Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Ven 30 - 16:18
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione
martedì 6 Luglio 2010, 18:21

La Padania che verrà

La Padania è sempre più spesso nei nostri discorsi; e questa è già una vittoria di Bossi. Su Lega sì, Lega no si è incentrata buona parte della passata campagna elettorale per le regionali piemontesi, e ancora di più la pletora di commenti usciti dopo il voto, per non parlare di un crescente “dialogo culturale” tra polentoni e neoborbonici, a colpi di insulti e di revisionismi su storie di 150 anni fa.

A me tutto questo fa arrabbiare; non tanto il fatto di dover discutere se abbiano rubato più soldi i piemontesi dalle casse napoletane o i napoletani dalle casse piemontesi (siamo in Italia, hanno rubato tutti), ma il fatto che in questo Paese non si riesca ad avere una civile e razionale discussione sul tema del federalismo.

Già, perché alzando un attimo il naso dal paiolo della polenta ci si potrebbe accorgere che l’Italia non è certo l’unico posto dove si discute di autonomie e di secessioni, e che il celodurismo da campanile non è affatto l’unico modo di discuterne.

Il Belgio, per esempio, è già di fatto un paese diviso in due nazioni e mezza, rotto da secoli di rivalità e da uno spettacolare ribaltone nella suddivisione della ricchezza economica tra Nord e Sud (purtroppo per i suoi abitanti, la Vallonia negli ultimi cento anni ha prodotto due cose soltanto: Magritte e la disoccupazione). Nessuno crede che il Belgio possa esistere ancora per molto, a meno che non si verifichi qualche miracolo economico.

La possibile frantumazione dell’Italia, dunque, non è affatto un tema di folklore, ma un problema oggettivo: del resto lo stesso Economist – pur di sinistra per quanto possa esserlo un giornale economico inglese – per gioco ma fino a un certo punto divide l’Italia in due, prevedendo una nazione separata al Sud, fuori dall’Unione Europea, cortesemente denominata Bordello.

Sono chiari a chiunque li voglia vedere i giochi di potere geopolitico e le tensioni economiche interne all’Unione Europea, e si parla apertamente di doppio euro e di possibile uscita dall’Unione di un blocco forte, dominato dai tedeschi – a cui interesserebbe ovviamente tenersi attaccato il Nord Italia e scaricare il Sud. Se scattasse una crisi globale di fiducia nei debiti pubblici, l’Italia rischierebbe davvero la bancarotta e il conseguente caos nelle strutture pubbliche; e a quel punto quanti di voi sono disposti a scommettere che le parti del Paese coi conti più in ordine sarebbero favorevoli a portarsi dietro i debiti delle altre?

Non sono certo le buffonate celtiche che spezzano i Paesi; le buffonate celtiche sono al massimo un metodo ben studiato per trasformare un concetto inizialmente innaturale in uno assolutamente familiare; provvisoriamente ancora respinto, ma familiare e dunque plausibile. Dopo, arriva il fattore scatenante per trasformarlo da plausibile a reale, che può essere un esercito o, più elegantemente, un disastro economico più o meno artificiale.

D’altra parte, siamo da decenni nel mezzo di un processo storico di “glocalizzazione”; da una parte i governi nazionali diventano impotenti di fronte a fenomeni socioeconomici globali, e dall’altra diventano troppo grossi e rigidi per gestire in maniera efficace una società che si evolve alla velocità della luce. Non è un caso che i migliori successi europei degli ultimi lustri vengano da Paesi di medie dimensioni (Irlanda, Danimarca) o da Paesi con una struttura fortemente federale (Spagna, Germania).

In fondo, nel momento in cui la mia economia e la mia vita sono governate da decisioni prese a Bruxelles e a Francoforte, che differenza fa che la scritta sul mio passaporto dica Italia, Padania, Piemonte, o Repubblica Popolare del Quartiere Parella? Non cambia praticamente niente, a parte il colore della maglia della nazionale e il rapporto costi/benefici legato alle prestazioni offerte da ciascun governo e alle tasse richieste in cambio. A questo punto, laicamente, tanto vale concepire lo Stato come un puro “centro servizi” e scegliere la dimensione di governo più efficiente.

