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Archivio per il mese di Agosto 2007


giovedì 23 Agosto 2007, 16:26

Los Angeles (1)

In questi giorni sto scrivendo un po’ di commenti e ricordi sul mio viaggio a Los Angeles dell’altra settimana; siccome sono abbondanti, li posterò un po’ per volta, a puntate.

Nel complesso, questo viaggio resterà nei miei ricordi come alcuni giorni densi di sensazioni interessanti, e di un po’ di apertura rispetto a quella percezione di aria chiusa, di frustrazione e di asfissia che, qualsiasi cosa si pensi, si respira ormai da troppo tempo in Italia (vedi la discussione sul signor Rossi).

Parte di ciò, in effetti, è data dalle numerose esperienze intra-extra-sensoriali, cominciate con il viaggio di andata, e culminate quando, verso le tre e mezza di mattina nel mio lussuoso albergo di Santa Monica – peraltro gestito da una manica di stagisti orientali che non avrebbero saputo mandare avanti neanche una lavanderia -, dopo essermi rigirato varie volte nel letto senza riuscire a riprendere sonno, mi è apparso in persona Don Henley a cantare per intero Desperado, apposta per me, dall’inizio alla fine, e poi persino a rifarla tutta da capo come un bis, giusto per essere sicuro che il messaggio fosse chiaro: una esperienza profonda, che ti cambia la vita.

Los Angeles, in effetti, è così: un miraggio, una entità irreale che apre una finestra su un modo di vivere completamente diverso. La prima impressione non è granché, ma probabilmente è proprio perché la città è troppo diversa dalla nostra concezione: un rettangolo lungo la costa di cento chilometri di lunghezza per quaranta di profondità, con vari tentacoli aggiuntivi. Solo recentemente hanno permesso la costruzione di grattacieli, per cui ci sono solo due o tre punti dove la città, vista dalla collina, emerge in altezza; il resto è una distesa infinita di case basse, in certe zone più dense, in altre meno, intervallate da autostrade, zone industriali, zone commerciali (tendenzialmente piccole, fatte di negozietti e fast food) e degli enormi canali di cemento (da noi noti per la scena di inseguimento in Terminator 2) che fungono da fogna a cielo aperto. Los Angeles è un enorme reticolo, in cui le vie – avenue da nord a sud, boulevard da est a ovest – sono lunghe ciascuna trenta o quaranta chilometri, ed è sempre affascinante reincrociare la stessa via a distanze siderali e in tutt’altro contesto.

Ci sono, comunque, anche dei vantaggi, al di là della vitalità commerciale e culturale della città. Per esempio, il clima: non fa mai veramente freddo. Poi ci sono le spiagge: ampie, di sabbia, e completamente libere, persino davanti alle località più note (qui il concetto di “stabilimento balneare” è sconosciuto). E ci sono le colline: l’unica parte paesaggisticamente bella della città, che sovrasta tutta la famosa infilata di quartieri e comuni sui Sunset e Santa Monica Boulevard: da ovest a est, Downtown, Silverlake, Hollywood, Beverly Hills, Century City, Westwood, Bel Air, Brentwood e infine Santa Monica, lo sbocco al mare.

Ma non fatevi ingannare: non sono veramente dei quartieri o delle cittadine come intendiamo noi, con un centro, un monumento, una piazza, qualcosa che funga da punto di aggregazione. Sono distese di case, interrotte ogni tanto da qualche casa più storica o famosa che definisce il circondario. Per dire, più a sud, Wilshire Boulevard a ovest del centro è una delle zone storiche e famose; ma non è che una infilata di palazzi più belli e più vecchi, costruiti a inizio secolo sulla vecchia strada per il mare, in mezzo al generale mare di anonime palazzine e negozietti.

Le colline, comunque, meritano la visita; potete fare come me, e noleggiare una macchina, anche perchè visitare Los Angeles senz’auto è sostanzialmente impossibile. Qui, più ancora che nel resto degli Stati Uniti, vale il primo principio del turista europeo in America, ossia TUTTO E’ MOLTO PIU’ LONTANO DI QUELLO CHE SEMBRA. “Due fermate di metro” sono facilmente quattro o cinque chilometri. “Tre o quattro isolati” sono mezz’ora a piedi. “E’ solo il paese dopo” vuol dire mezz’ora di macchina, fermi negli eterni ingorghi delle insufficienti autostrade (solo una ventina, a quattro-sei-otto corsie per senso di marcia) che attraversano la città. Per dire, io, per spostarmi dall’albergo di Santa Monica a quello di Hollywood, ho noleggiato un’auto per un giorno: vista la distanza e il traffico, costava praticamente come il taxi.

