezza platea; sia un o-o-o-o-o-o-o che ricordava un po’ il po-po-po-po-po-po dei Mondiali, ma era in realtà il riff di Black Night. I Deep Purple apprezzano e spuntano sul palco puntualissimi, alle 21 e 30 spaccate; attaccano con la stessa scaletta già sentita l’anno scorso, prima Pictures Of Home che permette a tutti di farsi un assolo, poi Things I Never Said – bonus track dell’ultimo disco il cui scopo essenziale è un ulteriore assolo di Morse -, poi Into The Fire, dove Gillan quasi fa gli acuti. Poi attaccano Strange Kind Of Woman; peccato che nel bel mezzo del primo ponte salti la luce. Loro stessi sono sorpresi e si mettono a ridere, Paice continua insieme al pubblico che cerca disperatamente di tenere vivo il concerto, ma non c’è nulla da fare.

Parte infatti un temporale pazzesco; il resto del gruppo si rifugia sotto un ombrello gentilmente offerto dallo sponsor Cantine.org, mentre io mi infilo sotto un telone da campeggio verde miracolosamente apparso in mezzo alla platea; altri scappano e tornano alle auto. Aspettiamo che passi il temporale; cinque, dieci, quindici minuti e la situazione non fa che peggiorare, un vero torrente acquatico che si rovescia su di noi, e nonostante io abbia la mantellina e sia sotto il telo impermeabile mi infradicio lo stesso. Ci vuole mezz’ora abbondante prima che i fulmini terminino e la pioggia ridiscenda a un livello accettabile. Ma è una bella mezz’ora, in cui noi resistenti sotto il telo socializziamo e ridiamo di quella situazione imprevista, e alla fine ci organizziamo pure per un lancio a testuggine, con il quale conquistiamo la quinta-sesta fila proprio sotto il centro del palco.

E così, si riparte: i Deep Purple riattaccano Strange Kind Of Woman dal preciso punto in cui l’hanno interrotta… Sono i momenti migliori del concerto, non solo Rapture Of The Deep (che è un bellissimo pezzo, ma io sono l’unico nel raggio di cento persone a conoscerla e cantarla) ma soprattutto il pezzo solista di Morse che segue subito dopo, introdotto da Gillan, che dice che farà tornare il sole. Lì, salta fuori la magia: il pubblico ammutolisce e per la parte più intima del pezzo si sente solo la chitarra che arpeggia e scaleggia e lo scroscio della pioggia. Morse – che non era in grandissima serata, cioè eccezionale come sempre, ma non particolarmente ispirato – infila però una sequenza bellissima, magari anche sporca, che deve essere difficile fare virtuosismi alla chitarra con torrenti d’acqua che arrivano giù a mezzo metro dal tuo naso e freddo e umidità ovunque, specie se tieni il plettro in quel modo. Ma è proprio l’imperfezione del tutto a renderla magnifica, un momento davvero emozionante.

Questa parte del concerto è quella che mi coinvolge di più, e non solo perché è l’unica diversa dal concerto dello scorso anno: attaccano The Battle Rages On, e anche qui pochissimi la conoscono, ma a Torino ha un senso particolare. Era infatti proprio per il tour dell’omonimo disco che erano venuti in città, credo per l’ultima volta, nel 1993: quella volta eravamo al Palaruffini e il concerto era stato pieno di laser ma privo di cuore, visto che erano già ai definitivi ferri corti con Blackmore. E’ bello che la rifacciano qui ora, e con ben altro entusiasmo.

Dopo mi fanno anche Demon’s Eye, uno dei miei classici preferiti, ed è una goduria, anche se l’assolo di Morse è insipido e, per una volta, non all’altezza del classico; meglio la scenetta di Gillan che si avvicina a Glover spalla a spalla subito prima di cantare “I don’t need you / anymore” e poi lo guarda e aggiunge “just kidding”. Segue il momento solista di Airey alle tastiere, che infila un po’ di tutto, venti secondi dell’Invenzione a due voci numero 8 di Bach, venti secondi di La donna è mobile, e mezzo minuto di Singing In The Rain, con il pubblico che ride e si rincuora; la pioggia peraltro sta scemando, anzi a questo punto ha quasi smesso. Come da canone, il solo di tastiera diventa Perfect Strangers, e così abbiamo smarcato anche il muto pozzo di tristezza.