Basta solo che se ne parli con serietà e con obiettività; e che nel farlo non si insulti chi, in tempi completamente diversi, per la nostra bandiera ha dato la vita. Altrimenti il rischio è che la secessione avvenga comunque, e che da una nazione da operetta si finisca in uno staterello di buffoni.

[tags]italia, padania, borboni, secessione, bossi, crisi, germania, belgio, unione europea, unità d’italia[/tags]

divider
sabato 3 Luglio 2010, 12:52

Lo scopo di Twitter

Bazzico d’abitudine un po’ tutti i social network, ma fino a questa settimana c’era una eccezione: Twitter. Onestamente non ne ho mai capito bene il senso, visto che se proprio vuoi raccontare al mondo tutto quel che fai una riga alla volta puoi sempre aggiornare il tuo status su Facebook. Tuttavia, anche solo per vedere com’è, qualche giorno fa mi sono registrato.

O meglio ci ho provato; perché metà delle volte mi veniva fuori una schermata che diceva che la capacità massima del sistema è stata superata e di riprovare più tardi.

Poi ho aggiunto due o tre amici nella lista, per ricevere nella mia home i loro aggiornamenti.

O meglio ci ho provato; perché anche qui continuavo a ricevere la simpatica paginetta di errore ogni due per tre.

Quando ieri pomeriggio ho letto che Ronaldo aveva usato il proprio Twitter per invitare Felipe Melo a non tornare più in Brasile (e noi siamo contenti: viste le prestazioni, speriamo che giochi ancora a lungo nella Juve), sono andato a vedere.

E ho ricevuto la pagina di errore, per dieci o venti volte consecutive, senza riuscire a vedere un bel niente.

Ma allora spiegatemi, la gratificazione nell’usare Twitter è riuscire a caricare le pagine?

[tags]internet, social network, facebook, twitter, capacity planning[/tags]

divider
venerdì 2 Luglio 2010, 14:29

L’Internazionale operaia non sta molto bene

Ho molto rispetto per Diego Novelli (purché non si parli di Toro) e per Nuova Società, ma raramente mi è capitato di incontrare un articolo politico che, a causa di uno sfortunato incidente, mi abbia fatto contemporaneamente ridere e pensare così.

E’ che un paio di settimane fa, nel momento clou della vicenda sindacale di Pomigliano, Nuova Società ha pubblicato una toccante lettera degli operai di Tychy (lo stabilimento in Polonia dove si fa la Panda) a quelli di Pomigliano, che si scusava per avergli portato via anni fa il lavoro accettando condizioni e retribuzioni peggiori rispetto agli italiani, e li incitava a continuare la lotta per il bene di tutti gli operai Fiat del mondo, in un classico e ortodosso afflato marxista di “proletari di tutto il mondo unitevi”.

E poi, a fine articolo, dopo tutto questo eloquio di aulica ideologia e queste toccanti parole di solidarietà antipadronale, è comparsa nei commenti la risposta di un operaio di Pomigliano, perfettamente in linea con le aspettative internazionaliste del settimanale di Novelli:

“Bastardi..polacchi di *** andate a farvi fottere….per causa vostra è successo tutto questo casino la colpa è solo vostra e ancora vostra……bastardi che non siete altro siete sottopagati..e lavorate come schiavi..e non vi siete mai ribbellati..adesso che le cose cambiano per voi vorreste ribbellarvi in alleanza con noi italiani ? vi dico ancora andate a farvi fottere bastardi schiavi di ***…dovete morire tutti se siamo ridotti a queste condizioni di schiavitu’ poste da fiat…la colpa è vostra e solo vostra….bastardi schiavi andate ancora a farvi fottere.”

Ecco, credo che sia impossibile descrivere meglio come i partiti di sinistra continuino a rivolgersi agli operai con gli stessi schemi astratti vecchi di 150 anni, e come gli operai da un pezzo rispondano mandandoli a cagare e votando Lega o Berlusconi.

