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venerdì 21 Novembre 2014, 13:56

Speriamo nel buon senso

In rete, la vicenda della settimana è quella della pizzeria Mamita (ex Bagni Doria) di Loano, il cui titolare due settimane fa, rivedendo il menu, ha avuto l’idea di chiamare una pizza Speriamo nel Vesuvio. Un cliente ha messo la foto su Facebook e la cosa è giunta sul noto paginone neoborbonico Briganti, che ha scatenato sul locale la classica tempesta di merda: razzisti, leghisti, assassini, dando per scontato che, come in tutti gli stadi lombardo-veneti in cui all’arrivo dei napoletani gli ultrà gridano “Forza Vesuvio”, si trattasse di una speranza di eruzione.

E così, da Napoli sono partite richieste di scuse e genuflessioni, telefonate minatorie al locale, inviti al boicottaggio di Loano e dell’intera Liguria, cori di speranza nel Bisagno e in ulteriori alluvioni, ondate di recensioni negative al locale su tutti i siti di settore e anche minacce di visita di persona per rispondere a mazzate (ovviamente sempre a mezzo tastiera), e in breve la questione è diventata un caso nazionale.

Premetto che in questa vicenda sono di parte, se non altro perché in quel locale di Loano, anche se con la precedente gestione, ho festeggiato poco più di un anno fa il matrimonio di mio cugino, e a Loano ho un sacco di parenti e i miei più bei ricordi dell’infanzia. Premetto che sono di parte anche dall’altra parte, come mi tocca sempre rimarcare ogni volta che si parla di terroni & polentoni, perché, nonostante il cognome tipicamente torinese e ascendenze piemontesi da settantasette generazioni, un quarto del mio sangue deriva direttamente da una famiglia di antica nobiltà napoletana, e ne vado molto orgoglioso.

Non so se siano vere le giustificazioni del gestore, che sostiene che l’intento del nome fosse esattamente l’opposto, ossia benaugurale per i vesuviani. Pur essendovi affezionato, riconosco che il lungomare di Loano quanto a livello culturale non è Oxford e che quell’augurio cretino con retroterra di razzismo è una delle classiche scemenze che vengono dette a cuor leggero un po’ per tutto il Nord, pensando di fare una battuta simpatica che, vista da chi sul Vesuvio ci vive davvero, giustamente non risulta affatto simpatica.

Da qui, però, a pensare che uno che chiama una pizza così stia seriamente sperando nella morte di migliaia di persone, e quindi meriti di avere la vita rovinata e la propria attività lavorativa messa a rischio, ce ne passa. Così come ce ne passerebbe, almeno se esistesse ancora un giornalismo serio, tra il raccontare il caso e il fare articoli con nome, cognome, indirizzo e numero di telefono invitando di fatto al linciaggio (basta leggere i commenti agli articoli o al post originale su Facebook).

Anche gli admin della pagina Briganti, più che di Napoli, sembrano di San Damiano, a forza di tirare la pietra e nasconder la mano, per esempio ripostando la questione una volta al giorno ma poi dicendo che “naturalmente noi non auguriamo invece ai genovesi di essere alluvionati” (forse bisognerebbe fargli un ripassino di geografia, visto che tra Loano e Genova ci sono quasi cento chilometri e che Loano non è mai stata alluvionata).

La cosa che più mi spiace è il diffondersi al Sud di una mentalità uguale e contraria a quella della Lega, per cui i problemi del Sud sono solo colpa degli abitanti del Nord, e qualsiasi stronzata più o meno razzista partorita da un singolo polentone diventa un modo per rinforzare il vittimismo, prontamente strumentalizzato a fini politici (tra un post e l’altro, quelli di Briganti promuovono un nuovo partito civico campano). E questo spiace, perché il meridione è pieno di luoghi meravigliosi e di potenzialità inespresse, e alle volte sembra che dovrebbe soltanto credere un po’ di più in se stesso invece di recriminare.

Mi piacerebbe comunque sapere cosa ne pensano i miei amici del Sud e del Nord. Nel frattempo, già prima di questa storia, avevo invitato a cena per stasera una coppia di amici napoletani: io ci metto la bagna caoda e loro il dolce. Tra una cosa e l’altra, magari intingendo la pastiera nelle acciughe, sono curioso di discutere la questione.

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venerdì 7 Novembre 2014, 12:17

La misteriosa tassa sul gas

Negli scorsi mesi, i torinesi che acquistano il gas da Eni, circa il 60% del totale, aprendo la bolletta hanno avuto una sgradita sorpresa, questa:

Al normale importo della bolletta sono stati aggiunti senza preavviso circa 30 euro (24,03 + IVA, perché in Italia si paga l’IVA al 22% anche sulle tasse) a titolo di “canone comunale 2012-2013”. Non sono una cifra enorme, ma non sono nemmeno pochi per chi fatica ad arrivare a fine mese, e perdipiù vanno a colpire un bene fondamentale come il gas, che permette di cucinare e di scaldarsi.

A fronte delle numerose segnalazioni, dopo la pausa estiva ho presentato una interpellanza per chiedere spiegazioni: chi ha deciso di introdurre questa tassa e di farla pagare tutta in una volta? Come vedete nel video, la risposta dell’assessore in aula, circa un mese fa, è piena di dubbi; capito che questa tassa esiste dal 2011 e che è stata Eni a dimenticarsi di farla pagare per poi chiederla tutta insieme in un colpo solo, nemmeno la giunta sembrava sapere bene come funzionasse.

Ho quindi chiesto un approfondimento, che è avvenuto qualche giorno fa con l’audizione dell’amministratore delegato di AES Torino, Rocco Luigi Didio (anche lui lucano come mezzo PD torinese). AES Torino è la società nata nel 2001 come joint venture a metà tra la municipalizzata AEM (oggi Iren) e Italgas (cioé la stessa Eni), per gestire le reti cittadine del gas e del teleriscaldamento; qualche mese fa, peraltro, il matrimonio si è sciolto e Iren si è presa tutto il teleriscaldamento, mentre Eni si è tenuta la società e la rete del gas.

Anche questo è un tassello della storia; perché la tassa comunale sul gas nasce quando, alla fine dello scorso decennio, il governo decide di “portare il mercato nei servizi pubblici locali”. Come già per l’acqua, per i rifiuti e per i trasporti, gli esegeti del mercato a tutti i costi vogliono trasformare le vecchie società pubbliche e parapubbliche che avevano in gestione servizi di monopolio naturale, come sono i tubi del gas, in aziende che si contendono il servizio tramite gara, in modo da “fare efficienza per i cittadini”.

L’efficienza per i cittadini di questa scelta è talmente elevata che, per compensare i Comuni dalla futura perdita del controllo diretto della distribuzione del gas e dei relativi utili, viene introdotta subito la possibilità che essi istituiscano una tassa sul gas, il cui importo massimo è fissato da un algoritmo nazionale a un teorico “giusto utile” del servizio, pari al 10% di un “giusto ricavo” detto VRT; per Torino, questo massimo è pari a 5,7 milioni di euro.

Siamo a fine 2010, e il sindaco è ancora Chiamparino: può forse farsi sfuggire un’occasione per imporre nuove tasse? No, e dunque introduce la tassa e la fissa al massimo possibile. I giornalisti cittadini, secondo voi, denunceranno questo ennesimo prelievo dalle tasche dei torinesi? No, il massimo che esce è questo articolo che racconta le cose in modo un po’ diverso: si tratterebbe di un aumento di tasse di soli 200.000 euro che servirebbe a finanziare il welfare.

La realtà è invece che i 5,7 milioni vengono ripartiti in due come da regole nazionali: 2,1 milioni li paga AES Torino, che prima ne pagava 1,9 (di qui l’ “aumento di 200.000 euro”), e che comunque ribalterà il costo ai suoi clienti, che sono le decine di società che vendono il gas ai torinesi, che a loro volta aumenteranno le tariffe ai clienti finali per coprire l’aumento; ma gli altri 3,6 sono un nuovo prelievo che viene caricato agli utenti direttamente in bolletta, per poi girare le cifre incassate ad AES Torino e da AES al Comune.

Considerando che a Torino ci sono un po’ più di 450.000 utenze del gas, la tassa in bolletta diventa quindi di 8 euro l’anno, uguale per tutti indipendentemente da reddito e consumi. Siccome però siamo in Italia, l’Agenzia per l’Energia Elettrica e il Gas ci mette un anno a ratificare la nuova tassa torinese, che quindi entra in vigore il primo gennaio 2012, però con la clausola che per il 2012 la tassa sarà raddoppiata per recuperare il 2011. Di qui, quindi, le cifre apparse nella bolletta Eni; gli altri operatori, invece, hanno semplicemente spalmato questi importi nelle bollette già dal 2012.