Viene quindi il momento dei classici finali; secondo me il peggio della serata. Gillan ha finito la voce da parecchio – direi almeno dal 1985 – e si limita a mugolare qualcosa ogni tanto; gli altri cercano di coprire con assoli allungati. Space Truckin’ non ha vivacità e nemmeno tanto tiro; su Highway Star, la chitarra di Morse è a volume bassissimo e si perde quasi l’assolo; persino Smoke On The Water passa via come fosse niente di speciale. Loro salutano e io sono deluso; alla fine l’ora e venti l’hanno fatta, ma è come se mi avessero portato via il dolce quando già lo pregustavo.

E invece, si salvano in corner; tornano fuori e fanno Hush, e va decisamente meglio, la gente balla e il cielo ormai è asciutto; poi, a tradimento, attaccano Black Night, invocata per ore da tutto il pubblico. Glover cicca l’attacco del solo di tastiera, ma con grande nonchalance fa finta di aver appena inventato un nuovo arrangiamento (comunque ieri Glover ottimo, sempre presente e con belle improvvisazioni), e la canzone va via alla grande; suona come un premio, per aver resistito sotto la pioggia senza defezionare; e ce la godiamo tutta.

Insomma, si sa che i Deep Purple sono vicini ai limiti per via dell’età, e ieri tra la pioggia e gli inconvenienti non è stata la serata magnifica che era stata lo scorso anno a Los Angeles, anche se la ricorderò per la sua stranezza. E’ comunque stato un bel concerto; vale sempre la pena di vederli anche quando le cose non girano tutte al massimo, e non dubito che li rivedremo ancora in giro per un po’.

[tags]deep purple, musica, colonia sonora, collegno[/tags]

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domenica 13 Luglio 2008, 13:09

A bocca chiusa

Non so che cosa ne pensiate voi, ma io vorrei spendere due parole per la dipartita di un grande personaggio: Gianfranco Funari. E le vorrei spendere proprio sapendo che molti storceranno il naso, perché Funari è sempre stato considerato un arruffapopolo, un banfone, un pecoraio, un burino volgare e arricchito che si vestiva da lord inglese e girava con la Bentley, ma basava le proprie fortune, ben prima di Maria De Filippi, sulle massaie e sui tamarri che si insultavano in tivvù a colpi di luoghi comuni.

A me, invece, Funari è sempre piaciuto, proprio perché era così; perché in un Paese dove tutti sono ossessionati dal sembrare intellettuali, dal pubblicare libri che nessuno legge, dal rilasciare interviste colte che fanno addormentare e dal farsi chiamare Maestro anche se si è solo un onesto Pino Mango come tanti, lui preferiva essere popolare; usare le parole che usiamo tutti, comprese le parolacce, e non avere paura di dire le cose come stanno; e nel frattempo baccagliarsi qualsiasi femmina passasse in zona. E basare tutto su un’esperienza di vita vera, una vita che lo aveva portato a fare il croupier e il pugile e tante altre cose, prima di entrare in televisione.

