Lezioni del sabato sera
“Kids, you tried your best and you failed miserably. The lesson is, never try.” (Homer Simpson)
Near a tree by a river
there's a hole in the ground
10/1 | GTT horror |
9/1 | Guai agli standard troppo accessibili |
3/7 | Giappone wtf |
15/4 | Partire da Torino Caselle |
2/1 | Il ragazzo e l'airone |
gs | Guai agli standard troppo accessibili |
anonimo | Giappone wtf |
mfp | Giappone wtf |
anonimo | Giappone wtf |
gs | Partire da Torino Caselle |
dd | Il ragazzo e l’airone |
Michelangelo Serra | Creare immagini con l’AI |
andrea Tuzzato | L’invasione |
gs | Basta oggetti |
mfp | Maree |
“Kids, you tried your best and you failed miserably. The lesson is, never try.” (Homer Simpson)
La fine dell’anno si avvicina, si tirano le somme, e io recupero vari argomenti di cui è tanto che volevo parlare, ma non ho mai avuto tempo: parliamo quindi del fenomeno radiofonico dell’anno, almeno da noi a Torino.
Il suddetto fenomeno si chiama Monia Lacisaglia ed emette dalle frequenze di Radio Flash, inizialmente nel corso della trasmissione Senza Filtro, che, con la partecipazione di Vito Miccolis (percussionista, cabarettista e idolo delle ragazzine), Federico Bianco (cantante parademenziale e idolo dei maschi barbuti) e Capitan Freedom (navigatore radiofonico di lungo corso), a colpi di musica, stupidaggini e cabaret ha fatto esplodere gli ascolti della radio nella primavera-estate di quest’anno: si parlava di cinquantamila radioascoltatori, che su un’area da un milione e mezzo di abitanti non è poco.
Monia è a Radio Flash in qualità di stagista, come studente di (credo) Scienze della Comunicazione; è entrata nello studio per osservare, e poi qualcuno dei suddetti genialoidi ha provato a mandarla in onda. Quindi, è come uno qualsiasi di noi spedito all’improvviso in uno studio con un microfono in mano. Non sa la dizione, non sa parlare, non sa cantare, non sa ballare, non conosce la musica, ma nemmeno le notizie. Conduceva una improbabile rubrica denominata Sagra Simultanea, in cui le facevano leggere informazioni sulla sagra del bombolone speziato o del peperone triste, e lei regolarmente sbagliava, s’incartava, non capiva nulla, e poi scoppiava a ridere senza più riuscire a smettere.
Ecco, ridere è l’unica cosa che fa bene. Ride annunciando i programmi, ride presentando gli sponsor, ride nelle pause e ride sopra l’attacco dei brani musicali, senza mai riuscire a infilare più di tre parole di fila o a finire una frase. E quindi, è simpaticissima: un grande successo, come si deduce dalla quantità strabordante di messaggini baccaglioni che il popolo di Radio Flash di sesso maschile, pur senza averla mai nemmeno vista in faccia, riversa in trasmissione.
A un certo punto, comunque, Monia ottenne anche il suo hit personale: Applausi per Monia, quattro minuti di hip hop sulla base di Fabri Fibra dedicati al racconto della sua vita, che divennero il tormentone dell’estate di Flash.
Nel corso dell’anno, poi, Monia è un po’ sparita, visto che Lo Sapio (il personaggio principale di Miccolis) & Bianco sono volati sulle frequenze nazionali della Rai. Ogni tanto però riappare, come ieri, quando le hanno fatto un gioco di parole su certe attività “moniacali” e lei, in diretta, ha passato mezzo minuto buono a farselo ridire per due o tre volte, senza riuscire a capirlo, e poi concludendo: “Ah! Credevo che ci fosse uno spazio, e che si parlasse di una dea indiana, la dea Kà li!”. E poi ha cominciato a ridere.
Una perla di innovazione dal Giappone. Non l’ho trovata io, me l’hanno segnalata!
