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venerdì 9 Luglio 2010, 17:02

I diritti di chi usa Facebook

Casi come questo sono sempre più frequenti: persone normali e rispettabilissime, talvolta anche piuttosto conosciute, che da un giorno all’altro, senza preavviso, si ritrovano bannate da Facebook – l’account chiuso, i contatti dispersi, le foto e i video cancellati. E senza nemmeno sapere perché: tutti i tentativi di contattare qualcuno tra i gestori del servizio non vanno a buon fine, vengono ignorati o ricevono soltanto risposte generiche e preconfezionate.

Questo genere di comportamento è, per chi lo subisce, un danno notevole; anche economico, per chi con la rete ci lavora. Le condizioni legali del servizio tuttavia lo permettono; e non sono pochi quelli che giustificano questi episodi dicendo “in fondo è un servizio gratuito”.

Rispondere così, tuttavia, significa non aver capito l’economia dei social network; un’economia in cui il prodotto di una azienda come Facebook, Youtube o simili non è altro che l’insieme degli utenti stessi. Facebook guadagna vendendo persone profilate e comunicazione alle persone stesse; semplicemente usando Facebook, tu stai lavorando per loro. Addirittura, quando l’azienda viene venduta, il suo valore viene determinato anche moltiplicando il numero degli utenti per un “reddito atteso per utente”: questa metrica era comunissima ai tempi della new economy, dove alcune aziende passarono di mano per cifre di alcune centinaia di dollari per utente registrato.

Tempo fa, in una conferenza internazionale a Berlino, mi trovai in mezzo a una interessante disquisizione proprio su questo tema: è giusto che chi possiede queste aziende “monetizzi” gli utenti e i loro contenuti senza riconoscere loro una parte dei proventi? In una visione marxista classica, gli utenti di Facebook potrebbero benissimo essere equiparati ad operai sfruttati, e dovrebbero arrivare a possedere la “fabbrica”. Ma è questione di valore, e si può anche pensare che lo scambio quando funziona sia equo: io ti do la mia vita sociale e tu mi dai una piattaforma di comunicazione gratuita. Tuttavia, questo non vuol dire che gli utenti non debbano avere alcun diritto, e che debbano essere ostaggio del gestore della piattaforma.

Al contrario, specialmente nel momento in cui una piattaforma come Facebook acquisisce una posizione fortemente dominante nel suo segmento, essa dovrebbe acquisire anche doveri di equità, rispetto e accesso universale. Escludere qualcuno da queste piattaforme può alterarne significativamente le opportunità sociali, culturali, professionali, politiche: che ciò venga fatto senza regole, senza trasparenza, con meccanismi automatici piuttosto balordi, e senza possibilità di appello, è francamente inaccettabile. Per non parlare dei rischi per la privacy, delle possibilità di censura (Facebook è attualmente la principale fonte di notizie non censurate in Italia, ma per quanto?), delle violazioni di ogni genere che, senza un controllo e una regolamentazione attiva da parte di chi rappresenta il pubblico interesse, i gestori potrebbero mettere in atto.

Certo, a guardare l’Italia di oggi, già si sa che una eventuale regolamentazione di Facebook andrebbe nell’ottica di limitare la libertà degli utenti piuttosto che garantirla: forse è meglio scamparcela. E però, a livello internazionale da anni abbiamo sollevato il tema della Carta dei Diritti della Rete, sotto la guida illuminante di Stefano Rodotà. Più la rete si evolve e più ne aumenta il bisogno.

[tags]internet, internet governance, rete, diritti, facebook, youtube, ban, privacy, rodotà[/tags]

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giovedì 8 Luglio 2010, 14:21

Seguirà cocktail: la manifestazione contro l’inceneritore del Gerbido

Spero ben di non dover di nuovo spiegare perché gli inceneritori sono una scelta sbagliata da tutti i punti di vista – ambientale, energetico ed economico; e perché vengano spinti dalla politica italiana semplicemente in quanto “grande opera” generatrice di appalti e di flussi di cassa imponenti (comunque, se avete bisogno, avevo pubblicato una analisi più dettagliata l’anno scorso).