Nel frattempo, a ritmi italici, l’avvento del mercato sui tubi del gas va avanti: e dunque dovrebbe partire tra un po’ la gara pubblica per la gestione della rete del gas a Torino e nei comuni limitrofi, che dovrebbe concludersi a fine 2015 (io scommetto che la vincerà una società chiamata AES Torino). Comunque, a quel punto la tassa sarà eliminata e sostituita dalla cifra che il miglior offerente si sarà impegnato a pagare ai Comuni in cambio della gestione del servizio, cifra peraltro che potete indovinare chi pagherà alla fine.

Per il 2014 e per il 2015, tuttavia, ci troveremo ancora altri 8 Euro + IVA in bolletta; già, perché in teoria la Città, che ha già incassato 5,7 milioni l’anno per tre anni, potrebbe decidere di ridurre l’importo o prevedere facilitazioni per i meno abbienti (peraltro complesse da realizzare in pratica, visto il giro che fanno questi soldi), ma quando ho anche solo ipotizzato la cosa si sono messi tutti a ridere.

Ah, e il welfare? Ovviamente era una bufala: quando ho chiesto dove sono finiti questi soldi, ho saputo che sono finiti nel calderone generale delle entrate del Comune, a tappare i buchi di bilancio; “però sul welfare mettiamo comunque già tanti soldi, dunque fa lo stesso”.

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venerdì 31 Ottobre 2014, 13:58

I fatti sul gioco d’azzardo

Il gioco d’azzardo è negli ultimi tempi uno degli argomenti preferiti della politica. E’, difatti, una attività fortemente impopolare tra gli italiani, che la abbracciano in abbondanza ma che vedono gli effetti devastanti che gli eccessi videoludici hanno sulle persone; secondo i Sert, nei casi più gravi (diverse decine l’anno solo a Torino) si parla di perdite complessive che partono da 200.000 euro e arrivano ben oltre il milione di euro, bruciando in breve tempo interi patrimoni propri e familiari. Ma ci sono migliaia di persone, specialmente tra le meno abbienti, che si giocano ogni mese parti consistenti del proprio stipendio e della propria pensione, secondo una dipendenza che generalmente inizia nel momento di una buona vincita senza realizzare che tale vincita è statisticamente irripetibile se non giocando quantità di denaro molto superiori ad essa.

Soltanto in provincia di Torino nel solo anno 2013, il totale delle giocate legali è stato di circa tre miliardi di euro (per confronto, le entrate fiscali del Comune di Torino mettendo insieme tutte le varie IMU, TASI, TARI ecc., spesso indicate come la causa dell’impoverimento generale, non arrivano al miliardo di euro). Di queste, per quanto riguarda le slot machine il 70-75% dovrebbe essere restituito in vincite (ma solo se il gioco non viene taroccato), mentre il 13% va allo Stato. A seconda del gioco, però, ci sono percentuali di vincita più basse (es. in lotto e lotterie) o più alte (es. nelle scommesse sportive e nei giochi online)… ma solo se il gioco non viene taroccato.

Ovviamente, più bassa è la percentuale di vincita e più alto è l’incasso per i vari soggetti che si dividono il resto: lo Stato, i concessionari nazionali, i loro distributori locali e, per le macchinette, l’esercente del pubblico locale che le ospita, che porta a casa al massimo qualche punto percentuale sul giocato e che peraltro è spesso legato da contratti capestro che gli rendono praticamente impossibile eliminare le macchinette dopo averle installate.

Dei tre miliardi di cui dicevamo sopra, oltre il 30% viene speso nelle classiche slot da bar, e il 25% nelle “videolottery” tipiche delle sale giochi; queste ultime sono solo terminali di un sistema di lotteria in rete gestito da un concessionario, mentre le prime sono macchine autonome che gestiscono il gioco in proprio, comunicando via rete a un server centrale dei monopoli quello che avviene. Poi un altro 20% va in lotto e lotterie, un po’ meno in giochi di abilità tipo braccio meccanico, e solo il 5% nelle scommesse sportive.

Su queste, però, c’è un problema: si sono diffuse sale scommesse e siti online che non operano con licenza italiana, ma con licenza di altri Paesi UE, es. Malta, dove le tasse sono più basse e quindi loro riescono a offrire ai clienti percentuali di vincita superiori e quote migliori. Secondo le leggi europee e diverse sentenze ciò è possibile, ma secondo i monopoli e la Guardia di Finanza no; sta di fatto che un bel giro d’affari, non ben misurabile, si è spostato su questi operatori.

In tutto, a Torino e provincia ci sono circa quattromila operatori di scommesse, di cui tre quarti sono bar e tabaccai con macchinetta (mediamente un paio a testa). Per evitare taroccamenti è necessario controllare spesso; eppure ogni anno i controlli raggiungono se va bene un cinquantesimo degli operatori, riscontrando peraltro che circa metà di essi non sono in regola (anche se possono essere irregolarità veniali).

Dal punto di vista sociale, non vi è solo il problema dei giocatori incalliti, ma quello della ricaduta sul tessuto urbano: nuove sale giochi aprono ovunque, spesso vicino a luoghi sensibili o in punti dove creano rumore, disturbo e brutte frequentazioni. Finora l’unico modo concreto per cercare di bloccare l’apertura di una sala giochi è che il regolamento di condominio vieti tale uso, ammesso di avere un regolamento contrattualmente vincolante.

Per quanto riguarda il Comune, difatti, esso ha le mani legate, per via di come è fatta la legge nazionale. Difatti, la legge prevede due modi diversi di ottenere una autorizzazione per svolgere gioco d’azzardo, a seconda del tipo di attività. Le macchinette sono normalmente installate secondo le modalità dell’articolo 86 del TULPS (il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, originariamente risalente al 1931), e quindi sono soggette all’autorizzazione comunale; il Comune può quindi, come confermato anche da alcune recenti sentenze relative a Comuni piemontesi, introdurre vincoli di orario, di collocazione (es. lontano dalle scuole) e così via, per quanto necessario a tutelare la salute pubblica.

Tuttavia, le attività più lucrose – sale giochi e scommesse sportive – sono invece esercitate secondo le modalità dell’articolo 88 del TULPS, con una autorizzazione rilasciata dal Questore a fronte di una concessione nazionale; e la Questura non effettua alcuna valutazione dell’impatto sociale e urbano della nuova apertura. In questo modo si possono aprire sale slot ovunque, anche di fronte a una scuola elementare o a un centro per anziani, senza particolari limitazioni di orari.

Questa è una tipica questione all’italiana: a livello locale tutta la politica è contro il gioco d’azzardo e inscena grandi litigi e discussioni pubbliche, votando durissimi atti contro queste attività; a livello nazionale poi gli stessi partiti fanno in modo di tutelare chi ha pagato lucrose concessioni e porta tante belle entrate fiscali allo Stato (anche se poi lo Stato spende ben di più per supportare chi con l’azzardo ha perso tutto ed è ora povero in canna).

Io mi sono agganciato a una di queste belle discussioni e ho inserito al volo, nell’ennesima dichiarazione di principi che la Sala Rossa si apprestava a votare, un emendamento preciso: una richiesta alla Regione Piemonte di emanare una legge sul modello di quella ligure, permettendo ai Comuni di limitare l’orario, la collocazione e le nuove aperture anche delle attività autorizzate dalla Questura, obbligandole ad avere anche l’autorizzazione comunale. Difatti, la Regione ha costituzionalmente competenza sulla tutela della salute, e dunque se vuole può introdurre ulteriori vincoli sul commercio a questo scopo; questa strategia ha già retto agli inevitabili stuoli di avvocati che gli operatori del gioco d’azzardo scatenano contro chi prova a limitarne il business.

L’emendamento è stato approvato, e con esso l’atto, e dunque adesso il consiglio comunale ha sposato la nostra proposta, che peraltro altri consiglieri M5S stanno presentando in altre città piemontesi. Non resta dunque che sperare che Chiamparino non si faccia irretire dalle sirene dell’alea, e provveda a emanare quanto prima questa legge.

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venerdì 17 Ottobre 2014, 10:48

Dai cittadini alle banche

Anche quest’anno, come già i precedenti, si è verificata l’assurda situazione in cui il Comune approva il bilancio di previsione per l’anno in corso nell’autunno dell’anno stesso, perché deve a sua volta attendere la fine del gioco delle tre carte che ogni anno fa il governo, cambiando nome e formula alle tasse locali in modo da sostenere di averle ridotte quando in realtà sono aumentate. Il risultato è che per tre quarti dell’anno si naviga a vista, spendendo il minimo, e poi a fine anno si corre cercando di fare qualcosa.

La situazione del bilancio comunale è sempre preoccupante, tanto che quest’anno si è ricominciato a fare debiti per 25 milioni di euro, per sostenere “investimenti straordinari” che poi sarebbero la manutenzione delle strade, dei giardini e delle scuole, che diventa “straordinaria” (e quindi legalmente sostenibile a debito) perché non si è più fatta quella ordinaria.