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Metti che tu voglia cambiare cellulare prima della fine dell’anno, e stia valutando di passare dalla tradizionale Nokia a uno dei marchi alternativi già provati con successo da vari amici, ad esempio SonyEricsson.
Dovendo quindi ipotizzare un modello tra i seicento milioni di modelli di ciascun produttore, tutti rigorosamente identificati da sigle alfanumeriche indistinguibili l’una dall’altra un po’ come i titoli dei cartoni animati Mediaset, ti rechi sul sito del produttore e cerchi il classico sistemino di ricerca per caratteristiche.
Non c’è.
C’è però un magnifico comparatore di modelli a tecnologia avanzata (in Flash o in AJAX, non ho guardato), che ti permette di ottenere il dettaglio delle caratteristiche trascinando l’immaginina del cellulare in una casella. (Si sa, i cellulari si scelgono in base all’estetica – peccato peraltro che SonyEricsson adotti la politica della Fiat degli anni ’80, ossia tutti i modelli siano dei rettangoli squadrati e tagliati con l’accetta, rigorosamente uguali uno all’altro.)
Purtroppo, questo mostro tecnologico è talmente pesante che, per realizzare i fantasmagorici effetti di cross-fading, drag & drop e ingrandimento interattivo, il mio portatile – che pure ha un anno d’età – comincia ad addormentarsi per venti secondi dopo qualsiasi azione, e mi costringe presto ad abbandonare l’idea, il sito e la marca di cellulari suddetta.
Certo, sul nuovo superfico portatile Apple da 4000 euro del marchettaro milanese che ha disegnato il sito, il tutto funziona sicuramente a meraviglia. Ma io vorrei che mi presentassero il suddetto marchettaro, in modo da impalarlo prima io, e poi consegnarlo al suo amministratore delegato insieme a un resoconto dettagliato delle vendite che gli ha fatto perdere.
In ICQ, complice anche una mia vecchia e sdolcinata descrizione amorosa risalente a tutt’altri momenti della mia vita, mi succede mediamente una volta al giorno di essere abbordato da qualche gentile signorina dell’Est Europa in cerca di marito italiano; e quindi, ho sviluppato lunga esperienza su autopresentazioni di vario genere. Questa, però, non mi era mai capitata: che razza di primo messaggio è, “конецформыначалоформыsaluto” ??
Da qualche giorno volevo completare il mio racconto del Brasile, parlandovi dell’impressione complessiva che ne ho avuto durante il viaggio a San Paolo.
Va subito detto che il Brasile è una grande nazione, e “grande” descrive bene l’effetto che fa, particolarmente andando a San Paolo – la maggior città del Sud America, con un numero di abitanti non specificato ma compreso tra 10 e 18 milioni, che contarli tutti è un po’ un casino. Tutto è grande, i palazzi, i centri commerciali, le strade, l’inquinamento.
La cultura è molto europea, fin troppo: potete entrare in un centro commerciale – uno qualsiasi delle decine che ci sono, una umile cosetta di vetro e marmi grande tre volte le Gru – e trovarci la Fnac identica a quella di Torino, solo tre volte più grossa; e poi scappare, entrare nel negozietto di dischi di fronte, pensando che finalmente lì troverete qualcosa di non massificato, e trovarvi davanti agli altoparlanti del negozio che mandano Bacco Tabacco di Zucchero. Ah, ma quanti danni ha fatto Zucchero nel mondo… mai quanto Ramazzotti e la Pausini, s’intende.
Il Brasile è un paese dove la gravità è dimezzata rispetto al resto del mondo: lo si vede dai corpi delle donne. Tutti sono belli, persino i brutti, e hanno fisici spaziali; credo facciano un sacco di sport, e poi fa caldo tutto l’anno, insomma si vive all’aperto.