Ieri mattina si è svolta in pompa magna la cerimonia di “posa della prima pietra” dell’inceneritore del Gerbido, ovviaemnte ad uso telecamere, con tanto di discorsi e di benedizione del prete di turno. Tra politici e VIP torinesi era stato fatto circolare un invito, rinforzandolo con la classica frasetta “seguirà cocktail”. Mentre questi, ben chiusi e protetti dalla polizia, si facevano la loro cerimonia e il loro cocktail a nostre spese, noi siamo andati a manifestare; nonostante l’orario ovviamente infelice (mercoledì mattina alle 11 sotto il solleone) si sono presentate oltre un centinaio di persone.

Quel che è successo non è stato mostrato da nessuno; o meglio, quasi tutti i giornali vi hanno fatto un accenno (meglio del solito, devo dire), ma il TGR Piemonte ha battuto ogni record di disinformazione (vedrete alla fine del video… da non perdere). La manifestazione è stata pacifica ma tesa, perché chi usciva dal bunker è stato coperto di insulti e preso a palline di carta, e la reazione delle forze dell’ordine non si è fatta attendere: molti spintoni e per poco non sono partiti i manganelli. Alla fine tutti hanno mantenuto la calma e il sangue freddo, e nessuno si è fatto male; io ovviamente ho ripreso e montato, e vi faccio vedere.

[tags]torino, inceneritore, gerbido, manifestazione, informazione, tgr piemonte, no inc, rifiuti[/tags]

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martedì 6 Luglio 2010, 18:21

La Padania che verrà

La Padania è sempre più spesso nei nostri discorsi; e questa è già una vittoria di Bossi. Su Lega sì, Lega no si è incentrata buona parte della passata campagna elettorale per le regionali piemontesi, e ancora di più la pletora di commenti usciti dopo il voto, per non parlare di un crescente “dialogo culturale” tra polentoni e neoborbonici, a colpi di insulti e di revisionismi su storie di 150 anni fa.

A me tutto questo fa arrabbiare; non tanto il fatto di dover discutere se abbiano rubato più soldi i piemontesi dalle casse napoletane o i napoletani dalle casse piemontesi (siamo in Italia, hanno rubato tutti), ma il fatto che in questo Paese non si riesca ad avere una civile e razionale discussione sul tema del federalismo.

Già, perché alzando un attimo il naso dal paiolo della polenta ci si potrebbe accorgere che l’Italia non è certo l’unico posto dove si discute di autonomie e di secessioni, e che il celodurismo da campanile non è affatto l’unico modo di discuterne.

Il Belgio, per esempio, è già di fatto un paese diviso in due nazioni e mezza, rotto da secoli di rivalità e da uno spettacolare ribaltone nella suddivisione della ricchezza economica tra Nord e Sud (purtroppo per i suoi abitanti, la Vallonia negli ultimi cento anni ha prodotto due cose soltanto: Magritte e la disoccupazione). Nessuno crede che il Belgio possa esistere ancora per molto, a meno che non si verifichi qualche miracolo economico.

La possibile frantumazione dell’Italia, dunque, non è affatto un tema di folklore, ma un problema oggettivo: del resto lo stesso Economist – pur di sinistra per quanto possa esserlo un giornale economico inglese – per gioco ma fino a un certo punto divide l’Italia in due, prevedendo una nazione separata al Sud, fuori dall’Unione Europea, cortesemente denominata Bordello.

Sono chiari a chiunque li voglia vedere i giochi di potere geopolitico e le tensioni economiche interne all’Unione Europea, e si parla apertamente di doppio euro e di possibile uscita dall’Unione di un blocco forte, dominato dai tedeschi – a cui interesserebbe ovviamente tenersi attaccato il Nord Italia e scaricare il Sud. Se scattasse una crisi globale di fiducia nei debiti pubblici, l’Italia rischierebbe davvero la bancarotta e il conseguente caos nelle strutture pubbliche; e a quel punto quanti di voi sono disposti a scommettere che le parti del Paese coi conti più in ordine sarebbero favorevoli a portarsi dietro i debiti delle altre?

Non sono certo le buffonate celtiche che spezzano i Paesi; le buffonate celtiche sono al massimo un metodo ben studiato per trasformare un concetto inizialmente innaturale in uno assolutamente familiare; provvisoriamente ancora respinto, ma familiare e dunque plausibile. Dopo, arriva il fattore scatenante per trasformarlo da plausibile a reale, che può essere un esercito o, più elegantemente, un disastro economico più o meno artificiale.