[tags]sindacati, lavoro, operai, globalizzazione, pomigliano, tychy, fiat, nuova società, sinistra, lega, berlusconi[/tags]

divider
giovedì 1 Luglio 2010, 22:29

Dov’è finita la violenza

Ieri è passato nel silenzio quasi totale un anniversario importante: il cinquantenario dei fatti di Genova del 30 giugno 1960. E questa cosa mi è venuta in mente perché, l’altra sera a cena, un parente che ha vissuto da ragazzo gli anni ’70 mi ha detto “Visto il clima politico ed economico, sono piuttosto stupito, favorevolmente, che nessuno si sia ancora messo a sparare”.

Cinquant’anni fa, a Genova, la violenza eruppe per molto meno; l’Italia non era governata da un pluri-indagato e nemmeno moriva (più) di fame, anzi si era proprio nel punto massimo del “boom economico”. Il carburante della protesta fu la nascita del governo Tambroni, un governo democristiano di minoranza che sopravviveva con il sostegno esterno del MSI; e la scintilla fu la decisione dei missini di tenere il proprio congresso a Genova, riportando in città il famigerato podestà Basile, che l’aveva governata ai tempi del fascismo.

Contro tale decisione, contro un clima di riabilitazione del fascismo, centomila persone scesero in corteo e ci furono gravi incidenti; ovviamente i resoconti anche dopo cinquant’anni non concordano, ma potete leggere la versione dei comunisti (da un sito con falce e martello), la versione dei fascisti (da un blog di destra) e la versione dei fascisti lavati a Fiuggi (da Wikipedia: dove altro si potrebbe trovare una enciclopedia che descriva uno scontro di piazza parlando di “sapiente regia comunista delle manifestazioni”?).

Comunque, l’Italia di allora era pronta a occupare le piazze e scontrarsi violentemente con la polizia anche solo all’idea che i fascisti potessero appoggiare un governo dall’esterno – e con successo, dato che il governo Tambroni cadde dopo meno di tre settimane. Adesso, invece, viviamo in un regime che è oggettivamente mezzo fascista – nell’occupazione del potere, nella censura esplicita dei mezzi di comunicazione di massa, nelle intimidazioni e nele restrizioni verso i magistrati che indagano sugli abusi del potere, nelle minacce ed epurazioni verso chiunque non si allinei – eppure in piazza scendono delle minoranze, e soprattutto queste minoranze vanno lì, ascoltano il comizio di turno – talvolta hai l’impressione che qualcuno faccia i comizi di opposizione per mestiere, perché anche la poltrona di opposizione totale è pur sempre una poltrona – e poi tornano a casa e non succede niente.

Probabilmente è cambiato il mondo; culturalmente, la violenza è sempre meno accettabile ed accettata. Una volta ogni trent’anni si macellavano le generazioni, adesso la guerra diventa uno scandalo anche per una sola vittima; i nostri nonni si ispiravano a Garibaldi, e noi ci ispiriamo a Gandhi; solo trent’anni fa in Commando Schwarzenegger andava in tripla cifra a forza di mitragliatrice, e ora invece persino nei film d’azione non muore più nessuno. E questo, indubbiamente, è un bene… o lo sarebbe se non ci avesse reso (per caso, per strategia?) imbelli, indifesi, sottomessi a un potere che, quando vuole, sa benissimo come usare la violenza e anche come coprirla e farcela accettare.

Per certi versi, la nostra nonviolenza è una forma di codardia, di paura di assumersi le proprie responsabilità di animale in lotta per la sopravvivenza e di rischiare per esse il dolore fisico; per altri è una forma di coraggio, per cercare di vincere le proprie battaglie da essere umano e senza ridiventare belva.

Alla fine, forse non siamo aggressivi perché non abbiamo abbastanza fame. Siamo ancora troppo ricchi e ben pasciuti, abbiamo ancora troppi ninnoli tecnologici e troppi bisogni superflui per arrabbiarci davvero. Quando arriverà la fame vera, probabilmente tornerà anche la violenza.