Funari fu il primo epurato dell’era berlusconiana; prima ancora che scoppiasse Mani Pulite, parlò male di Craxi e fu cacciato da Retequattro; si inventò una cosa mai vista, cioè una syndication dal basso, registrandosi lui il suo programma e mandando le cassette a 75 piccole televisioni locali per farle trasmettere. Tornò e fu cacciato varie altre volte, tanto è vero che dal 1996 al 2007 non apparve più né sulla Rai né su Mediaset, se non qualche volta come ospite; si inventò il suo angolino, di nuovo sulle reti private, e lì rimase, facendo parlare chi pareva a lui, che fosse un antisistema come Travaglio o un democristiano come Rotondi. Non per queste epurazioni si mise a fare la vittima, o a pietire un posto da eurodeputato come Santoro; le prese, semplicemente, come la conseguenza necessaria della sua sincerità, che non intendeva abbandonare. Tirò quindi dritto per la sua strada, anzi andò pure a trovare Craxi ad Hammamet, per dargli del ladro a quattr’occhi e però capire qualcosa di quell’uomo, esattamente come voleva capire qualcosa delle casalinghe a cui dava la parola in televisione.

Questa è l’impressione che rimane: quella di una persona vera che amava la vita, che apprezzava la sua fortuna ma non per questo si considerava superiore agli altri, tanto è vero che adorava la sua Bentley, ma la usava per scorrazzare sul lungomare di Loano, mica quello di Porto Cervo.

Come per tutte le persone vere, prima o poi la fine arriva ed è dura; perché chi ama la vita trova sempre nuove cose da fare, e non vorrebbe andarsene. Eppure, anche se Funari se la tirava troppo poco per poter finire sui libri di storia, credo che saremo in molti a ricordarci di lui ancora per un bel po’.

[tags]funari[/tags]

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sabato 12 Luglio 2008, 11:52

Arrangiarsi a morire

Ieri, nella bassa mantovana, è successo questo episodio agghiacciante.

In breve: un bracciante indiano, clandestino, ha un infarto mentre lavora nel campo. Il padrone italiano, invece di soccorrerlo, si preoccupa: se gli trovano un clandestino nel campo finirà nei guai. La soluzione è nota, perché è già avvenuta decine di volte nei cantieri e nei campi di mezza Italia: si carica il corpo in macchina e lo si scarica da qualche altra parte, dove non possa essere collegato al lavoro che stava svolgendo. L’italiano però non vuole sporcare la sua bella Audi: quindi ordina agli altri indiani di recuperare il loro scassone, più atto allo scopo. Questi ci mettono due ore; e così, solo allora il corpo viene spostato, e si può poi chiamare il medico della mutua del paese (nemmeno il 118).

Peccato però che l’indiano non fosse morto; quando il medico lo trova e chiama il 118, nonostante le ore trascorse sotto il sole dopo l’infarto, è ancora vivo; morirà poco dopo. Probabilmente avrebbe potuto essere salvato, se i soccorsi fossero stati chiamati subito.

La Stampa parla di “schiavo in Padania”, e già si capisce dove vuole andare a parare: è tutta colpa dei biechi agricoltori mantovani. Indubbiamente le persone coinvolte in questo caso saranno punite duramente; l’accusa non è nemmeno omissione di soccorso, ma omicidio volontario, partendo dal presupposto che questo comportamento implichi la volontà precisa di far morire la persona (dubito che la tesi regga al processo, ma vedremo). Incidentalmente, l’accusa riguarderà non solo il padrone italiano, ma anche i clandestini che hanno collaborato, pur con l’attenuante del ricatto lavorativo.

E quindi, già mi vedo l’ondata di indignazione che attraverserà blog e giornali; si scaricherà contro questo agricoltore, ci metterà dentro un po’ di anti-leghismo o di campanilismo anti-lombardo, si parlerà di razzismo, e poi finito lì, fino alla prossima morte. Tutto qui? E’ soltanto questione di agricoltori cinici e crudeli?

Io credo di no. Il problema è più grande, deriva dalla mentalità italiana, quella del giudicare le cose in modo astratto, del concentrarsi sulle teorie ideologiche e sulle risse da talk show invece che sui problemi concreti e sulle soluzioni pratiche. Perché il problema fondamentale nasce dall’avere milioni di persone, in Italia, che lavorano nei nostri campi e nelle nostre fabbriche ma non esistono; cioè, tutti sanno che esistono, ma guai ad ammetterlo apertamente.

