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mercoledì 19 Febbraio 2014, 19:07

CIE, chiudiamo la demagogia

Il mio voto negativo alla mozione di SEL e PD sui CIE ha fatto molto discutere, e dunque ci torno sopra, anche se la mia posizione era precisa e già discussa in rete tre settimane fa; ma evidentemente ancora non è chiara.

Potete vedere nel video quello che ho veramente detto in aula. In breve, io condivido l’idea di chiudere i CIE, sia perché disumani che perché inefficienti, ma credo che i flussi migratori vadano regolati e dunque che ci sia bisogno di garantire che chi non è in regola vada espulso: è inutile darsi delle regole per entrare in Italia se poi non le si fa rispettare. Ho detto che avrei votato favorevolmente se i proponenti della mozione avessero accolto questa precisazione, che ho presentato come emendamento, ma loro hanno rifiutato e dunque ho votato contro, come avrei votato contro a una mozione altrettanto ideologica presentata dal centrodestra.

La mozione di ieri, peraltro, non decideva nulla, semplicemente perché non è il Comune a decidere se chiudere o meno i CIE. Vedrete che tra sei mesi il CIE di corso Brunelleschi sarà ancora lì (la prefettura ha pubblicato da poco la gara d’appalto per la gestione per il prossimo triennio…); se non lo sarà, sarà perché il governo ha deciso di fare qualche manovra ad effetto, salvo poi rifare una cosa simile con un altro nome da qualche altra parte.

Difatti, non esiste alcun Paese che sia privo di un modo per allontanare forzatamente chi non è in regola, e se questo modo non ci fosse il risultato sarebbe uno solo, ovvero le frontiere aperte per tutti; giacché non esiste un immigrato che se ne vada semplicemente perché riceve un foglio che gli dice di andarsene. E io credo che le frontiere aperte per tutti, tanto più in un momento di crisi, portino solo guerra tra poveri, sfruttamento e ulteriore razzismo.

E’ decisamente scorretto, come ha fatto Repubblica in questo articolo, scrivere che il M5S si schiera contro la chiusura dei CIE e basta, senza riportare che io – come vedete nel video – ho detto chiaramente di volerne la chiusura. Il Fatto Quotidiano spiega meglio, almeno nell’occhiello, che io sono favorevole alla chiusura ma contrario a una mozione che non presenta prospettive per gestire l’immigrazione, se non quella di rinunciare a porre qualsiasi regola all’immigrazione. Repubblica fa disinformazione contro il M5S, ma questa non è nemmeno una notizia.

Questa mozione è pura demagogia, come lo è praticamente tutto quello che i partiti, di destra e di sinistra, hanno detto e fatto in vent’anni sull’immigrazione, portandoci alla situazione che vediamo, e che danneggia in primo luogo gli immigrati regolari. Lo prova l’unico confronto che ho potuto avere con i proponenti, in particolare col capogruppo Curto di SEL, tra ieri e stamattina sulla sua bacheca Facebook (difatti non hanno nemmeno voluto discutere la mozione in commissione, portandola direttamente al voto in aula).

Alla fine, gli ho chiesto quali sono i Paesi che per loro sono il modello di politiche sull’immigrazione, quelli che puntano sugli immigrati per la crescita economica aprendogli le porte. La risposta è stata “i paesi sudamericani” e “la Francia e il centro Europa”, seguita da altri che dicevano “gli Stati Uniti”, “l’Inghilterra”, “la Spagna”.

Peccato che questi siano tutti Paesi in cui se ti azzardi a entrare senza visto vieni buttato fuori senza tanti complimenti; in Francia e in Spagna vige la stessa direttiva europea che la mozione definiva “una violazione inqualificabile dei diritti umani” e ci sono i CIE, anche più grossi dei nostri, mentre in Germania c’è direttamente la prigione; e negli Stati Uniti basta il sospetto che tu voglia lavorare illegalmente per farti finire in prigione e poi su un volo di ritorno. Non so quali siano i Paesi sudamericani che sogna Curto, ma pure lì devi avere un visto che dipende da chi sei e da cosa vuoi fare, e se non ce l’hai e ti beccano ti allontanano a forza.

Insomma, alla fine questa società fantastica in cui tutti i poveri del mondo entrano senza limiti e prosperano senza confini nella soddisfazione generale – una società per cui tutti potremmo fare la firma – non esiste se non nella loro testa, e come strumento di campagna elettorale demagogica. E io, mi spiace, non sono disposto ad unirmi al coro della demagogia sull’immigrazione, né in una direzione né nell’altra; e sarebbe davvero ora che così facessimo tutti.

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martedì 18 Febbraio 2014, 18:58

Addio 13, addio Hermada

Da un paio di mesi, la vita degli utenti dei mezzi pubblici della Circoscrizione 4 è stata radicalmente stravolta: il tram, che attraversava il quartiere praticamente dall’inizio della sua esistenza, è stato eliminato e sostituito con autobus.

Naturalmente, il passaggio della linea 13 da tram a bus è stato secondo l’amministrazione comunale un gran passo avanti, perché finalmente i disabili e gli anziani che erano impossibilitati a salire sui vecchi tram arancioni della serie 2800 possono ora usufruire di comodi pullman a pianale ribassato. Hanno provato a sostenere questa linea per qualche giorno, poi la gente si è accorta della presa in giro e ha cominciato a protestare. Perché?

Beh, innanzi tutto la millantata accessibilità non esiste, perché il 13 fermava e continua a fermare su isole spartitraffico di mezzo metro in mezzo alla strada, sempre piene di gente, o in posti dove il bus non riesce comunque ad accostare; c’è addirittura un dettagliato reportage di un sito specializzato. E come abbiamo appurato, non esiste alcun piano per adeguare le fermate.

In compenso, il passaggio da tram a bus è coinciso con un vero dimezzamento dei passaggi: su una delle linee di forza, un tempo “lineapiù” talmente era frequentata, dove prima c’era un tram ogni 7 minuti ora c’è un bus ogni 14. Lo dimostrano le foto scattate direttamente dagli abitanti del quartiere:

E il bello è che si sono pure vantati di avere “intensificato” i passaggi nel tratto centrale, da piazza Statuto alla Gran Madre, istituendo la linea tranviara 13 barrato, cosa che avevamo già suggerito noi un anno fa con una interpellanza. Ma noi suggerivamo di aggiungere dei mezzi nel tratto centrale, non di toglierli nel tratto periferico… Oltretutto non riescono nemmeno a gestirne con regolarità i passaggi, per cui capita regolarmente anche in centro di aspettare a lungo per poi salire su un 13 strapieno e vedere poi passare un 13 barrato completamente vuoto subito dietro.