[tags]genova, 30 giugno 1960, manifestazioni, partigiani, msi, tambroni, destra, sinistra, guerra, violenza, nonviolenza[/tags]

divider
mercoledì 30 Giugno 2010, 13:19

Gli aumenti della tangenziale

Salvo miracoli dell’ultimo momento, da domani mattina scatterà inesorabile l’aumento dei pedaggi della tangenziale: 20 centesimi di aumento (su tariffe precedenti di 1 o 1,10 euro) a Bruere, a Falchera e a Settimo (il casello di ingresso sulla Torino-Aosta, il cui pedaggio per chi entra/esce a Torino ingloba appunto la quota per la tangenziale).

E’ abbastanza incredibile il meccanismo che sta dietro a questi aumenti. Intanto, non sono aumenti che vanno in tasca all’Ativa (la concessionaria della tangenziale) ossia a quei buoni amici degli amici del gruppo Gavio, che già hanno abbondantemente incassato a gennaio. Vengono riscossi da loro, ma vanno in tasca all’Anas, ovvero allo Stato.

Già, perché questo è l’effetto della manovra finanziaria “che non mette le mani in tasca agli italiani”, e in particolare l’introduzione del pedaggio su ventidue superstrade realizzate dall’Anas e finora gratuite, tra cui, nel nostro caso, il raccordo per l’aeroporto di Caselle.

A questo punto voi direte: ma cosa c’entra? Cioè, perché per far pagare la superstrada per Caselle bisogna aumentare il pedaggio a chi va da Rivoli a corso Regina Margherita o da Volpiano a Orbassano? Il problema è che per incassare il pedaggio sulla superstrada bisognerebbe costruire perlomeno un casello, ad esempio tra la tangenziale e Borgaro, similmente a quello di Beinasco sulla Torino-Pinerolo (ah, tra l’altro aumenterà di 10 cent anche quello, non per questa vicenda ma per via di un generale aumento e di conseguenti arrotondamenti). Ma costruire un casello costerebbe più di quello che si incasserebbe; e allora, per far prima, è più facile aumentare un po’ il pedaggio a tutti quelli che passano in zona – meglio se su caselli che portano molto traffico, fregandosene del fatto che la grande maggioranza di chi passa di lì non imboccherà mai il raccordo per l’aeroporto.

Al contrario, chi percorrerà l’intero raccordo da corso Grosseto a Caselle continuerà a non pagare una lira; ed è invece facile prevedere un aumento del traffico sulla viabilità ordinaria che permette di aggirare i caselli della tangenziale, come corso Grosseto, piazza Rebaudengo e corso Vercelli a Torino, o come corso Susa, corso Torino e corso Einaudi a Rivoli.

E’ giusto? Sicuramente no; sarebbe giusto che ognuno pagasse proporzionalmente all’effettivo uso delle strade, anche se far pagare i sistemi tangenziali di solito porta solo all’intasamento della viabilità ordinaria, per cui quasi ovunque si tende a mantenerli gratuiti e basta… considerando tra l’altro che le autostrade che partono da Torino sono già tra le più care d’Italia (11,9 cent/km per Bardonecchia, 9,8 cent/km per Aosta, 7,3 cent/km per Milano e per Piacenza… vedi tabella di Quattroruote).

Si poteva fare diversamente? Ecco, a prima vista forse no, o meglio, non nell’attuale Italia. Il fatto che lo Stato abbia bisogno di soldi per non fallire è evidente; ed è facile prevedere un aumento di tutto ciò a cui gli italiani non possono sfuggire, a partire dalle tariffe dei servizi in regime di monopolio. Alla fine, tassare il traffico privato è ancora il meno peggio da vari punti di vista.

Resta il fatto che, sì, le cose potrebbero essere diverse; potremmo avere uno Stato che va veramente a cercare i soldi dove ci sono, nell’evasione fiscale, nei privilegi, nei trattamenti ingiustificati, negli sprechi della pubblica amministrazione, nei redditi assurdi dei concessionari politicizzati dei servizi, nelle clientele dei partiti e infine, quando tutto il resto sarà stato ottimizzato, nelle tasche di chi guadagna di più. Un aumento di venti centesimi ha un impatto ben diverso per il pendolare con lo stipendio contato e per il vacanziero agiato con la macchina da 50.000 euro. Da tempo penso che pedaggi, parcheggi, permessi di circolazione e multe dovrebbero avere costi proporzionali al valore dell’auto e all’inquinamento che produce: tecnologicamente ormai è fattibile senza grandi problemi, basterebbe averne voglia.