Basta la prima slide dei dati di sintesi del bilancio 2014 per rendersi conto dei problemi strutturali del bilancio di Torino: sono calate significativamente le spese per beni e servizi e quelle per trasferimenti, il che può voler dire sì qualche taglio di sprechi, ma vuol dire anche tagli ai servizi e ai sussidi dati direttamente alla cittadinanza; le spese del personale sono diminuite ma di poco, perché tagli secchi e improvvisi al personale, come quelli ormai frequenti nel privato, nel pubblico sono ancora da venire; l’unica cosa che è aumentata, a parte i fondi di riserva, è la spesa per ripagare i debiti alle banche: 250 milioni di euro su un miliardo e 300 milioni di bilancio.

Progressivamente, quindi, la ricchezza comunale dei torinesi, rifinanziata ogni anno dalle nostre tasse, viene spesa sempre meno per dare lavoro e fornire servizi e sempre più per arricchire le banche, a partire da quella della fondazione fino a poco tempo fa presieduta dall’ex sindaco e attuale presidente della Regione Chiamparino. Per ogni cinque euro di entrate, per ogni quattro euro pagati in tasse dai torinesi, più di uno non va in spesa produttiva, ma va alle banche.

Di questa situazione non si vede la fine; è vero che l’indebitamento in questi anni è stato un po’ ridotto (non perdetevi la fantastica ultima slide dei dati di sintesi, in cui modificando la scala e facendola partire non da zero ma da quasi tre miliardi fanno sembrare che vi sia un crollo dei debiti che in realtà non c’è), ma questo è stato ottenuto al prezzo di vendere le partecipate, gli immobili e pezzi di città agli speculatori; finito di vendere tutto, non si sa che succederà.

In questo bel quadretto, noi abbiamo deciso di fare un gesto concreto, l’unico che potevamo fare dall’opposizione: abbiamo presentato un emendamento al bilancio che tagliava i nostri fondi di funzionamento del gruppo consiliare per destinarli al welfare. Come sapete, alla fine di ogni anno noi restituiamo quasi il 90% del fondo di funzionamento, perché spendiamo il minimo necessario per tenere aperto l’ufficio (telefoni, cancelleria ecc.; qui trovate i rendiconti). Quest’anno, sui circa 9000 euro ricevuti, ne abbiamo spesi un migliaio e, con tre mesi ancora da pagare, abbiamo dunque pensato di poterne restituire subito 7000; non saranno una cifra folle, ma è meglio di niente.

Purtroppo, non solo gli altri gruppi consiliari non hanno voluto fare lo stesso, ma la maggioranza di Fassino ha bocciato il nostro emendamento al grido di “populisti”; non ci hanno permesso nemmeno di tagliarci da soli i nostri fondi. Però sono andati avanti a fare grandi discorsi e promesse che presto recupereranno nuovi soldi per ripristinare lo stanziamento per il welfare, che anche quest’anno è stato tagliato; ma a parlare e parlare son capaci tutti.

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venerdì 10 Ottobre 2014, 09:44

Emergenza duecento euro

Quando in Italia si parla dello smaltimento dei rifiuti, come di tante altre cose, è difficile intavolare una discussione razionale: si finisce subito a litigare sulle pizze alla diossina. Intanto, le mafie e la politica se ne approfittano: il business dei rifiuti è una delle vere miniere d’oro di questi anni. Soltanto Torino città paga ad Amiat oltre 150 milioni di euro l’anno per raccogliere e smaltire circa 400.000 tonnellate di immondizia; noi cittadini paghiamo i rifiuti circa 40 centesimi di euro al chilo, come i pomodori all’ingrosso.

Tra questi business, uno ottimo è quello degli inceneritori: si raccoglie tutta la schifezza possibile e la si brucia tutta insieme per produrre energia; si incassano tra i 100 e i 150 euro a tonnellata, derivanti dalla tassa rifiuti dei cittadini, più altri 100 euro di fondi pubblici come “sovvenzione ecologica”, perché secondo il governo produrre elettricità dalla schifezza è ecologico, più i soldi che si possono fare rivendendo l’energia prodotta.

Più tonnellate di schifezza arrivano e più si guadagna; le scorie – già, perchè anche bruciando i rifiuti mica essi svaniscono, ne rimane circa un terzo in cenere, in parte pericolosa – vengono mandate in discarica o usate nelle costruzioni, e il resto viene polverizzato e scaricato nell’aria che respiriamo, ufficialmente entro i limiti di legge, anche se in effetti l’inceneritore del Gerbido ha già avuto parecchi incidenti e ripetuti sforamenti dei limiti (la legge prevede persino che si possano sforare i limiti per un certo numero di volte…).

Gli inceneritori sono generalmente in mano alla politica o a suoi amici; come il nostro, che attualmente è al 20% del Comune di Torino e all’80% di Iren, la megasocietà a dirigenza nominata dal PD che è privata (del PD) quando c’è da gestire l’enorme flusso di denaro che vi transita, ma pubblica quando c’è da ripagare il suo gigantesco buco da miliardi di euro. E quindi, anche l’amico Renzi ha pensato bene di dare una mano al business degli inceneritori.

Come? Beh, nel famoso decreto Sblocca Italia, attualmente in fase di conversione in legge, ha inserito all’articolo 35 una misura che dice che il governo può scegliere un numero qualsiasi di inceneritori da definire “di interesse strategico nazionale”, i quali saranno automaticamente – fuori dalle normali procedure e dalla volontà degli enti locali, che avrebbero competenza su queste cose – portati al massimo della capacità possibile e utilizzati per bruciare i rifiuti delle regioni d’Italia che non si sono attrezzate per trattarli.

Il Gerbido, per esempio, è stato autorizzato per 421.000 tonnellate l’anno, una capacità considerata congrua per smaltire tutta quella parte dei rifiuti di Torino e provincia che non viene differenziata dai cittadini. E’ sempre stato detto dagli amministratori locali che questa capacità non sarebbe stata aumentata, e che era quella per cui l’impianto era stato progettato per poter funzionare bene e senza intoppi.

Bene, adesso il governo Renzi vorrebbe d’autorità alzare questa capacità di altre 100.000 tonnellate, il che vorrebbe dire far funzionare l’impianto all’estremo delle sue forze, ben oltre quello che fino a ieri era indicato come il regime di funzionamento sicuro. Ma essendo il Gerbido un impianto già pieno di problemi, cosa succederà pompandolo al massimo?

Noi abbiamo presentato in consiglio comunale una mozione d’urgenza per chiedere che la Città si schierasse contro questo aumento, chiedendo al governo di ritirare la misura durante l’attuale discussione in Parlamento. Questo non per campanilismo, ma nell’interesse di tutta Italia, perché è antiecologico e antieconomico far viaggiare i rifiuti nei camion su e giù per lo stivale, invece di smaltirli in loco; cosa peraltro che è persino obbligata dalle direttive europee, che obbligano a privilegiare riduzione, riuso e riciclo e solo dopo a considerare l’incenerimento.

La risposta del PD è stata che in alcune parti d’Italia c’è “l’emergenza rifiuti” e dunque bisogna rendersi disponibili ad accogliere l’immondizia altrui per evitare che debba essere mandata all’estero. Eppure “l’emergenza rifiuti” non è un disastro naturale imprevedibile, come un’eruzione o un terremoto. E’ il risultato delle scelte coscienti di chi ci governa, e delle cattive abitudini di intere popolazioni mai educate dai loro politici. Dare una via d’uscita semplice permettendogli di scaricare a forza i propri rifiuti altrove è diseducativo e contribuisce a perpetuare questa situazione invece di risolverla.

Per questo noi insistiamo giorno dopo giorno con la differenziata porta a porta, facendo fiato sul collo all’amministrazione (a breve sarà discussa una mia interpellanza sui ritardi e disagi nell’adozione del porta a porta alla Crocetta) e costringendoli ad assumersi le loro responsabilità, dimostrando che la vera “emergenza” che si vuole risolvere con questo provvedimento è il debito folle di Iren, fatto per logiche poco industriali e da ripagare bruciando rifiuti a duecento euro a tonnellata. La maggioranza di Fassino ha bocciato la nostra mozione, ma noi sullo stesso punto diamo battaglia in Parlamento; e andiamo avanti.

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lunedì 6 Ottobre 2014, 12:32

Nove punti per correggere la rotta

Sono passati cinque anni dalla nascita del Movimento 5 Stelle; comunque vada a finire, saranno anni che resteranno nella storia d’Italia. E’ chiaro però che il Movimento, dopo il picco delle elezioni del 2013, sta attraversando da un anno e mezzo una fase di assestamento di cui ancora non si vede la fine. Io ho continuato in questo periodo a dare ogni tanto il mio personale e opinabile contributo su come il Movimento potrebbe migliorare la propria organizzazione e la propria strategia; i miei post sono stati molto apprezzati in rete, ma non hanno sortito alcun effetto visibile.