D’altra parte, siamo da decenni nel mezzo di un processo storico di “glocalizzazione”; da una parte i governi nazionali diventano impotenti di fronte a fenomeni socioeconomici globali, e dall’altra diventano troppo grossi e rigidi per gestire in maniera efficace una società che si evolve alla velocità della luce. Non è un caso che i migliori successi europei degli ultimi lustri vengano da Paesi di medie dimensioni (Irlanda, Danimarca) o da Paesi con una struttura fortemente federale (Spagna, Germania).

In fondo, nel momento in cui la mia economia e la mia vita sono governate da decisioni prese a Bruxelles e a Francoforte, che differenza fa che la scritta sul mio passaporto dica Italia, Padania, Piemonte, o Repubblica Popolare del Quartiere Parella? Non cambia praticamente niente, a parte il colore della maglia della nazionale e il rapporto costi/benefici legato alle prestazioni offerte da ciascun governo e alle tasse richieste in cambio. A questo punto, laicamente, tanto vale concepire lo Stato come un puro “centro servizi” e scegliere la dimensione di governo più efficiente.

Basta solo che se ne parli con serietà e con obiettività; e che nel farlo non si insulti chi, in tempi completamente diversi, per la nostra bandiera ha dato la vita. Altrimenti il rischio è che la secessione avvenga comunque, e che da una nazione da operetta si finisca in uno staterello di buffoni.

[tags]italia, padania, borboni, secessione, bossi, crisi, germania, belgio, unione europea, unità d’italia[/tags]

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sabato 3 Luglio 2010, 12:52

Lo scopo di Twitter

Bazzico d’abitudine un po’ tutti i social network, ma fino a questa settimana c’era una eccezione: Twitter. Onestamente non ne ho mai capito bene il senso, visto che se proprio vuoi raccontare al mondo tutto quel che fai una riga alla volta puoi sempre aggiornare il tuo status su Facebook. Tuttavia, anche solo per vedere com’è, qualche giorno fa mi sono registrato.

O meglio ci ho provato; perché metà delle volte mi veniva fuori una schermata che diceva che la capacità massima del sistema è stata superata e di riprovare più tardi.

Poi ho aggiunto due o tre amici nella lista, per ricevere nella mia home i loro aggiornamenti.

O meglio ci ho provato; perché anche qui continuavo a ricevere la simpatica paginetta di errore ogni due per tre.

Quando ieri pomeriggio ho letto che Ronaldo aveva usato il proprio Twitter per invitare Felipe Melo a non tornare più in Brasile (e noi siamo contenti: viste le prestazioni, speriamo che giochi ancora a lungo nella Juve), sono andato a vedere.

E ho ricevuto la pagina di errore, per dieci o venti volte consecutive, senza riuscire a vedere un bel niente.

Ma allora spiegatemi, la gratificazione nell’usare Twitter è riuscire a caricare le pagine?

[tags]internet, social network, facebook, twitter, capacity planning[/tags]

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venerdì 2 Luglio 2010, 14:29

L’Internazionale operaia non sta molto bene

Ho molto rispetto per Diego Novelli (purché non si parli di Toro) e per Nuova Società, ma raramente mi è capitato di incontrare un articolo politico che, a causa di uno sfortunato incidente, mi abbia fatto contemporaneamente ridere e pensare così.

E’ che un paio di settimane fa, nel momento clou della vicenda sindacale di Pomigliano, Nuova Società ha pubblicato una toccante lettera degli operai di Tychy (lo stabilimento in Polonia dove si fa la Panda) a quelli di Pomigliano, che si scusava per avergli portato via anni fa il lavoro accettando condizioni e retribuzioni peggiori rispetto agli italiani, e li incitava a continuare la lotta per il bene di tutti gli operai Fiat del mondo, in un classico e ortodosso afflato marxista di “proletari di tutto il mondo unitevi”.