In un paese civile, si direbbe: bene, abbiamo questi milioni di persone, vogliamo magari evitare di attrarne troppi altri, però questi ci servono per mandare avanti l’economia; troviamo un modo di gestirli, di dargli una condizione accettabile e qualche diritto, e insieme di controllare che non facciano danno e non si dedichino al crimine, altrimenti li puniamo con severità.

Da noi, no. Le uniche proposte sul tavolo sono: da una parte, una ideologia (di destra) secondo cui l’immigrato è un criminale a prescindere, minaccia la nostra meravigliosa cultura primigenia, va preso a sputi e comunque cacciato appena possibile; dall’altra, una ideologia (di sinistra) secondo cui l’immigrato è un santo a prescindere, va accolto e tutelato e aiutato molto più di quanto non si faccia con l’italiano medio, e se delinque non importa, anzi punirlo per i suoi crimini è razzismo.

Della realtà, non frega niente a nessuno; di trovare un compromesso accettabile ed efficace, che migliori le cose per tutti, meno che meno; l’interesse si concentra sulla discussione da talk show, sempre più esasperata, tra i sostenitori delle due ideologie. Andare a vedere chi delinque e chi lavora, espellere i primi e aiutare i secondi – operazione faticosa, ma unica via per l’integrazione – pare una idea folle, che si prende regolarmente le critiche di entrambi, essendo non abbastanza razzista per quelli di destra, e non abbastanza buonista per quelli di sinistra.

E quindi, continuiamo a non far niente. Non facciamo niente per i bambini rom; certo che prendergli le impronte non è il massimo della vita, ma sarà comunque un po’ meglio che abbandonarli allo sfruttamento dei loro genitori? E non facciamo niente per i braccianti indiani, salvo poi indignarci quando, a causa del loro status di fantasmi, ci rimettono la pelle sul prato.

Indigniamoci pure verso l’agricoltore mantovano; eppure mi pare difficile che fosse lì, bello contento, a gridare “meno uno, viva i Celti!” dopo che uno dei suoi lavoratori c’era rimasto secco. Più facile che, come tutti gli italiani, cercasse in qualche modo di arrangiarsi; di non rimanere col cerino in mano, vittima sacrificale di turno per gli editorialisti dei quotidiani e per le arringhe politiche ad uso delle telecamere.

Questo è un paese che, da secoli, si arrangia in tutto; che non risolve i problemi in modo sistematico, anzi non li risolve proprio, e lascia alla fantasia di chi per sfiga se li ritrova singolarmente sulle spalle il compito di trovare una via d’uscita, alle volte simpatica, talvolta geniale, quasi sempre irregolare e ogni tanto decisamente criminosa; o di restarci preso in mezzo.

E’ un peccato che, in un mondo globale, sovrappopolato e complesso dove la società può stare in piedi solo se organizzata come un orologio, arrangiarsi non funzioni più; non si possono mettere toppe su toppe. Non sono più solo i clandestini a morire; a forza di arrangiarsi, è l’intera nostra società che muore.

[tags]mantova, indiano, clandestino, infarto, società, italia, razzismo, immigrazione, morte[/tags]

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venerdì 11 Luglio 2008, 15:45

Troppo Traffic

Probabilmente sono io che sono troppo torinese: non perdo mai una occasione per brontolare. Eppure vorrei dire qualcosa sulla querelle che si trascina da mesi sul futuro di Traffic, nata dalle dichiarazioni del sindaco Chiamparino sulla possibilità di tagliargli i fondi e trasformarlo in un evento a pagamento, e dalle ripetute reazioni scandalizzate del jet-set musicale della città, capitanato dal direttore di TorinoSette Gabriele Ferraris (vedi l’editoriale dell’altra settimana e le frecciatine nel suo articolo di oggi).