Va comunque sottolineato che il Movimento 5 Stelle ha ottenuto diversi risultati positivi, da una parte costruendo l’unica vera alternativa al vecchio sistema di potere, e dall’altra costringendolo comunque a un rivolgimento interno. Anche se le elezioni europee non sono andate bene, il Movimento è però vivo e vegeto; e non ci sono nella storia tante forze politiche che, dopo un improvviso successo dovuto al voto di protesta, sono riuscite la volta dopo a consolidarsi comunque su un consenso così elevato. In giro per l’Italia il lavoro continua, e arrivano un po’ ovunque risultati grandi e piccoli.

Ci sono però dei rischi e dei problemi, che non vanno nascosti; vanno affrontati costruttivamente per migliorare ancora. Ecco, dunque, nove cose che secondo me il Movimento dovrebbe fare.

1. Scegliersi le battaglie. E’ giusto, in un Movimento e in un gruppo parlamentare così grande, che si lavori su tutti i temi, ma la gente ci ha votato per fare una cosa sola: rovesciare il sistema e dare risposta al pezzo di Paese più massacrato dalla crisi. Noi dobbiamo scegliere poche battaglie coerenti con questa richiesta, a partire da quella per il reddito di cittadinanza, e battere continuamente su quelle. Tutto il resto può andare avanti, ma deve essere solo un piacevole contorno. In particolare, le questioni fortemente connotate sul piano ideologico (a partire dalle battaglie della sinistra radicale, che purtroppo diversi eletti ripropongono usando il M5S) non possono essere il nostro focus primario, o otterremo l’esito di farci connotare ideologicamente, il che sarebbe la nostra fine.

2. Tornare nelle piazze. La forza del Movimento sta nella mobilitazione popolare e questa via via si sta perdendo; in parte ciò è inevitabile, per via dei cicli naturali dell’impegno delle persone, ma in parte questo è dovuto alla scelta sbagliata di concentrare l’attenzione solo sul Parlamento, cancellando i territori e le battaglie dal basso. Tornare nelle piazze non è solo questione materiale, di piantare gazebo e bandiere, ma è questione di coinvolgimento, mobilitando i cittadini per raggiungere i pochi obiettivi prioritari di cui al punto precedente, che non otterremo mai solo con l’azione parlamentare, ma che con manifestazioni, referendum, iniziative popolari diffuse sarà molto più difficile per i partiti ignorare.

3. Attivare i cittadini. Il Movimento ha sempre detto che per cambiare l’Italia nel lungo periodo non basta cambiare i politici, ma serve cambiare il modo in cui gli italiani si approcciano alla cosa pubblica, trasformandoli il più possibile in cittadini informati ed attivi. Tuttavia, questo principio è stato velocemente dimenticato una volta entrati in Parlamento: al posto del coinvolgimento è iniziata la promozione delle facce e degli slogan dei nuovi politici del Movimento, e al posto della partecipazione sono arrivati i post sui social network “incredibile! clicca qui”.

Bravi o meno che siano, i parlamentari del M5S spesso non si comportano come portavoce ma come qualsiasi politico prima di loro, portando avanti proposte mai discusse in rete e condividendole al massimo con un gruppetto di altri eletti e attivisti amici; le votazioni online hanno riguardato solo pochi argomenti, e la stessa piattaforma Lex, pur positiva, per ora è più uno sfogatoio su proposte minori che altro. Sul territorio, i cittadini attivi si sono progressivamente dispersi in mezzo a gruppi di tifosi, adulatori a prescindere e collaboratori pagati; e l’idea di rispondere direttamente alla cittadinanza è stata rimpiazzata da gruppetti organizzati di attivisti che sempre più spesso diventano piccoli direttivi di partito, con tanto di correnti. Sia nella comunicazione che nell’azione che nell’organizzazione interna, bisogna riprendere a parlare ai cittadini attivi e intelligenti e mettere in mano a loro il Movimento, a partire dall’uso sistematico della piattaforma di votazione online.

4. Fare rete e premiare le persone. L’assunto che le persone in politica siano intercambiabili è una stupidaggine: le idee camminano sulle gambe delle persone e la qualità delle persone fa la differenza tra riuscire e fallire. I meccanismi scelti dal Movimento fanno sì che le persone valide non siano concentrate nelle posizioni di responsabilità, ma siano sparse in rete a tutti i livelli; ci sono attivisti mai eletti che hanno capacità, competenze e/o carisma comunicativo superiori a quelli di molti parlamentari.

Eppure, il Movimento non fa più rete; fuori dal livello centrale, l’unico ruolo concreto indicato ad eletti e attivisti è venire al Circo Massimo ad applaudire sette ore di comizi oppure condividere in rete i contenuti prodotti a Roma o a Milano. La collaborazione tra i diversi livelli istituzionali è scarsa se non nulla, anzi si dice che chi è eletto di qua non può nemmeno esprimere un’opinione su ciò che fanno quelli eletti di là. Il Movimento deve mettere in rete tra loro gli eletti di tutti i livelli e le persone che hanno specifiche competenze da offrire, assicurandosi che le questioni vengano trattate non gerarchicamente, ma là dove c’è la miglior capacità per farlo, e che le scelte fondamentali siano discusse e condivise nell’intero Movimento e non solo tra Grillo, Casaleggio e una manciata di parlamentari.

5. Valorizzare il dissenso. Non esiste una forza politica del 20%, ma nemmeno del 2%, in cui tutti la pensino allo stesso modo su tutto (e se esistesse sarebbe inquietante). Eppure, negli ultimi due anni si è sviluppata nel Movimento una cultura autoritaria e conformista per cui non appena si esprime una opinione diversa non solo da quella di Grillo, ma persino da quella del capetto locale, saltano su cinque persone urlanti a rispondere con attacchi personali: ti stai vendendo, sei invidioso, vattene nel PD.

Tuttavia, il dissenso è la base della democrazia ed è anche l’unico modo che permette alle organizzazioni umane di evolvere e di crescere per inclusione, anziché di isolarsi ed esaurirsi. Nel Movimento ci sono attualmente diverse aree di dissenso: chi non è contento delle posizioni “di destra” (alleanza con Farage) o “di sinistra” (reato di immigrazione, diritti LGBT, politica estera); chi vorrebbe dagli eletti un approccio più istituzionale e dialogante; chi, ed è l’area maggiore, è deluso dalla deriva antipartecipativa e accentratrice, dalle carenze e dalle piccole furberie degli eletti, dalla mancanza di una prospettiva politica chiara. Queste aree di pensiero vanno recuperate prima che abbandonino il Movimento, dando loro la legittimità di esprimersi e un modo per proporre cambiamenti di rotta da far valutare online ai cittadini.

6. Stroncare le furberie degli eletti. Il punto più dolente del Movimento oggi è la crescente deriva “all’italiana” quando si parla di candidature e di comportamento delle persone che mandiamo nelle istituzioni. Per un movimento che vuole moralizzare la politica, non è accettabile che vengano eletti parenti di altri eletti, o assunti negli staff, e nemmeno che gli eletti assumano i propri amici negli staff, senza alcun tipo di selezione meritocratica, per farli conoscere e poi candidarli e farli eleggere altrove, creando nei fatti delle cordate e dei clan che si promuovono a vicenda. Non è accettabile che manchino parecchi rendiconti sulle spese e sui conti gestiti dagli eletti, anche per cifre importanti, e che di fatto, a partire dalle elezioni europee, l’idea di autoridursi gli stipendi a cifre umane sia stata cancellata in silenzio. Non è accettabile che talvolta i parlamentari e i consiglieri regionali si comportino come dirigenti di partito, imponendo o boicottando candidature sul territorio, riconoscendo o disconoscendo gruppi locali, e facendo tutto quello che nei partiti abbiamo sempre criticato.

Nel Movimento si sta creando una struttura intermedia da partito tesa a garantirsi il controllo del movimento e anche qualche vantaggio personale, e la cosa peggiore è che chi denuncia questi comportamenti viene aggredito, deriso, isolato ed emarginato (io lo vivo sulla mia pelle). O Grillo e Casaleggio si svegliano e stroncano queste derive, oppure il Movimento subirà la stessa degenerazione partitica dei Verdi e della Lega.

7. Darsi regole chiare per uscire dal caos. Il Movimento è sempre stato caratterizzato da un elevato tasso di litigiosità. Oltre alle spaccature dovute a problemi veri come quelli del punto precedente, ci sono anche quelle dovute alla difficoltà di tollerare reciprocamente le diverse visioni, per mancanza di una cultura del dissenso. In questo momento, alcune cose nel Movimento sono normate in maniera estremamente rigida, ma su altre non c’è alcuna regola, lasciando spazio a litigi ed abusi. In più, le poche regole che ci sono sembrano cambiare di volta in volta a seconda delle convenienze e applicarsi diversamente a seconda della persona e della bontà dei suoi rapporti con lo staff (vedi il caso Defranceschi).