L’auto si è poi rivelata essere una Ford Focus, che però non sembrava nemmeno lontana parente della Focus nostrana: berlina, stretta e alta, e con l’aria di ribaltarsi da sola. Ero peraltro l’unico che avesse noleggiato una classe A in quel posto nelle ultime tre settimane, per cui mi hanno dato l’unica che avevano: targata Oklahoma. E’ stato un po’ come girare per Torino con la targa di Caltanissetta.

Io l’ho presa e per prima cosa sono andato al Getty Center di Brentwood (da non confondere con la Getty Villa di Malibu), un enorme centro museale realizzato da un benefattore talmente sovversivo da dotare sì il tutto di un enorme parcheggio sotterraneo, ma da realizzarlo lontano (c’è un trenino di collegamento) e soprattutto da far pagare il parcheggio anziché l’ingresso al museo. Il museo è così così, una collezione di arte europea completa ma uniformemente di livello relativamente basso, a parte un paio di Rubens e di Tiziano. Il posto, però, è meraviglioso, in cima alla collina, in mezzo al verde bruciato dal sole, costruito con travertino originale di Tivoli portato fin là con una ventina di transatlantici. Potete anche guardare la città dalla terrazza, o meglio la potreste guardare se non fosse coperta – permanentemente – da uno strato di foschia rossa e solida spesso un paio di chilometri: l’aria più inquinata del pianeta, persino più di Milano.

Il vero clou, però, è stato uscire di lì nel tardo pomeriggio di una tranquilla domenica d’agosto, e imboccare la vicina Mulholland Drive, percorrendola tutta, fino a Hollywood.

(continua…)

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mercoledì 22 Agosto 2007, 10:17

Valentino Rossi

Volevo evitare la questione, perché so che su questo finirò per litigare con la maggior parte dei miei lettori, ma l’abbondanza di commenti a questo post – seppure a scoppio ritardato – mi spinge a chiarire meglio il mio punto di vista sulla questione di Valentino Rossi e della sua presunta evasione fiscale.

Che è una questione interessante, perché l’Italia si è abbastanza spaccata: una maggioranza a condannarlo in modo addirittura violento, mettendolo alla gogna su tutti i giornali; e una minoranza a farne una vittima e un eroe. Io credo che nessuno di noi abbia i dati per giudicare, ma tendo a stare dalla sua parte; per l’istintiva repulsione alle cacce alle streghe, e anche per altri ragionamenti.

Rossi deve pagare le tasse, su questo non ci piove; su questo le critiche hanno ragione. Le suddette critiche, però, partono quasi sempre dando per scontato il fatto che Rossi abbia veramente evaso le tasse, senza dargli alcun beneficio del dubbio: come mai? Io ho notato in moltissime delle invettive contro Rossi una componente aggiuntiva che svaria tra la frustrazione, l’invidia e il desiderio di vendetta; come se gli si dovesse far pagare il fatto di essere ricco e famoso, e in qualche caso anche quello di avere un commercialista più creativo del proprio.

Anche nei commenti che ho ricevuto, ho notato una preoccupante tendenza a strutturare la questione come “a lui 100 milioni di euro non servono davvero, per cui lo Stato è giusto che ne prenda 60”. Con lo stesso principio, però, si potrebbe dire che a lui per vivere bastano centomila euro l’anno, per cui lo Stato potrebbe tassarlo al 99.9%, no? Questo è il principio base delle società comuniste: tutto è dello Stato e ognuno riceve “ciò che gli serve” a giudizio del governo. La nostra società non dovrebbe funzionare così, e noto appunto alcune preoccupanti lacune collettive sulle basi filosofiche di una economia di mercato, sperando di non dover riaprire (nel 2007…) la discussione sul perchè l’economia comunista e la società moderna siano incompatibili.