Il risultato sono tram vuoti e bus sempre strapieni, anche in ore non di picco; e visto che oltretutto usano mezzi da 18 metri, che oltre a fare fatica a ogni svolta e pure ad andare diritto nel budello di via Nicola Fabrizi hanno spazi interni ridottissimi in cui non ci si muove, alle fermate più frequentate partono gli spintoni tra chi cerca di salire e chi cerca di scendere.

In aggiunta, vi sono poi stati altri tagli; il 65 è stato reso inutile troncandolo in piazza Bernini, dirottando altra gente sul 13; il 40 non collega più l’Alta Parella con la metropolitana e il mercato di corso Brunelleschi, e da via Servais si può solo più andare in centro col bus; e dall’altra parte della città è stato tagliato anche il capolinea del 3 in piazza Hermada, costringendo chi abita in quella zona ad aspettare il 75 per fare due fermate e poi prendere il tram.

L’intera operazione è stata dunque gestita in modo approssimativo, badando soltanto a minimizzare i danni di immagine, ma di fatto segnando l’abbandono di un mezzo ecologico, comodo e durevole come il tram, tra l’altro su binari in parte rifatti da pochissimi anni con grande spesa (che non si riesce a sapere), e rendendo notevolmente meno allettante il servizio pubblico in zone di Torino molto popolate.

Noi abbiamo presentato la nostra brava ed ennesima interpellanza e abbiamo perlomeno costretto l’assessore a una lunga spiegazione in consiglio comunale, che vedete nel video (il nostro intervento inizia al quindicesimo minuto). Alla fine sono venuti fuori i veri problemi: non ci sono più tram, perché i tram serie 7000 comprati trent’anni fa da Novelli per il 3 sono inutilizzabili (i tram normalmente ne durano almeno cinquanta), e non si è mai provveduto a mettere da parte i soldi per comprarne di nuovi; e adesso non ci sono più soldi.

E qui parte lo scaricabarile: il Comune dice che è colpa della Regione, la Regione dice che è colpa dello Stato, lo Stato dice che è colpa degli italiani che non pagano le tasse e non lavorano perché sono “choosy” e giù di lì. Nessuno pretende la bacchetta magica, però GTT resta una società che ha un dirigente o quadro ogni quattro o cinque lavoratori operativi, offre 5500 giornate l’anno di permesso sindacale ai sindacalisti della triplice, assume un sacco di parenti e sospende il servizio per far andare i dipendenti a sorvegliare i seggi per i partiti (essenzialmente) del centrosinistra.

Già solo cambiando l’andazzo qualche risorsa si potrebbe recuperare, e invece qual è la soluzione di Fassino? Venderla all’amico Moretti perché nulla cambi…

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martedì 11 Febbraio 2014, 16:49

Tares, disorganizzazione sulla pelle dei cittadini

A dicembre più o meno tutti i torinesi furono investiti dal ciclone Tares. Entro il 16 dicembre bisognava pagare una tassa costosa e complicatissima da calcolare (come avevamo già denunciato) e obbligatoriamente da versare col modello F24 indicando un numero di atto fornito dal Comune sui bollettini, ma i bollettini a centinaia di migliaia di persone il giorno della scadenza non erano ancora arrivati. Il Comune disse che la tassa si poteva pagare “nei giorni immediatamente successivi” senza dire quanti, ma una parte della tassa era diretta allo Stato e il Comune non aveva il potere di rimandarla.

Bisogna dire che il caos fu tale (e distribuito un po’ in tutta Italia) che poi lo Stato spostò d’autorità la scadenza al 24 gennaio, per cui multe per il ritardo non dovrebbero arrivare a nessuno. Tuttavia, in quei giorni gli uffici comunali preposti, in corso Racconigi, furono presi d’assalto in ogni modo (di persona, al telefono, per e-mail), e nonostante l’impegno di chi ci lavora furono sommersi, con code che uscivano dal portone d’ingresso.

In più, si verificò ogni genere di problema: in particolare, la tassa dipende pesantemente dal numero di persone che abitano nell’appartamento, ma sul bollettino non era indicato il numero di occupanti risultante al Comune, per cui era molto difficile verificarne la correttezza (il mio ad esempio era sbagliato, ma me ne sono accorto solo facendo le prove con le formule riportate sui bollettini e vedendo se il totale corrispondeva). Per gli appartamenti sfitti o tenuti a disposizione, bisognava comunicare al Comune il numero di occupanti altrimenti ne sarebbero stati attribuiti due, anche per case sostanzialmente inutilizzate e che non producono immondizia; ma quasi nessuno lo sapeva.

Noi abbiamo presentato una interpellanza per chiedere spiegazioni sull’accaduto; nel video trovate la risposta dell’assessore Passoni (per lui inviare i bollettini lunedì 9 dicembre per la scadenza del 16 non è tardi…). Abbiamo voluto fare anche delle proposte: per esempio, perché il numero di occupanti attribuito all’appartamento non viene esplicitamente indicato sui bollettini, in modo da permettere un facile controllo? E perché i bollettini – che il sistema informatico del Comune già genera in formato PDF, per poi mandarli alla stampa e imbustamento – non vengono inviati per posta elettronica certificata a chi lo chiede? Così risparmieremmo tutti tempo e denaro e ci sarebbe anche la prova dell’avvenuto invio.

La tassa sui rifiuti è un tema complesso, su cui noi abbiamo anche proposto e ottenuto diversi miglioramenti; dopo cinque anni di pausa e dopo tre anni di nostre pressioni, in queste settimane è finalmente ricominciata l’estensione della raccolta differenziata porta a porta, abbracciando 35.000 abitanti della Crocetta. Tuttavia, il costo dello smaltimento dei rifiuti che paghiamo a Torino è tra i più alti d’Italia e, a causa della scelta scellerata di bruciare i rifiuti invece di recuperarli, lo resterà per anni. Se perlomeno l’amministrazione riuscisse a farlo pagare senza complicare troppo la vita alle persone, sarebbe già un passo avanti.