Il Brasile è un paese dove ci si sente a casa per vari motivi, non solo per la cucina – ottima, ed è vero che si mangia molta carne, ma anche molta pasta e un sacco di frutta dalle forme e dai colori improbabili, che richiederebbe, quando la portano in tavola, l’accompagnamento di un manuale di istruzioni per il forestiero. Finalmente, mi son detto guardando i cartelloni sull’autostrada, un altro paese dove quasi tutte le pubblicità hanno dentro un calciatore, o, in subordine, un pilota di Formula Uno! Non è un caso se la compagnia aerea privata nazionale, l’equivalente locale di Air One, si chiama Gol…
Ma c’è una cosa che, più di tutte, caratterizza il Brasile. Non sono le belle donne, non sono i centri commerciali, non è lo sport e nemmeno il clima. Se dovessi descrivere il Brasile con una parola, direi che il Brasile è il paese della disorganizzazione.
Già ne avevo avuto esperienze varie: basta studiare capoeira con un mestre brasiliano… Eppure, in questa settimana è successo di tutto; e non parlo solo della disorganizzazione spicciola evidente, i camerieri che vogliono fare i premurosi ma ti rovesciano l’acqua addosso, gli orari di qualsiasi cosa sempre casuali, le code al check-in senza nemmeno le transenne, con la gente disposta a grumo alla bell’e meglio in mezzo alla hall (quello peraltro succede anche a CDG).
Parlo ad esempio dell’incidente che si è verificato a metà settimana: si è rotto l’apparecchio radio che gestisce le comunicazioni da terra agli aerei. Beh, può succedere; peccato che fossero talmente organizzati che, quando si è rotto, la reazione è stata: “Toh, si è rotto! Bisognerà cercarne un altro…” E il vicino ha detto “Eh, sì, magari domani chiamo un riparatore…”. Insomma, per tre giorni tre aeroporti del Sud del Brasile, tra cui San Paolo Congonhas, sono rimasti completamente chiusi perchè si era rotto un pezzo in una radio, con migliaia di persone abbandonate sulle panchine in attesa che qualcuno pensasse a riparare l’oggetto.
Questo è ancora più evidente analizzando la principale meraviglia di San Paolo del Brasile: il traffico. Se non siete mai stati là , non avete mai visto un ingorgo; dopo esserci stati, la coda permanente del sottopasso di Porta Palazzo vi farà sorridere, non ve ne accorgerete nemmeno più.
Vi ho già detto che ho impiegato due ore e mezza dall’albergo all’aeroporto; questo non solo perchè esiste un’unica strada di grande scorrimento in tutta la città , ovviamente sempre bloccata, ma perchè ad essere permanentemente bloccata è l’intera città . Abbiamo chiesto quali erano le ore di punta da evitare negli spostamenti, e ci hanno risposto: “Beh, di notte non c’è tanta coda”. Ogni singola via, dai viali alle viuzze nei quartieri, è permanentemente occupata da una fila di auto ferme col motore acceso (a metà del viaggio, dalla puzza di inquinamento, io stavo per vomitare). In più, la città è cresciuta completamente a caso, senza un vero piano regolatore, per cui anche le strade sono assurde, fanno giri astrusi per districarsi tra le case e i grattacieli; quasi sempre per andare da A a B, anche se sono due punti di grande importanza, sono richieste un paio di inversioni di marcia e una gimcana per stradine a senso unico tra le villette (se in periferia, circondate dal filo spinato per evitare razzie).
La cosa che più colpisce, però, è la flemma: in queste code infinite, di ore e ore, quasi nessuno usa il clacson, se non con un colpetto per indicare la propria esistenza, e assolutamente nessuno viola le regole, ad esempio usando a sproposito le corsie preferenziali degli autobus, passando anche solo col giallo, o girando dove non si può. Lo ammetto, il mio sangue ribolliva quando il taxista che doveva riportarci all’albergo – operazione che richiedeva una inversione a U sul viale – risaliva per altri due isolati la strada per poi invertire e posizionarsi in fondo a cinquecento metri di auto ferme, quando avrebbe potuto evitare la coda semplicemente invertendo due isolati prima, violando però un divieto di svolta a sinistra.
Eppure, tutti stanno tranquillamente fermi per ore, senza lamentarsi. In Italia o nei paesi di lingua spagnola partirebbero lotte al coltello per accaparrarsi la corsia migliore e manovre assurde per guadagnare dieci metri; lì, no. Semplicemente, si aspetta in pace e senza farsi problemi, con la massima serenità .