Comunque, la questione di Rossi è legalmente complessa, perché esistono un accordo bilaterale per cui i cittadini italiani residenti in Inghilterra pagano solo le tasse inglesi, e una legge inglese che permette agli immigranti in Inghilterra di pagare le tasse solo sui redditi generati là e non sul resto. Vuol dire che Rossi deve pagare ad altri paesi le tasse sul resto del reddito? Non si sa, è una questione da avvocati; ovviamente Rossi sceglie l’interpretazione favorevole a se stesso, lo Stato italiano anche, e si vedrà in tribunale. Ma ciò non mi sembra poter giustificare la conclusione che Rossi ha volontariamente e consapevolmente evaso le tasse, tale da sbatterlo su tutti i giornali come un mostro; se mai, si è trasferito in una nazione che (oltre ad essere un paese molto più civile del nostro) gli praticava condizioni migliori: è un reato? Capirei fosse andato ad abitare alle isole Cayman, ma a Londra

(In qualche caso ho letto qualcuno sostenere che sì, bisogna vietare ai ricchi italiani di trasferirsi altrove, per non privare il Paese del loro apporto fiscale. Era la stessa persona che sosteneva con fuoco e fiamme che non si potesse limitare la mobilità degli immigranti extracomunitari e il loro diritto a stabilirsi in Italia: evviva la coerenza.)

A me poi inquieta molto l’interpretazione fornita dal fisco italiano, secondo cui, anche se Rossi da anni abita a Londra, il fatto che abbia “affetti” e “interessi” in Italia autorizza l’Italia a prelevare la maggior parte dei suoi redditi. E’ una mentalità un po’ mafiosa, del tipo “puoi scappare, ma di noi non ti libererai mai”. Soprattutto a fronte dell’incapacità dello Stato italiano a gestire bene i soldi che gli affidiamo (altro che Svezia), per cui il piano strategico del fisco è centrato sull’aumento della pressione fiscale sulla parte produttiva del paese, invece che sull’eliminazione degli sprechi e delle spese inutili. Se poi l’esito di tutto questo è che la suddetta parte produttiva o emigra o evade o chiude l’attività, non vedo un grande futuro per l’Italia.

In questo senso, è appena normale che per la suddetta parte produttiva Valentino Rossi sia diventato un eroe: non è mica perché avrebbe evaso, se mai è perché questo caso, che da chi vede evasori e sfruttatori in ogni ricco è visto come il prototipo dell’arroganza del singolo, da chi invece si sbatte e crea ricchezza (per sè e per gli altri) è visto come il prototipo dell’arroganza dello Stato. In pratica, per questa fetta del Paese il signor Rossi è diventato il simbolo dell’italiano intraprendente che ha unito il talento ad anni di sacrifici, ha avuto successo, e invece di venire ringraziato ed apprezzato si trova fuori dalla porta la polizia, che a nome di raccomandati, assenteisti e politici gli porta via la maggior parte di ciò che ha guadagnato. Qualsiasi piccolo imprenditore del Veneto, qualsiasi manager milanese si è identificato con lui; ma anche gli istituti di insigni economisti come Sergio Ricossa.

Non so se sia più immorale il ceto che ci governa, o quello stuolo di gente che con la scusa degli evidenti sprechi, inefficienze e privilegi della politica evade (questa volta senza ombra di dubbio) le tasse. So però che l’immoralità dei secondi, unita alla pressione fiscale più alta d’Europa per molti versi, fa molto per aumentare l’evasione e solleticare l’immoralità dei primi.

In questo circolo vizioso, più le tasse aumentano e più cresce il numero di chi trova giusto evaderle, e più aumenta l’evasione e più aumentano le tasse per chi le paga. Non credo che sia possibile spezzarlo solo con la forza: gli unici dati che ho trovato sono del 1998 (ma ne avevo letti di simili per anni più recenti), in cui, per recuperare 2498 miliardi di evasione fiscale, lo Stato ha speso 2402 miliardi di lire in personale e strutture; quanti ne abbia spesi il resto d’Italia duranti gli accertamenti, compresi quelli a sproposito, non è dato sapere.

Insomma, l’unica strada è probabilmente un patto con gli italiani, basato su tasse decisamente più basse e su uno Stato che sia un esempio di moralità.

[tags]valentino rossi, tasse, evasione fiscale[/tags]

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mercoledì 22 Agosto 2007, 00:07

Meteoromanzia

In questi due giorni sono uscito di casa varie volte.

Una volta, ieri a pranzo, ho inforcato la bici; ho fatto appena in tempo ad arrivare al mio appuntamento che ha cominciato a piovere, e ho dovuto ritornare indietro sotto la pioggia e poi per strade allagate dal temporale (in piazza Rivoli l’acqua arrivava a mezza ruota).