Peccato che per ora viviamo ancora nell’Italia che “se la cava”: cavando soldi da dove riesce.

[tags]autostrade, pedaggi, aumento, tangenziale, torino, caselle, traffico, viabilità, anas, ativa, gavio[/tags]

divider
martedì 29 Giugno 2010, 15:24

Dei costi della politica

Ieri sera si è tenuta la riunione dell’associazione ex Movimento 5 Stelle Piemonte, dove sono stati affrontati i due argomenti su cui avevo chiesto un parere a chi si era registrato sulla mia piattaforma.

L’associazione, svuotata di qualsiasi ruolo nel Movimento, si è ridotta a un gruppo di una manciata di amici, tanto che ieri sera alla riunione erano presenti fisicamente solo quattro soci, più altri tre per delega. Vi è un interesse ridotto a tenerla in vita, ma d’altra parte chiuderla subito non ha molto senso, specie ora che vi è l’ipotesi che si debba tornare alle urne. Vorremmo dunque perlomeno mantenere in vita il blog Piemonte5Stelle, dopo avergli cambiato nome e indirizzo in modo che non lo si possa confondere con il blog ufficiale dei consiglieri regionali, quello sul sito di Grillo. E poi, se vi sarà interesse, potremo presentare qualche progetto per ottenere dei finanziamenti dal fondo dei consiglieri regionali, quello costituito con i soldi avanzati dai loro stipendi.

Per quanto riguarda la questione delle quote di 300 euro versate all’inizio della campagna elettorale da quasi tutti i candidati, si è verificato che effettivamente l’accordo originale era di considerarle un prestito in attesa di raccogliere i fondi necessari mediante donazioni. Dato che dalla campagna elettorale sono avanzati circa 5.000 euro, si è deciso dunque di provvedere a rimborsare le quote proporzionalmente ai fondi disponibili, che coprono circa i due terzi di ogni quota.

Dopodiché si è discusso se accettare la disponibilità, già espressa dai consiglieri regionali, di aggiungere i circa duemila euro mancanti per permettere un rimborso completo, prelevandoli dal fondo di avanzo dei loro stipendi; la questione è stata più controversa, perché secondo alcuni questa costituirebbe una forma surrettizia di rimborso elettorale a spese delle casse pubbliche. La proposta è stata approvata a maggioranza, ma io ho votato contro, perché la maggior parte delle risposte ricevute durante la consultazione si erano espresse in tal senso; dunque intendo rinunciare a questa parte del rimborso.

A scanso di equivoci segnalo che chi si è candidato ha sopportato costi che non si limitano ai 300 euro di quota; a parte eventuali spese di propaganda personale (come i miei 155 euro di volantini), ci sono costi come benzina e telefono, e soprattutto c’è il costo del tempo sottratto alla propria vita personale e professionale (la differenza tra il mio reddito medio degli anni 2005-2008 e il mio reddito medio del 2009-2010 è nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro l’anno).

Trovo giustissimo combattere duramente l’uso della politica per arricchirsi e l’appropriamento disinvolto di fondi pubblici per spese private, ma non sposo la linea secondo cui chi fa attivismo politico dovrebbe vivere in povertà; lo stipendio a chi ricopre cariche istituzionali fu introdotto proprio per permettere anche agli operai, e non solo ai ricchi, di impegnarsi nella gestione del bene comune. Credo dunque che utilizzare i residui delle donazioni per ridurre almeno un po’ il passivo di chi si è candidato sapendo sin dal principio che non sarebbe mai stato eletto, condividendo lo sforzo economico necessario tra tutte le persone che hanno messo cinque o dieci euro per aiutarci, sia una scelta giusta, anche se non mi sento invece autorizzato a prendere i soldi che derivano dallo stipendio dei consiglieri.