E’ giunto il momento di darsi delle regole chiare e delle modalità chiare per definirle dal basso, senza disconoscere il ruolo di garante di Grillo e Casaleggio ma permettendo alla rete di esprimersi anche sul funzionamento del Movimento, eliminando così alla radice le polemiche e i comportamenti inaccettabili; ed è comunque meglio avere delle procedure trasparenti e definite che la situazione attuale, in cui nei fatti si formano strutture e gerarchie non sottoposte ad alcun limite e ad alcun controllo.

8. Essere coerenti tra il dire e il fare. Parte della disaffezione di molti elettori e attivisti deriva dalla distanza tra ciò che il Movimento dice e ciò che fa, e non solo nei termini, inevitabili, di chi è deluso perché “parlano ma non concludono niente”. Oltre a tutte le incoerenze già sollevate più sopra, non è possibile predicare trasparenza e poi non pubblicare nemmeno i risultati di alcune votazioni online, né parlare di partecipazione e poi avere un sistema di votazione usato in modo non sistematico e in cui i cittadini spesso non riescono nemmeno a iscriversi e poi devono aspettare un anno per essere considerati, né parlare di software libero e poi continuare a usare piattaforme chiuse ed Excel ultimo modello per le comunicazioni interne. Bisogna sempre assicurare la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa.

9. Scegliere chi si vuole essere. Una forza politica esiste per rappresentare alcuni gruppi sociali e alcune visioni del mondo, comportandosi coerentemente ad essi; altrimenti finisce per scontentare tutti e sparire. Il Movimento 5 Stelle di oggi, tuttavia, non ha assolutamente chiaro chi vuole rappresentare. Vogliamo essere il partito forte degli incazzati, o vogliamo essere il partito dialogante della cittadinanza attiva? Vogliamo rappresentare i poveri, i giovani, i cervelli in fuga, i cinquantenni senza lavoro, i nazionalisti anti-immigrati, gli orfani della sinistra radicale, i pensionati, i dipendenti pubblici, i piccoli imprenditori…?

Come diceva Abramo Lincoln, puoi ingannare tutti per un po’ di tempo o puoi ingannare qualcuno per sempre, ma non puoi ingannare tutti per sempre: prima o poi, le persone scoprono che non sei ciò che avevi fatto intendere di essere. E’ possibile concepire un progetto politico che tenga insieme diverse di queste categorie (non tutte), ma va fatto con consapevolezza e coscienza; altrimenti, si affonda nella tattica, parlando ogni giorno del problema del giorno in maniera opposta a quella del giorno precedente, e si perisce per mancanza di strategia.

Queste, naturalmente, sono opinioni personali: e spero ancora, ricordando il Movimento delle origini, che ci sia modo di discuterne civilmente tutti insieme.

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venerdì 3 Ottobre 2014, 12:28

Fassino e la vera storia di via Roma pedonale

Ha destato sicuramente una reazione positiva, in chi è favorevole a una mobilità più sostenibile, l’annuncio fatto dal sindaco Fassino alcuni giorni fa sui giornali: la domenica ecologica che si svolgerà dopodomani sarà, come scrive Repubblica, “la prova generale della proposta che il sindaco Piero Fassino ha rilanciato a inizio settembre, durante il seminario di giunta alla Pellerina: “Dobbiamo aprire via Roma ai pedoni, e lo faremo”.”.

Tuttavia, chi conosce un po’ la politica comunale avrà senz’altro avuto qualche sospetto: come mai Fassino, più noto alle cronache cittadine come un indefesso tifoso di Marchionne e dell’industria olandese dell’auto FCA, viene improvvisamente animato dallo spirito ecologista?

Difatti, siamo al quarto anno di amministrazione di Fassino e ancora la sua giunta non è riuscita a pedonalizzare un metro di strada che sia uno; l’unico avanzamento è stato chiudere al traffico cento metri di via Durandi, davanti alla cattolica Piazza dei Mestieri, per agevolare il parcheggio e le attività ricreative di quest’ultima, salvo poi rimangiarsi tutto quando un’altra corrente di cattolici del PD, non in buoni rapporti con quella della Piazza, ha inscenato un braccio di ferro sull’argomento.

Certamente ha fatto effetto la grande mobilitazione di massa del Bike Pride, ogni anno più splendido e affollato; anche i partiti hanno realizzato che tantissima gente è stufa di vivere in una città pensata solo per le auto, e pretende che la politica agevoli anche tutti gli altri modi di vivere il territorio urbano, che siano a piedi, in bici o coi mezzi pubblici. Ma il motivo per cui improvvisamente Fassino pensa a pedonalizzare via Roma, almeno nel weekend e nel tratto tra piazza San Carlo e piazza Castello, è che sei mesi fa, come vedete nel video, il consiglio comunale ha approvato una mozione del Movimento 5 Stelle che lo impegna a fare esattamente questo.

Non che, quando un anno fa ho scritto e presentato la mozione (che inizialmente aveva richieste anche più ambiziose, che poi ho dovuto negoziare con la maggioranza), io abbia avuto un’idea particolarmente originale: di pedonalizzare via Roma si parla da trent’anni, e vi fu addirittura un referendum comunale in merito, nei lontani anni ’80. Per un certo periodo fu già chiusa al traffico nei fine settimana, poi però fu riaperta: difatti, i commercianti della via si sono sempre opposti, ritenendo che per poter acquistare i clienti debbano poter arrivare davanti alla loro vetrina in auto.

Mi sembra tuttavia evidente che, anche per il commercio, questa è una strategia perdente. Mentre quasi tutte le strade pedonalizzate hanno visto una rinascita del commercio, via Roma è andata sempre più in crisi. Certamente il motivo principale è la congiuntura economica, però a me sembra evidente che se una persona parte e viene in centro per fare acquisti è per godersi una passeggiata in un contesto aulico, e non per comodità di parcheggio; se il criterio è la comodità di parcheggio, uno si dirige piuttosto in uno dei tanti ipermercati e centri commerciali che la Città ha lasciato costruire negli ultimi anni. Avere via Roma piena di auto costantemente ferme che sgasano e fanno le vasche, mentre i pedoni almeno nel fine settimana strabordano dai portici che non sono sufficienti a contenerli, ne riduce l’attrattività, non il contrario.

Personalmente, io non sono per pedonalizzare tutto a tutti i costi; l’auto è ancora un mezzo di trasporto irrinunciabile in diverse situazioni e bisogna valutare caso per caso quale soluzione produce la migliore qualità della vita per tutti, chiedendo in primo luogo a chi in quella strada ci vive e ci lavora, senza imposizioni dall’alto. In alcuni casi, come corso De Gasperi, sono gli stessi che ci vivono a non volere la chiusura, e allora è giusto che la strada resti aperta. E’ però evidente che in tante situazioni – penso anche al primo tratto di via San Donato, dove gli stessi commercianti chiedono da anni l’isola pedonale – una strada chiusa al traffico può migliorare la vita della città.

E allora, ben venga la chiusura al traffico, e ben venga che Fassino sia costretto dalla pressione pubblica e dall’azione concreta del M5S a cambiare atteggiamento.

Dopo quattro anni, però, stiamo ancora aspettando un fantomatico piano di pedonalizzazioni con cui la giunta dovrebbe dire alla città quali strade intende pedonalizzare e quando, in modo da poterle discutere con la cittadinanza e da preparare e tranquillizzare tutti, sia chi vuole le chiusure che chi non le vuole. Pertanto, spero di vedere in futuro anche in questa materia meno annunci sui giornali, meno azioni estemporanee, più pianificazione e più fatti concreti.

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venerdì 19 Settembre 2014, 12:09

La vera storia dello stadio Olimpico

A Torino e non solo, le vicende legate agli stadi sono sinonimo di speculazione, di favoritismi e di manovre politiche sin dall’epoca della costruzione del Delle Alpi (su cui raccomando sempre l’enciclopedica trattazione dell’ex assessore Matteoli); io, da cittadino e da tifoso, me ne occupo da molto prima di fare politica.

Da consigliere comunale, sono stato uno dei pochi a dare battaglia sui regali della Continassa alla Juventus – ancora qualche mese fa la Città gli ha abbuonato una ulteriore milionata di euro, come vedete nel video – e, anche se non abbiamo potuto fermare l’operazione, siamo stati noi a scoprire e pubblicizzare il prezzo di vendita di 0,58 €/mq/anno, che poi ha girato l’Italia. Ovviamente, all’epoca mi sono beccato parecchi insulti dai tifosi della Juventus, che mi accusavano di essere accecato dal tifo, visto che notoriamente io sono tifoso del Toro e vado allo stadio da sempre.