Un’altra volta, oggi a pranzo, sono uscito a piedi – visto che non pioveva – per andare a un appuntamento in piazza Massaua, a due minuti di distanza. Sono salito sull’auto del mio corrispondente mentre cadevano le prime gocce. Al ritorno, sono stato accompagnato proprio davanti a casa, ma mi sono lo stesso lavato nei venti metri fino al cancelletto di casa mia (intelligentemente collocato all’aperto e senza protezione).

Così stasera, quando sono uscito per andare al pub, ho deciso che non mi sarei fidato: aveva smesso di piovere da un po’, ma ho ugualmente preso l’auto che avevo previdentemente messo in garage. Naturalmente, negli otto minuti netti di macchina da casa mia a piazza Arbarello si è scatenato una specie di tifone caraibico che ha rovesciato ondate d’acqua su tutti i presenti. E io mi sono bagnato un po’ scendendo dalla macchina; ma poco, perché avevo l’ombrello. Tiè, Giove Pluvio!

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martedì 21 Agosto 2007, 12:23

Zanzare

Stanotte ho avuto a che fare con un modello di zanzara assassina.

Per prima cosa, non si sa da dove sia entrata, visto che tutte le finestre erano chiuse da ben prima che calasse il sole e dovessi accendere le luci.

Ma soprattutto, adottava una tattica da killer: in pratica, finché la luce era accesa e stavo leggendo non si faceva vedere; spenta la luce, dopo qualche minuto, mentre ero già praticamente addormentato, improvvisamente la sentivo planare su di me. Essendo ancora piuttosto sveglio, accendevo di colpo la luce, e… la zanzara spariva: si nascondeva da qualche parte e non si muoveva più. Ma dopo aver spento la luce, ed essermi quasi addormentato, riappariva di colpo per attaccare.

Dopo un po’ di ripetizioni della scena, stavo quasi per lasciar stare e farmi mordere, in premio per l’astuzia; poi però ho pensato che se questa zanzara l’avesse avuta vinta, si sarebbe riprodotta e avrebbe dato vita a una mutazione di zanzare che evitano di esporsi alla luce, e sono quindi molto più difficili da eliminare per noi umani. Così mi sono messo d’impegno, e alla fine, senza accendere la luce, sono riuscito a beccarla quando ho sentito che mi stava pungendo su una mano. L’umanità è salva!

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lunedì 20 Agosto 2007, 12:27

Skyappe

Di come Skype sia stato giù per un paio di giorni ha parlato il mondo intero, compresi i quotidiani; io lo faccio solo perché altrimenti, per un blogger che si suppone tecnologico, finisco per non essere abbastanza sulla notizia; e ho il sospetto che ogni tanto dovrei parlare anche delle notizie, almeno quelle internettare, e non solo dei fatti miei.

Comunque, ciò che voglio sottolineare è che il problema – innescato a quanto pare dal reboot contemporaneo di milioni di utenti, causato all’arrivo di un aggiornamento significativo di Windows, che ha destabilizzato la rete peer-to-peer di Skype e insieme sommerso i server di autenticazione di richieste di login – è dovuto al fatto che Skype non è veramente una applicazione peer-to-peer (e, come giustamente nota Quintarelli, non è nemmeno interoperabile e aperta alla competizione, per cui se falliscono i server di Skype non c’è alcun servizio alternativo o operatore terzo che possa metterci una pezza).

Esistono due diverse concezioni del peer-to-peer: quella dal basso, in cui più persone condividono le proprie risorse su una base di uguaglianza, e quella dall’alto, in cui una azienda mette in piedi un servizio che controlla e su cui guadagna, ma scarica sui propri utenti il costo delle risorse, distribuendole su di loro. La seconda, quella di Skype, è peer-to-peer solo per finta: nazionalizza le perdite e privatizza gli utili, come si diceva una volta. In più, è anche molto meno affidabile, e soggetta a controlli, censure e sorveglianze varie. Forse dovremmo cominciare a farci più attenzione.
[tags]skype[/tags]

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domenica 19 Agosto 2007, 20:29

Energia

Oggi ho comprato l’ennesimo biglietto aereo di questa estate, da Easyjet. Dopo aver compilato tutti i dati, in mezzo ai vari extra che le compagnie low cost cercano regolarmente di venderti (tra cui uno sgradevole: 7.50 euro per poter pagare con la carta di credito…), ne ho trovato uno che ho subito aggiunto: la possibilità di compensare le 201 tonnellate di CO2 che rappresentano la mia quota parte di ciò che verrà prodotto dai miei voli.