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giovedì 6 Febbraio 2014, 19:44

Tanti saluti dalla FCA

Lunedì, il consiglio comunale di Torino ha dimostrato tutta la sua inutilità prodigandosi in un lungo dibattito a posteriori sulla partenza della Fiat, che diventa FCA e sposta la sede legale e fiscale all’estero; dibattito inutile perché molto pochi in quell’aula hanno qualche competenza a proposito della gestione di un’azienda, e perché è una pia illusione che la politica cittadina possa avere un vero potere contrattuale verso una azienda di quelle dimensioni.

Tuttavia, come ho detto nel mio intervento, c’è una cosa che i cittadini possono e devono chiedere ai loro politici: quella di preservare la dignità. E invece, il discorso in aula di Fassino, come quello sui giornali, è stato imbarazzante; sembrava il responsabile delle relazioni pubbliche della Fiat, al punto di arrivare a scaricare lui sulla politica nazionale la responsabilità di non aver creato un ambiente propizio al mantenimento a Torino della sede, come se non fosse lui da una vita uno di quei politici nazionali che la portano sulle spalle.

Io sono stato l’unico, in quell’aula, a constatare un elemento importante: che nel rapporto simbiotico di favori reciproci tra l’azienda e la politica torinese, durato per decenni, i primi a prostrarsi e a promettere favori erano i politici. In cambio, loro hanno avuto la compiacenza del giornale e del sistema economico della città, che gli ha molto facilitato il mantenimento del potere; e talvolta (e anche qui sono stato l’unico a ricordarlo) hanno avuto anche altro, come si svelò ai tempi di Mani Pulite.

Nessun sindaco può impedire alla Fiat di spostare la sede all’estero; ma un sindaco degno di questo nome, invece di dire sempre di sì, di avallare i continui tagli all’occupazione e ai diritti, e poi di difendere ancora l’azienda una volta giunti alla sua partenza, si sarebbe dato da fare per creare condizioni adatte a farla rimanere in positivo, come succede altrove per altre case automobilistiche; puntando sulla qualificazione dei lavoratori e dei prodotti, e non sui tagli, e spingendo per affrontare a livello nazionale i problemi di fondo dell’economia italiana.

Forse non sarebbe cambiato niente, se non una cosa: la dignità dell’amministrazione comunale e di tutta la città.

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martedì 4 Febbraio 2014, 17:44

Lo Stato siamo tutti

Da tempo racconto con preoccupazione il clima di tensione e di rabbia che cresce nel Paese. La scorsa settimana, tuttavia, è avvenuto un salto di qualità in questo clima; lo percepisco ogni giorno per strada e su Internet.

In molti, a quanto pare, hanno perso la calma e si sono avviati a una specie di guerra civile a parole. Persone che conosco da anni, ex colleghi, amici, improvvisamente mi tolgono il saluto e cominciano a postare a ripetizione su Facebook link che denunciano il pericolo posto dal M5S alla democrazia, come se il M5S fosse la radice di tutti i loro problemi. Una signora con cui discutevo di tutt’altro argomento a un certo punto mi fa “e allora pensi che solo perché sono una donna sono una pom… come dite voi?”; un amico di vecchia data che non sentivo da un po’, invece di salutarmi e chiedermi come stavo, mi ha approcciato con “Vergognati, voi grillini fascisti siete la rovina dell’Italia!”. Tale è l’effetto della propaganda di massa, al punto da trasformare la tua persona anche agli occhi di chi ti dovrebbe conoscere bene.

Tutto questo, naturalmente, accade anche in senso opposto; Facebook è pieno di miei contatti che promettono battaglia senza quartiere a chiunque sostenga i partiti, e non abbiamo mai avuto tante richieste di partecipazione al Movimento 5 Stelle come in questi ultimi giorni. Molti hanno apprezzato la nostra lotta senza compromessi, senza farci annacquare dal sistema e allettare dalle poltrone, e questo è ottimo. Tuttavia, è come se fosse in corso una specie di arruolamento, una divisione profonda dell’Italia in eserciti contrapposti, una scelta obbligata, o da una parte o dall’altra; e questo mette paura.

Per questo ci sono alcune cose che vorrei dire. La prima è che si può, anzi si deve, fare opposizione dura e inflessibile, anche manifestando in modo clamoroso come nei giorni scorsi, senza per questo insultare gli altri. La maleducazione, il sessismo, la violenza verbale squalificano chi li usa; se gli altri lo fanno, lasciamoglielo fare; saranno loro a doversene vergognare. Capisco benissimo che assistere in prima persona allo schifo e alla farraginosità della politica nazionale faccia perdere la pazienza, e umanamente succede (è successo anche a me) di sbottare o perdere la calma o rispondere pubblicamente in modo inopportuno, ma questo va evitato il più possibile perché permette agli altri di attaccarci strumentalmente, sfruttando i media al loro servizio.

La seconda è che io voglio cacciare i politici incapaci e corrotti che ci hanno governato; li voglio processare per i reati che possono avere commesso e, se giudicati colpevoli, punire come previsto dalla legge; gli voglio chiedere indietro i soldi che hanno sprecato o rubato. Non voglio mescolarmi a loro, ma non li voglio insultare, non li voglio picchiare, non li voglio uccidere; non mi piacciono gli eserciti e non voglio nessuna guerra né reale né metaforica.

La terza è che lo Stato non è un campo di battaglia che il proprio esercito deve conquistare annientando quello degli altri. Quello succedeva nell’epoca tribale o in quella feudale, non in democrazia. Lo Stato democratico siamo tutti, siamo i nove milioni che sostengono il M5S come i nove milioni che sostengono il PD, come quelli che hanno votato altri partiti e come la fetta maggiore, i tredici milioni di elettori che non hanno votato per nessuno. Lo Stato ideale abbraccia tutti i cittadini e considera con uguale attenzione le esigenze di ciascuno di loro, cercando di mediarle.