[tags]movimento 5 stelle, beppe grillo, politica, costi, rimborsi[/tags]

divider
lunedì 28 Giugno 2010, 17:48

Cyberspazio e realtà

Oggi sono andato al Politecnico per assistere alla prima giornata della conferenza University and Cyberspace, organizzata dal progetto europeo Communia, in cui il centro Nexa del Poli ha un ruolo centrale. Questa è una delle poche vere eccellenze rimaste a Torino, su un tema cruciale come il rapporto ad ampio raggio tra Internet e società, con un particolare occhio per le tematiche relative ai contenuti; e anche la conferenza è di alto livello (qui il webcast).

In attesa che si palesi Joi Ito (se siete lettori da tempo di questo blog, ricorderete la foto ed il libro), stamattina c’è stato prima un interessante dialogo tra Juan Carlos De Martin e Charles Nesson del Berkman Center di Harvard, e poi il solito lucido discorso di Stefano Rodotà.

Rodotà è il miglior italiano che conosca e mi piacerebbe molto riuscire a concludere nella vita un centesimo di quello che ha fatto lui; nel frattempo cerco di trarne esempio. Abbiamo chiacchierato per buona parte del pranzo (gli ho portato i ringraziamenti per il suo impegno diretto sui referendum dell’acqua) e se da una parte mi ha fatto piacere constatare che la pensiamo allo stesso modo, dall’altra ne è uscita una visione della situazione italiana tutt’altro che rosea. Lui non si risparmia e gira l’Italia per le sue battaglie con energia invidiabile; io mi chiedo come recuperare un simile ottimismo, capito che il problema non è di sostituire un partito per un altro ma di cambiare la mentalità degli italiani, e che questa è una impresa davvero proibitiva.

[tags]politecnico, internet, pubblico dominio, communia, nexa, università, berkman center, de martin, nesson, rodotà[/tags]

divider
sabato 26 Giugno 2010, 15:50

L’economia delle TLC spiegata per voi

Stefano Quintarelli ha preparato un bellissimo video che, in poco più di un quarto d’ora, spiega chiaramente e in modo comprensibile a tutti l’attuale situazione di stallo nelle telecomunicazioni italiane, quella per cui, in assenza di scelte politiche forti, siamo destinati a rimanere indietro nell’infrastruttura più cruciale per il nostro sviluppo.

Per sostenere l’economia, la cultura, l’informazione e tutti gli altri settori avanzati da Internet è necessario contemporaneamente dotarsi di una infrastruttura costosa (ma non così tanto) e necessariamente unica per tutti, una rete capillare in fibra ottica, e aprire tale infrastruttura a una vera concorrenza e dunque all’innovazione competitiva continua, anziché vivacchiare in un mercato dominato da Telecom Italia.

Sarebbe un investimento remunerativo (secondo i conti di Quintarelli, la ricaduta per ogni euro investito sarebbe venti volte superiore a quella della TAV Torino-Milano, per esempio) e a cui non vi sono alternative (il wi-max non lo è) ma che l’industria privata non ha né le possibilità né l’interesse di finanziare. Ci vorrebbe un governo lungimirante, come quelli che cinquant’anni fa costruirono le autostrade, cent’anni fa costruirono la rete telefonica e centocinquant’anni fa costruirono la rete ferroviaria – tutte infrastrutture che all’inizio sembravano quasi un lusso, ma senza le quali oggi saremmo ancora nelle capanne di fango. Il problema è che, oggi, un tale governo non si vede all’orizzonte.