E poi, a fine articolo, dopo tutto questo eloquio di aulica ideologia e queste toccanti parole di solidarietà antipadronale, è comparsa nei commenti la risposta di un operaio di Pomigliano, perfettamente in linea con le aspettative internazionaliste del settimanale di Novelli:

“Bastardi..polacchi di *** andate a farvi fottere….per causa vostra è successo tutto questo casino la colpa è solo vostra e ancora vostra……bastardi che non siete altro siete sottopagati..e lavorate come schiavi..e non vi siete mai ribbellati..adesso che le cose cambiano per voi vorreste ribbellarvi in alleanza con noi italiani ? vi dico ancora andate a farvi fottere bastardi schiavi di ***…dovete morire tutti se siamo ridotti a queste condizioni di schiavitu’ poste da fiat…la colpa è vostra e solo vostra….bastardi schiavi andate ancora a farvi fottere.”

Ecco, credo che sia impossibile descrivere meglio come i partiti di sinistra continuino a rivolgersi agli operai con gli stessi schemi astratti vecchi di 150 anni, e come gli operai da un pezzo rispondano mandandoli a cagare e votando Lega o Berlusconi.

[tags]sindacati, lavoro, operai, globalizzazione, pomigliano, tychy, fiat, nuova società, sinistra, lega, berlusconi[/tags]

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giovedì 1 Luglio 2010, 22:29

Dov’è finita la violenza

Ieri è passato nel silenzio quasi totale un anniversario importante: il cinquantenario dei fatti di Genova del 30 giugno 1960. E questa cosa mi è venuta in mente perché, l’altra sera a cena, un parente che ha vissuto da ragazzo gli anni ’70 mi ha detto “Visto il clima politico ed economico, sono piuttosto stupito, favorevolmente, che nessuno si sia ancora messo a sparare”.

Cinquant’anni fa, a Genova, la violenza eruppe per molto meno; l’Italia non era governata da un pluri-indagato e nemmeno moriva (più) di fame, anzi si era proprio nel punto massimo del “boom economico”. Il carburante della protesta fu la nascita del governo Tambroni, un governo democristiano di minoranza che sopravviveva con il sostegno esterno del MSI; e la scintilla fu la decisione dei missini di tenere il proprio congresso a Genova, riportando in città il famigerato podestà Basile, che l’aveva governata ai tempi del fascismo.

Contro tale decisione, contro un clima di riabilitazione del fascismo, centomila persone scesero in corteo e ci furono gravi incidenti; ovviamente i resoconti anche dopo cinquant’anni non concordano, ma potete leggere la versione dei comunisti (da un sito con falce e martello), la versione dei fascisti (da un blog di destra) e la versione dei fascisti lavati a Fiuggi (da Wikipedia: dove altro si potrebbe trovare una enciclopedia che descriva uno scontro di piazza parlando di “sapiente regia comunista delle manifestazioni”?).

Comunque, l’Italia di allora era pronta a occupare le piazze e scontrarsi violentemente con la polizia anche solo all’idea che i fascisti potessero appoggiare un governo dall’esterno – e con successo, dato che il governo Tambroni cadde dopo meno di tre settimane. Adesso, invece, viviamo in un regime che è oggettivamente mezzo fascista – nell’occupazione del potere, nella censura esplicita dei mezzi di comunicazione di massa, nelle intimidazioni e nele restrizioni verso i magistrati che indagano sugli abusi del potere, nelle minacce ed epurazioni verso chiunque non si allinei – eppure in piazza scendono delle minoranze, e soprattutto queste minoranze vanno lì, ascoltano il comizio di turno – talvolta hai l’impressione che qualcuno faccia i comizi di opposizione per mestiere, perché anche la poltrona di opposizione totale è pur sempre una poltrona – e poi tornano a casa e non succede niente.

Probabilmente è cambiato il mondo; culturalmente, la violenza è sempre meno accettabile ed accettata. Una volta ogni trent’anni si macellavano le generazioni, adesso la guerra diventa uno scandalo anche per una sola vittima; i nostri nonni si ispiravano a Garibaldi, e noi ci ispiriamo a Gandhi; solo trent’anni fa in Commando Schwarzenegger andava in tripla cifra a forza di mitragliatrice, e ora invece persino nei film d’azione non muore più nessuno. E questo, indubbiamente, è un bene… o lo sarebbe se non ci avesse reso (per caso, per strategia?) imbelli, indifesi, sottomessi a un potere che, quando vuole, sa benissimo come usare la violenza e anche come coprirla e farcela accettare.

Per certi versi, la nostra nonviolenza è una forma di codardia, di paura di assumersi le proprie responsabilità di animale in lotta per la sopravvivenza e di rischiare per esse il dolore fisico; per altri è una forma di coraggio, per cercare di vincere le proprie battaglie da essere umano e senza ridiventare belva.

Alla fine, forse non siamo aggressivi perché non abbiamo abbastanza fame. Siamo ancora troppo ricchi e ben pasciuti, abbiamo ancora troppi ninnoli tecnologici e troppi bisogni superflui per arrabbiarci davvero. Quando arriverà la fame vera, probabilmente tornerà anche la violenza.

[tags]genova, 30 giugno 1960, manifestazioni, partigiani, msi, tambroni, destra, sinistra, guerra, violenza, nonviolenza[/tags]

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mercoledì 30 Giugno 2010, 13:19

Gli aumenti della tangenziale

Salvo miracoli dell’ultimo momento, da domani mattina scatterà inesorabile l’aumento dei pedaggi della tangenziale: 20 centesimi di aumento (su tariffe precedenti di 1 o 1,10 euro) a Bruere, a Falchera e a Settimo (il casello di ingresso sulla Torino-Aosta, il cui pedaggio per chi entra/esce a Torino ingloba appunto la quota per la tangenziale).

E’ abbastanza incredibile il meccanismo che sta dietro a questi aumenti. Intanto, non sono aumenti che vanno in tasca all’Ativa (la concessionaria della tangenziale) ossia a quei buoni amici degli amici del gruppo Gavio, che già hanno abbondantemente incassato a gennaio. Vengono riscossi da loro, ma vanno in tasca all’Anas, ovvero allo Stato.

Già, perché questo è l’effetto della manovra finanziaria “che non mette le mani in tasca agli italiani”, e in particolare l’introduzione del pedaggio su ventidue superstrade realizzate dall’Anas e finora gratuite, tra cui, nel nostro caso, il raccordo per l’aeroporto di Caselle.

A questo punto voi direte: ma cosa c’entra? Cioè, perché per far pagare la superstrada per Caselle bisogna aumentare il pedaggio a chi va da Rivoli a corso Regina Margherita o da Volpiano a Orbassano? Il problema è che per incassare il pedaggio sulla superstrada bisognerebbe costruire perlomeno un casello, ad esempio tra la tangenziale e Borgaro, similmente a quello di Beinasco sulla Torino-Pinerolo (ah, tra l’altro aumenterà di 10 cent anche quello, non per questa vicenda ma per via di un generale aumento e di conseguenti arrotondamenti). Ma costruire un casello costerebbe più di quello che si incasserebbe; e allora, per far prima, è più facile aumentare un po’ il pedaggio a tutti quelli che passano in zona – meglio se su caselli che portano molto traffico, fregandosene del fatto che la grande maggioranza di chi passa di lì non imboccherà mai il raccordo per l’aeroporto.

Al contrario, chi percorrerà l’intero raccordo da corso Grosseto a Caselle continuerà a non pagare una lira; ed è invece facile prevedere un aumento del traffico sulla viabilità ordinaria che permette di aggirare i caselli della tangenziale, come corso Grosseto, piazza Rebaudengo e corso Vercelli a Torino, o come corso Susa, corso Torino e corso Einaudi a Rivoli.

E’ giusto? Sicuramente no; sarebbe giusto che ognuno pagasse proporzionalmente all’effettivo uso delle strade, anche se far pagare i sistemi tangenziali di solito porta solo all’intasamento della viabilità ordinaria, per cui quasi ovunque si tende a mantenerli gratuiti e basta… considerando tra l’altro che le autostrade che partono da Torino sono già tra le più care d’Italia (11,9 cent/km per Bardonecchia, 9,8 cent/km per Aosta, 7,3 cent/km per Milano e per Piacenza… vedi tabella di Quattroruote).

Si poteva fare diversamente? Ecco, a prima vista forse no, o meglio, non nell’attuale Italia. Il fatto che lo Stato abbia bisogno di soldi per non fallire è evidente; ed è facile prevedere un aumento di tutto ciò a cui gli italiani non possono sfuggire, a partire dalle tariffe dei servizi in regime di monopolio. Alla fine, tassare il traffico privato è ancora il meno peggio da vari punti di vista.

Resta il fatto che, sì, le cose potrebbero essere diverse; potremmo avere uno Stato che va veramente a cercare i soldi dove ci sono, nell’evasione fiscale, nei privilegi, nei trattamenti ingiustificati, negli sprechi della pubblica amministrazione, nei redditi assurdi dei concessionari politicizzati dei servizi, nelle clientele dei partiti e infine, quando tutto il resto sarà stato ottimizzato, nelle tasche di chi guadagna di più. Un aumento di venti centesimi ha un impatto ben diverso per il pendolare con lo stipendio contato e per il vacanziero agiato con la macchina da 50.000 euro. Da tempo penso che pedaggi, parcheggi, permessi di circolazione e multe dovrebbero avere costi proporzionali al valore dell’auto e all’inquinamento che produce: tecnologicamente ormai è fattibile senza grandi problemi, basterebbe averne voglia.

Peccato che per ora viviamo ancora nell’Italia che “se la cava”: cavando soldi da dove riesce.

[tags]autostrade, pedaggi, aumento, tangenziale, torino, caselle, traffico, viabilità, anas, ativa, gavio[/tags]

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martedì 29 Giugno 2010, 15:24

Dei costi della politica

Ieri sera si è tenuta la riunione dell’associazione ex Movimento 5 Stelle Piemonte, dove sono stati affrontati i due argomenti su cui avevo chiesto un parere a chi si era registrato sulla mia piattaforma.

L’associazione, svuotata di qualsiasi ruolo nel Movimento, si è ridotta a un gruppo di una manciata di amici, tanto che ieri sera alla riunione erano presenti fisicamente solo quattro soci, più altri tre per delega. Vi è un interesse ridotto a tenerla in vita, ma d’altra parte chiuderla subito non ha molto senso, specie ora che vi è l’ipotesi che si debba tornare alle urne. Vorremmo dunque perlomeno mantenere in vita il blog Piemonte5Stelle, dopo avergli cambiato nome e indirizzo in modo che non lo si possa confondere con il blog ufficiale dei consiglieri regionali, quello sul sito di Grillo. E poi, se vi sarà interesse, potremo presentare qualche progetto per ottenere dei finanziamenti dal fondo dei consiglieri regionali, quello costituito con i soldi avanzati dai loro stipendi.

Per quanto riguarda la questione delle quote di 300 euro versate all’inizio della campagna elettorale da quasi tutti i candidati, si è verificato che effettivamente l’accordo originale era di considerarle un prestito in attesa di raccogliere i fondi necessari mediante donazioni. Dato che dalla campagna elettorale sono avanzati circa 5.000 euro, si è deciso dunque di provvedere a rimborsare le quote proporzionalmente ai fondi disponibili, che coprono circa i due terzi di ogni quota.

Dopodiché si è discusso se accettare la disponibilità, già espressa dai consiglieri regionali, di aggiungere i circa duemila euro mancanti per permettere un rimborso completo, prelevandoli dal fondo di avanzo dei loro stipendi; la questione è stata più controversa, perché secondo alcuni questa costituirebbe una forma surrettizia di rimborso elettorale a spese delle casse pubbliche. La proposta è stata approvata a maggioranza, ma io ho votato contro, perché la maggior parte delle risposte ricevute durante la consultazione si erano espresse in tal senso; dunque intendo rinunciare a questa parte del rimborso.

A scanso di equivoci segnalo che chi si è candidato ha sopportato costi che non si limitano ai 300 euro di quota; a parte eventuali spese di propaganda personale (come i miei 155 euro di volantini), ci sono costi come benzina e telefono, e soprattutto c’è il costo del tempo sottratto alla propria vita personale e professionale (la differenza tra il mio reddito medio degli anni 2005-2008 e il mio reddito medio del 2009-2010 è nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro l’anno).