Premetto che mi sento un po’ in colpa, perché tra i diretti predecessori di Traffic c’era quel Mac Pi 48 che io e altri abbiamo organizzato per tutta la seconda metà degli anni ’90: un megaconcerto gratuito nel cortile del Castello del Valentino. Lì lo scopo e il giro del fumo erano chiari: il Politecnico ci metteva alcune migliaia di euro per il palco e il cachet degli artisti, decine di studenti ci mettevano lavoro volontario, si invitavano artisti alla portata (comunque avemmo gente di ottimo livello, a partire dal debutto live all’aperto nella storia dei Subsonica) e si faceva una gran festa, senza pretendere chissà quale raffinatezza culturale. Il rapporto coi vigili non era mai facile; oltre a tonnellate di burocrazia, ci veniva imposto un chiaro limite sul volume e il divieto tassativo di andare oltre la mezzanotte – e nonostante questo, una volta ci prendemmo una multa. Ci preoccupavamo comunque del disturbo; si trattava di una sola serata in pieno giugno, ma regolarmente riempivamo le case di volantini di scuse anticipate per il rumore e tarpavamo i mixeristi troppo allegri col volume, perché ci sembrava del tutto normale che a breve distanza abitassero persone che volessero stare il più in pace possibile.

Qualche anno dopo, ai tempi di Vitaminic, approcciammo il Comune per discutere possibili iniziative estive. Fu lì che scoprii il magico mondo dei concerti estivi: quello per cui, improvvisamente, da metà giugno a fine luglio tutte le amministrazioni pubbliche italiane decidono di voler riempire le piazze con la musica (o, in alternativa, il cabaret). Per i cantanti è un periodo d’oro: qualsiasi canaro stonato costa in quel mese e mezzo tre o quattro volte di più rispetto al resto dell’anno. Ma anche per gli organizzatori è un periodo d’oro: dovunque ci siano fondi pubblici, ci sono persone pronte a intascarli con ogni mezzo.

A Torino, in particolare, mi fu spiegato come le attività musicali estive fossero rigorosamente spartite tra tre o quattro organizzatori o “associazioni culturali”, ognuna con sufficienti connessioni politiche. Ogni tanto le connessioni di qualcuna si rivelavano non abbastanza resistenti e i fondi sparivano; fu così, per dire, che l’Associazione Culturale Barrumba al volger del millennio fu esiliata dalla città e costretta ad inventarsi il Chicobum Festival di Borgaro, che tirò avanti per sette anni senza grossi assegnazzi comunal-provincial-regionali, a dimostrare che un altro mondo sarebbe possibile, anche se l’anno scorso dovettero alzare bandiera bianca.

Tra quelli che a Torino continuano a vivere, gran parte del lavoro lo fa l’Associazione Culturale Hiroshima Mon Amour; compreso Traffic, anche se esso si è poi costituito in una sua propria Associazione Culturale Traffic, diversificando un po’ i loghi sulle richieste di assegnazzi. Traffic è un affare quasi milionario; qui, insomma, il giro del fumo comprende sovvenzioni pubbliche da (pare) centinaia di migliaia di euro, sommate a sponsor privati di dimensione simile o superiore, che servono per permettersi artisti di (vero o presunto) spessore internazionale in piena stagione di punta. Comunque, le associazioni culturali non fanno certo Traffic per cultura; per le decine di persone impegnate nell’organizzazione, si tratta di un lavoro, e come ogni lavoro va remunerato; quindi una parte di questo budget (non ho assolutamente idea di quanto) resta sicuramente nelle loro casse.

Il conseguente sospetto che quando Chiamparino e Ferraris discutono di cultura stiano in realtà discutendo di soldi è comunque legittimo; anzi, a me è venuto pure quello che stiano discutendo di politica, visto che Hiroshima, per dirne una, ha ospitato la festa finale della campagna “ribelli DS per Morgando contro Chiamparino e Bresso” dell’anno scorso, e magari il Chiampa s’è legato la cosa al dito; chissà, magari quelli di Hiroshima stanno già facendo le ricognizioni al parco Chico Mendes.