In pratica, ho versato tre euro e ottantasette centesimi per supportare progetti di produzione di energia rinnovabile, come una centrale idroelettrica in Ecuador, per dire. Non so se la costruiranno mai, ma il problema è reale e noi siamo tra i paesi dove è meno sentito, se è vero che il primo filmato che Lufthansa ti mostra sugli intercontinentali, raggiunta la quota di crociera e prima di iniziare il programma di intrattenimento, è una lunga intervista con il suo amministratore delegato che giura e spergiura che loro fanno tutto il possibile per migliorare, che la quota di CO2 prodotta dai viaggi aerei è comunque ridotta – attorno al tre per cento del totale -, e che i viaggi aerei hanno dei vantaggi irrinunciabili (segue spot strappalacrime di mamme e bambini che si abbracciano in aeroporto).

Già qualche tempo fa, dopo il polpettone del Live Earth – che in sè era una esibizione di miliardari viziati che volavano attorno al mondo su jet privati per invitare noi a spegnere la luce in cucina, ma che almeno ha sollevato il problema -, mi ero messo a pacioccare con le configurazioni del mio server casalingo: con un’oretta avevo realizzato che bastavano un paio di cambiamenti nel BIOS perchè le ventole rallentassero automaticamente quando non ce n’era bisogno, e che esistevano i cpufreq tools perché la velocità della CPU si abbassasse quando il computer non faceva niente.

Altri suggerimenti sono banali ma da mettere in pratica: ad esempio abituarsi a staccare i caricatori dalle prese quando non sono in uso, o bollire solo l’acqua che serve, per la pasta o per il tè, e non tinozze intere.

Insomma, molto si può fare, e cominciare a impegnarsi per risparmiare un po’ – oltretutto, meno energia sprecata vuole anche dire bolletta più leggera – è qualcosa che dovremmo fare tutti.

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domenica 19 Agosto 2007, 14:54

Sagre (2)

Ieri siamo andati di nuovo per colline, a mangiare il fritto misto alla festa patronale di Portacomaro (AT). Trattasi ovviamente di fritto misto alla piemontese, completo di fegato e cervello, e di un bicchierino di bagnetto (aglio 50%) che rende tuttora il mio alito sufficiente a stendere un cavallo. Il tutto è stato preceduto da tomini, peperoni e salumi, e seguito dal bunet che, pur essendo quello della Panna Elena, dava dei punti alla maggior parte dei bunet da ristorante.

A fronte dell’obbligatoria banda di liscio – stavolta però erano solo in tre, facevano tutto con le basi, e avevano uno scazzo che si vedeva da un chilometro – e in attesa della grande fiera bovina ed equina che inizia oggi o domani, è sempre interessante andare in un posto dove, quando vai in due a ritirare il cibo e ringrazi, ti rispondono ancora “Grazie a loro!”. Domani, per gli interessati, fanno la finanziera.

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sabato 18 Agosto 2007, 19:09

Guitar Hero s’ammoscia con gli 80’s

Come già vi dissi, lo aspettavo da quando è uscito, a inizio agosto; ora finalmente il pacco da Jersey è arrivato, nonostante in ufficio non ci fosse nessuno ad accoglierlo, e io ieri sia andato a pranzo nelle vicinanze in modo da darmi la scusa per andare a ravanare nella buca delle lettere. E così, posso recensire Guitar Hero Rocks The 80’s, primo del circondario ad averlo.

Ecco, come sapete io sono drogato da questo videogioco (più precisamente, sono drogato dalla musica rock), per cui l’avrei comprato comunque, e me lo godo comunque. Però è piuttosto chiaro che questo gioco è per Guitar Hero ciò che E.T. fu per l’Atari nel 1983: un disgustoso rip-off messo insieme in fretta, per soldi, prima che scada la licenza, e che farà inorridire e scappare tutti gli appassionati, costituendo una pessima pubblicità sia per Guitar Hero III (in uscita a fine ottobre) che per Rock Band, oltretutto entrambi solo per PS3 e equivalenti (quindi dovrei comprare anche la console).

Il punto è che il gioco è totalmente identico al secondo episodio, a parte un paio di texture nei locali; con solo trenta canzoni e nessun extra; con le canzoni spesso incise male e missate peggio; e soprattutto, con una tracklist che fa pietà, probabilmente guidata dal solo criterio di pagare i diritti il meno possibile.