La stessa parola “Parlamento” nasce da un verbo preciso: parlare. Sorial e Boldrini, Dambruoso e Lupo, Moretti e De Rosa non sono pagati da tutti noi per andare lì a litigare, e nemmeno per portare avanti una battaglia tra di loro per chi ha più ragione; sono scelti e pagati per discutere e per prendere tutti insieme la scelta migliore nell’interesse complessivo degli italiani. Se chi governa attualmente agisce in maniera scorretta e per interessi privati, se non è disponibile ad accogliere le proposte che facciamo nell’interesse comune, noi dobbiamo continuare a denunciarlo e smascherarlo; ma dobbiamo sempre tenere presente che siamo lì per risolvere i problemi facendo il bene di tutti, rispettando anche i cittadini che la pensano diversamente da noi, e se mai cercando di convincerli con le idee e con i fatti.

Questo, in una democrazia, è il principio della politica; perché per affrontare i problemi solo con la rabbia, pur comprensibile e giustificata, non servirebbe un Parlamento.

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venerdì 31 Gennaio 2014, 11:05

Inceneritore del Gerbido, tecnologia all’italiana

Mercoledì pomeriggio in Municipio si è tenuta l’ennesima riunione del Comitato Locale di Controllo (CLdC) dell’inceneritore del Gerbido. Il CLdC è una strana entità che è stata istituita per tutelare la popolazione, coinvolgendo i Comuni circostanti all’impianto, ma le cui riunioni trascorrono per la maggior parte in battibecchi tra i cittadini del pubblico che chiedono di parlare e la presidente Erika Faienza – consigliere provinciale del PD, nonché segretario del PD di Beinasco, nonché moglie del sindaco PD di Grugliasco, nonché nota alle cronache per aver falsamente autenticato delle firme per una lista elettorale a sostegno di Fassino – che cerca polemicamente di tenerli a bada.

Comunque, a differenza della precedente riunione, talmente burrascosa da finire persino sul Fatto Quotidiano, questa è andata un po’ meglio, anche perché invece di TRM e Arpa (di cui i cittadini non si fidano più) c’erano i medici responsabili dello studio ufficiale di controllo della salute della popolazione, un mastodonte dal costo milionario pagato con le compensazioni dell’inceneritore stesso.

Lo studio prende in esame due campioni di quasi 200 persone, uno che abita vicino all’inceneritore (prevalentemente a Beinasco) e uno che abita subito fuori dalla zona di teorica ricaduta delle emissioni (a Torino Lingotto). La scorsa estate sono stati effettuati dei prelievi per misurare la salute dei due gruppi prima di accendere l’impianto; tra qualche mese si farà una nuova misurazione per vedere se qualcosa è cambiato in maniera diversa tra i due gruppi.

Per ora, le uniche differenze rilevate dagli scienziati tra i due gruppi sono che quelli di Beinasco sono molto più preoccupati per l’inceneritore e che quelli di Beinasco hanno un titolo di studio mediamente più basso; almeno hanno avuto il buon gusto di non ipotizzare correlazioni tra i due dati. Le rilevazioni però sono già preoccupanti di loro, in quanto è emerso che già ora per alcuni metalli pesanti i dati sono piuttosto elevati; in particolare per l’arsenico (anche se lo step successivo ipotizzato, non ridete, è “vedere se nel campione c’è tanta gente a cui piace molto il pesce”, perché se non è quello allora sono le fabbriche della zona) e per il palladio e altri elementi rari usati nelle marmitte catalitiche e quindi dipendenti dal traffico.

Comunque, i medici dell’Istituto Superiore di Sanità hanno detto chiaramente che per loro, per come è costruito lo studio, qualunque peggioramento del campione di Beinasco sarà dovuto all’inceneritore; poi qualcuno ha tentato una mezza marcia indietro, dicendo che però bisogna vedere perché se le emissioni sono in regola allora forse no… ma è stato alla fine sconfessato.

Nel frattempo, la vita dell’impianto prosegue male come sempre. Nell’ultimo mese ci sono stati altri due incidenti, il 23 dicembre e il 12 gennaio, che hanno comportato sforamenti e fermo dell’impianto, e ormai gli sforamenti sono talmente tanti che la procura ha dovuto aprire una inchiesta; e hanno cominciato a comparire enormi colonne di fumo, specialmente di sera, che escono direttamente dalla base dell’impianto.

Noi abbiamo presentato l’ennesima interpellanza, che vedete nel video; alla fine la risposta è che il fumo è solo vapore da raffreddamento, che d’inverno condensa e si vede di più; anche se io, in seduta di commissione, ho chiesto all’Arpa se loro abbiano mai verificato se davvero è solo vapore, e la risposta è stata “in effetti per legge siamo tenuti a farlo ma non l’abbiamo ancora fatto, ma tanto è impossibile che sia altro perché lì non passano tubi col fumo della bruciatura”.

Comunque, l’impianto funziona tanto bene che TRM ha annunciato che a inizio febbraio spegneranno l’impianto per una settimana per cambiare tutta una serie di pezzi. Poi, naturalmente, hanno insistito che comunque a maggio inizierà l’esercizio commerciale; io non mi sento per niente tranquillo sul fatto che siamo pronti, e credo che sia una minima garanzia per tutti che ci siano almeno tre mesi di funzionamento senza intoppi prima di poter dire che il collaudo è finito e l’impianto è sicuro, cosa che abbiamo scritto in una mozione in modo da obbligare le forze politiche perlomeno a prendere posizione in consiglio comunale.

Purtroppo, in sede politica – oltre a pretendere spiegazioni – si può fare poco, perché tutte le amministrazioni, dai Comuni al governo con la sola eccezione del Comune di Rivalta, sono in mano a partiti favorevoli all’inceneritore; e anche quando riusciremo a cacciarli, ci troveremo con contratti ventennali già firmati, penali altissime e una grande difficoltà nel cancellare le decisioni di chi è venuto prima; la stessa vendita dell’inceneritore dal Comune di Torino a Iren (gruppo di diritto privato ma di fatto nelle mani del PD) serve anche a rendere più difficili futuri cambiamenti di rotta nella gestione.

La strada maestra per fermare l’inceneritore è pertanto documentare i danni alla salute, in modo da forzare un intervento per vie legali. Per questo serve, ad esempio, che chi si sente male per colpa delle emissioni vada al pronto soccorso a farsi visitare, lasciando una traccia dell’accaduto. Serve registrare ogni problema e metterlo in evidenza, costringendo i gestori a spiegazioni pubbliche che rimangono, come facciamo noi in consiglio comunale. Anche un cambiamento politico servirebbe comunque a cambiare il clima in cui operano le istituzioni di controllo; del resto una delle cose che fanno alzare il sopracciglio è il fatto che il direttore dell’Arpa sia la moglie di un consigliere regionale del PD, un incrocio tra controllori e controllati che non dovrebbe mai avvenire.