Chiaritovi quindi che quella su Traffic tutto è, meno che un’aulica discettazione sugli strumenti di diffusione della cultura e sulla loro sostenibilità, facciamo finta che lo sia e discutiamone un attimo. Ieri, verso le 22, essendo già in giro in auto, abbiamo provato ad andare al festival; peccato che nel raggio di chilometri a sud della Pellerina – un’area densamente abitata – non ci fosse un parcheggio disponibile, ma solo decine di macchine che gasavano gli abitanti girando in tondo e non sapendo dove fermarsi. Deciso che non avevo voglia di andarci a piedi, sono tornato a casa, dove sono stato poi svegliato dall’evento clou: un concerto di musica da discoteca a un volume mostruosamente alto, tanto che a casa mia, a una decina di isolati dal limite del parco, tremavano le pareti fino a mezzanotte e un quarto, anche con le finestre chiuse. Non oso immaginare chi abita più vicino…

Supponiamo comunque di riuscire ad andarci, come ho fatto varie volte negli scorsi anni. Bene, sgomitate e arrivate sotto il palco; nonostante il volume, non riuscirete a concentrarvi sulla musica. Difatti, tre quarti delle persone attorno a voi sono lì per caso, “tanto è gratis”, e passano la serata a chiacchierare e ridacchiare a voce alta; ogni tre minuti, nel bel mezzo di un brano, passa un carrettino col compressore acceso e un venditore che grida a voce altissima “cocabbirraggelatiiii…”. E’ chiaro che a Traffic, della musica, non frega niente a nessuno, se non a una minoranza di appassionati che avrebbero volentieri pagato cinque euro per godersi gli artisti in santa pace, invece che pigiati in mezzo a tutti i tamarri della città in libera uscita. Aggiungeteci che, quando il concerto finisce, si rischia la vita perché decine di migliaia di persone si accalcano in un vialetto di tre metri di larghezza, intasato di bancarelle promozionali, pur di uscire…

Insomma, Traffic è non solo insostenibile economicamente, ma è insostenibile anche ambientalmente, per chi ci vive accanto e per chi ci va. Sarà anche un elemento fondamentale della cultura torinese, come il Salone del Libro e il Film Festival, ma a questi ultimi eventi l’ingresso si paga! Gli organizzatori continuano a dire che questo è l’unico festival gratuito di grandi dimensioni in Europa; ma se nessun altro lo fa, non sarà che c’è un motivo?

Io spero che Traffic continui, però come tutte le altre rassegne: voglio dire, quelli di Colonia Sonora (aka Associazione Culturale Radar, ovviamente) si prendono qualche soldo pubblico ma non certo su questa scala, fanno pagare i biglietti, portano artisti interessanti invece di vecchi strabolliti (Sex Pistols e Patti Smith) e amici degli amici (Afterhours e Massimo Volume), e non si riempiono tanto la bocca di presunta indignazione se gli chiedono di far quadrare un po’ meglio i conti, mettere due lire di biglietto, spostarsi in un luogo con più parcheggi e meno case ed evitare di intasare e assordare mezza Torino. Suvvia, Casacci & friends: si può fare.

[tags]musica, torino, traffic, festival, soldi pubblici, rumore, hiroshima mon amour, chiamparino[/tags]

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giovedì 10 Luglio 2008, 08:54

[[Soulwax – NY Excuse]]

Non ho bene idea di che spettacolo possano fare dal vivo due belgi amanti dell’elettronica; del resto, se volete vedere gente che dal vivo sicuramente non manca di presa, è meglio incontrarsi piuttosto domenica sera a Collegno per i Deep Purple.

Ciò detto, NY Excuse dei Soulwax, con il suo andamento ipnotico e postmoderno, è uno dei pezzi migliori dell’arte elettronico-concettuale degli ultimi anni: sono quindi curioso di vederli stasera alla Pellerina per Traffic. Nel frattempo, potete mettervi anche voi in piedi e declamare: “This is the excuse that we’re making / Is it good enough for what you’re paying?”

[tags]soulwax, ny excuse, deep purple, musica, traffic, torino[/tags]

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