In compenso, alcuni giorni fa ho firmato una mozione per rimettere in discussione il contratto tra il Torino FC e la Città per l’affitto dello stadio Olimpico. I giornali cittadini hanno presentato la cosa come “i consiglieri comunali vogliono aumentare l’affitto al Toro per fare cassa”, e così stavolta mi sono beccato insulti da una parte dei tifosi granata, quelli più disinformati; alcuni hanno persino provato a dire che io avevo regalato la Continassa alla Juventus…

C’è, indubbiamente, il problema di far pagare il giusto a chi utilizza un bene pubblico, che ovviamente è dovere di un amministratore; prima ancora di discutere se i 250.000 euro annui che paga il Toro – con contratto di anno in anno, a differenza degli accordi pluriennali che vigono quasi ovunque – sono pochi o tanti, va segnalato che il Toro non ha ancora saldato il dovuto per la stagione 2013-14. Inoltre, non ha pagato nemmeno la tassa rifiuti, sulla quale però ha chiesto e ottenuto uno sconto del 30 per cento sostenendo di essere un “affittuario saltuario”, né il costo del servizio straordinario dei vigili, anche quello già scontato del 50 per cento rispetto ai 100.000 euro annui iniziali.

Pertanto, noi non possiamo mandare gli ufficiali giudiziari a chi non paga la Tarsu perché non arriva a fine mese e poi chiudere un occhio per una società a fine di lucro che incassa decine di milioni di euro l’anno. Inoltre, il Comune con quello che incassa paga la manutenzione straordinaria dello stadio, che per ora è di circa 150.000 euro l’anno ma che sarà di 400.000 nel 2016, quando si dovranno rivedere i tiranti. Il Toro paga la manutenzione ordinaria, come chiunque affitti un immobile; Cairo ha sparato una cifra di 1.300.000 euro annui, ma andando a vedere pare che ci sia dentro pure mezzo milione di euro di bolletta della luce e altre voci che con la manutenzione c’entrano poco.

La vera questione, però, è un’altra: non è tanto importante quanto si incassa oggi, ma è importante per la città che ci sia un progetto a lungo termine relativo all’area dell’Olimpico. Anzi, è importante soprattutto per il Toro, perché al giorno d’oggi tutte le società che ambiscono a stare in alto si stanno muovendo per avere uno stadio di proprietà, come ha già fatto la Juventus. Difatti, anche depurato dalle regalie urbanistiche aggiuntive che la squadra degli Agnelli ha avuto in abbondanza, lo stadio di proprietà permette di moltiplicare le entrate relative ai servizi ai tifosi, al marketing e al merchandising in senso lato.

Se il Toro non si mette in quest’ottica, non potrà avere un futuro all’altezza, o perlomeno sarà sempre svantaggiato rispetto alle altre squadre dalla mancanza di una fonte di ricavi cospicui. Per questo è giusto pretendere da Cairo un impegno a non vivere alla giornata, a non andare avanti affittando lo stadio di stagione in stagione, barboneggiando ventimila euro di sconto e ritardando i pagamenti finché si può, ma ad avere invece un progetto di lungo termine per far crescere e sopravvivere il Toro ad alti livelli, un progetto che – oltre magari a non vendere i giocatori migliori ogni anno per fare cassa – non può in ogni caso prescindere dall’avere il proprio stadio, con un contratto e un progetto di lunga durata. Dovrebbero essere proprio i tifosi i primi a pretenderlo, e non soltanto il consiglio comunale.

La situazione attuale, invece, combacia se mai proprio con quell’accordo al ribasso che tanti ipotizzano, quello per cui Cairo ha preso il Toro anche per risolvere un problema di ordine pubblico all’elite cittadina, ma sapendo di non dover rompere troppo le scatole alla squadra a strisce, coi cui proprietari peraltro ha successivamente imbastito ottimi affari calcistici e non (vedi l’ingresso in RCS).

Anche la vicenda della ristrutturazione dell’Olimpico, come quella del Delle Alpi, è uno scandalo italiano: doveva farla Cimminelli, ex proprietario del Toro e fornitore Fiat, che però è fallito permettendo alla Fiat stessa di acquistare la sua azienda per un euro, lasciando a noi le spese. La collettività ha infatti sborsato 45 milioni di euro per ristrutturare lo stadio in ottica olimpica, pessima però per il calcio; per cui ora il Comune, oltre alla manutenzione straordinaria, continua a pagare anche 1.200.000 euro l’anno di mutuo contratto per sostenere la spesa, per uno stadio comunque poco adatto allo scopo. Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha ipotecato lo stadio per 38 milioni di euro per le tasse non pagate da Cimminelli, e tuttora non si sa chi pagherà per togliere queste ipoteche, che impediscono qualsiasi operazione.

Questi sì sono scandali, a danno del Toro e a vantaggio dei soliti noti, che la politica cittadina ha attivamente consentito se non promosso; tuttavia, ciò non ci permette di accettare che il Torino FC, che non è solo una società privata ma una entità con un grande valore collettivo sociale e culturale, continui a vivacchiare rassegnandosi a un progressivo declino.

Chiudo con un’ultima nota: con grande eleganza, Cairo ha risposto alla questione tirando in ballo i (presunti) 80.000 euro che “spende” ogni anno per biglietti omaggio al Comune (sindaco, assessori e consiglieri). Come sapete, noi rifiutiamo questi privilegi, e io continuo ad andare in curva ogni volta facendo la fila e comprando il biglietto di tasca mia; è però vero che la maggior parte dei miei colleghi utilizza gli omaggi, e l’uscita di Cairo dimostra come questi privilegi della politica siano pericolosi, perché permettono poi ai privati di esercitare un ricatto morale.

Pertanto, ieri in commissione mi sono permesso di fare una semplice proposta: visto che per Cairo è un problema dare quei biglietti, la Città vi rinunci e in cambio si faccia dare questi 80.000 euro annui in contanti, destinandoli poi a qualcosa di più utile, ad esempio al welfare comunale. La proposta è piaciuta a tutti, anche se dubito molto che poi sarà veramente portata avanti dall’amministrazione; ma chissà mai che per una volta la politica cittadina, anche quella abituata a vendersi per due noccioline, non abbia uno scatto di dignità.

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domenica 27 Luglio 2014, 15:04

Lettera da un “razzista” a un antirazzista

Caro Carlo Gubitosa,

ti ringrazio per avere messo giù dettagliatamente tutte le tue osservazioni a quello che ho scritto l’altro giorno su Facebook sul CIE di Torino, aprendo così una discussione sul tema che, visti i commenti al mio post, è quanto mai necessaria; capisco anche che la cosa richieda da parte tua un certo coraggio, visto che impieghi cinque paragrafi di premessa per giustificare come mai tu accetti di parlare con un razzista a cinque stelle come me :-) Il problema principale, tuttavia, è che per buona parte del tuo articolo commenti cose che io non ho detto e non penso, ma ne parleremo nel dettaglio.

Il mio post, difatti, non è l’esposizione di una linea politica sull’immigrazione, ma il riassunto dei fatti che avvengono nel CIE di corso Brunelleschi e che sono stati raccontati nell’articolo di Quotidiano Piemontese che stavo commentando. Tra l’altro, QP è una testata locale di cui conosco personalmente direzione e redazione e che è tra le più serie e affidabili della città, come e più dei quotidiani.

Inoltre, fatti simili mi sono stati raccontati personalmente lo scorso autunno, quando sono andato in sopralluogo consiliare al CIE, direttamente dalle forze dell’ordine e dai volontari della Croce Rossa che ci lavorano dentro; peraltro gli stessi ragazzi dei centri sociali rivendicano abbastanza apertamente la loro opera di sostegno alle rivolte nel CIE, funzionale alla loro idea che i CIE siano lager da eliminare con la lotta.

Insomma, non capisco lo scandalo per avere riportato quella che è una realtà conosciuta da tutti quelli che seguono da vicino il CIE di corso Brunelleschi, compresi gli abitanti esasperati delle case circostanti, che hanno raccontato come alle due di notte vengano regolarmente svegliati dall’apparizione del centro sociale petardi alla mano.

O meglio, lo capisco in quanto sull’immigrazione da anni si svolge uno scontro tre metri sopra il cielo tra ideologie contrapposte, quella di chi dice che gli immigrati sono tutti buoni, compresi quelli che delinquono (povere vittime, scappano dalla fame, lo fanno per sopravvivere, sono sfruttati dagli italiani ecc.), e vanno fatti entrare in Italia senza limiti, e quella di chi dice che gli immigrati sono tutti cattivi e vanno cacciati a pedate, ovviamente dopo averli sfruttati il più possibile facendoli lavorare in nero e senza garanzie.

Ciascuna delle due parti si rifiuta di accettare l’esistenza nella realtà di fatti che smentiscano la propria posizione, e propone dunque politiche migratorie totalmente slegate dalla realtà dei fatti e quindi destinate al fallimento; e così siamo andati avanti per oltre vent’anni senza mai riuscire a gestire decentemente i problemi sociali connessi all’immigrazione di massa, che pure, come altri hanno ricordato nella discussione, molti altri paesi europei hanno accolto e gestito da ben prima di noi e con numeri ben superiori.