[tags]telecomunicazioni, internet, economia, rete, telecom italia, wimax, quintarelli[/tags]

divider
venerdì 25 Giugno 2010, 20:11

La solitudine del numero dieci

Quando io ero bambino, il calcio era un’altra cosa. Il calcio era una festa, perché si giocava di domenica pomeriggio, allo stadio in piedi sotto il sole, o attaccati alla radiolina di casa, o passeggiando al Valentino, fermando tutti i passanti ogni minuto per chiedere se per caso il Toro avesse già segnato. Il calcio era una festa perché era uno spettacolo, perché c’erano decine di migliaia di persone che sospiravano all’unisono, e magari non avevano la coca cola in braccio e il posto preassegnato col seggiolino ottimizzato a forma di culo, e nemmeno lo schermo piatto per rivedere a casa ogni scaracchio in super-slow-motion, ma avevano il sole, il cielo e la speranza di un gol e di qualcuno che costruisse per loro un mondo migliore.

E avevano il numero dieci: tutte le squadre che valessero qualcosa avevano un numero dieci, o se non era un dieci era un sette o un sei o un undici, ma era un giocatore diverso dagli altri. Uno che con la palla faceva le magie, uno che con la palla faceva sognare; uno che da solo valeva il prezzo del biglietto. Uno che faceva cose che nessun altro giocatore in campo, anzi nessuna altra persona al mondo era capace di fare, come, che so, ribaltare in un attimo il risultato di una guerra – una guerra vera, con morti e feriti – con un semplice pugno alzato verso il cielo nel secondo preciso del destino.

Il numero dieci era un artista e spesso giocava da solo; nei casi più estremi, i compagni si limitavano a passargli la palla e ad aspettare che facesse lui. Era un privilegiato, spesso antipatico come pochi; fuori dal campo, non di rado tagliava gli allenamenti, si faceva di coca e sparava ai giornalisti. Anche quando era più morigerato, era comunque un diverso; oggetto di ammirazione ma anche di invidia (dei compagni) e di odio (degli avversari). Del resto l’approccio italiano per marcare i numeri dieci era quello di spaccargli le gambe ad ogni occasione sin dal primo minuto: Gentile e Bergomi conquistarono la fama picchiando Maradona. E se un giocatore qualsiasi può sempre vivacchiare e passare la palla, il numero dieci era maledetto a fare miracoli per contratto: o stupiva o falliva.

Poi, vent’anni fa, nel calcio arrivarono Sacchi e Berlusconi, e condannarono i numeri dieci all’estinzione. Il genio divenne un optional, sostituito dagli steroidi, dagli schemi scientifici, dagli allenatori col portatile. Decenni di frustrazione del resto del mondo vennero alla luce: ma perché privilegiare uno più degli altri, ma perché dipendere da una persona sola. Dipendere dall’individuo è sbagliato, noi vogliamo il sistema, il calcio industriale, l’investimento a ritorno garantito; il giocatore dal rendimento mediocre ma costante, il gioco pianificato a tavolino e proprio per questo prevedibile ma certo. Il tifoso schedato e ridotto a numero, con la sua maglietta rigorosamente ufficiale e coperta da copyright, uguale a tutte le altre, che canta l’inno previsto dall’azienda di marketing, in vendita su CD al supermercato e pronto ad essere sostituito da una canzone nuova l’anno dopo, ché l’economia deve sempre girare.

Nel calcio e nella vita, i numeri dieci sono una specie ormai estinta. Non è che non ne nascano più, ma il genio gli viene sradicato a bastonate proprio come una volta si costringevano i mancini a usare la destra. A seconda degli investimenti nella pianificazione industriaale del giocatore e della forza aziendale di chi li possiede, o diventano dei bovini gonfiati come Del Piero, o diventano dei falliti come Pinga e Rosina. Se provano un dribbling, tutti si incazzano: “e passa quella palla!”.

C’è oggi, nel calcio e nella vita, la retorica della squadra. Il gioco di squadra, il collettivo, l’organizzazione, l’egualitarismo. Una volta erano valori che associavamo ai freddi paesi del Nord o ai formicai dell’Oriente, restando orgogliosi dell’inventiva e della creatività italiana, su cui si basavano le nostre fortune e le nostre glorie sin dai tempi di Dante e di Leonardo. Ma anche da noi, ora, l’individuo più dotato o più fortunato della media è visto con intrinseco fastidio.