Ok, c’è 18 And Life che da sola vale il prezzo, anche se per far sentire la chitarra acustica che suoni hanno inciso tutto il resto talmente basso che dovrebbero darti un cornetto dell’Amplifon. C’è Holy Diver che voi non conoscerete, ma che ha un riff solido come un camion e pesante come un chiodo dell’epoca, completo di accessori metallici. C’è Synchronicity II dei Police, che è sempre un bel pezzo, anche se io preferisco la versione uno. Ci sono Wrathchild degli Iron Maiden e No One Like You degli Scorpions, piacevoli ma certo non i loro pezzi migliori, anzi nemmeno uno dei loro dieci pezzi migliori. C’è Electric Eye dei Judas Priest, che mi veniva da piangere perchè nell’intro (che incidentalmente, cara Red Octane, si chiama The Hellion e sarebbe un pezzo separato) non hanno raddoppiato le chitarre dopo le prime due ripetizioni, insomma ne manca metà. Ci sono pezzi di gruppi che all’epoca non ascoltavo, ma che comunque erano di livello decente, tipo i Quiet Riot, i Poison o i Ratt.

Però, come si fa a fare una raccolta dei maggiori successi del rock degli anni ’80 senza includere, per dire, un pezzo di Bon Jovi? The Final Countdown? Owner of a Lonely Heart? Uno dei classici dei Metallica? O, per andare sul mainstream, un qualsiasi prezzo di A Kind Of Magic? Qualcosa dei Dire Straits, dove la chitarra non manca? Una hit dei Duran Duran? Non ditemi che le licenze dei Duran Duran costano ancora care…

In compenso, ci sono un pacco di pezzi di gente mai sentita prima, come tali The Go-Go’s che vincono a mani basse, signori, il premio per il pezzo rock più brutto della storia dell’umanità. Dopo averlo suonato, ho dovuto tirar fuori l’amuchina e disinfettare le casse.

Insomma, forse è solo che mi piacerebbe suonare un sacco di musica degli anni ’80, e avrei sperato di trovare qualcosa di meglio; suonandoli un po’, penso che anche molti di questi pezzi mi piaceranno di più, come già successo con gli episodi precedenti. Però più ci penso e più concludo che è ora che si cracchi sto aggeggio e si faccia seriamente una versione open source utilizzabile con i controller invece che con i tasti del PC… andrò a documentarmi su Frets On Fire!

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venerdì 17 Agosto 2007, 22:20

Sagre

Ieri sera siamo andati alla Sagra dell’agnolotto e della grigliata di Cortanze (AT): ebbene, ci tengo a segnalare (per il prossimo anno, perché quella di ieri era l’ultima sera) che gli agnolotti erano eccellenti, la grigliata più che buona, i prezzi buoni, e l’ambiente piacevole. E che la band media italiana di liscio (nel caso, gli Alex Cabrio), pur non essendo ovviamente comparabile con l’emozione di un concerto vero, dà tranquillamente la pasta a qualsiasi gruppetto o cantautore di pop – rock – hip hop nostrano, sia in termini di puro intrattenimento che in termini strettamente musicali. Ovvio che deve piacervi il genere…

Per contrasto, dopo aver cercato di entrare varie volte e non esserci mai riusciti, stasera siamo andati alla famosa pizzeria Spaccanapoli di via Mazzini: ecco, una delusione. Locale pretenzioso, camerieri in tiro, pizza buona ma nulla di speciale – con una dotazione di tonno piuttosto micragnosa -, pasta mediocre, scotta e arrivata fuori sincrono, e prezzi piuttosto elevati. Sarà meglio concentrarsi sulle sagre.

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giovedì 16 Agosto 2007, 19:54

Security (2)

Dunque, dicevamo come le procedure di sicurezza per entrare negli Stati Uniti siano disumane; anche quelle per uscire, però, non sono male.

In particolare, dopo aver effettuato il check-in a LAX, mi è stato detto che dovevo riprendermi la valigia e portarla personalmente al controllo di sicurezza. Fatta la coda, ho consegnato la valigia e mi è stato chiesto se la serratura fosse aperta; ovviamente non lo era, visto che le valigie aperte vengono spesso saccheggiate durante il trasporto.