Certo, a questo punto mi viene da chiedere se negli altri Paesi europei, quelli già multietnici e integrati, le frontiere sono aperte a tutti gli aspiranti immigrati (no, bisogna avere un visto e chi non ce l’ha viene fermato ed espulso) e se ci sono i CIE (sì, ci sono, e dove non ci sono si usano direttamente le prigioni). Prova ad andare in Inghilterra o in Germania senza visto e senza documenti, senza essere un rifugiato politico, e vedi se ti trattano diversamente che in Italia.

Sicuramente nei loro CIE non ci sono disorganizzazione, mancanza di fondi e onesti cittadini locali con agganci politici che ci speculano sopra come succede in Italia, ma questo non toglie che in qualsiasi Paese europeo, se tu vieni trovato senza visto e/o senza documenti, vieni fermato, identificato e infine espulso; e, aggiungo io, la certezza delle regole, che loro hanno e noi no, aiuta parecchio anche l’integrazione, sia nella percezione da parte degli abitanti del posto che c’è qualche forma di controllo su chi arriva, sia nella percezione di chi arriva sull’opportunità di rispettare le leggi del posto in cui è giunto.

Comunque, questa frontiera ideologica che divide il mondo in due soli colori – da una parte chi vuole chiudere i CIE e aprire le frontiere senza condizioni, dall’altra “i razzisti” – è quella che spesso impedisce alle persone come te, pur animate dalle migliori intenzioni, di vedere la realtà. Per esempio, già all’inizio tu tiri in ballo i rom della Continassa, che non si capisce cosa c’entrino coi CIE, per provare che Torino è una città piena de “i razzisti”, che vanno a bruciare i rom per via di una falsa notizia letta sul giornale degli Agnelli. Io ti faccio notare che quelli che hanno bruciato le baracche erano ultrà della Juventus, e che anche grazie a quell’episodio due mesi dopo il consiglio comunale ha approvato tra gli applausi (noi esclusi) una “riqualificazione” che ha concesso quei terreni alla Juventus, cioè agli Agnelli, per 0,58 euro al mq all’anno, per realizzarci una lucrosa mega-operazione immobiliare; ma gli “antirazzisti” sono troppo presi a puntare il dito contro “i razzisti”, che vedono ovunque, per capire cosa succede veramente.

La coperta si estende anche alle parole; per esempio, tu mi dici, non bisogna usare il termine “clandestino” – che è, semplicemente, una parola come un’altra per indicare la condizione di chi si trova in un Paese senza averne titolo, e non implica affatto che chi la usa abbia la torcia in mano per andare a bruciare i rom – ma “irregolare”. Queste sono le battaglie che fanno impazzire di entusiasmo la sinistra italiana: quelle sulle parole. In effetti, dopo vent’anni la sinistra ha conseguito una grande vittoria: non si parla più di “immigrati” ma di “migranti”. Poi, nonostante numerosi governi di centrosinistra, i “migranti” continuano a essere trattati esattamente come quando erano “immigrati” e le tensioni sociali sono più alte che mai, ma la sinistra ha conseguito una grande vittoria a parole.

Ora, torniamo ai fatti raccontati nell’articolo di QP e riassunti nel mio post. L’articolo menziona esplicitamente che i “migranti irregolari” protagonisti della rivolta avevano diversi precedenti penali, che è quello che ho scritto; anche quando ho visitato il CIE, i lavoratori ci avevano raccontato che tipicamente le rivolte partono dagli immigrati con precedenti penali che finiscono nei CIE perché non hanno un lavoro regolare in quanto delinquenti, e che questa categoria costituisce una parte significativa degli ospiti del CIE, contrariamente a quanto spesso pensa l’opinione pubblica, che crede che nei CIE ci finiscano quelli appena sbarcati da Lampedusa.

Io non ho scritto da nessuna parte, come tu asserisci, che “più immigrazione uguale più criminalità”. Penso che la criminalità sia in aumento, sia da parte degli italiani che degli immigrati, perché abbiamo rinunciato a mantenere la legalità e, grazie a Berlusconi e ai suoi alleati del PD, abbiamo distrutto la giustizia, depenalizzato, amnistiato, e affamato le forze dell’ordine, che non sono tutte come quelle che vengono a manganellare in Valsusa; per la maggior parte si tratta di gente che rischia la vita per la collettività per uno stipendio da fame.

Ti faccio notare che la tua statistica che dice che i reati non sono in aumento si ferma al 2003, e che credo che le cose siano molto cambiate negli ultimi anni, anche perché se provi a denunciare un microreato urbano spesso è la stessa polizia che ti manda via dicendo che non serve a niente, dunque tra reati denunciati e reati effettivi c’è una certa differenza. Tuttavia, non penso che l’aumento della microcriminalità sia legato agli immigrati. Al massimo, potrebbe essere diverso il tipo di criminalità: gli immigrati rubano i portafogli sul pullman, gli italiani rubano nella dichiarazione dei redditi, e i primi sono più visibili dei secondi. Al massimo, l’incremento della criminalità può essere legato – in subordine a quanto detto sopra, che è il fattore principale, e alla crisi economica – alla mancanza di politiche efficaci per l’integrazione, che mancano perché noi siamo ancora qui a discutere se chi non vuole bruciare i CIE è uno de “i razzisti” oppure no.

Quanto al tuo invito a considerare che nei CIE potrebbero esserci anche persone che non hanno fatto niente, non ce n’è bisogno perché lo so già; quando sono entrato in corso Brunelleschi, c’era una povera signora cinese che era stata spedita in Italia, aveva lavorato come schiava in un laboratorio cland… scusa, irregolare, e poi era stata trovata e messa nel CIE. Tuttavia, non sono questi quelli che avviano le rivolte descritte nell’articolo di cui stavo parlando, ovvero il soggetto del punto 1 del post.

Veniamo alla scheda telefonica: nel CIE, agli ospiti (detenuti? qual è la parola che devo usare per non essere chiamato razzista?) viene concesso di tenere un telefonino, purché senza fotocamera, e viene concesso di spedire i volontari della Croce Rossa a comprare le ricariche dal tabacchino di fronte, pagandole coi 3,50 euro di diaria che ricevono. Questo è un dato di fatto, anche questo raccontatoci durante la visita al CIE da chi lo gestisce. A me sembra giusto che chi viene detenuto in una struttura possa telefonare, sembra solo assurdo che possa telefonare per organizzare una rivolta, ma non saprei nemmeno come fare per impedirlo.

Anche il fatto dei contatti telefonici tra alcuni detenuti e il centro sociale di zona, con conseguente lancio di materiale atto alle rivolte da fuori a dentro il muro, ci è stato raccontato all’epoca; ho anche la foto (è nel post di novembre che ho linkato più sopra) di una cancellata di ferro tagliata durante un tentativo di fuga e poi rattoppata, e dato che non puoi portarti dentro il CIE uno strumento atto a tagliare una spessa cancellata di ferro, mi pare più che credibile che qualcuno gliel’abbia lanciato dentro (l’alternativa è che gliel’abbia dato la Croce Rossa, se preferisci).

Ora, capisco che per gli antirazzisti la polizia italiana e la Croce Rossa facciano senz’altro parte in blocco de “i razzisti” e dunque mentano, però le cose raccontate, confermate a molto tempo di distanza dall’articolo di Quotidiano Piemontese, mi sembrano perlomeno molto credibili; per smentirle vorrei qualcosa di più che una invettiva sul mio razzismo, non suffragata da alcun dato di fatto e piena di cose che non ho detto.

Veniamo infine alla questione politica. Ovviamente non esiste un complotto organizzato per cui il politico di sinistra chiama il centro sociale e organizza una rivolta al CIE. Se mai, esistono forze politiche, da SEL a FDS, che strumentalizzano qualsiasi occasione possibile, a partire da queste rivolte, per ripetere “votate per noi perchè gli altri sono tutti razzisti”, e vivacchiano facendo di questo uno dei propri punti qualificanti per ottenere voti e poltrone.

Peraltro, a giudicare dagli ultimi risultati elettorali, direi che ne ottengono anche pochi, e che questo atteggiamento sull’immigrazione è una delle cause primarie della sparizione della sinistra in Italia. E scusami se su questo mi incazzo e reagisco con post come quello di cui parliamo, un po’ tranchant, lo ammetto. Mi incazzo perché io nella sinistra ci sono cresciuto culturalmente e perché l’ho votata più e più volte, l’ultima ancora alle europee del 2009 – mentre il resto del mio partito, compresi quelli che ora vengono a dirmi che sono la vergogna del M5S e parte de “i razzisti”, votava per Giggino ‘O Manetta perché ci vuole ordine e disciplina – per sostenere una persona conosciuta direttamente che mi aveva molto ben impressionato, Ciro Argentino. Mi incazzo perché, fino a un po’ di anni fa, nella sinistra ci credevo, prima che si suicidasse da sola.