Certo, in un paese organizzato – considerato che il Brasile nelle sue parti sviluppate non è affatto più povero o meno tecnologicamente avanzato che l’Europa – avrebbero già fatto dieci linee di metro, un treno veloce per l’aeroporto, venti sopraelevate e sottopassi, e insomma risolto un po’ di problemi in qualche modo. Ma ci sarebbe stato da sbattersi: troppa fatica.
Lì, sapete qual è la soluzione? Arrangiarsi: difatti, sul volantino dell’ente del turismo ci si vanta che San Paolo è la città con la seconda più grande flotta di elicotteri al mondo (vedi Vint in arrivo). Insomma, i ricchi vanno in elicottero, e gli altri pazientano: in un certo senso, è organizzazione anche quella.
Non pensavo che sarebbe successo, eppure lo è stato: sono finito a cena da amici che non vedevo da un po’, per salutare, e sono stato coinvolto in una doppia presentazione casalinga, quella del Vorwerk Bimby e quella dei contenitori Tupperware; e così, da stasera (anche se la riceverò solo tra qualche giorno) sono l’orgoglioso possessore di una formaggiera Tupperware con coperchio a membrana traspirante. Adesso sì che la mia casa è una casa vera, e io sono un vero massaio di casa!
Separatamente, ci tengo ad esprimere un apprezzamento per la situazione complessiva degli ospiti: la logistica di una casa con due bimbi piccoli, due gatti, un gruppo di dieci persone e due dimostrazioni commerciali in corso è talmente complicata che chiunque riesca a gestirla potrebbe mandare avanti la catena di montaggio di Mirafiori con la mano sinistra. Io, invece, ci ho messo dieci minuti solo per decidere se volevo la formaggiera quadrata o quella rettangolare…
Stamattina sono andato a parlare a questo convegno, non come guru della rete (ammesso che io lo possa essere…) ma come responsabile di uno dei progetti. La prima metà della mattinata è stata durissima, essendo andato a dormire tardi; dopo il coffee break però mi sono ripreso, e anche il mio intervento è andato bene.
Ho ascoltato con piacere la presentazione del direttore del CSP, Claudio Inguaggiato, non solo per l’insistenza sui modelli di condivisione libera del software prodotto dalle piccole aziende ICT torinesi, ma per la nota sull’importanza di costruire reti non solo di condivisione ma anche di competizione: in un ambiente dove girano proposte di legge che prevedono di dare soldi pubblici alle università e alle associazioni no profit per scrivere software, non fa mai male ricordare che è almeno da quindici anni che le industrie di servizi nazionalizzate sono (per fortuna) un ricordo del passato.
E’ stato più preoccupante, invece, vedere la slide con le povere aziende in mezzo e una pletora infinita di organismi pubblici e parapubblici che in teoria dovrebbero aiutarle a crescere, ma di cui in pratica, a naso, la gran parte si limita ad autoperpetuarsi (considerato anche che i pagamenti dei finanziamenti per i nostri progetti sono in ritardo di un anno, a differenza di quelli dei dirigenti dei vari enti…). Così come è stato preoccupante sentire aziende di ICT selezionate tra le eccellenze cittadine dichiarare che il progetto è stato bello perchè ha permesso loro di scoprire questo coso di cui avevano sentito parlare ma che non avevano mai usato, “Linux”. E per finire, per l’intero corso del convegno (nonostante avessi già fatto notare la cosa in passato) si è usato il termine “open source” per indicare il software libero, con allegra incoscienza della differenza.
Ad ogni modo, è stata una esperienza piacevole, e vorrei che a Torino si facessero più progetti così; magari meno focalizzati sullo sviluppo di tecnologia – che ormai si reperisce facilmente in rete – e più sullo sviluppo di reti di aziende, e di canali commerciali collettivi per tutti quei servizi informatici che Torino produce, ma che non è attrezzata per vendere in modo sistematico e di massa.