Il poliziotto mi ha guardato come se fossi uno spacciatore, e mi ha mostrato un cartello che offriva ai viaggiatori le tre seguenti opzioni:
1) Lasciare la valigia aperta;
2) Utilizzare una serratura “approvata dal governo americano”, che presumibilmente vuol dire che ha un sistema di passepartout che permette ai poliziotti di qualsiasi aeroporto americano di aprirla a tua insaputa;
3) Accettare il fatto che la serratura potrebbe essere spaccata dai poliziotti per controllare cosa c’è dentro.

Io ho cominciato a protestare, e dopo un po’ di discussione la risposta è stata: va bene, allora aspetta dall’altro lato del passaggio, così puoi vedere se la valigia passa il controllo o se la devi aprire.

Vado dall’altro lato del posto di controllo e mi metto a guardare gli inservienti, per vedere quand’è che arriva la mia valigia. Errore mortale: mi si precipitano addosso due altri poliziotti, e mi intimano sgarbatamente di andare via, e stare oltre il nastro. Io mi metto prontamente oltre il nastro… e scopro che da quella posizione si vede ancora meglio cosa fanno i controllori; però sono oltre il nastro e non possono dirmi nulla.

Dopo qualche minuto, vedo la mia valigia uscire dalla macchina a raggi X, e ovviamente viene selezionata per il controllo. In tre la poggiano su un tavolino, e cominciano a spingere sui pulsanti a scatto per aprirla. Non ci riescono… e non hanno alcuna intenzione di chiedere la chiave. Intuendo cosa sta per succedere, mentre uno dei tre si dirige a prendere un martellone dall’altro lato del tavolo, tiro fuori la chiave della valigia, la alzo sopra la mia testa e comincio a fare ampi cenni, gridando “Key! Key!”. Riesco appena in tempo a richiamare l’attenzione di uno degli inservienti, che viene fino al nastro a prendere la chiave.

Seguono cinque minuti in cui una gentile signorina mette le mani ovunque nella mia valigia. Temo che ci saranno problemi, visto che ho acquistato vari libri, di cui uno chiaramente sovversivo. Invece, alla fine richiude la valigia, e mi riporta persino la chiave. La valigia viene portata via per l’imbarco, mentre io vado ai controlli di sicurezza (mi tolgono anche le scarpe, ma ormai non ci faccio più caso).

Tra l’altro, cosa degna di nota, per la prima volta mi hanno fermato anche a Francoforte, alla dogana nel passaggio tra lato non-Schengen e lato Schengen: mi hanno fatto aprire il computer e si sono assicurati che fosse vecchio e italiano. Col dollaro debole, penso che comincino a stare attenti alla gente che compra elettronica durante i viaggi agli Stati Uniti.

Chiudo con un aneddoto carino: ancora a LAX, dopo i controlli, sono andato ad attendere l’imbarco in una splendida lounge, quella da cui ho postato la puntata precedente. Ero lì spaparanzato godendomi riso e gamberi e birra Kirin dal buffet giapponese, quando arriva una famigliola abbronzatissima, padre madre e due bambini. Dal loro comportamento, e non appena aprono bocca, li riconosco subito: sono un temutissimo esemplare di venditori di cessi della Brianza. Parlano a voce altissima disturbando tutti i presenti; commentano tra loro “Uè, cazzo, guarda quanti giapponesi” e “Figa, ma c’è la birra gratis!”, mentre il dodicenne viziato, con i suoi vestiti firmati, comincia a rompere le scatole a voce altissima, facendo osservazioni quasi più stupide di quelle di suo padre. Poi i quattro si avvicinano al banco e imboscano banane e lattine di coca-cola, che tanto gli sequestreranno all’imbarco.

Di fronte a tanta calamità, insensibili alle occhiate disgustate del mondo civile, il giunonico staff tedesco della lounge non può restare indifferente. E così, a un certo punto una hostess crucchissima passa dalla ragazza giapponese dietro di me, le chiede “Frankfurt?”, la ragazza risponde di sì, e la hostess le dice: “I would like to inform you that unfortunately we are slightly late, we will board ten minutes later.”. La giapponese annuisce; la hostess viene avanti, arriva da me, mi chiede “Frankfurt?”, io rispondo di sì, e dice anche a me la stessa frase. Va avanti così con tutti, finché non arriva dagli zotici, al che dice: “Frankfurt?”. Quelli, con un tono di voce che sveglierebbe un morto, rispondono “Yes!”, e lei: “I would like to inform you that we are boarding right now, please follow me immediately!”.

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