La squadra è importante, da soli non si può fare tutto; ma neanche tutti possono fare tutto. Un italiano medio, preso a caso per strada, non può scrivere la Divina Commedia; è già tanto se sa scrivere un SMS. Nemmeno dieci italiani possono scrivere la Divina Commedia. E’ molto, molto improbabile che anche un milione di italiani, persino se ben organizzati in una struttura pianificata, possano scrivere la Divina Commedia. Dante, lui sì, poteva scrivere la Divina Commedia. Probabilmente come centravanti faceva cagare, e magari come persona era uno stronzo di prima categoria; ma nel suo briciolo di genialità poteva fare qualcosa che pochi altri, forse nessuno, avrebbero potuto fare, e con questo segnare il futuro della sua nazione a vantaggio di tutti.

In Italia, la retorica della squadra dà il peggio di sé; è diventata una esaltazione della mediocrità. I nostri numeri dieci, per salvarsi, sono tutti all’estero; a scoprire la cura del cancro in una Università americana o ad aprire gelaterie in Cina. L’Italia, un paese socialista intrappolato alla periferia del Vaticano, ha imparato velocemente a disfarsi del talento: perché conviene a molti. Conviene ai mediocri, ai raccomandati, ai piacioni e ai maneggioni, ai numeri due e cinque e quattordici e ventisette, che altrimenti sarebbero condannati ai margini dei riflettori. E’ molto più popolare promettere gloria per tutti e sostenere che anche Pepe e Marchisio possono giocare un mondiale da protagonisti; salvo poi tornare a casa al primo turno, umiliati dalla Slovacchia e dalla Nuova Zelanda.

[tags]italia, calcio, mondiali, maradona, berlusconi, socialismo, comunismo, società, egualitarismo, meritocrazia, competizione, talento[/tags]

divider
martedì 22 Giugno 2010, 10:21

Cose che succedono qua e là

Ci sarebbe molto da raccontare (ad esempio il carnaio dell’aeroporto di Bergamo il lunedì mattina) ma sono piuttosto di corsa (anche grazie ai portoghesi di cui ho postato ieri il video, a cui in serata si sono uniti cileni e spagnoli) e ho tempo solo per una breve nota.

Intanto segnalo che, se qualcuno passa qui da Bruxelles, stasera presso il meeting di ICANN c’è la festa per il venticinquesimo anniversario del .org. Per noi che abbiamo iniziato in tempi abbastanza pionieristici (e dico “abbastanza” perché c’è comunque chi ha iniziato dieci o vent’anni prima di noi) fa un po’ specie pensare che certi elementi base di Internet come la conosciamo abbiano ormai vari decenni di vita.

Anche al meeting di ICANN, a cui ho fatto un salto ieri per le due riunioni di mia competenza, comincia a fare effetto pensare che dieci anni fa eravamo lì a discutere più o meno le stesse cose… ieri, alla fine dell’incontro internazionale dei chapter di ISOC, hanno fatto un quiz, regalando una scatola di cioccolatini a chi avesse saputo dire quali erano gli ultimi tre chapter attivati (la risposta era: Uruguay, Libano e Bangalore). L’ha saputo Norbert Klein, il signor ISOC Cambogia, e ciò ha fatto partire una sessione di ricordi su un simile quiz organizzato da ISOC nel 1996, e anch’esso vinto da lui. Alla fine però ci siamo sentiti vecchi… alla faccia delle nuove tecnologie.

Ora, invece, due comunicazioni di servizio per le faccende grilline di casa nostra.

La prima è un ringraziamento a Sonia Alfano per avere firmato la dichiarazione del Parlamento Europeo contro ACTA. Sonia è sempre vicina ai nostri ideali e credo che la lettera aperta a Beppe Grillo che ha scritto ieri meriti una risposta adeguata, sperando che possa esserci un riavvicinamento costruttivo.

Invece, per chi sta a Torino, la riunione di stasera per le elezioni comunali grilline di cui avevo parlato, aperta a tutto il popolo torinese, è stata spostata in via Luserna 8. Partecipate numerosi.

[tags]icann, isoc, .org, internet governance, domini, sonia alfano, parlamento europeo, acta, beppe grillo, movimento 5 stelle[/tags]

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike