Ieri ero a Pisa e non avevo voglia di restare, ma nemmeno di tornare. In verità , l’aria della Toscana è subito diversa, nel profumo, nella temperatura, nell’accento; è comunque dolce e tranquillizzante, e una volta ogni tanto fa piacere.
E poi, arrivarci in macchina è sempre una sfida, attraverso una sfilata di centinaia di gallerie che non finiscono mai, che scavano sempre più nel profondo, e insieme che mostrano i segni del tempo, nelle curve vetuste e nel cemento scrostato. All’andata ho trovato anche la neve, tra Sestri e La Spezia, e ho dovuto infilarmi nei curvoni in salita come una ballerina; il ritorno di sera è stato un’ipnosi di precisioni, centrando a centoquaranta gli stretti varchi tra un camion a destra e il muro a sinistra, per poi disegnare invece le pieghe più belle sulla semideserta salita di Voltri: dove le curve (tranne un paio) a centoquaranta si possono anche fare, prendendo lo spazio delle tre corsie e il rischio di uscire dalla galleria di Masone e trovare dall’altro lato il nevischio. E comunque, ci sono sempre quei chilometri di videonongioco, una finta finta prova speciale sui curvoni indecenti tirati da Mussolini sulle spalle di Sampierdarena – alcuni del livello di una svolta cittadina ad angolo retto tra due vie – e poi su tutta la tangenziale di Genova.
Come d’abitudine, mi sono fermato a mangiare alla stazione del Turchino, che come autogrill fa piuttosto schifo – non è nemmeno un Autogrill di marca, e nei cessi ci sono grandi cartelli in cui le autostrade si scusano per quanto fanno schifo, e promettono ristrutturazioni a venire – però è in una posizione straordinaria, con il vento che tira inarrestabile e le stelle proprio lì sopra; e mi ha regalato degli gnocchetti al falso pesto sotto un televisore col Grande Fratello, ma anche una scatola di pandolcini Preti che, in spregio alla globalizzazione, già dopo Novi Ligure non si trovano più.
Prima di tutto questo, però, la mia voglia di tornare e non tornare si è concretizzata in un avvio lento e costellato di ricordi, incerto se andare verso Lucca a comprare il buccellato, o fermarmi a Sarzana in un posto dove avevamo mangiato tanti anni fa. Alla fine ho optato per una passeggiata sul lungomare liberty di Viareggio, che è sempre una vista dall’anima caratteristica. Se non si prende l’autostrada, ci vanno quaranta minuti ad attraversare Pisa, l’Aurelia e Viareggio; ma ho parcheggiato proprio al bordo dei giardinetti.
La passeggiata di Viareggio, persino in una sera piovosa d’inverno, è piena di luci; la serie dei vecchi cinema in stile floreale è intervallata da ristoranti vuoti, negozi di vestiti alla moda (170 euro un piumino Moncler per quattrenni, se v’interessa) e un numero spropositato di negozi di audio, video e console (Panariello ovunque). C’era comunque gente, principalmente ragazzotti che paiono scimmiottare il Cipollini (non il pittore che lì ha lo studio, il ciclista) e il Pieropelù (credo che anche a lui, come al fu Battista Farina detto Pinin, daranno il permesso di fondere il nome col cognome e tramandare il tutto ai figli).
Comunque, dopo un po’ trovo quel che stavo cercando, cioè uno spazio finalmente libero da edifici, che mi permetta di svoltare verso il mare. Piovicchia, e la rena è bagnata, il che mi permette di camminarci sopra senza inzaccherarmi troppo le scarpe. Percorro alcune decine di metri entrando man mano nel buio e nel silenzio, rotto appena dalla risacca e dalle onde che salgono e scendono il declivio compatto e impercettibile che si inabissa man mano. Sono solo col tutto e le stelle.
A mare, il mondo è superfluo (la frase funziona anche rimuovendo un po’ di punteggiatura). Da una parte, resta una lunga, lunghissima curva di puntini luminosi, che unendosi tracciano la linea costiera che si perde per chilometri verso Massa. Dall’altra, una specie di castello Disney di alberi di barche e di gru di cantieri si specchia nell’acqua, disegnando un doppio patchwork indefinibile che cattura lo sguardo. Vorrei scattare una foto, ma non ne ho i mezzi, e non riuscirei certo a fermare la sensazione.
Alla fine, dopo aver scherzato un po’ con le dita nell’acqua, e a saltelli per evitare le onde, decido di rientrare nel mondo e mi volgo. La passeggiata illuminata è davvero lontana, con le auto e i pedoni che passano indifferenti, evitando di guardare il buco nero tra le quinte che apre la prospettiva infinita dell’orizzonte del Tirreno, smascherando il rassicurante contenimento delle case in muratura. Torno indietro tra le pozzanghere. Piove più forte.