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Sono riuscito a tornare solo ieri sera, e il mio lunedì è stato totalmente invaso da appuntamenti e questioni avanzate dalla settimana di assenza. Tra le cose da fare, c’è stata anche quella di andare a ritirare un pacco presso l’interporto di Pescarito, tra Settimo e San Mauro; mi avevano detto che l’ufficio chiudeva alle 19:30, e io sono entrato in macchina, a casa mia, alle 19:09. Eppure, questi logistici sanno bene dove piazzare le proprie sedi: l’ufficio in questione è situato proprio di fianco all’uscita Settimo / San Mauro (da non confondere con l’uscita Abbadia di Stura / strada Settimo) dell’“anello della morte” ex SS11 (da non confondere con la “autostrada della morte” Torino – Savona). E così, grazie alla tangenziale, sono arrivato là in tredici minuti netti: penso sia un record.
Arrivato allo sportello, comunque, ho notato un tizio che stava cercando di spedire un pacco a base quadrata, segnalando che era molto importante che non congelasse nè venisse esposto a calore eccessivo. In effetti sembrava un pacco da quattro bottiglie di vino, e ho pensato che fosse un regalo natalizio; sennonché, poco dopo, ho notato la scritta sulla scatola che diceva “SWISS STEM CELLS BANK”.
Certo che, se per trovare uno che spedisce cellule staminali all’estero basta andare da un qualsiasi spedizioniere all’ora di cena, la nostra legge che ne vieta uso e ricerca in Italia deve fare proprio schifo.
Oggi sono qui, piantato in questo Marriott d’aeroporto, passando pigramente la giornata tra Internet, il letto e il buffet. Il tempo è grigio, e soprattutto non avevo nessuna intenzione di smazzarmi la faticaccia di tornare in centro città (come minimo quaranta minuti di taxi più mezz’ora di metro) con il rischio magari di rimanere di nuovo ingorgato; così ho chiesto gentilmente all’albergo di poter fare il check-out alle tre del pomeriggio, ricevendo un’altrettanto gentile assenso (ho specificato “gratis”, speriamo bene…).
Tra le pigre attività di questa mattinata, c’è stato il notare sul comodino un libro intitolato Marriott’s Way: oltre alla bibbia, la generosa catena che conta oltre duemila alberghi in giro per il mondo ti fornisce anche la propria bibbia corporate. Si tratta ovviamente di uno di quei libri che i vecchi tycoon sulla via della pensione fanno scrivere a qualche ghost writer, per magnificare i grandi risultati della loro vita manageriale e della loro azienda; tempo fa ne avevo ricevuto in omaggio uno del capo di McDonald’s Italia, che poneva le cose in umili termini come “Sono partito dalla mia città con una valigia di cartone comprata all’Upim, ci sono tornato vent’anni dopo e mi sono comprato l’Upim”. Eppure, c’è sempre qualcosa di interessante in questi racconti, se li si depura dell’agiografia gratuita.
Nel caso del signor Marriott, della trentina di pagine che ho letto distrattamente mi ha colpito l’insistenza sul farsi da sè – e vabbe’, so’ americani – con i racconti di lui che attacca i quadri negli alberghi, aiuta a incollare il pavimento e va personalmente a fare il servizio in camera per imparare come funziona. Però mi ha colpito anche un’altra cosa, cioè la visione paternalistica ma anche molto umana del rapporto con i propri dipendenti.
In pratica, dice lui, in un albergo o in un ristorante gli impiegati determinano la gran parte della qualità del servizio; non si può quindi pensare che se gli impiegati sono infelici o scontenti il servizio possa essere buono, e questo anche se l’infelicità è dovuta alla vita privata. E quindi, negli Stati Uniti la Marriott ha messo in piedi un numero verde riservato ai dipendenti, chiamabile in qualsiasi momento, a cui rispondono psicologi che danno supporto su qualsiasi cosa.
Noi cresciamo con l’idea che l’assistenza sociale sia sempre a carico dello Stato, ma è interessante notare come ogni tanto, per puri fini utilitaristici, possa anche non essere così, eppure funzionare lo stesso.