Il comunismo nel cesso d’oro
In teoria ero preparato, essendo già stato due anni fa per quattro giorni a Tokyo d’agosto; dunque avevo già presente la mostruosità del clima asiatico di questo periodo, con un caldo nominalmente nemmeno esagerato ma accumulato da un’umidità mostruosa, che ti si appiccica addosso e ti stringe e ti soffoca lentamente. Farsi la doccia è inutile, perché ridiventi appiccicoso prima ancora di ridiventare asciutto; lavare i vestiti è impossibile, perché non asciugano; l’unico rimedio è quello adottato dai locali, cioè dotare qualsiasi luogo chiuso di un condizionatore – qui ce l’hanno anche le topaie nei bassifondi, lo si compra prima ancora del televisore e dell’automobile – e spararlo a sedici gradi.
Il risultato è ovviamente uno sbalzo termico che fiaccherebbe un viadotto dell’autostrada, in cui ti devi portare dietro sciarpa e golfino per metterli quando entri dentro gli edifici, e ciò nonostante, quando sei fuori, vorresti soltanto ritornare dentro. Oggi, in particolare, abbiamo avuto un momento topico quando siamo arrivati al fondo di Piazza del Popolo, che sarebbe la piazza-parco che segna il centro politico della città ; ha in mezzo il municipio, il teatro dell’opera e il museo cittadino, circondati sulla superficie della piazza da un parco “civilizzato†– così lo definisce il sottotitolo cinglese del cartello – di giardini e giostre e laghetti e magnifiche ninfee; affacciati sulla piazza vi sono poi una infilata di dieci o venti grattacieli che ospitano alberghi a cinque stelle, uffici di multinazionali, un concessionario Porsche e un concessionario Ferrari; la piazza occupa un’area circa pari all’intero centro di Torino.
Ecco, dicevamo, siamo arrivati in fondo alla piazza, e per andare verso la città vecchia e il quartiere della concessione francese bisogna attraversare una tangenziale a sette corsie più sette nell’altra direzione, e ovviamente c’è un sovrappasso pedonale appeso sopra l’incrocio e sotto la sopraelevata autostradale, ed ecco proprio lì, salite col fiatone le scale, in mezzo al caldo che pioveva dalle nuvole e rimbalzava dall’asfalto, abbiamo praticamente avuto un collasso, ognuno di noi indipendentemente, rischiando di accasciarci lì.
Per fortuna dall’altra parte c’era l’ingresso di una stazione della metro, con il suo tornado a sedici gradi che usciva dalle viscere della terra, e mi ci sono messo per scaricare un po’ di caldo, e anche se il freddo fosse venuto solo da un tombino mi ci sarei messo sopra come una Marilyn in pantaloncini, a costo di gelarmi le parti intime.
Questo è tuttavia l’unico problema di Shanghai, che per il resto è un posto davvero impressionante. Noi siamo ospitati nel campus della Fudan University, che sta in zona semicentrale, ossia a una decina di chilometri dal centro. Un mese fa, guardando con Google la mappa della zona per vedere com’era la logistica, mi ero preoccupato: le più vicine stazioni della metro, una da una parte e una dall’altra, distavano quasi mezz’ora a piedi, e si prospettava dunque una serie di lunghe camminate o la necessità di prendere il bus o anche il taxi, che qui costa poco ma presenta sempre il rischio che l’autista non capisca e ti porti a qualche decina di chilometri di distanza dalla tua meta.
Arrivati in albergo abbiamo dunque chiesto quale fosse la stazione più vicina, e ci hanno risposto: uscite, girate di lì, a fine isolato c’è la stazione, saranno dieci minuti a piedi. Noi scettici li abbiamo guardati male, e abbiamo confrontato con la mappa delle nostre guide e con quella trovata in camera, nessuna delle quali mostrava una stazione della metro in quel punto. Loro hanno insistito, così siamo andati a vedere e… c’è veramente una stazione della metro della linea 10. Ma sulle nostre carte non c’era nessuna linea 10!
Alla fine abbiamo scoperto: e certo, erano mappe del 2009! Nel 2009 c’erano nove linee di metro, ma nel 2010 ce ne sono dodici (del resto nel 2006 ce n’erano solo cinque). In effetti anche su Google, un mese dopo, sono apparsi sti 30 km di metro nuovi nuovi che l’anno prima non erano nemmeno tracciati come “in progetto†sulle cartine. Non solo: la stazione della metro ha aperto da soli tre mesi, ma intorno è già spuntato un gigantesco triplo centro commerciale, con multisala, fast food, negozi eleganti e altre attrazioni. Intorno ci sono ancora i vecchi isolati, alcuni con palazzoni anni ’80, altri con caseggiati anni ’50, ma è facile pensare che prima o poi anche quelli saranno rasi al suolo e sostituiti da un nuovo quartiere residenziale… che non sarà poi troppo diverso dai nostri, l’unica differenza è che da noi il nuovo progetto residenziale medio è fatto di cinque palazzine uguali da dieci piani l’una mentre qui è fatto di cinquanta palazzine uguali da trenta piani l’una.
Qui lo stravolgimento continuo è palpabile: quel che vedi oggi, domani potrebbe non esistere più. Ovunque ci sono isolati transennati, abbattuti, pronti a diventare nuovi grattacieli. Ovunque ci sono moltitudini di cinesi che corrono, lietamente presi nell’ingranaggio del capitalismo comunista, protagonisti dell’epoca d’oro della Shanghai da bere.
Abbiamo visto il museo del primo congresso del Partito Comunista Cinese, sul luogo dove esso si tenne clandestinamente nel 1921: è inglobato dentro un centro commerciale di lusso. Tra un ristorante messicano e un negozio di Gucci, puoi entrare e vedere la statua di cera di Mao di fronte al tavolo su cui scrisse il manifesto del Partito. Puoi sentire il racconto dell’eroismo dei partigiani comunisti contro i giapponesi nell’ambito della “guerra antifascista mondialeâ€. Puoi leggere di quando il Partito “su basi giuste, con moderazione e per il bene di tutti†dichiarò la guerra civile e liberò Shanghai dal Kuomintang. E poi puoi seguire Dente di Elvis, la mascotte dell’Expo 2010, che ti sciorina le foto di tutti gli impressionanti edifici costruiti per questa occasione, oltre alle sette nuove linee di metro; e imparare l’orgoglio della via cinese verso la supremazia mondiale; e con quell’orgoglio, insieme ai tuoi yuan di cafone ripulito, uscire subito a comprarti al negozio accanto un cesso d’oro, una maglietta firmata, o perlomeno un cappellino di paglia con scritto “Ronaldiño†(va di moda anche qui sognare il Brasile).
In fondo fu detto che ognuno avrà secondo i propri bisogni: nell’epoca della tamarraggine globalizzata, è tanto giusto quanto geniale che ciò conduca il comunismo a svilupparsi in modo che anche i cinesi possano soddisfare bisogni di questo tipo.
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