Trovo giustissimo combattere duramente l’uso della politica per arricchirsi e l’appropriamento disinvolto di fondi pubblici per spese private, ma non sposo la linea secondo cui chi fa attivismo politico dovrebbe vivere in povertà; lo stipendio a chi ricopre cariche istituzionali fu introdotto proprio per permettere anche agli operai, e non solo ai ricchi, di impegnarsi nella gestione del bene comune. Credo dunque che utilizzare i residui delle donazioni per ridurre almeno un po’ il passivo di chi si è candidato sapendo sin dal principio che non sarebbe mai stato eletto, condividendo lo sforzo economico necessario tra tutte le persone che hanno messo cinque o dieci euro per aiutarci, sia una scelta giusta, anche se non mi sento invece autorizzato a prendere i soldi che derivano dallo stipendio dei consiglieri.

[tags]movimento 5 stelle, beppe grillo, politica, costi, rimborsi[/tags]

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lunedì 28 Giugno 2010, 17:48

Cyberspazio e realtà

Oggi sono andato al Politecnico per assistere alla prima giornata della conferenza University and Cyberspace, organizzata dal progetto europeo Communia, in cui il centro Nexa del Poli ha un ruolo centrale. Questa è una delle poche vere eccellenze rimaste a Torino, su un tema cruciale come il rapporto ad ampio raggio tra Internet e società, con un particolare occhio per le tematiche relative ai contenuti; e anche la conferenza è di alto livello (qui il webcast).

In attesa che si palesi Joi Ito (se siete lettori da tempo di questo blog, ricorderete la foto ed il libro), stamattina c’è stato prima un interessante dialogo tra Juan Carlos De Martin e Charles Nesson del Berkman Center di Harvard, e poi il solito lucido discorso di Stefano Rodotà.

Rodotà è il miglior italiano che conosca e mi piacerebbe molto riuscire a concludere nella vita un centesimo di quello che ha fatto lui; nel frattempo cerco di trarne esempio. Abbiamo chiacchierato per buona parte del pranzo (gli ho portato i ringraziamenti per il suo impegno diretto sui referendum dell’acqua) e se da una parte mi ha fatto piacere constatare che la pensiamo allo stesso modo, dall’altra ne è uscita una visione della situazione italiana tutt’altro che rosea. Lui non si risparmia e gira l’Italia per le sue battaglie con energia invidiabile; io mi chiedo come recuperare un simile ottimismo, capito che il problema non è di sostituire un partito per un altro ma di cambiare la mentalità degli italiani, e che questa è una impresa davvero proibitiva.

[tags]politecnico, internet, pubblico dominio, communia, nexa, università, berkman center, de martin, nesson, rodotà[/tags]

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sabato 26 Giugno 2010, 15:50

L’economia delle TLC spiegata per voi

Stefano Quintarelli ha preparato un bellissimo video che, in poco più di un quarto d’ora, spiega chiaramente e in modo comprensibile a tutti l’attuale situazione di stallo nelle telecomunicazioni italiane, quella per cui, in assenza di scelte politiche forti, siamo destinati a rimanere indietro nell’infrastruttura più cruciale per il nostro sviluppo.

Per sostenere l’economia, la cultura, l’informazione e tutti gli altri settori avanzati da Internet è necessario contemporaneamente dotarsi di una infrastruttura costosa (ma non così tanto) e necessariamente unica per tutti, una rete capillare in fibra ottica, e aprire tale infrastruttura a una vera concorrenza e dunque all’innovazione competitiva continua, anziché vivacchiare in un mercato dominato da Telecom Italia.

Sarebbe un investimento remunerativo (secondo i conti di Quintarelli, la ricaduta per ogni euro investito sarebbe venti volte superiore a quella della TAV Torino-Milano, per esempio) e a cui non vi sono alternative (il wi-max non lo è) ma che l’industria privata non ha né le possibilità né l’interesse di finanziare. Ci vorrebbe un governo lungimirante, come quelli che cinquant’anni fa costruirono le autostrade, cent’anni fa costruirono la rete telefonica e centocinquant’anni fa costruirono la rete ferroviaria – tutte infrastrutture che all’inizio sembravano quasi un lusso, ma senza le quali oggi saremmo ancora nelle capanne di fango. Il problema è che, oggi, un tale governo non si vede all’orizzonte.

[tags]telecomunicazioni, internet, economia, rete, telecom italia, wimax, quintarelli[/tags]

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