Per questo più ci si addentra nella vicenda dell’inceneritore e più le preoccupazioni aumentano; perché anche chi ignora i semplici motivi per cui incenerire i rifiuti è sbagliato (è costoso, inquinante e uno spreco di risorse e materiali in via di esaurimento) e pensa di trovarsi di fronte al gioiello della scienza e della tecnica prospettato dai suoi promotori, si rende presto conto di trovarsi invece in mezzo a una delle tante vicende di grandi opere all’italiana, dove l’unica cosa che funziona senza intoppi è il flusso di denaro in uscita dalle casse pubbliche.

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domenica 26 Gennaio 2014, 13:29

Sulla mozione per la chiusura dei CIE

In questo inizio di 2014, l’amministrazione di Fassino ha deciso di attaccare con rinnovato vigore i veri problemi della città. Bene, direte voi, allora di cosa si parla? Lavoro? Casa? Inquinamento? Traffico?

Beh, non proprio: dopo l’invito alla legalizzazione della marijuana e l’equiparazione delle coppie di fatto nell’accesso alle tombe di famiglia – provvedimenti che noi abbiamo pure condiviso, ma che forse non erano proprio la priorità numero uno – questa settimana l’urgenza individuata da PD e SEL è la chiusura dei CIE.

E’, secondo loro, talmente urgente che giovedì hanno scritto una mozione, venerdì l’hanno dichiarata (a colpi di maggioranza) di urgenza totale e imprescindibile e così domani la metteranno in votazione in consiglio comunale. E dunque, io e Chiara saremo chiamati domani a prendere una decisione su come votare, e per questo io dedico la mia domenica mattina a spiegarvi il problema affinché possiate esprimere una opinione.

Per prima cosa, comunque, vi rimando al post di novembre sulla mia visita al CIE, per farvi un’idea direttamente di cos’è e come funziona questa struttura.

A riguardo del testo della mozione, le mie prime considerazioni sono queste: gran parte delle premesse (direi il primo, secondo e quarto blocco) sono condivisibili, e riguardano il fatto che i CIE sostanzialmente non funzionino rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti. Da una parte, infatti, rappresentano un ambiente degradato e degradante per persone che comunque non hanno commesso alcun reato, e che però, stando lì, diventano per forza di cose più furiose e antisociali di prima; dall’altra, non riescono ad espellere che metà circa delle persone che vi vengono inviate, per cui le altre alla fine escono e restano tranquillamente in Italia; tutto questo a fronte di costi esorbitanti, continui problemi di ordine pubblico e disturbo anche a chi ci abita attorno (a cui, quindici anni fa, era stato promesso che il CIE sarebbe stato lì soltanto per qualche anno). E dunque, la richiesta di chiudere il CIE di corso Brunelleschi, e in generale di abbandonare l’intero meccanismo dei CIE sostituendolo con qualcos’altro di più efficace, è secondo me condivisibile.

Quello che invece nella mozione io non condivido è l’approccio ideologico evidente nel blocco “ritenuto che” e nelle due richieste finali al sindaco e alle istituzioni nazionali. Tra le affermazioni e le richieste che si fanno in queste parti ci sono:

  • che è ingiusto detenere gli immigrati clandestini in attesa di espulsione, senza lasciarli andare in giro liberamente, e che questa è una “inqualificabile violazione dei diritti umani”;
  • che già che ci siamo, oltre a chiudere i CIE, dovremmo rivedere le leggi per dare anche la cittadinanza e il diritto di voto (agli immigrati clandestini?!?);
  • che la detenzione degli immigrati clandestini deve essere decisa solo da un giudice e non da un giudice di pace o da un provvedimento amministrativo.

Peccato che la detenzione degli immigrati clandestini fino a 18 mesi, su provvedimento anche amministrativo, sia semplicemente quanto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri, che prevede che a fronte di uno straniero che non ha diritto di rimanere in Europa gli si dia (art. 7) un periodo da sette a trenta giorni per andarsene volontariamente, con la possibilità di imporre l’obbligo di residenza o eliminare questo periodo in caso di rischio di sparizione, finito il quale (art. 8) “gli Stati membri prenderanno tutte le misure necessarie per far rispettare la decisione di rimpatrio”; a questo scopo è prevista, con tutta una serie di salvaguardie, la possibilità di detenere lo straniero se non vi siano altre misure efficaci (art. 15), prevedendo un massimo di sei mesi che può essere esteso a diciotto se l’individuo o il suo Paese non collaborano al rimpatrio (difatti uno dei principali motivi per cui non si riescono a rimpatriare gli ospiti dei CIE è che diversi Paesi fanno di tutto per non riprenderseli).

Come mostra questa mappa, tutti i Paesi europei hanno centri di detenzione per gli immigrati clandestini, sia nella fase di prima accoglienza e identificazione che nella fase di partenza per il rimpatrio; Germania, Danimarca, Svizzera e Irlanda li tengono direttamente in carcere. A questo punto, o il Parlamento Europeo e tutti gli altri Paesi europei sono degli inqualificabili violatori dei diritti umani, o c’è qualcosa che non va nel ragionamento della mozione.

Tra l’altro noi pensiamo sempre a chi sbarca dai barconi, ma la grande maggioranza dei clandestini ormai sono persone precedentemente regolari che hanno perso il lavoro e non ne hanno ritrovato uno nel tempo concesso, e che quindi sono prive di mezzi di sussistenza e, non avendo alle spalle una rete sociale, hanno spesso poche alternative al finire a rubare o anche peggio.

La questione di fondo, quindi, è molto semplice. Se uno crede che l’immigrazione, anche essendo una risorsa importante e positiva per un Paese, vada regolata, definendo un numero massimo di stranieri che è possibile accogliere in base alle necessità e alle disponibilità socioeconomiche della nazione e stabilendo dei criteri di ammissibilità, allora inevitabilmente esisteranno i clandestini, ovvero persone che provano lo stesso a entrare o rimanere nel Paese anche quando non rientrano nei vincoli posti; e in un Paese serio, che fa leggi non per dar fiato alla bocca e fare un titolo sul giornale ma per regolare la convivenza di tutti, una persona che non è autorizzata a stare lì deve venire espulsa; e poiché per forza di cose chi tenta di entrare non ha intenzione di farsi espellere, è quasi sempre necessario farlo con la forza.

Si può benissimo discutere su quali sono le condizioni per espellere qualcuno, e ad esempio essere più accoglienti con gli stranieri regolari che perdono il lavoro; si può, anzi si deve garantire un trattamento migliore e più umano per le persone soggette alla procedura di espulsione, che non può essere trascinata per mesi e mesi. Ma non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, e dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE.

Se invece non si vogliono i CIE, e anzi si cerca di aggiungere ostacoli e cavilli alle procedure di espulsione, di fatto si sta dicendo che non si vuole espellere mai nessuno, e che si vuole una immigrazione incontrollata e senza limiti. Ma una immigrazione di questo tipo serve solo a qualcuno: a chi detiene il potere economico, a cui fanno comodo grandi masse di immigrati tenuti ai margini della società e disposti a lavorare a condizioni inaccettabili per gli italiani, creando una guerra tra poveri che permette di distruggere tutti i diritti sociali conquistati in cent’anni di lotte, e che offre facili capri espiatori della crisi economica alla gente comune, evitando che essa se la prenda con chi veramente la sfrutta.

Spiace che a portare avanti questa trappola siano i partiti cosiddetti di sinistra, ma delle due l’una: o non hanno capito niente del mondo globalizzato, o sono venduti al potere.

Per questo motivo, secondo me la mozione così come presentata non può essere votata; sono incerto se proporre la riscrittura delle parti che non condivido, operazione che tuttavia difficilmente incontrerà il favore dei proponenti, a maggior ragione vista l’ostinazione con cui hanno voluto votarla di corsa senza discuterla con calma. Ad ogni modo, siamo qui per ascoltare e dunque leggerò con piacere i commenti di tutti.

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venerdì 24 Gennaio 2014, 11:14

Le case dei rom

Da diversi giorni vedo girare per i social network la questione delle “case di lusso col parquet” assegnate ai rom del campo di Lungo Stura Lazio, come mostrato dalle foto e da un articolo di un sito di notizie cittadino.

Va a ondate: prima mi scrivono in venti segnalando che è uno scandalo che si diano le case ai rom quando c’è una famiglia italiana che dorme in macchina e che il Comune ha abbandonato a se stessa, poi mi scrivono altri venti segnalando che lo scandalo è una bufala razzista, dopodiché spesso partono gli insulti e lo scontro tra tifoserie, pro-rom e anti-rom. Come sempre, a me interessa innanzi tutto raccontare le cose come stanno in modo che ogni cittadino possa farsi un’opinione, possibilmente civile e costruttiva, di cui io posso essere poi il portavoce in Comune.

Peraltro, chi segue la mia bacheca Facebook (cosa che vi raccomando se volete rimanere informati) ha già potuto discutere questa faccenda il 7 gennaio, quando è stata presentata al consiglio comunale; e dello stanziamento di cinque milioni per l’emergenza rom vi avevo già parlato ad ottobre.

In pratica, quello che sta accadendo in queste settimane è l’inizio delle attività finanziate con i cinque milioni di provenienza nazionale, affidate a un gruppo di 19 associazioni italiane e romene, dall’Aizo alla Croce Rossa passando per Terra del Fuoco, associazione da sempre al centro delle polemiche politiche in quanto creatura dell’attuale capogruppo di SEL.

Da dicembre, gli operatori hanno censito gli abitanti del campo di Lungo Stura Lazio, che sono circa 850; ce ne sono poi altri 250 nel campo abusivo di corso Tazzoli, che sarà affrontato successivamente. In base al censimento, si decide cosa fare di ciascuna famiglia rom; a ciascuna viene chiesto se preferisce rimpatriare o rimanere a Torino. Chi vuole rimpatriare in Romania riceve sei mesi di sussidio e di assistenza là, grazie alla partecipazione di associazioni romene, e deve impegnarsi a non rientrare in Italia, anche se non è chiaro se e come si farà rispettare questa clausola.

Chi invece vuole rimanere viene aiutato a trovare casa; se ha diritto alla casa popolare, perché residente qui da almeno tre anni, viene aiutato a fare domanda; se ha qualche forma di reddito perché lavora, oppure se gli si può trovare un lavoro tramite un apposito progetto di inserimento, viene sistemato in alloggi a basso costo, come quelli appunto di corso Vigevano, impegnandosi a pagare l’affitto (anche se è previsto un contributo pubblico iniziale e decrescente nel tempo) e le utenze, a mandare i figli a scuola e ovviamente a non delinquere, rendendosi autosufficienti entro due anni. Questi sono i casi più facili da risolvere e quindi quelli che sono partiti subito, ma sono solo una parte; nei prossimi mesi, chi non ha né lavoro né diritto alla casa verrà diretto ad altri campi regolari, man mano che vi si liberano dei posti; e si stanno studiando altre possibilità, come ad esempio quella di dargli cascine da ristrutturare in proprio. In cambio di questo, la famiglia deve anche demolire la propria baracca in Lungo Stura Lazio, smaltendo i rifiuti e assicurandosi che nessuno vi possa subentrare.

Quindi, la notizia delle “case popolari assegnate ai rom” è vera, e del resto vi sono già molti rom nelle case popolari, perché ne hanno diritto in base alle stesse condizioni applicate a chiunque altro; tuttavia, in questo caso non sono alloggi ATC in assegnazione definitiva ma alloggi privati pensati per il “social housing” e assegnati temporaneamente; anche se sono nuove e hanno il parquet, non sono case di lusso ma case pensate per accogliere famiglie bisognose a basso costo; il costo della sistemazione è in parte a carico dei contribuenti e in parte a carico della famiglia alloggiata.

D’altra parte, il campo di Lungo Stura Lazio è una vergogna (già ampiamente documentata) e un problema sia per chi ci vive che per il quartiere; e certo quella situazione non aiuta a ridurre la delinquenza tra la comunità rom, al punto che un bimbo del campo che non vuole rubare deve scrivere e chiedere aiuto e fa pure notizia. Ma se si vuole eliminare il campo bisogna sistemare in qualche modo chi ci abita, perché un semplice sgombero per forza di cose si concluderebbe con la nascita di un nuovo campo pochi metri più in là.

Tuttavia, provo anch’io rabbia e frustrazione all’idea che, stringi stringi, lo Stato italiano trovi casa per una comunità di occupanti abusivi, in gran parte stranieri e privi di qualsiasi voglia di integrarsi o rispettare le nostre leggi, e non la trovi per famiglie nate e cresciute qui e che hanno sempre lavorato e pagato le tasse fin che hanno potuto. Potrei spiegarvi nel dettaglio perché, dal punto di vista burocratico, la famiglia sopra citata non rientri nelle condizioni dell’emergenza abitativa e dunque sia lasciata dal Comune in mezzo alla strada; la realtà è che ormai vi sono case pubbliche sufficienti solo per una famiglia sfrattata su tre e dunque molti in un modo o nell’altro devono essere esclusi.

La soluzione, però, non è perpetuare l’orrore delle baraccopoli e nemmeno far partire una guerra tra poveri, ma recuperare il patrimonio abitativo inutilizzato, sia quello abbandonato che quello costruito e mai venduto, in modo da avere a disposizione case sufficienti per tutti. Noi l’abbiamo proposto da molto tempo, ricevendo sempre risposte negative dall’amministrazione comunale.

Comunque, come sempre, se avete commenti e proposte alternative sono qui per ascoltarle.

P.S. Con la famiglia sfrattata, così come con tanti altri casi disperati che non arrivano sui giornali, siamo in contatto diretto, ma ci mancano i volontari che si occupino di approfondire e aiutare i singoli casi, dunque, piuttosto che girarmi il link all’articolo e chiedermi di occuparmene nei ritagli di tempo di tutto il resto del mio lavoro di consigliere, vi pregherei di farvi avanti e dedicare un po’ del vostro tempo a incontrare le persone che hanno bisogno di aiuto e studiare come dare loro una mano. Grazie!

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martedì 14 Gennaio 2014, 10:22

Sul voto di ieri: unità è unanimità?

La votazione online di ieri ha rappresentato un altro momento importante nel cammino del Movimento 5 Stelle sulla strada della democrazia partecipativa, offrendo ai cittadini una possibilità impensabile nei partiti; vale però la pena di fare qualche riflessione non tanto sul tema (su cui già scrissi al Fatto Quotidiano che la pensavo così) ma sul metodo.

Sul tema, mi limito a osservare che questa non era comunque una votazione per scegliere se essere favorevoli o meno all’immigrazione, dato che c’è indubbiamente chi ha votato per abrogare il reato perché vuole favorire l’afflusso di immigrati, ma c’è anche chi ha votato per abrogare il reato per rendere più semplici ed efficaci le procedure di espulsione. La posizione del Movimento sull’immigrazione è dunque ancora aperta.

Sul metodo, si pone innanzi tutto un problema sulla rappresentatività di queste votazioni, con solo 24.000 partecipanti rispetto ai nove milioni di voti presi (tralascio il discorso su scarsa informazione preventiva e brevi tempi di votazione che è ovvio). Dai commenti sul blog di Grillo fino a messaggi ricevuti personalmente, ci sono diversi nostri elettori che contestano la validità di votazioni così ristrette; la nostra risposta è, ovviamente, che è sufficiente che si iscrivano anche loro per poter avere voce in capitolo.

Il problema, però, è che mentre nella nostra testa gli iscritti alla piattaforma sono “i cittadini”, per molti cittadini che simpatizzano per noi quelli sono “i tesserati”: ci sono commenti che dicono proprio così, “avete fatto votare solo i tesserati”. Paradossalmente, mentre per noi il meccanismo di ieri è un modo per rimetterci ai cittadini, per molti nostri elettori (ovviamente quelli contrari alla decisione presa) è un modo per ignorare il loro voto e prendere la strada voluta da un “apparato di partito”, tradendo le promesse fatte in campagna elettorale e sul blog, dove Grillo comunque aveva espresso una visione diversa.

Noi abbiamo sempre dato per scontato che l’obiettivo fosse avere 60 milioni di italiani attivi, e peggio per chi non partecipa. Adesso, scopriamo l’esistenza di nostri elettori che non hanno alcuna intenzione di divenire cittadini attivi iscrivendosi alla piattaforma, ma che, in quanto elettori, pretendono che si rispetti la loro idea, espressa al momento della croce sulla scheda, senza chiedergli continuamente di partecipare a una votazione online per ribadirla; una risposta andrà data, pena la perdita della loro fiducia.

L’altro problema è relativo all’uso che va fatto del risultato. Ci sono argomenti su cui una sola scelta è possibile, per cui se si vota sulla scelta di un candidato Presidente della Repubblica, o su quale gruppo parlamentare sostenere al Parlamento Europeo, la scelta più votata vince e le altre si abbandonano; ma esistono argomenti, come quello di ieri, su cui l’unanimità del gruppo parlamentare è tutt’altro che obbligatoria.

La votazione dal basso dovrebbe servire ad evitare che i portavoce portino avanti le proprie idee personali anziché quelle dei cittadini. Tuttavia, una volta accertato che i cittadini sono significativamente divisi, perché obbligare anche eventuali portavoce che fossero d’accordo con la minoranza dei cittadini a cambiare la propria opinione? In questo modo si ottiene l’effetto opposto a quello inteso, perché si elimina una delle due voci e si crea una grossa quantità di nostri elettori privi di portavoce.

Se, come ieri, il 60% sostiene una posizione maggioritaria e il 40% una minoritaria, sarebbe sufficiente che il gruppo parlamentare, confrontandosi prima, garantisse che almeno il 60% dei portavoce votasse per la posizione maggioritaria, lasciando però a un certo numero di portavoce la possibilità di esprimere anche la posizione minoritaria e rappresentando così ancora meglio tutto l’insieme dei cittadini, e non solo il 60%.

Esistono tutta una serie di questioni con forti componenti di valori personali su cui ciclicamente la politica italiana ama dividersi: si va dalla depenalizzazione delle droghe leggere all’uso del crocifisso nelle scuole, passando per i matrimoni omosessuali e per l’eutanasia. Su questioni così etiche io troverei giusto che in Parlamento il Movimento non andasse per maggioranze, ma esprimesse posizioni difformi e variegate, non in base alle idee personali dei portavoce, ma più o meno proporzionalmente alle diverse idee presenti tra i nostri elettori.

Accade spesso, tra gli attivisti e gli eletti del Movimento, di veder confondere l’unità con l’unanimità. Ma un Movimento unito non è un piccolo gruppo di persone che la pensano tutte alla stessa maniera, ma un grande gruppo che sa accettare e anzi valorizzare la diversità interna di opinione, risultando così attraente per un numero maggiore di cittadini.

Un Movimento che, perse di vista le questioni veramente fondamentali (casa, lavoro e sopravvivenza delle persone), cominciasse a portare avanti a colpi di maggioranze online un programma di sinistra radicale sull’immigrazione e su altre questioni controverse, marginalizzando le opinioni difformi, non sarebbe un Movimento unito; al contrario, sarebbe un Movimento che perderebbe progressivamente sempre più pezzi e sempre più voti, e alla fine anche il mio.

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mercoledì 8 Gennaio 2014, 12:38

L’Italia e l’Europa

Qualche giorno fa, Beppe Grillo ha rilanciato il manifesto del Movimento 5 Stelle verso le elezioni europee, già presentato un mese fa a Genova. Si tratta di sette grandi linee che non coprono tutto il dettaglio delle competenze dell’Unione Europea, ma che vogliono evidenziare alcune priorità: il referendum sull’euro, la lotta all’austerità imposta dalla finanza globale, l’investimento sull’innovazione e sull’autosufficienza alimentare nazionale.

Trasversalmente a queste priorità, tuttavia, resta da affrontare il discorso di fondo: quello del rapporto tra l’Italia e l’Europa. In questi vent’anni, difatti, i partiti italiani hanno abusato di questo rapporto; hanno contemporaneamente indicato l’appartenenza all’Unione Europea e all’euro come un dogma indiscutibile e scaricato sull’Europa la colpa di qualsiasi sacrificio venisse imposto agli italiani.

E’ chiaro che il risultato a medio termine di una propaganda di questo genere non può che essere la nascita di un forte sentimento antieuropeo, sempre più diffuso tra i cittadini, secondo il semplice ragionamento “se i sacrifici sono imposti dall’Europa, usciamo dall’Europa e non ci saranno più sacrifici”. E così, le elezioni europee rischiano di diventare uno scontro aperto tra chi dice che l’Unione Europea va bene così e chi vorrebbe distruggerla e basta.

Eppure, bisognerebbe ricordarsi che il processo di integrazione europea è nato per motivi più profondi di quelli economici. L’Europa unita nasce dalle rovine della seconda guerra mondiale, dai campi di concentramento e dalla distruzione di gran parte dell’intero continente, ridotto a giardinetto di due grandi potenze sostanzialmente estranee, potenze che erano a loro volta diventate tali grazie a un lungo processo di integrazione di stati o di popoli diversi. I singoli Paesi europei, se non si uniscono, rischiano di continuare a uccidersi in guerre fratricide o comunque a diventare sempre più marginali rispetto a Stati Uniti, Russia, e oggi Cina, e domani India e magari anche Brasile; nazioni che in gran parte avrebbero da guadagnare dall’esplosione dell’Unione Europea e dalla fine dell’euro.

La questione, quindi, è come unire i paesi europei in modo che nessuno, e nello specifico l’Italia, ne abbia a soffrire. Un conto, difatti, è un’Europa in cui l’unione fa la forza, e un conto è un’Europa in cui alcuni si arricchiscono e altri fanno la fame, e che invece di generare più ricchezza per tutti si limita a trasferire la ricchezza di un pezzo di continente verso un altro pezzo.

Noi italiani, innanzi tutto, dobbiamo assumerci la responsabilità dei nostri errori e delle nostre manchevolezze. Non è colpa dell’Europa se noi siamo uno dei Paesi più disonesti, corrotti, privi di meritocrazia, disorganizzati, ignoranti e manipolati dai media: è colpa nostra e della classe dirigente a cui abbiamo affidato questo Paese. Questa arretratezza è un elemento fondamentale del nostro impoverimento e non possiamo darne la colpa all’euro o ai tedeschi.

Allo stesso tempo, però, il modo in cui è gestita l’Europa, senza grande democrazia e senza mettere al primo posto il benessere dei cittadini, non è accettabile; serve un’Europa in cui i Paesi non siano in competizione tra loro, ma in collaborazione, e per questo serve un nuovo patto di convivenza in cui i Paesi in questo momento più forti sostengano i cittadini (non le banche) dei Paesi più deboli in cambio di riforme che, a differenza di quelle imposte in Grecia, affrontino alla radice i problemi culturali, sociali e civici del Paese per mettere le basi dello sviluppo futuro, invece di limitarsi al rientro dal debito a costo di un massacro sociale non solo metaforico.

Se però la disponibilità a questo patto non ci dovesse essere, se a conti fatti a noi dovesse convenire lo sgancio dalla moneta comune, possibilmente non da soli ma con un blocco di Paesi mediterranei tali da dare solidità a una nuova unione e una nuova valuta, non c’è alcun motivo per non farlo.

L’Italia è, difatti, uno dei Paesi meno capaci a difendere i propri interessi nazionali. In tutto il mondo ogni nazione regola i flussi di ingresso e uscita di capitali, merci, alimenti, energia e anche persone secondo l’interesse del proprio Paese; questo scontro di interessi si verifica anche nella definizione degli accordi europei che regolano la nostra vita. A forza di spedire a Bruxelles i trombati di ogni colore, gente che magari non sa nemmeno dire due parole in inglese quando incontra i colleghi e che vive l’Europa come un ripiego o come una pensione dorata, l’Italia si è spesso fatta fregare. Aggiungiamoci il fatto che da noi difendere gli interessi nazionali sembra spesso una vergogna, una roba da pezzenti o da fascisti: non possiamo stupirci se poi in sede europea abbiamo la peggio.

Per questo il Movimento 5 Stelle può offrire una prospettiva veramente nuova nel rapporto tra Italia ed Europa, come i partiti non hanno mai fatto; a patto che abbia chiaro quale Europa vuole costruire. E voi, che ne pensate?

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