Insomma, la sinistra italiana è andata a puttane anche perché passava il tempo a dare dei razzisti a tutti gli altri, invece di contribuire a una soluzione razionale e concreta dei problemi che l’immigrazione crea, inevitabilmente e normalmente. Ma i problemi sono sotto gli occhi di tutti, e gli italiani vorrebbero vedere delle soluzioni; è proprio la mancanza di soluzioni che li fa diventare sempre più razzisti. Gli italiani non vogliono schierarsi tra un politico che grida “immigrati merde umane al rogo” e uno che grida “immigrati poverini venite tutti qui a milioni”, vorrebbero che chi viene qui per lavorare venisse accolto, protetto e integrato, mentre chi viene qui e delinque, spaccia, picchia il controllore che gli chiede il biglietto, venisse mandato via. Vorrebbero che anche gli immigrati fossero trattati da individui, in funzione di come si comportano individualmente, invece che come categoria astratta funzionale a una bella litigata a Ballarò. Non mi pare che chiedano troppo.

Ah, quanto ai CIE, io sono favorevole a chiuderli, e l’ho detto in tutte le salse; per questo mi sono stupito quando tu, invece di cogliere con me l’ennesima dimostrazione del fatto che i CIE non servono a niente – né per chi vuole più immigrazione, né per chi ne vuole di meno – ti sei messo ad accusarmi di razzismo. Peraltro, il brano di rapporto che tu citi a fine articolo non dice di chiudere i CIE e aprire le frontiere, dice di chiudere i CIE identificando gli “irregolari” in prigione; cosa che non si può più fare dopo avere abolito il reato di clandestinità.

Comunque, io sono favorevole a trovare una soluzione alternativa che permetta di gestire l’identificazione e l’espulsione di chi non ha titolo di restare in Italia in modo più umano. Non sono però favorevole a chiudere i CIE senza alternative, e non sono favorevole a farmi prendere in giro dal centrosinistra; per questo, quando mesi fa il consiglio comunale voleva “decidere di chiudere il CIE-lager e lasciare tutti liberi”, dopo che alcune mie proposte migliorative sono state respinte, ho votato contro.

Noto che dopo mesi è successo esattamente quello che avevo previsto all’epoca, cioè che i partiti che hanno proposto e votato quella mozione, pur essendo al governo nazionale, comunale e ora anche regionale, non hanno chiuso il CIE. Hanno preso in giro innanzi tutto te che hai particolarmente a cuore la sorte degli immigrati. Ma tu, a quanto pare, sei contento di farti prendere in giro, basta che ogni tanto ti diano un “razzista” da additare.

P.S. Inoltre, io sono anche un po’ stufo di sentirmi dare gratuitamente del razzista in pubblico, avendo anche una onorabilità da difendere. In particolare, sono stufo di trovarmi addirittura colleghi di Movimento che vengono sotto i miei post a promettere la mia espulsione.

Difatti, su questa materia non esistono posizioni nazionali del Movimento, dato che nel programma non se ne parla e che (salvo un solo caso) non ci sono stati pronunciamenti della rete; esistono posizioni individuali molto variegate, ma tutte legittime fin tanto che non escono dalla civiltà, dalla pace e dalla democrazia. Pertanto tutte le posizioni su questo argomento si intendono prese a titolo personale, e ognuno può legittimamente dire la propria.

Ora, io vorrei proprio sapere una volta per tutte se questa cosa è cambiata, e se invece l’unica posizione ammessa nel Movimento è quella che passa il tempo a cercare “i razzisti” in chiunque sollevi qualsiasi problema sull’immigrazione, perché sarebbe onesto dirlo chiaramente agli attivisti, ai portavoce e agli elettori che non la condividono.

Sono ancora più perplesso se sotto il mio post mi trovo un collega di Movimento che, oltre a chiedere la mia espulsione in quanto razzista, aggiunge affermazioni come “quelli della Croce Rossa sono sbirri infami” e “io raderei al suolo Israele”. Ecco, se mai queste sono posizioni che secondo me esulano dalla civiltà, dalla pace e dalla democrazia, e forse sarebbe ora di chiedersi se queste persone, invece che io, sono compatibili col Movimento 5 Stelle: credo sarebbe giusto per tutti saperlo.

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mercoledì 25 Giugno 2014, 10:35

Cara Paris Hilton

Cara Paris Hilton,

sono in uno dei tuoi albergoni non per mia scelta, e bisogna ammettere che è un bell’albergone, a posto con tutti gli standard internazionali che ci si aspettano da esso, anche se in qualche parte è piuttosto consumato.

Certo, già non ero completamente contento per l’attesa al check-in la prima sera, e poi esprimo il mio disappunto dopo che la stanza che mi avete dato, pur molto bella, si trova in un corridoio il cui altro lato (tre o quattro stanze) è interamente occupato da una tremenda famiglia che viene da qualche paese arabo non meglio precisato. La famiglia è costituita dal maschio, un tizio trentenne tamarrissimo, pieno di gel e camicie eleganti e di altri modi di dimostrare che i soldi gli escono fin dal sedere; da tre o quattro mogli, che tendenzialmente non escono mai dalla stanza se non completamente coperte dal burqa e che non possono uscire da sole né, a maggior ragione, prendere l’ascensore insieme a me (piuttosto mi fanno andare da solo); da un paio di suocere a caso, principalmente dirette al controllo dei figli; e da circa centodiciotto bambini e bambine tra i due e gli otto anni, che passano tutto il tempo a correre nel corridoio, picchiare sulle porte, rotolarsi per terra, tirarsi addosso vari iPhone e iPad (ne hanno almeno un paio a testa), riempire il tappeto di immondizia tirata a caso (anche dal maschio alfa e dai suoi residui di cibo in camera, a dire il vero), a urlare le proprie emozioni in una lingua incomprensibile e, in generale, a tagliare con energia le radici cristiane dell’Europa. Dai tuoi clienti mi aspetterei un certo standard di comportamento, tanto più a Londra, per cui scusami se prendo un po’ sul personale la situazione, a cui cerco di rimediare mettendo ad alto volume la televisione sulle partite del Mondiale, in modo che i bambini imparino almeno un po’ di radici cristiane dell’Europa.

(In generale, fare un giro nei tuoi alberghi è molto istruttivo per capire che spesso alla ricchezza non corrisponde l’intelligenza, anzi: spesso più sono ricchi e più sono scimuniti. Ieri in ascensore c’era una tipa tutta imbellettata che sfoggiava dei tacchi di mezzo metro; quando l’ascensore è partito lei ha perso l’equilibrio, è caduta da sola all’indietro, ha fatto un grido e poi ha detto a voce alta, parlando a se stessa, “che spavento, pensavo che qualcuno mi avesse aggreditaâ€.)

Comunque, non era di questo che volevo parlarti. E’ che facendo la doccia ho utilizzato il microscopico boccettino di “body wash†che mi hai cortesemente messo a disposizione (cortesemente una mazza, con quel che deve costare questa stanza: potevi almeno darmene due). Va bene, il contenuto ha un buon profumo di limone, però ha un problema: è pieno di microscopici pezzettini di plastica dura. Mi sono documentato su Internet e pare che non sia un caso, anzi, si tratti dell’ultimo ritrovato dell’industria cosmetica, un settore mai abbastanza ringraziato per il suo innegabile contributo allo sviluppo della scienza umana, per attribuire ai propri prodotti nuove e miracolose proprietà curative. Parrebbe dunque che i pezzetti di plastica siano concepiti per grattarmi la pelle mentre mi lavo, e questo dovrebbe farmi stare meglio.

Ora, questa roba mi pare piuttosto improbabile di suo, e devo anzi dirti che mi fa un po’ senso, e che non trovo affatto piacevole cospargermi il corpo di pezzettini di plastica dura e di infilarmeli un po’ dappertutto, specialmente mentre mi lavo le parti più intime, là dove non batte mai il sole. Ma soprattutto, dopo che questi pezzettini di plastica sono stati per qualche secondo sulla mia pelle e hanno esercitato una funzione curativa più o meno pari a quella che otterrei se prendessi uno dei miei vecchi vinili e me lo frantumassi in testa, finiscono giù nello scarico e di lì nelle acque di tutto il pianeta.

E francamente non vedo proprio il motivo di spargere dei pezzettini microscopici di plastica, quasi impossibili da filtrare e da smaltire, nell’acqua di tutto il pianeta, solo perché qualche marchettaro ha deciso che così avrebbe potuto far sembrare più figo lo stesso sapone liquido al limone che trovo al discount per un euro al bottiglione.

Quindi, ti prego, capisco le tue esigenze di mantenere la pretenziosità dei tuoi alberghi, di modo che tutte le famiglie arabe piene di soldi continuino a frequentarli, ma almeno evita di inquinare mezzo pianeta per una simile stronzata.

Ciao,

P.S. E per favore fai una figlia e chiamala London, così la prossima volta posso scrivere alla città giusta.

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